Alla scoperta di un frangente del Kenya
Ai lati della carreggiata scorgiamo pneumatici rovinati e anche il loro inconsueto riciclo: vengono seppelliti per metà nella terra lasciando fuori solo l’arcata necessaria a diventare una comoda sedia da giardino. Impiegheremo più di tre ore ad arrivare da Mombasa a Watamu, tra buche e strade tortuose e saremo accompagnati, durante tutto l’arco del percorso, da un denso e puzzolente fumo sprigionato dai numerosi fuocherelli ai cigli della strada. Qui non esistono discariche o raccolta differenziata, in parte l’immondizia viene bruciata in spontanei fuochi e in parte viene accumulata; Queste cumuli di spazzatura fanno parte integrante del paesaggio e non è raro trovare sotto qualche centenario baobab un ammasso di rifiuti. Nel nostro immaginario Watamu era un villaggio, certo piccolo, ma con qualche edificio; in realtà Watamu è un paesello che si sviluppa lungo la strada principale; quest’ultima è costeggiata da diverse bancarelle e da piccole baracche tutte da scoprire. Da entrambi i lati della strada scorgiamo donne che trasportano sulla testa recipienti stracolmi d’acqua e l’autista ci spiega che quest’usanza è tipica di una tribù della zona. Arriviamo alla soglia del nostro hotel il SUN PALM e il primo impatto, quando si apre il cancello, non è proprio dei migliori; intravediamo la struttura principale sullo sfondo ma notiamo anche capre, asini, mucche e piccole costruzioni molto dimesse che ci fanno temere il peggio; fortunatamente la nostra prima impressione sarà presto soppiantata. Al nostro arrivo il personale ci accoglie cantando un messaggio di benvenuto e malgrado la scena sia un po’ pittoresca siamo così stanchi da apprezzarne tutte le sfumature. Il Sun Palm non è una grande struttura, presumo al massimo una trentina di camere, ed è gestito dall’italiana E. E da suo marito keniota C. Il complesso è carino, fatto di volte e arredato in stile africano, è un luogo accogliente dove il bianco candido delle pareti trasmette serenità. I bambini d’E. Gironzolano da un posto all’altro e quando cala la sera li ritrovi spesso addormentati in qualche divano dell’atrio. Le camere sono molto spaziose e la zanzariera è d’obbligo in ogni letto: la prima notte capirò a mie spese il motivo. La vista dal terrazzo è meravigliosa, in lontananza s’intravede la baia di Watamu e i suoi isolotti. Uno dei pregi di questa struttura alberghiera è la cucina, varia e genuina ed in particolare le verdure: sono squisite. Durante questo viaggio ho scoperto la bontà e la succosità del maracuja detto anche “frutto della passione” e nei giorni successivi non sono riuscita a frenare la mia golosità, degustando ad ogni pasto questo particolare frutto. Il vantaggio del SUN PALM è d’essere affacciato sulla baia di Watamu e oltrepassando un piccolo cancello ci si ritrova direttamente sulla spiaggia dell’hotel dove qua e là sono disseminati le sdraio e gli ombrelloni. Parlare di lettini da spiaggia è molto limitativo poiché cadono letteralmente. Questo è uno degli argomenti che più ci hanno infastidito di questa vacanza: la gestione approssimativa della struttura. Nonostante la struttura sia carina certi aspetti essenziali, per una vacanza indimenticabile, non vengono curati. Piccoli dettagli ma che addizionate tra loro facevano crescere il malcontento degli ospiti. La prima volta che abbiamo oltrepassato il cancello per andare in spiaggia siamo stati subito interpellati dai Beach Boys, figure costantemente presenti sul bagnasciuga. Un coro di voci si è elevato dalla spiaggia e in dieci ci chiamavano contemporaneamente: “Venite qui fratelli, avvicinatevi, in Africa ci si dà la mano per salutare, Hakuna matata”. Eravamo il miele e loro le api. I Beach Boys non possono superare la sottile linea rossa imposta dall’hotel tra la nostra spiaggia e la loro e pertanto rimangono ai margini richiamando l’attenzione in mille modi. I giorni degli arrivi dei nuovi turisti sono molto importanti per loro perché prima si accaparrano il cliente e più possibilità hanno di vendergli qualcosa. Purtroppo per loro la concorrenza è numerosa e sleale, abbiamo anche assistito a qualche zuffa, ma il vero rivale dei Beach Boys sono gli organizzatori interni dell’hotel. Tra loro non scorre buon sangue e sparlano a vicenda. Scegliere con chi organizzare le proprie escursioni non è facile, entrambi le soluzioni possono essere valide ma solo dopo attento confronto e senza premura. Bisogna entrare nella loro mentalità e non mettersi fretta per la scelta. La nostra prima uscita in spiaggia è stata stressante, i Beach Boys c’inseguivano a decine, dal colore sbiadito della nostra pelle sapevano che eravamo appena arrivati e non volevano molare l’osso. Hanno tutti in parte lo stesso modo di fare, cortesi e sorridenti, t’intontiscono di domande fino a che esausto non ti lasci sfuggire un “forse domani”. Quelle parole dette sotto tono vengono registrate e quotidianamente ti rinfacceranno quella promessa. Non sono persone cattive, anzi certe sono simpatiche, ma sinceramente ho trovato tutto questo molto fastidioso; se non usi i toni duri per allontanarli non hai un attimo di tregua, è quasi impossibile approfittare dello scenario fantastico che la natura ti offre. Parlando successivamente con i locali, che lavorano presso l’hotel, abbiamo capito che i villaggi a contatto con il turismo non seguono l’andamento nazionale, ad esempio lungo la costa molti genitori prendono alla leggera la frequentazione della scuola e i ragazzi si ritrovano a fare i Beach Boys senza nessun’altra possibilità. La stagione balneare in Kenya dura circa quattro mesi e tutto il resto dell’anno la popolazione va in letargo aspettando il ritorno del sole, senza nessun tipo di aspirazione. Purtroppo alcuni di loro, a contatto con il benessere procurato dai turisti diventano arroganti e pretenziosi. Nonostante l’assedio dei Beach Boys abbiamo trascorso qualche giornata all’insegna della tranquillità in riva al mare, cercando di allontanarci da loro velocemente ed immergendoci nel mare blu di Watamu. L’acqua della baia è molto calda e poco salata e quando la basse marea entra in azione lascia scoperta la sabbia bianca e fine. La mattina si avvistano qualche pescatore e le loro barche ormeggiate davanti all’hotel fanno parte integrante della costa. E’ un paesaggio degno delle più belle cartoline. In lontananza s’intravedono anche le piccole imbarcazione turistiche che partono alla ricerca dei delfini; purtroppo quando noi ci siamo andati i delfini erano introvabili. La gita più gettonata a Watamu è il Midda Creek: un’escursione tra delfini, mangrovie, fenicotteri rosa e snorkeling. E’ un modo piacevole per passare qualche ora al largo anche se ritengo il costo proposto dall’hotel troppo elevato per i parametri del Kenya. Certamente contrattando con i Beach Boy si paga di meno e si ottiene di più. L’altra escursione, più in vista, è la gita a Malindi; mi aspettavo molto da questa località, molto rinomata in Italia e devo ammettere che in parte è stata una delusione. Sull’aereo era rimasta affascinata dai racconti di varie persone, proprietari di case a Malindi, che regolarmente si recavano a riposarsi in quella zona. Avevo qualche perplessità sulla distanza da percorrere per arrivare in quel paradiso, ma vedendo la bellissima spiaggia di Watamu avevo iniziato a fantasticare anch’io. Un pomeriggio ci siamo concordati con due Beach Boys per recarci a fare il giro di Malindi. A l’ora concordata un taxi arcaico, ma dotato di un potente impianto HI-FI che proponeva a tutto volume il repertorio di Morandi e Renato Zero, è venuto a prelevarci. All’interno c’erano i nostri due amici e l’autista e durante il tragitto abbiamo avuto l’occasione di conversare con uno di loro. Era una situazione un po’ surreale in quanto i nostri due amici mentre discutevano, ruminavano dei stecchi secchi di erba masticando contemporaneamente delle chewing-gum; sul momento siamo rimasti un po’ perplessi da questa insolita usanza ma nei giorni successi qualcuno ci ha spiegato che quel abbinamento crea una sostanza che frusta l’organismo e ti permette di combattere la stanchezza: la Red Bull locale. La particolarità spiacevole di questa usanza era lo sputacchio che fuoriusciva dalla bocca dei nostri cari amici e che puntualmente finiva sul mio braccio. Durante il tragitto abbiamo avuto la dimostrazione di quanto estesa è la corruzione in questo paese: all’uscita da Watamu un poliziotto ha fatto accostare il taxi e senza mezzi termini ha chiesto dei soldi all’autista. E’ demoralizzante constatare di persona il flagello della corruzione. Arrivati a Malindi, dopo tre quarti d’ora di montagne russe, ci hanno portato nella fabbrica di legno con annesso negozietto; i falegnami del Kenya sono dei veri artisti, creano delle statue particolarmente dettagliate fino nei minimi particolari. Dopo attenta osservazione, del mio ragazzo, è emerso un forte dubbio circa l’utilizzo reale dell’ebano in quanto abbiamo visto lavorare solo legni chiari, e certe statue venivano dipinte di nero. Non sarebbe sorprendente che fosse realmente così.
Finita la visita turistica ci hanno portato, con nostra grande sorpresa, a visitare la casa dell’autista in un quartiere composto da modeste abitazioni, molto sporche e poco curate. La considerazione che faccio è che la povertà delle periferie urbane è molto più squallida di quelle dei villaggi arretrati dell’entroterra. Nonostante nessuno muori di fame, la sporcizia urbana è presente ovunque rendendo il tutto molto deprimente; scarti di plastica, di carta, di ferro si accumulano ai lati delle case. I bambini ci correvano incontro, eravamo l’attrazione del quartiere e si contendevano le nostre foto. Davanti alle case si erano create numerose pozzanghere e certi bambini a piedi nudi giocavano allegramente in quei ristagni d’acqua. Tutto ciò che ci circondava era spoglio, obsoleto ma tuttavia per loro quello era un quartiere non troppo povero tanto è vero che visitando l’insediamento vicino, composto da sole case di sterco, sottolineavano come gli altri erano molto più poveri di loro. Obbiettivamente ai nostri occhi era difficile intravedere questa diversità ma certamente per chi ci vive è lampante. La visita di Malindi si è conclusa con un gita costeggiando il lungomare dove abbiamo potuto constatare quanto siamo fortunati ad avere alloggiato a Watamu.
Indubbiamente il momento più intenso ed emozionante del viaggio è stato il mini safari al Parco Nazionale dello Tsavo East. E’ stata un’avventura faticosa, molto fisica, in quanto oltre al risveglio all’alba, le strade che si percorrono sono tutte deteriorate e non asfaltate; non consiglio questo tipo di gita a chi soffre di problemi di schiena o di gambe. Siamo partiti da Malindi su un mini bus, veicolo adattato per i safari, con altre due coppie e l’autista guida. I chilometri che separano Malindi all’entrata del Parco non sono poi così tanti ma i sentieri che abbiamo imboccato sono così irregolare da impiegare circa sei ore per arrivare. Ovviamente sul catalogo non viene sottolineato questo particolare ma posso assicurare che è notevole. La prima parte di questo percorso è stata dedicata all’osservazione dei piccoli villaggi dell’entroterra ed è stato molto piacevole. I bambini, anche quelli più piccoli, correvano dietro al furgoncino salutandoci vivacemente. Anche in questo frangente di paese abbiamo visto molta povertà, gli abitanti indossavano realmente stracci ed i villaggi erano in mezzo al nulla; Tuttavia erano molto più dignitosi dei sobborghi di Malindi ed in ogni villaggio c’era una piccola scuola. Ci siamo resi conto di quanto poco avevano queste popolazioni ed obbiettivamente non è sufficiente la voglia di riscatto per riuscire a sconfiggere la miseria: in questa parte del mondo ci vuole ben altro che fortuna. Il sentiero sterrato sul quale abbiamo viaggiato aveva un colore rosso vivo e ciò staccava molto con la folta vegetazione circostante. La natura in questo paese è sorprendente, non appena oltrepassato le porte dello Tsavo East la vegetazione cambia: il verde primeggiava comunque ma ora le colline si sono trasformate in pianure infinite. Per nostra fortuna la giornata era nuvolosa e le poche gocce di pioggia che sono cadute hanno impedito alla terra dei sentieri di alzarsi in modo tale che abbiamo potuto goderci il panorama affacciati al tetto del pulmino. In quelle prime ore abbiamo potuto osservare già molti animali quali le giraffe, le zebre, il leone e la leonessa, gli impala e anche il bellissimo ghepardo.
L’emozione di poter osservare questi animali nel loro ambiente è molto forte, si scoprono dettagli sconosciuti, quale il movimento nervoso della coda degli impala, gli occhi color oro dei leoni, lo sguardo di sfida dei babbuini, la simpatia innata delle zebre e la solitudine dell’elefante vagante. L’aspetto che più mi è piaciuto è stata la ricerca degli animali, ovviamente quest’ultimi non aspettano sul ciglio del sentiero l’arrivo dei turisti e pertanto bisogna essere all’erta al minimo dettaglio per intravederli. Gli autisti hanno una vista irreprensibile e riescono a scovare un animale laddove noi vediamo solo foglie e alberi. Inoltre ogni mezzo possiede una radio CB e ogni avvistamento viene comunicato anche agli altri. E’ stato molto entusiasmante.
Siamo tutti invogliati dallo stupefacente scenario che propone Il Parco, e ci improvvisiamo fotografi sperando di riuscire a portare a casa le meravigliose immagini che vediamo. L’arrivo al Lodge è stato molto gradito in quanto la stanchezza iniziava a farsi sentire. Il nostro Lodge era magnifico, affacciato su una conca pianeggiante ed il panorama era mozzafiato. La struttura di per sé era semplice, con annessa una piccola piscina, ma il vista che offriva il paesaggio ha reso il nostro soggiorno indimenticabile. Purtroppo le camere del lodge erano in carton-gesso ed è stato impossibile non sentire respirare i vicini inoltre i milioni di insetti che escono al calare del sole sono fastidiosissimi e s’intrufolano ovunque anche in camera: è stato molto difficile addormentarsi tra i rumori di ali e i ronzii. Dopo il tramonto ci siamo resi all’evidenza che la piscina era impraticabile in quanto la folla degli insetti ci si tuffava, e sostare al bar o al ristorante all’aperto era un’ invito a farci molestare: volano dappertutto, nei bicchieri, nei capelli, nei vestiti. L’indomani siamo ripartiti a caccia di animali e la fortuna ci ha fatto intravedere l’accoppiamento tra due elefanti. Gli elefanti sono spettacolari, la terra rossa dei sentieri ricopre la loro pelle e in lontananza si vedono delle macchie rosse che si muovono in branco.
Il safari è un momento indimenticabile ma molto stancante, e mi sono perfino ritrovata a dormire sul pulmino nonostante le buche spaventose che facevano rimbalzare il veicolo. Secondo me il safari va preparato con l’aiuto di qualche buona guida in quanto è un vero peccato non avere nessun tipo di informazione sugli animali; ci siamo anche accorti che in realtà gli autisti non sono molto informati sulle specie e spesso le confondono. Inoltre nonostante i milioni di turisti che visitano il Parco dello Tsavo e il prezzo del biglietto, all’entrata non viene distribuito nessun depliant, chi lo vuole deve comprarselo. Al ritorno del safari l’autista ci ha portato a visitare un villaggio MASAI e questa è stata la seconda delusione del viaggio. Per entrare nel loro villaggio chiedono dieci euro, una vera follia per questo paese, e ai sudafricani che viaggiavano con noi hanno chiesto anche di più. La visita di questo villaggio lascia l’amaro in bocca, non sai cosa pensare: è tutto vero o ricreato per i turisti ? Con gli incassi il loro tenore di vita potrebbe essere molto diverso da quello che ci hanno mostrato (tenendo presente che ogni giorno quasi una decina di pulmini si ferma a vederli). L’intero perimetro del villaggio è recintato con rami aguzzi e spinosi che proteggono sia i Masai che il bestiame. Il villaggio è spartano, composto da una decina di capanne costruite con feci essiccate di bestiame; la loro principale attività è l’allevamento e al centro del villaggio si trova il recinto per gli animali. In lontananza abbiamo intravisto la scuola. In tutto il villaggio sono presenti bancarelle che propongono i soliti monili di perline e durante questa visita ti viene riproposto la danza saltante rituale dei MASAI. I drappi che i Masai si avvolgono intorno al corpo sono molto colorati, dai viola intensi ai rossi fuoco, e ai piedi indossano dei sandali fatti con il battistrada dei pneumatici. Il rosso ha un significato particolare per le credenze Masai ed è la tonalità base di quasi tutti i braccialetti e degli indumenti quotidiani.
Certi uomini portano i capelli molto lunghi in quanto viene concesso loro di tagliarli solo dopo aver raggiunto il grado di guerriero mentre tutte le donne hanno la testa rasata. Quando i bambini raggiungono i tre – quattro anni vengono portati a Mombasa laddove vengono marchiati a fuoco sui tre punti principali del viso (la fronte e le guance) ed inoltre ad entrambi i sessi vengono tolti due incisivi centrali. Dopo lo spettacolo del fuoco, al quale siamo stati costretti ad assistere in quanto l’ingresso era stato piantonato, abbiamo ripreso la nostra strada e fortunatamente abbiamo imboccato una strada asfaltata. Il paesaggio muta col passare dei chilometri e le sorprese non mancano, camion rovesciati sulla carreggiata, donne che trasportano bidoni di acqua sulla testa, strade che si interrompono bruscamente lasciando posto a sentieri disastrosi, bambini che ci salutano e bambini che ci maledicono; in questo ritorno abbiamo assistito ad un susseguirsi di immagini e paesaggi diversi tra loro. A qualche ora da Malindi abbiamo iniziato ad attraversare dei paesaggi meravigliosi composti da piccoli villaggi e da distese di piantagioni di palme da cocco; paesi poveri ma molto puliti. I bambini e gli adolescenti indossavano tutti i loro migliori vestiti e si recavano a gruppetti a ballare in divertenti “discoteche” all’aperto: improvvisati recinti racchiusi da teli di plastica. Certi percorrevano a piedi chilometri per arrivarci ma il buon umore era presente, le risate e i canti si sentivano ovunque. Questo è stato certamente uno dei momenti più intensi di questo viaggio, la bellezza sconcertante del paesaggio accompagnato dalla vitalità della gente rimangono impressi nella mente. Vorrei scrivere qualche riga su un aspetto di questo viaggio che mi ha profondamente delusa. Prima di partire, cosciente di andare in un paese molto povero e come consigliato dall’agenzia e dai forum, ho preparato le valigie prestando attenzione a non portare nulla che potesse mettere in evidenza il mio benessere e la loro povertà: ho scelto capi sportivi, adatti anche al safari, semplici e pratici. Ho lasciato volontariamente a casa tutto ciò che poteva creare disaggio. Ho fatto questa scelta perché la dignità delle persone è più importante del mio apparire. Non descrivo il mio stupore quando già in aeroporto mi trovo in fila con donne tutte ingioiellate e con borse pregiate. Il senso di questo sfoggiare mi sfugge anche perché stiamo per imbarcare su un volo charter e dormiremo in un tre stelle (e mezzo); non siamo ospiti di Briatore. Durante tutta la settimana è stata una sfida a chi si vestiva più griffato, un Beach Boy ha perfino chiesto ad un ragazzo se era sponsor della Dolce & Gabbana. Oltre a questa sfilata di moda senza senso, ho avuto la brutta sorpresa di scoprire che tra gli ospiti dell’hotel c’era pure chi era razzista, trattando il personale dell’hotel come se fossero schiavi. Mi sono profondamente vergognata dell’atteggiamento spavaldo e sprezzante dei miei connazionali. Il Kenya mi ha regalato molte emozioni, positive e negative. Ho scoperto un paese dalla vegetazione e natura varia e bella, da persone stupende e da mille bambini felici nonostante l’estrema povertà ma mi sono anche imbattuta in aspetti più lontani dalla nostra realtà e non sempre è facile rimanere obbiettivi.
E’ un viaggio magnifico che consiglio a tutti coloro che vogliono avvicinarsi all’Africa.