Alla scoperta di Cuba 4
La strada inizialmente vaga tra campi di canna da zucchero, poi, seguendo l’andatura del terreno, sale e scende una zona collinosa coperta di vegetazione e campi coltivati, case sparse e paesetti. Un po’ dappertutto svettano gli alti, grigi tronchi delle palme reali con il frastagliato e ondeggiante pennacchio verde. La terra è sanguigna e generosa. Quando la strada sale sui dossi ecco che la vista viene appagata, le colline si susseguono ad altre colline, qualche volta si riesce a scorgere anche il mare o qualche rara lontana ciminiera.
Le case della campagna, bohios, sono tutte simili: tetto in foglie di palma e pareti in legno, a un piano e con il portico, ma qui all’ovest hanno una particolarità: tutte, ma proprio tutte, all’esterno, sotto al portichetto ci sono due sedie a dondolo.
Anche nei paesi le case sono generalmente a un piano, ma in muratura e con il tetto di tegole, disposte in lunghe file ai lati delle strade, la porta d’ingresso immette nel soggiorno, dietro c’è la cucina e il patio o un cortile, sul quale si affacciano le stanze da letto. Le case, come le chiese, sono azzurre o rosa, turchesi o gialle, verdine o glicine. Man mano il paesaggio cambia, scorrono banani, galline, maiali scuri, cani, capre, buoi che trainano carri o rudimentali slitte fatte di due tronchi. Tanti aironi guardabuoi e i “soliti” avvoltoi roteanti nel cielo. Cominciano a delinearsi i mogotes, sorta di montarozzi rocciosi coperti di vegetazione che spuntano dritti e ripidi dalla pianura.
Mi aspettavo molti più fiori ma la stagione invernale è secca e la vegetazione è ancora in riposo. Solo alcuni alberi sono fioriti, la loro straordinaria chioma rossa spicca sul resto di rami ancora senza foglie. E arriviamo a Viñales, un paese in splendida posizione dove la vita scorre lenta e regolare, scandita dai ritmi delle stagioni. Il clima è ideale per la produzione di pregiatissimo tabacco. Campi e campi di tabacco, disseminati di essiccatoi, divisi da siepi spontanee, intervallati anche da altre coltivazioni. Qui c’è abbondanza di tutto, le nostre cene, nelle case particular, saranno tra le più ricche e varie di tutto il viaggio, verdura e frutta freschissime: lattuga, pomodori, peperoni, pompelmi e arance, guayaba dalla polpa rossa, carnosa e un po’ pepata, banane e ananas – buonissimi soprattutto quelli mignon – per accompagnare l’ottima carne di pollo o maiale ruspanti.
Molte coltivazioni, ma c’è anche abbondanza di zone selvagge, di parchi e riserve dove si possono fare escursioni, in genere guidate. Avere una guida, più o meno ufficiale, è preferibile, sia per le necessarie informazioni su flora e fauna, ma anche perché i sentieri non sono segnanti e perdersi sarebbe facile. Durante una di queste escursioni visitiamo una zona calcarea fortemente fessurata e coperta di vegetazione, abbiamo visto la rara palma da sughero, felci arboree, termitai abbracciati ad alti tronchi e strani alberi dal tronco spinoso, altri ospitano orchidee e decine di piante epifite che si appoggiano sui rami in attesa di un po’ di rugiada e ancora liane e palme e il primo Tocororo, l’uccello nazionale, con i colori della bandiera. Nel percorso siamo accompagnati da Lazaro, incontrato per caso, 30-40 anni, sembra più un irlandese che un cubano: piccolo e magro, capelli rossi, carnagione chiara con lentiggini. Il suo aspetto è davvero misero, scarpe sventrate e vestiti rattoppati. Dopo la visita ci accompagna alla sua casa, ci mostra uccellini canori e tre sfortunati cuccioli di jutia (simile alla nutria) che tiene in gabbia, catturati per poi mangiarli. Lazaro, povero ma generoso, prima di salutarci ci regala una ventina di pompelmi appena scrollati dall’albero.
Ci spostiamo ancora più a ovest, lungo la strada ci sono vari mucchi di carbone e pennacchi di fumo che escono dalle molte carbonaie accese. A Maria la Gorda, che doveva essere un paradiso (palme in riva al mare, vegetazione florida e fondali tra i più belli di Cuba) arriviamo a pomeriggio avanzato. Come ci avevano detto, l’uragano Ivan dello scorso anno ha ridotto proprio male questa zona, all’interno: itinerari naturalistici chiusi, rami e alberi massacrati con l’80% di foglie in meno – che in compenso ci ha consentito di avvistare molti uccelli tra cui il piccolissimo colibrì, e lungo la riva, palme spelacchiate, conchiglie, coralli e gorgonie spiaggiate. Ciò nonostante, molto belle sono state l’escursione alla “Grotta delle perle” e la piacevole nuotata con avvistamento del fondale corallino pieno di pesci colorati. Ma, data l’ora tardo pomeridiana e l’assenza di vento, ad aspettarci all’uscita dall’acqua troviamo una miriade di minuscoli famelici moscerini che ci hanno messo le ali ai piedi e in un lampo abbiamo lasciato il malconcio “paradiso” per lanciarci in una lunga corsa di trasferimento verso Trinidad. Città bellissima e unica, tranquilla, piena di musica, di fascino, di turisti e di inferriate. Più che in ogni altro posto visitato, i balconi, tutti, sono adorni e protetti da grate, le più antiche, che risalgono al 1700, sono in legno, quelle in ferro invece sono del 1800. Balconi giganteschi che mettono in mostra l’interno di bellissime case coloniali, soprattutto al tramonto o in zone ombrose le imposte vengono aperte e le persone, in questo luogo, un po’ casa un po’ strada, si siedono a prendere il fresco.
Anche qui la giornata non basta mai. La mattina a fare escursioni tra i verdi monti di Topes del Collantes, ricchi di ruscelli e cascate freddissimi, poi al mare, per qualche ora di sole e nuotate varie per curiosare tra il ricco fondale, ma ci sono anche da vedere gli interessanti musei, quello di architettura e quello civico, la galleria d’arte, i mercatini straripanti di bei ricami e lavori all’uncinetto, collane di semi, macchinine di carta pesta e di altri oggetti che non ritroveremo più. Ed è bello anche perdersi nelle silenziose stradine lastricate, dove sono più frequenti i cavalli che le auto, e infine, la sera, alla Casa della Trova per ascoltare musica sorseggiando un fresco mojito (zucchero di canna, succo di lime, rum bianco, hierba buena (somiglia alla menta), soda, ghiaccio). Nel nostro spostamento verso est, dopo Trinidad tutto ritorna piatto. La pianura è punteggiata da laghi e paludi, dove vive anche il coccodrillo, ma per il resto tutto sembra una grande distesa di canna da zucchero, che alla fine dell’inverno e all’inizio della primavera viene raccolta, infatti per strada si nota un certo via vai di lavoratori e di camion per il trasporto negli stabilimenti per la lavorazione. Questi centri di raccolta si notano anche a distanza per il fumo che esce dagli impianti e dal profumo dolciastro dell’aria.
Una notte a Camaguey, nel bel mezzo della pianura e della strada più importante dell’isola. La città è meno particolare di Trinidad, ma vivace, piena di attività e di negozi con buona offerta di merci – volendo si trova perfino la Coca Cola. Famosa per i suoi tinajones, grandi orci di terracotta dove veniva raccolta l’acqua piovana, ma a me piuttosto rimane in mente come la città delle biciclette, che sciamano a frotte su tutte le strade, protagoniste del traffico, a pari merito con i pedoni e in leggera competizione soltanto con le bici taxi.
Con un’altra lunga tappa arriviamo a Santiago de Cuba, nella montuosa e impervia costa est. La città, particolarmente significativa per la storia dell’isola – fu capitale coloniale prima di l’Havana e da qui partì la Rivoluzione – è affacciata sul Mare Caraibico, ma all’interno di una vasta e protettiva insenatura. L’importanza storica traspare dalla ricchezza delle architetture, dalle poderose fortificazioni difensive all’ingresso della baia, dai reperti e dall’appassionato e tragico racconto della guida della Caserma Moncada ora Museo della Rivoluzione.
Superiamo Guantanamo, della base americana non se ne percepisce minimamente la presenza, e percorrendo La Farola, una tortuosa strada di montagna, arriviamo a Baracoa. Dopo l’aspra e a tratti desertica costa est è un tuffo nel verde, la vegetazione diventa florida, veramente tropicale, con il clima particolarmente adatto a caffè e cacao, ma qui, dicono, cresce di tutto.
Fino a pochi decenni fa a Baracoa si arrivava solo via mare, ma anche ora è decisamente fuori mano, da un lato una impegnativa strada di montagna e dall’altro una sterrata e piena di buche.
Baracoa è una città piccola, minima direi, con edifici semplici ma, come sempre, ordinati e puliti. L’unica chiesa è semidiroccata e in attesa di fondi per il restauro. Eppure nei primi del 1900 ebbe un periodo florido grazie alla produzione delle banane, ma poi i banani si ammalarono e arrivò la crisi. Fu il primo approdo di Cristoforo Colombo nelle Americhe, di lui resta una croce, un monumento e il nome dato alla strana montagna simile ad un incudine, “El Yunque”, alle spalle di Baracoa, inconfondibile riferimento per i marinai provenienti dall’Europa.
Interessante è stato l’incontro con il responsabile del Museo Civico che ci ha detto: “ritengo che ne l’America ne Cuba siano state scoperte da Colombo, visto che qui già risiedevano delle popolazioni, ma in contrapposizione alla frequente opinione che vede nell’arrivo di Cristoforo Colombo un momento negativo per l’America, io sono convinto invece che abbia portato ricchezza culturale e aperto nuove prospettive”. Generoso da parte sua privilegiare questi aspetti positivi, di altro parere sarebbe certamente stato il capo indio Hatuey, che fu bruciato vivo per essersi opposto alla dominazione spagnola e all’annientamento del suo popolo.
Baracoa ci è piaciuta per aver trovato qualche traccia dei nativi cubani e particolarmente cara ci è per il bel rapporto avuto con la gente del vicino Rio Yumuri, dove abbiamo fatto un’escursione accompagnati e coccolati da mezzo villaggio.
Per finire, un ricordo delle mie papille gustative per la sua cucina, diversa da tutto il resto dell’isola, all’insegna della noce di cocco: ottimo il pesce al latte di cocco, il cioccolato al cocco ed il cucuruchos, un dolce di cocco grattugiato e cotto con miele, papaia o guayaba, pompelmo o arancia e confezionato in caratteristici coni di foglie di banano.
Cuba, un percorso rivoluzionario Partendo per Cuba non sempre l’argomento Rivoluzione interessa molto, in fase di preparativi magari si è incappati in poche e casuali letture e spesso si arriva nell’isola senza saperne gran che, ma dopo i frequenti e vari ritratti di Che Guevara, che si vedono in ogni angolo del paese, le prime gigantesche scritte inneggianti alla Rivoluzione o alle conquiste sociali ad essa legate, la visita all’omonimo Museo a l’Havana, alla Caserma Moncada di Santiago, il Museo del Treno Blindato e il Mausoleo del Che a Santa Clara, non può non nascere una certa curiosità che via via aumenta fino a diventare, spesso, vera e propria affascinazione.
Per visitare i luoghi della Rivoluzione ci si ritrova a percorrere un itinerario nell’itinerario, ma per arrivare a capire la Rivoluzione è bene cominciare dall’inizio. Il nostro percorso ideale parte dalla costa Nord Est, dove resistono ancora i tratti somatici delle popolazioni originarie e nella lingua e nei toponimi si trovano ancora alcune delle loro parole. Erano indios provenienti dal Venezuela e dalla Florida, insediatisi a varie riprese nell’isola. Alcuni ritrovamenti risalgono all’8.000 a.C., 7000 anni fa arrivarono i siboney e gli arauco, raccoglitori e pescatori che lavoravano le conchiglie e vivevano in caverne, molto più recentemente i taino, che costruivano capanne e coltivavano la terra. Delle loro culture a Baracoa e a Banes, in un paio di piccoli musei, sono esposti utensili, ceramiche, raffigurazioni sacre, oggetti di culto, monili. In località Chorro de Maita, è stato ricostruito un villaggio Taino a grandezza naturale e si può visitare un cimitero aborigeno dove una decina di scheletri sono stati lasciati sul posto per capire il sistema di sepoltura.
In questa parte di costa nell’ottobre 1492 approdano le navi di Cristoforo Colombo, successivamente ci saranno altri sbarchi, tutti accolti festosamente dagli abitanti, con doni di fiori, frutta e coloratissimi pappagalli. Nel 1510 comincia l’occupazione spagnola, Diego Velazquez si impegna oltre che a prendere Cuba “a convertire gli indios al cattolicesimo, a cercare oro e costruire città”, a questo punto i pacifici indios tentano la ribellione, resistono un po’, favoriti dalla loro conoscenza del territorio, ma disorganizzati e pressoché disarmati per loro finirà male. Dopo pochi mesi il loro capo Hatuey fu bruciato vivo. Per non arrendersi all’invasore c’è chi sceglie il suicidio di gruppo, gli altri vengono costretti a cercare l’oro in tutta l’isola, e successivamente dovranno seguire le truppe spagnole alla conquista di Messico e Florida. Dopo 40 anni la popolazione è decimata, dei circa 100.000 indios iniziali ne resteranno solo 5000.
Preso il prendibile, Cuba per un po’ viene abbandonata, poi cominciano i primi allevamenti di bestiame e i relativi commerci con l’Europa. Nel 1517 arrivano i primi schiavi neri. Ma il rilancio dell’isola viene da l’Havana, diventata punto di sosta per le navi provenienti da Messico e Perù e dirette in Spagna, cariche di ogni bene, tra cui tabacco, oro, argento, pietre preziose. Con tutte quelle allettanti ricchezze in giro ecco che in breve sui Carabi si concentra l’interesse di tutta la pirateria. I pirati, oltre ad essere dei “semplici” predoni, su incarico dei regnanti inglesi, francesi e olandesi, con le loro ruberie frenavano e contrastavano la grande espansione della Spagna.
Ai corsari venivano riconosciute ricchezze e titoli, uno fra tutti, Francis Drake che fu nominato viceammiraglio della marina da guerra inglese.
(Un piccolo museo della Pirateria è allestito al Castillo del Morro di Santiago de Cuba.) Questa forma di guerra durò per 150 anni, nel 1697 le nazioni raggiunsero un accordo e con la “pace di Ryswick” stabilirono la pena di morte per i pirati.
Nel frattempo venne estesa la coltivazione della canna da zucchero e di conseguenza incrementato il numero di schiavi neri. Le loro condizioni di vita erano pessime. Neri che provenivano da varie zone dell’Africa, con lingue, tradizioni, divinità e memorie diverse, ma accomunati da un destino e da un luogo, “l’ingenio”, lo zuccherificio, dove neri e bianchi, anche se tra sofferenze, ribellione, crudeltà, convivevano e lentamente si amalgamavano.
La popolazione aumenta, per l’intreccio genetico e la fusione delle culture cominciano a delinearsi le caratteristiche del popolo cubano con espressioni particolari di musica, danze e religiosità. Inizia a nascere la nazione. Criollos sono chiamati i nuovi nati nell’isola.
Nel 1700 si sviluppa la coltivazione del tabacco, di ottima qualità, che rende molto, tanto che la Spagna lo sottopone a monopolio. Le restrizioni commerciali a cui gli spagnoli sottopongono Cuba frenano l’economia e creano notevoli malcontenti. Nel 1762 arrivano gli inglesi, restano per poco meno di un anno, tolgono i monopoli e l’economia riparte e così pure la tratta degli schiavi.
Per un’altra pace che non li riguarda, quella di Versailles, Cuba ritorna alla Spagna, ma i tempi sono cambiati e così pure le strategie commerciali spagnole. Zucchero e tabacco vengono prodotti e venduti in grande quantità (nel 1830 Cuba fu la più grande produttrice mondiale di zucchero), buona parte prende la via degli Stati Uniti che intanto si sono affacciati sull’orizzonte cubano e in varie fasi si addentrano sempre più nel suo sistema economico. Per questioni non precisamente umanitarie (pressioni degli stati sfavoriti dal basso costo di produzione per l’impiego degli schiavi, la meccanizzazione delle produzioni, la paura di rivolte) l’epoca della schiavitù stava per finire ma il passaggio non fu ne facile, ne breve. Una data segnò il cambiamento, era il 10 ottobre 1868 quando il ricco proprietario terriero Carlos Manuel de Céspedes liberò tutti i suoi schiavi. Questa data segnò anche l’inizio della ricerca di indipendenza di Cuba. Tra i primi rivoluzionari uno dei più importanti fu José Martì (nacque nel 1853 e morì in una battaglia contro gli spagnoli nel 1895), scrittore, poeta, ideologo, anelava non solo ad una patria libera sia da spagnoli che da statunitensi, ma alla libertà per tutta l’America Latina dove indios, bianchi e neri avrebbero dovuto godere di medesimi diritti e uguale dignità. Due guerre di indipendenza, inframmezzate da turbolenti periodi di stasi con rinnovamenti politici e sociali, nel 1897, nonostante il divario di forze e di armamenti i rivoltosi ottengono dalla Spagna l’avvio all’autonomia. Gli Stati Uniti approfittando della situazione e con il pretesto di difendere gli americani presenti nell’isola, nel 1898 entrano in guerra contro la Spagna, la battono e si insediano nell’isola comportandosi da tutori. Con un emendamento approvato dal Senato nel 1901 si arrogano la difesa dell’isola e della sua indipendenza, limitandone però l’autonomia nelle scelte internazionali e decidendo l’installazione di una base militare al Guantanamo. Cambia destinazione, ma riparte lo sfruttamento. Cinquanta anni di caos e tensioni sociali nei quali la politica sembrava più una guerra tra bande, proliferava la corruzione, la speculazione edilizia, la prostituzione e il gioco d’azzardo, per la popolazione nera la discriminazione razziale era fortissima, ogni movimento politico avverso al potere veniva represso duramente.
Con l’aiuto di governi pilotati, nei primi decenni del 1900 tutta l’economia da e per Cuba passa nelle mani statunitensi. Gli oppositori sono frammentati e senza progetti comuni, soggetti ad arresti e torture. Stimolato e deciso a combattere la terribile situazione c’è un giovane avvocato di 26 anni, Fidel Castro, che catalizza e riunisce un gruppo di attivisti e con forza denuncia le azioni di Batista, l’uomo potente del momento. Il suo ispiratore è Josè Martì, che successivamente sarà nominato padre della patria. Convinto che, in quella fase, il cambiamento fosse possibile solo con la lotta armata, con il suo gruppo comincia a progettare la presa della Caserma Moncada a Santiago de Cuba, decisa per il 26 luglio 1953, l’azione finirà con la tortura e la morte della gran parte degli assalitori. Fidel Castro vivrà, la sorte gli è favorevole, sarà incarcerato e condannato a 15 anni, ma per effetto di un’amnistia dopo un paio di anni viene rilasciato ed esiliato in Messico.
Rimane in contatto con chi è rimasto a Cuba. Riorganizzano il gruppo Movimiento 26 de Julio e progettano un nuovo attacco. Acquistata una piccola imbarcazione, il Granma, tra una serie di disavventure che portano a ritardi ed errori di approdo, Fidel e un’ottantina di rivoltosi, tra cui il fratello Raul e Che Guevara, il 2 dicembre 1956 sbarcano a Las Coloradas, nel frattempo a Santiago de Cuba la rivolta di disturbo era già scoppiata e sedata. L’effetto sorpresa svanito.
Arrivare alla Sierra Maestra – zona impervia e difficilmente raggiungibile – dove, per scelta strategica sarà posto il quartier generale, sarà difficilissimo. Le truppe governative riescono quasi ad annientare il gruppetto, ma la buona sorte è ancora con Fidel. Dopo due settimane, con Che Guevara, Raul, Cienfuegos e pochi altri, raggiunti dai rivoltosi di Santiago tra cui una delle poche donne guerrigliere, Celia Sancez, raggiungono “La Comandancia”. Tra mille difficoltà, scarsezza di mezzi e di uomini, cominciano le prime scaramucce con l’esercito e arrivano i primi successi. Incontrano un famoso giornalista del New York Times per far sapere alla nazione di essere vivi. Installano e trasmettono da Radio Rebelde. I campesinos lentamente cominciano a dare fiducia e aiuto ai “Barbudos”, come venivano chiamati i rivoltosi, e ciò sarà importantissimo per l’esito finale della lotta. Nelle città crescono i movimenti di sostegno, i sabotaggi e le manifestazione, seguiti da forti repressioni. La guerriglia dilaga sempre più, crescono gli appoggi e i consensi. L’esercito è messo in grosse difficoltà, reparti di soldati abbracciano la causa rivoluzionaria.
La battaglia decisiva sarà vinta da Che Guevara a Santa Clara il 29/12/1958 facendo deragliare un treno blindato pieno di soldati e munizioni. Non muore nessuno, i soldati si arrendono subito. Il 31 dicembre Batista fugge. Il 3 gennaio 1959 i reparti del Che e di Cienfuegos entrano a l’Havana. Fidel festeggia a Santiago, arriverà a L’Havana qualche giorno dopo. La Rivoluzione ha vinto, ma tempi duri si profilano. Le prime azioni del nuovo governo sono state: la progressiva nazionalizzazione di attività ed industrie, la riforma agraria con l’assegnazione della terra ai contadini, l’alfabetizzazione, il miglioramento delle condizioni di vita, il diritto alla casa e alla salute per tutti.
Gli Stati Uniti, increduli sulla tenuta della rivoluzione, inizialmente temporeggiano, poi reagiscono in vario modo: adottando forti restrizioni economiche e monetarie, compreso il blocco totale navale ed aereo, con l’isolamento diplomatico, sostenendo gruppi di controrivoluzionari per la ripresa del controllo. Famoso è il tentativo di sbarco nella Bahia de Cochinos (Baia dei Porci) nell’Aprile del 1961. L’operazione non riesce, muoiono 500 persone tra cui 300 invasori. A fine Aprile gli USA inaspriscono ulteriormente le azioni contro Cuba. Castro cerca alleati. Con l’URSS stringerà molti accordi, compresi quelli relativi alla difesa, che porteranno a momenti di enorme tensione tra le due superpotenze e grave pericolo per il mondo intero.
Continuamente sottoposto a forti pressioni e notevoli difficoltà, Castro non ha mai mollato le redini e ha continuato a difendere, con le unghie e con i denti, l’indipendenza e i miglioramenti sociali ottenuti, chiedendo alla popolazione grandi sacrifici e dedizione totale.
Cosa sarà dopo Castro? Sapranno e potranno i cubani riappropriarsi della propria libertà senza perdere la propria autonomia? E’ l’augurio che facciamo a Cuba, e per questo mi piace finire con una frase di Che Guevara “O siamo capaci di sconfiggere le idee contrarie con la nostra discussione, o dobbiamo lasciarle esprimere. Non è possibile sconfiggere le idee con la forza, perché questo blocca il libero sviluppo dell’intelligenza”.
A Cuba prima che…
…Prima della scomparsa di Fidel e che quella particolarissima realtà – nel bene e nel male – cambi, che inevitabilmente venga travolta dalla globalizzazione, che ridiventi terra di conquista. Ma si fa presto a dire Cuba, quale Cuba? Quella abusata? dei villaggi turistici, del mare bello e caldo a tutte le stagioni? quella del sesso dagli incontri facili per tutti i gusti? Quella delle belle città coloniali? Quella entusiasmante della Rivoluzione? Quella impoverita dall’embargo, dei villaggi sperduti, della gente sorridente e gentile? L’elenco diventerebbe lungo o incompleto, certo che Cuba è un paese controverso e tra chi la visita, c’è chi la ama, chi la detesta, chi la usa.
A noi è piaciuta tanto, anzi moltissimo, prima però c’è voluto un po’ di tempo, è stato necessario adattarvisi, immergersi ed esserne fatalmente catturati. Il primo ricordo è una scena di natura, il lento volo roteante di una decina di avvoltoi sopra una distesa di sconosciuti alberi tropicali.
Il secondo, la lattiginosa deliziosa freschezza di una piña colada, latte e polpa di cocco giovane, ananas, la giusta dose di rum, una bella frullata e giù, a piccoli sorsi, ammirando il panorama sull’ardito ponte Bacunayagua.
Poi dritti a l’Avana, Habana, Havana, comunque la si chiami, bella e speciale.
Non vediamo l’ora di arrivare e, anche se è ormai notte fonda e siamo stanchi, niente ci trattiene dal buttarci in strada per il primo contatto, per annusarle l’aria. Siamo alloggiati in un bell’edificio del XVII secolo, l’ex Convento Santa Clara, in piena Habana Vieja, il cuore storico della città, dal 1982 inserito dall’Unesco nella lista “patrimonio mondiale dell’umanità”. Due passi e siamo davanti alla Cattedral de San Cristobal, una visione straordinaria. La piazza è silenziosa, le luci soffuse, e la chiesa, con quel suo caldo colore rosso-dorato e la ruvida consistenza della pietra con cui è costruita, sembra un corpo assopito nella notte. Giunge una musica, seguiamo il suono, in strada alcuni suonano e altri ballano. Sul marciapiede, un po’ in disparte, un vecchietto solo è preso dal ritmo e si muove con disinvoltura e armonia. Per i cubani ballare è vitale ed irresistibile pare. I balli sono un intrico di passi, di braccia e gambe che si intrecciano, di contatto di corpi, sensuale e spesso molto audace. Anche se i piedi fremono e i fianchi si muovono non è facile lanciarsi sulla pista, la nostra rigidezza ci inchioda davanti a tanta scioltezza ed eleganza, meglio continuare a girare per le stradine silenziose e buie, la totale assenza di auto e di illuminazione ci “stordisce” un po’. E’ l’ora della seguitissima puntata della telenovela e le strade sono deserte, poi la gente esce e davanti ai portoni gruppetti di persone sostano a parlare, altri stanno semplicemente a guardare. Tutto è tranquillo. E’ quasi mezzanotte, un uomo con un carrettino lancia una richiamo, è un venditore di pane. Le profumate e soffici pagnottelle, vengono consegnate senza carta, a Cuba non si può sprecare nulla e anche in questo caso la carta sarebbe un inutile lusso. E’ un pane molto buono, può essere di farina bianca o semi integrale, ottimo con burro e miele, come usano servirlo per colazione. Colazioni ricche e abbondanti, con veri succhi di frutta, formaggio, salumi, uova, frutta di stagione e caffè cubano denso e forte. Una vera iniezione di energia, necessaria per affrontare la visita alla città, l’Habana non scherza con tutta la quantità di musei, chiese, edifici e piazze da visitare, per non parlare dell’interesse per la gente, per le loro abitudini di vita, i posti che frequentano, la musica, le case, le automobili.
Chrysler, Cadillac, Studebaker, Buick, Ford, Mercury, bellissime automobili americane degli anni ’50 ancora miracolosamente funzionanti, gigantesche, colorate, ben tenute da sembrare nuove, oppure cadenti e rabberciate, ma tutte altamente inquinanti.
Per questioni economiche il traffico automobilistico è molto ridotto ma ciò nonostante in alcune vie l’aria è irrespirabile, soprattutto al sopraggiungere di vetusti camion o autobus che al loro passaggio seminano una cortina di denso fumo nero. Ognuno gira con quello che ha e in piena città non è raro vedere carretti trainati da pazienti cavalli, ma gran parte del traffico è composto da biciclette, sidecar e da una miriade di taxi di tutti i tipi: auto, tricicli coperti a motore o a pedali, carrozze a cavallo. Tutto questo variegato movimento si aggira nelle strette strade dei cadenti e scortecciati quartieri coloniali. L’Avana ha una lunga e ricca storia alle spalle, che comincia nei primi anni del 1500. Fu una delle sette città fondate a Cuba da Diego Velazquez, ma all’epoca non era la più importante, lo divenne quando gli spagnoli conquistarono anche Messico e Perù, ed ecco che la sua posizione diventa strategica, tutte le navi da e per la Spagna facevano scalo nel suo porto. Nel 1556 il governatore spagnolo da Santiago de Cuba venne trasferito a l’Avana e nel 1607 divenne la capitale della colonia. Oggi l’Avana è la città coloniale più grande e più integra dell’America del Sud e una delle più vecchie delle Americhe visto che Cuba fu la prima terra ad essere toccata da Cristoforo Colombo nel 1492.
Di tutto questo ricco passato rimane un patrimonio architettonico eccezionale, ma molto degradato. Un “patrimonio dell’umanità” in buona parte ancora da recuperare, molto è stato fatto ma tantissimo resta ancora da risanare, troppi gli edifici ancora malmessi se non addirittura pericolanti. Palazzi puntellati o semi diroccati, crepe e sbrecciature, finestre e persiane rattoppate, sugli imponenti e lussuosi balconi ora si stende la biancheria, si tiene un gallo o uno stereo con musica a tutto volume. La città ha un aspetto decadente e tragicamente affascinante, un’amalgama di vite stentate, povertà, dignità, gioia di vivere, inventiva, inserite in un’armoniosa baraonda di stili: spagnolo, moresco, liberty, barocco, neoclassico, arricchiti da una altrettanto eclettica varietà di decorazioni, vetrate e intonaci colorati, stucchi, grate in legno, inferriate, piastrelle, legno scolpito, colonne. Nonostante tutto però l’Avana è una città orgogliosa, aperta e senza pudori. Tutti sono curati e puliti, amano vestire di bianco che è sempre candido. In strada c’è molta vita, commerci, conversazioni, giochi. Tra una macchina e l’altra i ragazzi giocano a baseball o, appena in disparte, con un tavolino e alcune sedie, gruppi di uomini si impegnano in appassionate partite di domino. Anche le case non fanno mistero dei loro interni e dalla strada è facile intravedere un ampio soggiorno con ricca mobilia, una semplice stanzetta con due sedie a dondolo o un monolocale con le poche indispensabili cose per vivere.
La giornata lavorativa comincia presto e finisce verso le 17-18. A quell’ora la città si ferma e si svuota, rimangono aperti solo i bar e i locali per ballare e ascoltare musica. Con musei e negozi chiusi non ci resta che visitare il Malecon, il tramonto è l’ora giusta. L’ora in cui il lungomare si riempie di gente, c’è chi pesca, chi guarda il mare, chi suona o vende fiori.
In lontananza i grattacieli e i grandi alberghi del Vedado, il quartiere edificato negli anni ’50 dagli americani a immagine e somiglianza delle loro città. La nostra passeggiata finisce alla gelateria Coppelia, un luogo frequentatissimo dagli habaneri, dove per un gelato sono disposti a fare code lunghissime. E finisce anche la nostra breve visita all’Avana, quasi un assaggio, tante altre sono le cose che avremmo potuto vedere ma il resto dell’isola ci aspetta e forte è il desiderio di partire.
NOTE Per l’ingresso a Cuba è necessario avere compilata la “carta turistica” (acquistabile in agenzia di viaggio) dove è necessario indicare nome e indirizzo dell’alloggio. Per l’alloggio all’Avana abbiamo scelto l’albergo Convento Santa Clara per la sua storicità ed essendo in pieno centro storico ci siamo sempre mossi a piedi. Conveniente la stanza da 6 letti ma non molto pratica essendoci un unico bagno. Conveniente portare Euro essendo il cambio in Dollari tassato.
L’organizzazione e l’itinerario del viaggio sono stati realizzati autonomamente. Per informazioni e/o contatti a Cuba Maria Grazia Brusegan mariagrazia@arcam-mirano.It per vedere delle foto www.Arcam-mirano.It