A zonzo per l’Armenia con puntata a Tiblisi
L’Armenia si vanta di essere stata la prima nazione a convertirsi al cristianesimo e, dopo il crollo del comunismo, il fervore religioso è tornato prepotentemente a galla. Il paese è pieno di antichi monasteri in pietra, costruiti in splendidi paesaggi montani. Si tratta sicuramente dell’aspetto più interessante del viaggio dal punto di vista architettonico. La capitale Yerevan è una città non bella ma piacevole, dove agli orrendi condomini eredità dell’epoca sovietica fa da contro altare l’animazione delle serate. Il popolo armeno ha passato periodi tremendi, culminati nel genocidio operato dai turchi durante la prima guerra mondiale, e la ritrovata indipendenza rappresenta un elemento di speranza, anche se gran parte dei suoi territori storici si trovano oggi sotto la Turchia e la mole del monte Ararat, montagna simbolo della nazione, incombe imponente e inaccessibile oltre il confine. I primi anni dopo la fine del regime sono stati molto difficili con il disfacimento del sistema economico e la guerra con l’Azerbajan per il Nagorno Karabak. Oggi la situazione è migliorata, anche grazie agli aiuti degli armeni della diaspora che preferiscono rimanere dove sono sempre vissuti ma non hanno dimenticato la patria d’origine. La forte disoccupazione rimane il problema più grave. Il turista visita un paese spesso deturpato dai retaggi del regime comunista ma sicuramente ricco di spunti interessanti e con una splendida natura. Il passaggio dello straniero suscita una certa sorpresa nei locali che si chiedono cosa mai sia venuto a fare in Armenia! Da un punto di vista pratico il viaggio è molto semplice con la possibilità di raggiungere tutte le località da Yerevan, utilizzando gite organizzate oppure i numerosissimi marshrutka, i minibus che hanno soppiantato gli autobus. Dopo l’Armenia, quando Stefania era già tornata in Italia, ho trascorso alcuni giorni a Tbilisi in Georgia. La città è più bella di Yerevan: il dedalo di vicoli della parte vecchia è arricchito da molte chiese mentre il boulevard principale, Rustaveli, è contornato da lussuosi edifici ottocenteschi. La situazione del paese tuttavia è critica: le lotte intestine tra le varie popolazioni hanno prodotto migliaia di profughi e tutti i sottopassaggi della capitale sono pieni di mendicanti. Le contraddizioni sono stridenti: mentre a Gori ancora si celebra Stalin, a Tbilisi una strada è intitolata a George Bush e la bandiera dell’Unione Europea sventola davanti al parlamento. Il sentimento religioso è esploso dopo l’indipendenza ancora più che in Armenia e, nonostante tutte le difficoltà economiche, una monumentale cattedrale è stata costruita senza badare a spese. La disoccupazione rimane un problema gravissimo che si accompagna alle tensioni con la Russia e le regioni secessioniste. Il turismo è quasi inesistente ed è un vero peccato perché Tbilisi è una città che ha molto da offrire. Ed ora il diario di viaggio. Sabato/Domenica 16/17 giugno: Roma – Vienna – Yerevan Raggiungiamo l’Armenia con un volo dell’Austrian Airways, passando per Vienna. Tutti gli aerei provenienti dall’Europa atterrano a Yerevan nel cuore della notte; all’aeroporto troviamo ad attenderci l’autista della Hyur Service che ci accompagna all’appartamento prenotato tramite internet (www.Hyurservice.Com). Il primo approccio non è confortante: entriamo in un palazzone fatiscente di oltre dieci piani. Nell’androne una grossa tubatura è avvolta da una coperta e l’ascensore è inquietante tanto che i prossimi giorni Stefania spesso preferirà farsi a piedi i sette piani. L’appartamento in compenso è stato ristrutturato e non è male: un salone con angolo cottura e una cameretta con due letti, separati da una porta scorrevole. L’arredamento, oltre un monumentale televisore, non manca di qualche tocco estetico con un quadro poggiato su un cavalletto. Non facciamo in tempo a sdraiarci sul letto che arriva un impiegato dell’agenzia per riscuotere subito tutti i soldi. La mattina, alla luce del giorno, il palazzo ci appare in condizioni pietose; i vetri delle scale sono scomparsi da tempo e anche i teli di plastica che li hanno sostituiti sono tutti lacerati. L’assenza di una gestione condominiale appare palese, tanto che alcuni piani si sono rifatti per conto loro i pianerottoli. Dopo una colazione al Gusto, locale che serve cucina italiana, raggiungiamo Piazza della Repubblica, considerata una dei migliori esempi di architettura sovietica. Detto così potrebbe suonare un po’ male ma la vasta piazza è piacevole: su un lato si trova il bianco edificio che ospita il Museo Nazionale mentre i quattro palazzi curvilinei agli angoli sono costruiti in una calda pietra rossastra. Ospitano ministeri, la posta (dove si può comodamente telefonare in Italia) e il lussuoso Hotel Marriott. Da un lato della piazza parte Tigran Mets, strada animata da attività commerciali tra cui molti uffici di cambio; provvediamo quindi a fare una scorta di dram, la valuta locale. Subito dopo si trova un bazar, ospitato in un gigantesco edificio di cemento con il tetto diviso in due sezioni curve che dovrebbero ricordare le vette dell’Ararat. Il palazzone sovietico che sorge di fronte c’impressiona per il suo squallore; ancora dobbiamo abituarci a questi tristi residui del passato. Su una collinetta a fianco del bazar sorge la nuova cattedrale, consacrata nel 2001 in occasione dei 1700 anni della conversione al cristianesimo. Davanti è stata collocata una statua equestre dedicata ad Ozanian; il monumento sembra rappresentare un supereroe dei fumetti piuttosto che l’eroe della lotta d’indipendenza contro i turchi d’inizio novecento! La cattedrale è imponente ma fredda; appena entrati un altare contiene le reliquie di San Gregorio Armeno, conservate a Napoli per secoli e regalate da Giovanni Paolo II. E’ domenica e le panche della chiesa (una rarità in Armenia) sono occupate dai fedeli che assistono alla messa. I preti si trovano su una specie di palcoscenico sollevato che viene più volte chiuso da un sipario, tanto che sembra di essere a teatro invece che in chiesa! Durante la cerimonia, la gente si fa ripetutamente il segno della croce e tocca il pavimento con una mano. Improvvisamente tutti si spostano di lato e uno stendardo viene portato in processione fino alla tomba di San Gregorio. Lasciata la cattedrale ci dirigiamo verso il Vernissage, il mercato che si tiene ogni fine settimana. Non manca di una certa valenza turistica; otre ai numerosi tappeti, mi colpiscono le bamboline colorate di lana che riproducono i costumi tradizionali delle regioni armene. Nei paraggi si trova l’ufficio turistico, dal cui ottimo sito web (www.Armeniainfo.Am) abbiamo ricavato tante preziose notizie; ne approfittiamo per una visita, acquistando una cartina della città e chiedendo alcune informazioni ai solerti impiegati. Il nostro giro per Yerevan prosegue raggiungendo in taxi il memoriale dedicato al genocidio armeno. Sopra una collina sull’altra sponda del fiume Hradzan sorgono un obelisco e un monumento circolare, costruiti in epoca sovietica a ricordo dei massacri compiuti dai turchi durante la prima guerra mondiale. Per primo visitiamo il museo dove foto tristissime ricordano quei tragici avvenimenti; i cadaveri allineati, gli sfollati costretti a lasciare le loro case e a viaggiare per mesi nel deserto, i volti terrorizzati delle madri lasciano profondamente il segno. Le potenze occidentali non fecero nulla per fermare il massacro, anche se poi singole associazioni umanitarie cercarono di aiutare gli orfani sopravissuti. E’ incredibile pensare che ancora oggi il governo turco continui a negare il genocidio. Raggiungiamo l’obelisco sul lato opposto del piazzale; la spaccatura nel mezzo rappresenta la divisione tra l’Armenia Orientale e quella Occidentale, sotto la Turchia. Dodici lastre inclinate, disposte in circolo, ricordano le regioni perdute e proteggono una fiamma perenne, intorno alla quale qualcuno ha deposto dei fiori. Il monumento nella sua semplicità evoca riflessioni sulla tragica storia dell’umanità che purtroppo sembra ripetersi! Il novecento è stato un secolo tremendo e il genocidio degli armeni, durante il quale un milione e mezzo di persone furono massacrate, è stato solo il primo di una lunga serie. Terminata la visita, scendiamo a piedi dalla collina raggiungendo il mercato che si svolge intorno allo stadio (orrende le tribune in cemento), dove è facile trovare un taxi e farci condurre fino ad Erebuni, alla periferia di Yerevan. Sopra una collina sorge una fortezza antichissima, risalente al regno di Urartu, rivale della potenza assira. La visita del museo è piuttosto deludente poiché i pezzi migliori si trovano in Francia per una mostra. Fa molto caldo e siamo gli unici ad avventurarci fino ai resti delle possenti mura che racchiudono la cittadella. Non rimane molto da vedere e solo la fantasia può aiutare a ricostruire i tempi andati. Tornati in centro ci siamo meritati una sosta ristoratrice al Marco Polo, locale sull’animata Abovonian, uno degli assi principali nella griglia delle strade di Yerevan. Nei paraggi è segnalata la presenza di scultori che rinverdiscono la tradizione delle khatchkar, le croci armene. Oggi però è domenica e sono all’opera solo due tizi che stanno realizzando un grosso libro in pietra. Superata la trafficata via intitolata all’inventore dell’alfabeto armeno, Mashot Masrots, raggiungiamo un vicolo dove sorge l’antica chiesa di Zoravar, una delle poche sopravissute in città. Il piccolo edificio in pietra, collocato in mezzo ai soliti condomini, costituisce una piacevole sorpresa. Concludiamo la giornata cenando nei pressi dell’Opera all’Old Village, dove l’attenzione è concentrata più sulla musica dal vivo che sulla qualità del cibo. Lunedì 18 giugno: Yerevan – Garni – Geghard – Yerevan Per visitare Garni e Geghard ci affidiamo a una gita organizzata della Sati Tours (4500 dram a testa il costo per quattro ore, www.Satiglobal.Com). La partenza comodamente fissata per le dieci ci consente anche oggi di fare colazione al Gusto, forse l’unico locale aperto in città la mattina presto! Lasciata Yerevan, la prima tappa è un punto panoramico, amato dai poeti del passato anche come luogo di sbronze, almeno così ci racconta la ragazza che ci fa da guida, molto professionale e attenta al suo trucco. Una costruzione ad arco dovrebbe costituire un belvedere sul monte Ararat che però oggi è nascosto dietro la foschia. La gita, in compagnia di una decina di altri turisti, si svolge nelle vicinanze di Yerevan e raggiungiamo rapidamente la tappa successiva, il tempio di Garni. Il sito ha una lunga storia, grazie alla sua posizione facilmente difendibile chiusa su tre lati dalla gola scavata dal fiume Azat. Il lontano passato è ricordato da una prima iscrizione a caratteri cuneiformi opera del re di Urartu Arghrishti e una seconda in greco che celebra la costruzione di una fortezza da parte del re Tiridate. Oggi il pianoro è dominato da un tempio greco, veramente sorprendente in un luogo così sperduto. L’edificio fu abbattuto da un terremoto ma è stato ricostruito negli anni settanta del secolo scorso. Il tempio in basalto si leva su un alto podio, circondato da colonne. Il fregio presenta decorazioni di foglie e frutta; la guida c’indica una scritta in persiano a fianco dell’ingresso della cella che una turista iraniana del gruppo provvede a tradurre. Il posto è molto bello anche da un punto di vista paesaggistico, con il fiume Azat che serpeggia in basso tra alte pareti rocciose. Nel pianoro si trovano i resti di altre costruzioni, ma gli unici significativi sono quelli delle terme con un bel mosaico con divinità marine e il classico pavimento sospeso di epoca romana per il riscaldamento a vapore. Terminata la visita, ripartiamo alla volta del monastero di Geghard, dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Si tratta di un complesso in mezzo alle montagne, in parte edificato, in parte scavato nella roccia. Prima dell’ingresso, su una parete rocciosa, notiamo gli scarsi resti della chiesa più antica, la cappella della Madre di Dio, risalente al 1164. Il monastero è circondato da mura su tre lati mentre il quarto è addossato al fianco della montagna. La chiesa principale costruita nel duecento è dominata dalla cupola conica e presenta sulla facciata posteriore un curioso bassorilievo di un leone che attacca un bue. La struttura con due ambienti è quella tipica dell’architettura armena: il primo, denominato gavit, è un’ampia sala quadrata con quattro colonne nel mezzo e precede la chiesa vera e propria a croce greca con cupola. Dal gavit si accede agli ambienti scavati nella roccia. Una prima cappella presenta belle khachkars e una fonte ritenuta miracolosa per le donne desiderose di maternità. Un secondo complesso è formato da due ambienti, un mausoleo e una chiesa. Il primo è decorato con curiosi bassorilievi: una capra ha un anello in bocca al quale sono attaccate corde utilizzate come guinzagli per due leoni mentre subito sotto un’aquila ha catturato tra i suoi artigli un agnello. Su un’altra parete, noto due sirene con il corpo simile a una gallina e la testa di donna incoronata, insolita rappresentazione per una chiesa. Passiamo quindi al secondo ambiente, dedicato alla Madre di Dio, anche questo ricco di bassorilievi; nonostante sia interamente scavato nella roccia mantiene la classica struttura a croce, sormontata dal tamburo con la cupola. Il pensiero corre alle analoghe chiese rupestri della Cappadocia. Usciti dalla chiesa principale una scala e un passaggio coperto ci conducono a un terzo complesso scavato nella roccia, utilizzato come cappella sepolcrale. La sua struttura è quella di un gavit con quattro pilastri nel mezzo della sala; l’acustica è molto apprezzata ma nessuno se la sente di cimentarsi nel canto. Terminata la visita del monastero, raggiungiamo l’uscita posteriore affacciandoci sul fiume scavalcato da un ponte di pietra. Un albero è riempito da strisce di stoffa, appese per esaudire le preghiere; il paesaggio montuoso della gola è affascinante ma la giornata nuvolosa non lo fa apprezzare in pieno. Tornati a Yerevan, dedichiamo il pomeriggio a completare la visita della città. Raggiungiamo la Katoghike, vicino al nostro appartamento. L’antica chiesa è accerchiata da lavori in corso e edifici fatiscenti, incluso un mostruoso palazzone. Il teatro dell’Opera costituisce un altro elemento di riferimento della città; la piazza che lo circonda la sera si trasforma nel luogo più animato di Yerevan e gli armeni affollano i tavolini all’aperto dei numerosissimi caffè. In un angolo davanti a un laghetto sorge il curioso monumento al pianista Babajanian con le mani nodose levate al cielo. Proseguendo la nostra passeggiata raggiungiamo la Cascata, un’ampia scalinata che risale una collina. Davanti si trovano due monumenti completamente diversi: la statua di Tamanian, l’architetto che progettò la Yerevan sovietica, intento a scrutare una mappa e un buffo gatto nero ciccione, opera di Botero. La Cascata fu costruita in epoca sovietica ed è sormontata da un obelisco dedicato al cinquantesimo anniversario del Soviet dell’Armenia. La bianca scalinata è piacevole, con aiuole verdi e qualche scultura tra cui una lepre lanciata in piena corsa. Salendo per le scale però ecco una sorpresa tipicamente sovietica: la Cascata non è mai stata completata e finisce in un “baratro” che dal basso non si notava. Recentemente i lavori sono ripresi, grazie ai finanziamenti di un armeno della diaspora, e la vista dell’immenso cantiere è impressionante. Nel piazzale in cima, sotto il monumento al soviet, è stato collocata un’altra statua di Botero, un irriverente gladiatore grasso e tutto nudo ma con l’elmetto. Sopra la collina sorge un’oasi di verde, il parco Haghtanak. Un monumento, retaggio dell’epoca comunista, rappresenta una serie di braccia con il pugno chiuso ma l’elemento più famoso è la gigantesca statua della madre Armenia, visibile da tutta la città. La fiera donna, collocata su un alto podio, tiene in mano uno spadone e si rivolge verso la Turchia; intorno, aerei e carri armati sovietici rafforzano il segnale minaccioso. Anche oggi il clima caldo con la sua foschia nasconde quasi completamente il monte Ararat oltre il confine, contro il quale sembra puntare il missile collocato nel piazzale. Per tornare in centro prendiamo un minibus, sfruttando l’elenco stampato dal sito dell’ufficio turistico. Percorriamo l’animata Nabaldian, raggiungendo poi la piazza dedicata Al cantante Aznavour, che scopro essere armeno. La piazza è dominata dal cinema Mosca e dal lussuoso Hotel Yerevan; al centro una fontana con i segni dello zodiaco. Per cena ci rechiamo al Caucasus, dove gustiamo ottimi piatti della cucina armena, accompagnati dal lavash, il sottilissimo pane nazionale. Martedì 19 giugno: Yerevan – Lago Sevan – Yerevan La giornata è dedicata alla visita del lago Sevan. Questa volta ci affidiamo alla Hyur Service (7000 dram pax), l’agenzia che ci ha procurato l’appartamento. Insieme alla Sati si divide il mercato delle gite giornaliere e i loro cartelli sono sparsi per tutta la città. Come al solito partiamo comodamente alle dieci, in compagnia di una decina di turisti. Il lago di Sevan si trova a un’oretta da Yerevan, raggiunto da una comoda strada a scorrimento veloce. In prossimità della città di Sevan pieghiamo verso sud, seguendo la sua sponda. Ci troviamo a quasi 2000 metri sul livello del mare, di fronte a uno dei laghi più grandi del mondo ad alta quota. Il bacino tuttavia ha corso il rischio di “scomparire”, subendo un destino analogo a quello toccato al Mare di Aral. Il regime comunista aveva deciso, infatti, che le sue acque erano sprecate e andavano utilizzate per l’irrigazione e produrre energia: il piano prevedeva l’abbassamento del livello di 55 metri e la riduzione della superficie ad un terzo! Le terre liberate, nella folle visione del regime, sarebbero diventate un paradiso di giardini e coltivazioni. Lo scoppio della seconda guerra mondiale rallentò il progetto che fu abbandonato dopo la morte di Stalin. Nel frattempo però le opere dell’uomo erano riuscite ad abbassare il livello delle acque di una ventina di metri mentre la famosa trota nativa del lago è quasi scomparsa a causa dell’introduzione di una specie non autoctona, il coregone. Da qualche anno sono iniziate una serie d’iniziative “contrarie” e oggi lungo le rive molti alberi giacciono in mezzo all’acqua (il livello attuale è 11 metri sotto l’originale). La nostra prima tappa è la chiesa di Hayrivank, costruita su un costone a picco sul lago. Le parti più antiche dell’edificio, formato come il solito da un gavit e una cappella, risalgono al IX secolo. La porta d’ingresso di legno reca una rappresentazione con Dio in alto circondato dai quattro evangelisti, la croce in mezzo, Taddeo e Bartolomeo sui lati (gli apostoli che portarono il cristianesimo in Armenia), un disco simbolo del cuore in basso. Le pareti del gavit sono coperte di croci scolpite mentre all’esterno si trovano diverse khatchkar finemente decorate. Proseguendo verso sud raggiungiamo il cimitero di Noratus. In un verde prato si leva una moltitudine di khatchkar, tutte diverse una dall’altra. Le lastre sono rivolte ad occidente e quindi sarebbe meglio visitare il cimitero il pomeriggio mentre ora le croci sono difficili da fotografare. La guida c’illustra rapidamente i vari stili, spiegandoci anche l’origine dei vetri per terra. I fedeli la notte lasciano bottiglie piene d’acqua vicino alla tomba di santi o personaggi ragguardevoli; la mattina dopo bevono l’acqua e rompono le bottiglie. Molte lastre presentano un disco sormontato da una croce, avvolte in un fitto intreccio di decorazioni, altre più antiche solo una croce, ma non mancano rappresentazioni figurative. In una lastra due sposi sono uccisi al banchetto nuziale, davanti alla tavola imbandita. Tra le croci si aggirano alcuni bambini che cercano di vendere ai turisti fogli di quaderno sui quali hanno scritto le lettere dell’alfabeto armeno. Sono simpatici e discreti, perciò alla fine ne acquisto uno. Un gruppo d’anziane signore siede lavorando a maglia mentre intorno le pecore brucano tranquillamente. Lasciato il cimitero, percorriamo a ritroso la strada fino a Sevan, priva d’interesse, raggiungendo la verde penisola di Sevanavank, dominata da due chiese antiche. Il monastero risale addirittura al IX secolo, periodo in cui l’Armenia riuscì a liberarsi della dominazione del califfo arabo. L’abbassamento delle acque ha trasformato l’isola di un tempo in una penisola, semplificando la visita per i turisti in pullman ma eliminando parte del fascino. Una scala porta fino alle due chiese dominate entrambe dal tamburo ottagonale: la più piccola dedicata ai Santi Apostoli è chiusa mentre la più grande intitolata alla Madre di Dio si può visitare. Al suo interno si trova una splendida lastra scolpita. In alto Dio Padre benedice con due dita della mano unite ad anello, attorniato dai simboli dei quattro evangelisti. Al centro la crocifissione è circondata da pannelli con varie rappresentazioni tra cui tre re coronati e il bue e l’asino che sembrano conversare tra loro. In basso Dio scaccia Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre. Nel sito si trovano anche le rovine di un gavit dal quale proviene la porta di legno che ammireremo oggi pomeriggio al museo storico di Yerevan e le solite decoratissime khatchkar. La penisola si protende nelle acque del lago ma è occupata dalla villa del presidente e non si possono fare passeggiate. Mentre inizia a piovere raggiungiamo il ristorante che si trova sotto la collina, unica soluzione per il pranzo (non incluso nel costo della gita). Nel pomeriggio non c’è molto da fare: nella vicina spiaggia il tempo piovoso non consente certo di prendere la tintarella. Oltre la riva, un albero si trova in mezzo all’acqua, segnale dell’innalzamento del livello operato negli ultimi anni. Il gruppo staziona pigramente sulla spiaggia finché non ripartiamo alla volta di Yerevan. Sulla strada del ritorno, forse per allungare un po’ la gita, facciamo due soste. La prima per raccogliere qualche pezzo di nera e lucente ossidiana; la seconda in prossimità di una statua collocata in un punto panoramico che domina verdi colline attraversate da una ferrovia. La gita è ormai terminata e tutto sommato mi pare che sia stata organizzata in modo abbastanza approssimativo, con tempi morti e la fregatura del pranzo non incluso e in pratica “obbligatorio”. Tornati a Yerevan approfittiamo dell’orario anticipato per farci lasciare in Piazza della Repubblica e visitare il Museo Storico. L’edificio ospita anche la Galleria Nazionale, la terza per importanza dell’ex URSS, ma noi preferiamo concentrarci sull’elemento locale. Il museo è molto interessante e merita sicuramente di essere visitato. Al piano terra s’inizia subito con pezzi magnifici, circondati da tappeti ottocenteschi dai disegni stilizzati. Le spiegazioni sono solo in armeno ma per fortuna la custode ci fornisce qualche indicazione. Ammiriamo una khatchkar del XIII sec. Proveniente da Goshavank (Dilijan) con intrecci finissimi che accompagnano la classica rappresentazione, dal basso in alto, di un disco, una croce e la trinità. Seguono due porte lignee. La prima del XII secolo, proveniente da Sevan, presenta una croce circondata da un fitto intreccio; la seconda del XIII secolo viene invece da Tatev. La croce è scomparsa ed è rimasto solo il disco con gli stipiti decorati da cerchi intrecciati. Proseguiamo la visita del museo ammirando un modello della cattedrale di Zvarnots a pianta circolare con tre tamburi decrescenti, una cintura d’argento cesellato, uno stendardo con ricami dorati (l’agnello al centro, gli angioletti intorno), paramenti sacri con ricami. Una testa di bronzo, con un cappello frigio dai cui spuntano capelli fluenti, mi sembra rappresentare Alessandro Magno ma una custode mi dice che si tratta di Anaid (chi sarà mai!?). Una meravigliosa coppa d’argento è decorata da quattro fasce che rappresentano leoni, scene di battaglia, spade e altri leoni. Una vetrina espone un elmetto a punta e un bello scudo con processioni di animali (leoni con la coda sollevata, animali con le corna). Completiamo la visita del piano terra con alcuni braccialetti d’oro con due teste alle estremità, figurine di guerrieri con scudo e lancia, piccole bighe e personaggi itifallici. Il museo continua al piano superiore e ci dobbiamo affrettare poiché si avvicina l’ora di chiusura. Nell’ultimo tratto sono pedinato da custodi seccatissimi che aspettano solo il mio passaggio per spegnere tutte le luci. L’esposizione è dedicata alla storia dell’Armenia e procede in ordine cronologico ma erroneamente iniziamo la visita dall’ala di destra. Alcune sale sono dedicate ad Ani, la vecchia capitale oggi beffardamente appena oltre il confine turco. S’inizia con un bel leone di pietra, proseguendo con un plastico del sito. Foto in bianco e nero, precedenti alla prima guerra mondiale, ritraggono le chiese antiche e la cinta muraria. Alcune anfore hanno la forma di donne stilizzate con un foro nel mezzo; la saliera del ristorante Caucasus ieri riprendeva questa forma, oggi tanto cara ai fabbricanti di souvenir. Passiamo al periodo del Regno di Cilicia (1080-1375), lo stato armeno che per secoli costituì una “patria alternativa” sul Mediterraneo. La mostra è interessante per ricostruire la storia del paese. La divisione tra Armenia Orientale e Occidentale risale alla spartizione tra Turchi e Persiani. Nel settecento una rivolta fallì per il mancato aiuto finale dei russi ma nell’ottocento i russi sconfissero i persiani e l’Armenia Orientale passò sotto lo zar mentre quella occidentale rimase sotto l’impero ottomano. Sulle scale una sezione espone una serie di cartine, copie da originali sparsi nei musei e nelle librerie di vari paesi. Curiosa una mappa del Paradiso Terrestre con tigri ed elefanti. L’ala sinistra, dedicata ai reperti più antichi, inizia con un faccione con occhi e naso stilizzati (III-II millennio a.C.). Si prosegue con il meraviglioso carro ligneo di Lchasen (XV-XIV sec. A.C.). A quei tempi i re venivano sepolti in carri, con le ruote simbolo del sole; nella sala sono esposte anche sculture di bronzo, un arco e delle frecce. Quando raggiungo alla fine una gigantesca ruota in pietra, proveniente da Artashat (IV-II sec. A.C.), la pazienza dei custodi è ormai al limite. Per cena scegliamo il Beirut, dall’ottima cucina libanese (humus e falafel per Stefania, prosciutto affumicato e kebab di agnello per me). Mercoledì 20 giugno: Yerevan – Alaverdi – Yerevan La giornata è dedicata all’escursione ai monasteri nella valle di Alaverdi, nel nord del paese. Questa volta ci affidiamo ai mezzi locali, ai “famosi” marshrutka, i minibus che hanno soppiantato gli autobus. A Yerevan partono da diversi punti, a secondo delle destinazioni, ma per fortuna l’efficiente ufficio del turismo è in grado di fornire tutte le informazioni. La mattina presto una passeggiata attraverso una città deserta ci porta vicino al bazar, sul lato opposto alla cattedrale, punto di partenza dei minibus per Alaverdi. L’autista del nostro marshrutka è molto preso dal suo ruolo di comando. Il volto serio da duro non si abbandona mai a un sorriso. Avventatamente chiedo se ci possiamo sedere davanti, dato che manca ancora mezzora alla partenza e il minibus è vuoto, ma veniamo confinati dietro. Abbiamo trovato facilmente il marshrutka diretto ad Alaverdi nonostante i tassisti dicevano che non ci fossero e che potevano portarci loro. Nell’attesa mi rinfranco a un chiosco con un denso Nescafè; i clienti ringraziano in russo con “spasiba”. Il bigliettaio sfoggia un mignolo con unghia prominente. Il minibus è pieno, quando puntuali alle nove partiamo. I miei tentativi di attaccare bottone con la vicina sono inutili. Sfoglio la guida recitando ad alta voce il frasario, guardo foto e cartine ma non posso vincere la concorrenza di un cellulare! Viaggiamo verso nord. Poche campagne coltivate si alternano a verdi prati con macchie di fiori viola e gialli; carcasse di macchine giacciono nei prati a lato della strada. Semplici “roulotte”, sorta di casotti di lamiera montati su ruote, ospitano allevatori di api, con le cassette che fungono da arnie allineate intorno. Superato il passo che segna il confine con la regione di Lori, la strada scende in tornanti tra un paesaggio di montagne verdissime. Ci fermiamo subito per una sosta, raggiungendo poi il paese di Spitak epicentro del tremendo terremoto del 1988. Dopo avere sfiorato l’abitato di Vanazdor, terza città del paese, finalmente c’infiliamo nella gola del Debed, meta della nostra escursione. Dal minibus non si riesce a vedere molto; la ferrovia corre a fianco del fiume mentre la strada prima è alta sulla gola boscosa, poi scende fiancheggiando le acque limacciose. Il bel paesaggio è deturpato dalle opere dell’uomo, compresi molti ponti arrugginiti. Arrivati a destinazione ad Alaverdi veniamo subito agganciati un tassista che si offre di accompagnarci ai monasteri. Il giro classico si limita ai due monasteri più celebri ma noi vogliamo visitare anche gli altri che sorgono lungo la valle e ci accordiamo quindi per 9000 dram. Miscia, tutto felice per il grosso guadagno che si prospetta, parte subito spingendo la sua Lada a tutta birra. Proseguiamo verso il confine con la Georgia, deviando poi sulla sinistra lungo una strada disastrata che segue la gola scavata da un affluente del Debed. Il monastero di Akhtala è poco visitato e infatti siamo soli. La chiesa presenta invece gli affreschi più belli di tutta l’Armenia. Il monastero collocato su un alto costone è protetto da imponenti fortificazioni poiché in passato svolgeva anche il ruolo di fortezza. La sua posizione è affascinante ma per apprezzarla bisogna distogliere lo sguardo dalla mostruosa pozza di fango, prodotta dalla vicina miniera di rame. Dentro la fortezza sorge la chiesa principale, dedicata alla Madre di Dio e costruita nel duecento quando i principi georgiani liberarono l’Armenia dalla dominazione islamica. Si tratta pertanto di una basilica “ortodossa” a tre navate con cupola, preceduta da un portico con due arcate. L’interno è ricchissimo d’affreschi appena risistemati dopo un lungo restauro. Nell’abside una gigantesca Madonna con bambino ha perso la testa mentre sotto Gesù distribuisce il pane e il vino ai discepoli; in basso i santi indossano paramenti con croci. Nelle braccia laterali due asceti sono seduti sopra colonne, quello di destra con una lunga barba bianca. L’affresco più bello si trova però nella controfacciata: una squisita Madonna tra due angeli. Mi soffermo ad ammirare gli affreschi che coprono quasi tutte le pareti; nel braccio sinistro Gesù lascia cadere corone sui beati del Giudizio Universale. Terminata la visita, torniamo verso Alaverdi per raggiungere Sanahin e Haghpat, i due monasteri più celebri, dichiarati dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Da Alaverdi saliamo in cima alla gola raggiungendo il monastero di Haghpat. La vista spazia sulla città e il fiume in basso mentre lontano, appollaiato sulla gola, si scorge il monastero di Sanahin. La chiesa principale dedicata alla Santa Croce è l’edificio più antico di Haghpat, costruito poco prima del mille; gli altri furono aggiunti in seguito conferendo al complesso l’attuale aspetto “disordinato”. Il sito, affollato di turisti, è un trionfo della pietra ma la giornata nuvolosa e il basalto delle costruzioni rendono il colpo d’occhio un po’ cupo. Sulla facciata posteriore della Santa Croce due personaggi, uno con l’elmo l’altro con il turbante, reggono un modellino della chiesa. L’interno è preceduto dal gavit ed è dominato dalla cupola. Un altro gavit insolitamente isolato sorge a nord della cattedrale; nel passaggio tra le due costruzioni si trova una magnifica khatchkar in pietra rosa con tracce di colore: in alto Dio retto da due angeli, sotto la crocifissione affiancata da due donne e due uomini tutti con l’aureola. Le due chiesette di San Gregorio e della Madre di Dio completano l’insieme. Dietro la chiesa principale sorge la torre campanaria dall’aspetto particolare a tre livelli: il piano terra è a croce greca, il primo rettangolare ma con gli angoli “tagliati”, l’ultimo è una loggia retta da sette colonne. Molto bello è anche il refettorio con il magnifico soffitto costituito dall’intersezione di archi sorretti da coppie di colonne. Per raggiungere il monastero di Sanahin da Alaverdi si può utilizzare una funivia, sulla quale non mi sentirei molto sicuro, ma noi risaliamo in cima alla gola in taxi. Superato un quartiere di palazzoni sovietici, in uno dei quali abita il tassista, raggiungiamo il monastero, contemporaneo a quello di Haghpat e realizzato nello stesso stile. Il complesso, con la pietra suggestivamente ricoperta di muschio, è caratterizzato da due chiese poste una a fianco all’altra, ciascuna preceduta da un gavit costruito due secoli più tardi. Il gavit della Santa Madre di Dio è una sala a tre navate, con basse colonne che reggono tre tetti spioventi mentre all’esterno è aperto su sei archi. Il gavit del Santo Redentore ha quattro alti pilastri con basi e capitelli decorati da rilievi con teste di animali, frutta e disegni geometrici. Tra gli altri edifici spicca la libreria con una cupola formata da ottagoni retti da grossi capitelli addossati alle quattro pareti e decorati con bassorilievi astratti. Sulla facciata posteriore della chiesa del Santo Redentore ritrovo un bassorilievo con due personaggi che reggono un modellino della chiesa come ad Haghpat. Un pittore è intento ad immortalare uno scorcio suggestivo. Ridiscesi fino ad Alaverdi, ci dirigiamo verso sud in direzione di Vanadzor. Lasciato il fondovalle, prendiamo una strada che si arrampica fino al pianoro che sovrasta la gola, raggiungendo Odzun. Nel paese sorge una bella basilica (VIII sec.); sormontata da cupola, presenta su un fianco una specie di galleria aperta ad archetti. Dopo tanto basalto la pietra rosa con cui è costruita rappresenta una piacevole novità. L’interno a tre navate slanciate, le due laterali strettissime, ricorda le cattedrali del nord Europa. Nel giardino circostante si trovano un paio di curiosità: un pozzo “marchiato” con falce e martello e un curioso monumento funebre risalente addirittura al VI secolo. Sopra una piattaforma sorgono due steli di pietra alte e strette, due specie di minuscoli obelischi collocati tra due archi. Nel piccolo parco giochi i bambini schiamazzano allegramente e il nostro passaggio suscita subito il loro interesse. Per raggiungere la prossima tappa, ridiscendiamo a valle e continuiamo verso Vanadzor. Il tassista si ferma davanti a un basso ponte della ferrovia e ci dice di attendere. Dopo qualche minuto compare in compagnia di un bambino che ci farà da guida fino alle rovine di Kobayr. Attraversato un gruppo di case circondate da giardini, risaliamo per una decina di minuti il costone della montagna. Il monastero di Kobayr come quello di Akhtala risale al duecento, all’epoca dei principi georgiani. Il complesso è ridotto a una serie di suggestive rovine e un gruppo di operai è al lavoro per effettuare i necessari restauri. Una parte è franata nella gola ma un’abside senza tetto e alcune pareti hanno resistito; sono tutte coperte da affreschi di stile georgiano, purtroppo parzialmente nascosti dalle impalcature. Il nostro piccolo accompagnatore ne approfitta per accendere una candela in una cappella sopravvissuta alle ingiurie del tempo; si è meritato una mancia. Al ritorno regala a Stefania un bel fiore. Ormai la nostra visita dei monasteri della valle del Debeb è terminata e in taxi dovremmo tornare ad Alaverdi per prendere il minibus delle cinque per Vanazdor ma, com’era facile immaginare, Miscia si offre di accompagnarci fino a Vanazdor. Ci accordiamo quindi per un’integrazione al prezzo e la gita alla fine ci costa 14000 dram. Lungo la strada dobbiamo fare rifornimento di gas e ci fermiamo in uno spiazzo dove un gigantesco camion funge da distributore! Arrivati in città si scatena un nubifragio e riusciamo a prendere al volo il minibus delle cinque per la capitale. Questa sera alla Cascata di Yerevan è previsto un concerto per raccogliere fondi nella lotta contro l’AIDS. La scalinata, rallegrata da fiori, è gremita di gente e forma un bel colpo d’occhio. Gli artisti si avvicendano sul palco sistemato proprio davanti. In onore alla serata l’Ararat decide finalmente di concedersi alla vista. Salendo sulla scalinata si può ammirare la sua mole che si staglia sopra i condomini della città. Al tramonto le nuvole sparse in cielo “arrossiscono” accrescendo la suggestione della visione. Ceniamo ottimamente in un caffè vicino all’Opera. Giovedì 21 giugno: Yerevan – Dilijan – Yerevan I minibus per Dilijan partono dalla Stazione Nord, alla periferia di Yerevan. Due corse con i marshrutka 17 e 101 ci portano a destinazione. Nella stazione regna una calma da paese nordico. Le poche banchine recano addirittura le targhe con le destinazioni. Non ci sono bancarelle e l’unica soluzione per un caffè è un negozietto dove è in corso un’accesa discussione tra moglie e marito per la preparazione del lavash (lui ha preparato l’impasto in un grosso catino). Fino a Sevan ripercorriamo la stessa strada della gita organizzata, proseguendo poi verso nord lungo il lago; la giornata soleggiata ci consente di apprezzare le placide acque azzurre circondate da verdi colline. La strada, abbandonato il lago, prosegue infilandosi in un lungo tunnel di recente costruzione, e conduce nella regione del Tavush. Il paesaggio cambia completamente, con montagne coperte di boschi. Una lunga successione di tornanti porta in discesa fino a Dilijan. Scesi dal minibus subito ci viene incontro un anziano tassista con il quale ci accordiamo per una gita ai due monasteri di Haghartsin e Goshhavank al prezzo di 7000 dram. Dopo le corse sfrenate di ieri, il driver di oggi è tranquillissimo, anche perché la sua vecchia auto non consente più di tanto. Per raggiungere il monastero di Haghartsin procediamo una decina di chilometri oltre la città, piegando poi per una strada che s’infila tra fitte foreste. La bellezza del monastero risiede, oltre che nella sua architettura, proprio nella posizione in mezzo agli alberi, ben diversa dalle tristi situazioni di ieri ad Alaverdi. La maggior parte degli edifici risale al duecento. Iniziamo la visita con il vasto refettorio, diviso in due parti da archi. Il soffitto è bellissimo: dalle basse colonne partono dei costoloni ogivali, grandi arcate che formano una griglia. La chiesa più antica dedicata a San Gregorio risale al X secolo ed è una piccola croce greca; vi si accede dal gavit salendo dei gradini. La piccola cupola da un’impressione d’antichità con le pietre poggiate una sull’altra. Nel gavit è in corso una cerimonia. L’officiante spalma un unguento sul petto e la schiena di un ragazzo, poi gli allaccia una collanina e infine poggia una croce sulla testa sua e del padrino (?). La cerimonia procede in modo molto informale e termina con il bacio del crocefisso da parte dei fedeli. La chiesa della Madre di Dio con la sua alta cupola è più grande ma meno suggestiva. Dietro le costruzioni, un nodoso albero di noce ha più di 700 anni. Un edificio senza tetto è utilizzato come forno e ne approfittiamo per acquistare il pane appena sfornato dalle donne. Lasciato il monastero, ci fermiamo subito per ammirare alcune khatchkar, finemente decorate. La più bella ha una gran croce centrale e due più piccole negli angoli in basso, rette ciascuna da una mano Una piccola cappella con volta a botte presenta un ingresso sormontato da un’unica grossa pietra che funge da lunetta. Il posto è magico con una natura incontaminata. Il panorama sul monastero in mezzo al bosco meraviglioso. Per raggiungere il successivo monastero, torniamo fino alla strada per Ijevan e proseguiamo per un tratto deviando poi per Gosh. Il monastero di Goshhavank, fondato alla fine del XII secolo, sorge su una collinetta proprio al centro del paese; per questo mancano del tutto le solite opere difensive. Dal parcheggio colpisce l’affollato insieme di chiese e cappelle. La chiesa principale è la Madre di Dio, preceduta come sempre da un vasto gavit. L’ambiente più interessante è la libreria con la torre campanaria. L’interno è particolare: una croce greca dalle corte braccia, con bifore e cupoletta ottagonale. Dal foro centrale pende una corda appesa al tetto a cuspide rifatto in plastica trasparente. L’intreccio di archi e la volta a botte mi impressionano notevolmente. A fianco della chiesa principale, una piccola cappella con archetti ciechi ha un aspetto quasi rinascimentale. Tra i vari edifici spiccano bellissime khatchkar; una in particolare presenta un intreccio di ricami che avvolge in basso un disco dall’aspetto di uno scudo e sopra una croce con due decorazioni (stile logo della Thai) per ogni punta delle braccia. Il suo autore Poghos è stato meritatamente soprannominato il “ricamatore” (un’altra sua croce si trova al museo storico di Yerevan). Terminata la visita, facciamo una breve passeggiata attraverso il paese mentre il nostro tassista ci aspetta seduto in mezzo a una numerosa compagnia. Raggiungiamo l’antico cimitero, dove un asino e un cavallo sono stati “parcheggiati” tra le tombe in rovina. Due bambine un po’ smorfiose ci si fanno incontro, meritandosi la caramella che mi avevano regalato al piccolo museo del monastero. La più intraprendente ha i capelli biondi e si chiama Svetlana; sarà forse russa? Tornati a Dilijan, ci dedichiamo alla sua esplorazione. Nonostante sia definita la “cittadina più bella dell’Armenia”, non c’è nulla da vedere, a parte apprezzare le boscose montagne che racchiudono la valle. Raggiungiamo la piazza centrale, con il palazzo della posta e una fontana. Il museo all’aperto è chiuso per lavori che durano da anni ma riusciamo ugualmente a dare un’occhiata. Gli operai stanno sistemando una serie di casette di pietra in stile tradizionale (niente di particolare s’intende!). Vicino alla fermata dei bus, si trova un monumento retaggio dell’era sovietica, una sorta di obelisco con quattro punte; simboleggia l’amicizia delle tre repubbliche caucasiche sotto l’egida della Russia. Visto quello che è successo dopo il crollo del comunismo, l’opera appare grottesca! Yerevan è una città piena di vita e anche questa sera sono previsti una serie di eventi, in occasione della festa della musica Parigi – Yerevan. Per prima raggiungiamo l’opera dove si tiene un concerto gratuito; sul palco si alternano un paio di direttori d’orchestra e una cantante lirica dalla bella voce. Terminata la performance, ci spostiamo in Piazza Aznavour dove è in corso un concerto, con un gruppo locale che suona successi del rock internazionale. Concludiamo la giornata con una buona cena al Lagonite dove assaggio anche il famoso brandy armeno, un bicchiere di Ararat cinque stelle. Venerdì 22 giugno: Yerevan – Khor Virap – Noravank – Yerevan La giornata è dedicata alla gita a Khor Virap e Noravank, organizzata dalla Sati Tours (9000 dram pax). La mattina trovare un posto per fare colazione, senza ricorrere al solito Gusto, è un’impresa. Gli armeni fanno colazione a casa e la città comincia ad animarsi solo in tarda mattinata, anche per il fuso spostato verso oriente. Alla fine dobbiamo ricorrere a Peppino, altro locale d’ispirazione italiana situato su Mashot Masrots vicino all’ufficio della Sati. Alle dieci scopriamo di essere gli unici iscritti alla gita! Saremo accompagnati, oltre che dall’autista, da Gayane, la ragazza che ci farà da guida, e da una sua amica apprendista. Lasciamo Yerevan viaggiando verso sud lungo l’ampia valle del fiume Arax, attraversando la regione dell’Ararat. Il cielo è coperto ma le due vette del monte dove si arenò l’arca di Noè, il Sis e il Masis, non si negano alla vista. Il monastero di Khor Virap sorge su una collinetta, dominata dall’imponente massa. Il luogo è molto caro agli armeni perché per più di dieci anni vi fu tenuto prigioniero, rinchiuso in fondo a un pozzo, San Gregorio l’Illuminatore. Il santo riuscì poi a convertire il re Tiridate III, trasformando l’Armenia nella prima nazione cristiana. Il monastero è affollato da visitatori e tutti si affrettano a scendere la scala che conduce in fondo al pozzo. La chiesa, rifatta nel seicento, è meno bella di altre ma la posizione del monastero sotto l’Ararat è affascinante. Ripartiamo, proseguendo verso sud. Gayane, oltre l’inglese, conosce anche l’italiano (è la sua seconda lingua straniera, senza considerare il russo che parlano tutti) ed è contenta di esercitarsi con noi. Ci parla della difficile situazione del paese, con il problema della forte disoccupazione. Lungo la strada notiamo diversi nidi di cicogne. Raggiungiamo grossi bacini utilizzati per l’allevamento del pesce mentre nella valle compaiono alberi da frutta e vigneti. Attraversiamo il paesino di Armash; Gayane ci spiega che è popolato da armeni fuggiti da Istanbul. Finite le coltivazioni il paesaggio si fa più brullo e ci dirigiamo verso montagne rocciose che assumono un colore rossastro. La strada in salita si arrampica verso il passo che conduce nella regione del Vayots Dzvor. Ogni tanto da qualche tornante si scorge la cima innevata dell’Ararat. La strada è in buone condizioni, come la maggior parte delle principali del paese (discorso completamente diverso per quelle secondarie spesso disastrate e piene di buche). In cima al passo, macchie di fiori viola rallegrano i verdi prati. Attraversiamo il paese di Chiva (in armeno “senza dolore”) ricostruito nella posizione attuale dopo un terremoto; le case sono avvolte nel verde degli alberi. Dopo un tratto di brulle distese con rosse montagne sullo sfondo, ecco il paesino di Areni, con una bella chiesetta del XIII secolo appollaiata in alto. Poco dopo deviamo a destra scavalcando il fiume Arpa e infilandoci in uno stretto canyon che segue per nove chilometri il corso dell’Amaghu. Pareti verticali di roccia racchiudono la macchia verde degli alberi intorno al ruscello. Finalmente sulla sinistra appare alto il monastero di Noravank. Costruito in pietra rossa, è collocato tra montagne dello stesso colore che sovrastano verdi prati. Dopo il cupo basalto dei monasteri del nord, la giornata di sole accompagna il trionfo del colore. Il complesso risale al XIII-XIV secolo, all’epoca in cui i principi Orbelian provenienti dalla Georgia riuscirono a liberare il paese dal sultano. Il pianoro, come sempre racchiuso da mura, è caratterizzato da due chiese principali. La prima, dedicata alla Madre di Dio, presenta la particolarità di essere costruita su due piani: quello inferiore è rettangolare ed era utilizzato come camera sepolcrale, quello superiore ha una pianta a croce sormontata da cupola, collocata in modo leggiadro e insolito sopra colonne invece che su un tamburo, e costituiva la chiesa vera e propria (per entrarvi bisogna arrampicarsi sugli stretti gradini collocati sulla facciata). Il timpano sopra la porta raffigura la Madonna in trono tra due angeli con il Bambino tra le braccia. La seconda chiesa dedicata a San Giovanni Battista, presenta la classica struttura preceduta dal gavit. La facciata questa volta ha addirittura due timpani, separati da una finestra, scolpiti da Momik. Quello superiore rappresenta Dio mentre con la mano destra benedice e con la sinistra tiene una testa (secondo Gayane si tratta di Adamo ma potrebbe anche essere San Giovanni Battista); completano la lunetta a destra una piccola crocifissione, a sinistra un serafino. Il secondo timpano raffigura di nuovo la Madonna con il bambino in braccio tra un intreccio di decorazioni. Le sculture sono molto belle, come anche alcune khatchkar opera sempre di Momik. All’interno il gavit è ricco di croci e iscrizioni mentre il secondo ambiente si raggiunge salendo alcuni gradini A fianco della chiesa sorge la cappella di San Gregorio, utilizzata come camera sepolcrale per i principi Orbelian. Il pavimento è pieno di lastre tombali tra cui una nella quale la figura del defunto ha le sembianze di un leone. Il monastero con la sua pietra rosa è incantevole, il più bello tra i tanti visitati, e, dopo i piaceri dello spirito, consente di godere anche quelli del palato: nel ristorante annesso consumiamo, infatti, un ottimo pranzo, incluso nel prezzo della gita, a base di una ricca insalata con formaggio di Lori (tipo feta), madzoon (yogurt), kebab, patate arrosto e caffè. Seduti al tavolo in cinque, non sembra di partecipare a un tour organizzato ma a una gita con gli amici. Tornati ad Areni ci rechiamo a visitare un’azienda vinicola. La regione è la principale produttrice di vino del paese ma l’impossibilità di portare liquidi in aereo (abbiamo solo bagaglio a mano) ci costringe a limitare gli acquisti a una sola bottiglia di rosso che consumeremo prima di lasciare Yerevan. Sulla strada di ritorno visitiamo il museo dedicato a Sevak, il poeta contemporaneo più amato dagli armeni, morto in un incidente d’auto nel 1971, proprio lungo la strada che stiamo percorrendo Nei giardini si trova la sua tomba segnalata da una gran roccia coperta di fiori, mentre nel museo un murales copre tutta una parete. Sono rappresentate scene tragiche del genocidio con i turchi nei panni di carnefici e immagini del pensieroso “poeta maledetto”. Mentre attraversiamo il paese di Chiva compare un pezzo minuscolo d’arcobaleno. Ci fermiamo in un’officina; gli uccelli hanno costruito il loro nido sotto una trave del soffitto. Ormai il cielo si è aperto e la visione del monte Ararat ci accompagna fino alla capitale. Tornati a Yerevan e salutati i simpatici compagni di una giornata, raggiungiamo la moschea, situata lungo Mashot Masrots. L’edificio è rallegrato da maioliche colorate e un bel giardino, anche se le foto dei mullah iraniani sono un po’ inquietanti. Sull’altro lato della strada sorge il mercato alimentare, ospitato in un edificio con una gigantesca cancellata. Su molte bancarelle fa bella mostra di sé la frutta fresca; frettolosamente, senza ascoltare Stefania, decido di acquistarne un po’ al primo banco all’ingresso che provvede a spennarmi per bene. Ceniamo anche questa sera in un caffè nella piazza dell’Opera. Sabato 23 giugno: Yerevan – Ejmiatsin – Yerevan La mattina è dedicata alla visita di Ejmiatsin e dintorni. Una veloce corsa in minibus, dalla fermata nei pressi di Mashot Masrots, ci conduce a destinazione. Subito vistiamo il “vaticano armeno”, la Santa Sede del Katholikos capo della chiesa nazionale, un complesso di edifici racchiuso da mura. Nel 2001 l’Armenia ha festeggiato 1700 anni dalla conversione al cristianesimo e per l’occasione è stata costruita la struttura grigia dalla quale papa Giovanni Paolo II celebrò la messa. Nel piazzale davanti sono allineate khatchkar provenienti da tutto il paese; non potevano mancare nel centro della religiosità nazionale. La prima cattedrale era molto antica ma ciò che si vede oggi risale alle ricostruzioni del seicento. La facciata è dominata dal campanile a tre livelli. Gli archi aperti gli conferiscono un aspetto movimentato mentre le decorazioni a bassorilievo ne ingentiliscono l’aspetto; insieme alla torre centrale ottagonale con copertura a punta forma un bello scorcio. Entrando nella chiesa incrociamo i fedeli che escono camminando all’indietro per non dare le spalle a Dio, non prima di avere baciato la porta. L’interno è freddo con il pavimento di marmo e le decorazioni eccessive dopo i tanti monasteri medievali visitati. Gli affreschi sono colorati ma cupi, con motivi decorativi astratti che conferiscono alla chiesa un aspetto da art noveau d’inizio novecento. Il tesoro purtroppo è chiuso; non possiamo quindi nemmeno visitare i resti del tempio pagano su cui sorge la chiesa. Anche la residenza del Katholikos è proibita ai visitatori e non ci resta che lasciare il complesso e spostarci nella vicina San Gayane. Il suo interno basilicale è slanciato e, in contrasto con la Santa Sede ci riporta alla semplicità della pietra nuda. La chiesa risale al VII secolo; nei giardini si aggirano le monache tornate da qualche anno, mentre sullo sfondo incombe la massa del monte Ararat. Per visitare i dintorni ricorriamo al solito taxi, facendoci prima accompagnare a San Hripsime, altra splendida chiesa di Ejmiatsin. Il nudo interno è dominato dall’imponente cupola che fa sembrare l’ambiente unico. Da una stanza angolare si scende al luogo di martirio della santa e alla sua tomba (la monaca fuggì da Roma solo per essere perseguitata anche in Armenia dal re Tiridate III). Tornato all’esterno osservo come la cupola si trasforma in un tamburo a 16 lati e la chiesa assume il tozzo aspetto di un fortilizio. La sua costruzione risale al VII secolo e l’edificio è giustamente considerato uno delle gemme dell’architettura armena. Una nuova corsa in taxi ci porta, a pochi chilometri dalla città, alle rovine della basilica di Zvarnots. La chiesa dedicata a San Giorgio fu costruita nel VII secolo e aveva una pianta circolare, formata da tre anelli concentrici. Era una chiesa bellissima ma, distrutta da un terremoto nel 930, fu dimenticata per secoli. Oggi sono state rialzate alcune colonne con capitelli tozzi ma affascinanti; quelle dell’abside verso l’Ararat sono le uniche che sorreggono ancora degli archi formando una sorta di loggia circolare che incornicia il monte sullo sfondo, con la cima innevata che si erge sopra una striscia di nuvole. Girando tra le rovine non può sfuggire un gigantesco capitello decorato con un aquila. Intorno alla chiesa si trovano i resti di altri edifici, inclusi il torchio e le giare utilizzate da un’azienda vinicola medievale. Lo scorcio più bello rimane, in ogni caso, quello delle colonne che si stagliano sullo sfondo del monte Ararat. L’ultima tappa del nostro tour è il museo di Metsamor. Per raggiungerlo ci spingiamo in prossimità di un’inquietante centrale nucleare, attraversando paesi pieni di nidi di cicogne. Naturalmente siamo gli unici visitatori del museo che sorge isolato sopra una collina dove è stata scoperta una cittadella dell’età del bronzo. Nelle tombe sono stati trovati i reperti (risalenti fino al 2000 a.C.) conservati nel museo. Davanti all’ingresso un gruppo di alte pietre ha un chiaro significato fallico. L’esposizione comprende alcuni bei vasi decorati con alci e disegni geometrici, corredi funerari e collanine di pietre. Terminata la visita in poco tempo, un custode ci fa segno di seguirlo e ci conduce prima alla ricostruzione di una tomba e poi in una sala blindata dove sono conservati alcuni splendidi pezzi. Iniziamo con gioielli d’oro che risalgono al XI –IX secolo a.C., proseguendo con anelli con pietre colorate incastonate in stelle d’oro e una collana con anelli d’oro e pietre. Il pezzo forte è costituito da una minuscola rana “pezzata”, bianca e scura, fatta d’onice e agata. Ecco spiegata la grossa rana dorata con iscrizione cuneiforme su dorso e zampe che avevamo osservato al piano superiore (si tratta di una riproduzione moderna). Nelle vetrine della sala blindata ammiriamo altri bei reperti: un cilindro di pietra rossa con la rappresentazione di un’offerta da parte di un uomo a un Dio/re seduto, una collanina d’oro con un pendente a forma di ruota. Chiudiamo in bellezza con due meravigliose lamine d’oro (XI-IX sec. A.C.) che raffigurano leoni con criniera che recano una svastica sul dorso. Passiamo quindi alla visita, sotto un sole cocente, del sito archeologico: sopravvivono scarsi resti di mura e di un antico osservatorio astronomico. Tornati a Yerevan ci rechiamo a visitare Matenaradan, la biblioteca giustamente famosa per i suoi manoscritti. Alla base dell’imponente edificio una statua raffigura Mashots intento ad insegnare a un discepolo l’alfabeto armeno. In una sala sono esposti pochi pezzi, rispetto a quelli posseduti dalla biblioteca, ma sufficienti per apprezzare il valore della collezione. Il Vangelo Lazariano è il più antico dell’Armenia (887). Le opere miniate sono tante e splendide. Ecco Gesù e un re cristiano seduti su due troni uno di fronte all’altro mentre un piccolo arabo con turbante s’inginocchia davanti a loro. Due cantori popolari, un uomo e una donna suonano antichi strumenti; la rappresentazione è molto delicata con l’uomo che siede davanti a un albero con un bel uccello. Un santo predica alla folla tra la quale si distingue un cinghiale con il mantello! Una storia di Alessandro il Grande reca scene di cavalieri. Una curiosità è costituita da una vetrina che accosta il libro più grande, diviso in due durante il genocidio per poter essere trasportato, e quello più piccolo, un minuscolo calendario ecclesiastico. Un vangelo da Ejmiatsin del 989 reca una bellissima copertina d’avorio decorata da bassorilievi (VI secolo): al centro la Madonna con il bambino, intorno scene dell’infanzia Gesù. Nella raccolta non mancano manoscritti provenienti da altri paesi: uno siriano, alcuni arabi, rotoli ebrei, manoscritti etiopi, indiani su foglie di palma, dal Giappone e dalla Russia. Questa notte Stefania torna in Italia e per la nostra ultima cena ci rechiamo a “barbecue street”, così chiamata dalle guide per la successione di locali che cucinano la carne alla griglia. La situazione tuttavia sembra cambiata rispetto al passato e in giro non si vede quasi nessuno. Ceniamo in una “saletta privata” di un piccolo locale a conduzione familiare ma il BBQ con carne e verdura non è niente d’eccezionale. Domenica 24 giugno: Yerevan – Sisian Questa notte Stefania è partita per il viaggio di ritorno in Italia. Da oggi quindi sono da solo. La mattina alle sette Yerevan è il solito deserto; raggiungo Mashot Masrots dove un taxi, guidato da un autista dall’aspetto indiano, mi conduce alla stazione centrale dei bus. La Kilikia Station è piena di minibus ma regna una notevole calma. Il marshrutka per Sisian è già al suo posto nonostante sia in largo anticipo ma naturalmente sono il primo passeggero. Ogni mezzo sul parabrezza reca un cartello con la destinazione e la scritta Sisian in armeno è facilmente riconoscibile (mi sono preparato in anticipo!). Intorno a un marshrutka c’è una certa animazione ma il cartello con la destinazione mi lascia incerto. Scopro che si tratta di Tbilisi in cirillico; l’Armenia è una vera Babele linguistica! Faccio colazione con un caffè freddo e il solito fagottino al formaggio. Nella stazione tutta l’attività si svolge nel piazzale mentre il grande edificio è deserto con le saracinesche abbassate. Nell’attesa l’autista, dai capelli bianchi in contrasto con i folti ciglioni neri, incuriosito mi chiede di sfogliare la guida dell’Armenia che sto consultando. La partenza sarebbe alle otto e mezzo ma il minibus si riempie più tardi e ci muoviamo solo alle nove. Ancora una volta le due cime innevate dell’Ararat, il Sis e il Masis, accompagnano il mio viaggio verso sud. Dopo i primi giorni nuvolosi durante i quali si era negato alla vista, ora il monte si concede in tutta la sua maestosità (si leva per più di 5.000 metri sul livello del mare sopra la valle dell’Arax alta solo 900 metri). E’ incredibile pensare come sia irraggiungibile per gli armeni poiché la frontiera è chiusa. In viaggio gli armeni sono molto riservati e nel minibus non parla nessuno, come già successo in altri tragitti. Ormai i meccanismi dei viaggi in marshrutka mi sono diventati chiari: i posti davanti spettano a donne e bambini e lo straniero, anche se solitario, non gode di nessun privilegio come è giusto che sia. I contadini sono al lavoro nei campi della valle, vegliati dalla maestosa montagna; qua e là sorgono isolate torrette, segnale del vicino confine. Su una collinetta appare il monastero di Khor Virap, un pigmeo tra il Sis e il Masis. Sale una passeggera e compare un nuovo sedile: una tavoletta imbottita viene sistemata nel corridoio poggiata tra due “posti fissi”. Mi soffermo a guardare i nasi dei passeggeri: quasi tutti hanno una gobba che non stona sui loro volti, anche su quelli delle tante ragazze carine. Superata Areni seguiamo la valle dell’Arpa con il verde fondovalle racchiuso per un breve tratto tra rocce. La strada continua a correre lungo le verdi acque anche quando la valle si allarga. Dopo Yeghenazdor, capitale regionale, il cellulare dell’autista si fa “rovente”, una chiamata dopo l’altra. Alle undici raggiungiamo Vaik con una chiesa moderna e casermoni sovietici. Facciamo una sosta e poi ripartiamo continuando a seguire l’Arpa, diventato ormai un ruscello pietroso circondato da alberi frondosi e prati con splendide macchie di fiori viola. Dopo il bivio per Jemuk inizia una nuova salita. Prima del passo il paesaggio si fa ancora più verde con vasti prati e qualche macchia scura di alberi. I fiori sono di tutti i colori; più in alto rare chiazze di neve. In lontananza un piccolo cavaliere solitario. Continuiamo a salire; il bus arranca lento sui tornanti. Al passo una “porta” segna l’ingresso nella regione del Syunik, la più meridionale dell’Armenia, che si spinge fino al confine iraniano. Subito si scorge un vasto lago artificiale; circondato da verdi colline, mi ricorda il Lago Bianco della Mongolia. Due vecchiette si riparano all’ombra della carcassa arrugginita di una macchina cappottata; poco dopo un pastore a cavallo con la scoppola accompagna le mucche al pascolo bloccando la strada. All’una arriviamo a destinazione a Sisian, situata poco a sud della statale che continua fino a Goris e al Nagorno Karabah. Il minibus mi lascia nel piazzale davanti al ponte sul fiume, dal quale raggiungo subito l’Hotel Lalaner. Naturalmente non c’era bisogno di prenotare la stanza tramite la Hyur Service, visto che sono l’unico ospite. L’ingresso principale è chiuso, come anche il ristorante, e si entra dalla porta posteriore. In compenso l’interno è moderno e allestito con “certe pretese”. E’ domenica e Sisian appare deserta. La piazza principale, dove sorge l’hotel, è tutta un cantiere con alti mucchi di terra per il rifacimento della pavimentazione. Una passeggiata mi conduce fino alla collinetta dove sorge la chiesa di Sisavank, circondata da tombe moderne con le statue dei defunti. Il luogo è di una pace estrema, allietato dallo splendido panorama offerto dalla natura: la vista spazia sulle verdi colline che circondano la città, allietate dalle chiazze blu e viola dei fiori, come se un pittore avesse lasciato cadere i suoi colori sul prato. Gli uccelli svolazzano intorno alla chiesa mentre i bambini corrono tra le croci del cimitero. L’interno, dominato dall’alta cupola, è invaso dal fumo delle candele; l’ambiente quasi unico, per le corte braccia della croce e le piccole stanze angolari, ricorda in piccolo San Hripsine di Ejmiatsin. Il suo aspetto è affascinante per la nudità della pietra scura, unica concessione i grappoli d’uva dei capitelli. La struttura è quella tipica delle chiese armene con le camere angolari che all’esterno trasformano la croce in un quadrilatero e la cupola che sporge su un tamburo di 16 lati, ingentilito da arcate cieche su coppie di colonnine. In un angolo si trovano quattro curiose microsculture: una lamina d’oro sottilissima è decorata con una croce e l’alfabeto armeno, un capello umano ha incise 17 croci, un chicco di riso la rappresentazione di una chiesa e un frammento d’avorio il brano di un poema. E’ domenica e i fedeli sopraggiungono alla spicciolata. Arriva una famiglia; il prete indossa un manto dorato per una breve cerimonia. Sopraggiungono tre giovanotti in abbigliamento casual e inizia una nuova cerimonia. Le preghiere sono intervallate da spiegazioni in modo molto informale e se non fosse per una signora che scatta foto, penserei a qualche prova generale. Il prete e i tre fedeli prima sono rivolti verso l’altare, poi gli danno le spalle, infine si spostano in una stanzetta angolare dove l’officiante tocca, con il crocefisso, le teste dei tre “cresimandi” (?). Più in basso sulla collina, un memoriale è dedicato ai caduti della guerra nel vicino Nagorno Karabah: al centro un bassorilievo con tre aquile che reggono scudi, intorno tombe ingentilite da rose di tutti i colori. Lasciata la chiesa, “torno in centro” raggiungendo il museo, naturalmente chiuso. Nel giardino si trovano diverse lastre con iscrizioni. Molte hanno la forma d’arieti: una reca una scritta dall’aspetto arabo, un’altra la raffigurazione di un cavaliere. Non mancano le solite khatchkar. Il cespuglio di rose rosse davanti al portone mi conferma che Sisian è proprio la “città dei fiori”. Vorrei dedicare il resto del pomeriggio a due attrazioni nelle vicinanze, il sito di Karahunj e la cascata dello Shaki. Torno quindi nella rotonda davanti al ponte, unico posto animato, dove le case in pietra appaiono piacevoli dopo tanto cemento (ma è meglio non affacciarsi sul fiume pieno di spazzatura). Inizio la ricerca di un taxi per la gita: ne scelgo uno parcheggiato davanti a un negozio con la scritta taxi, aprendo la trattativa sul prezzo. Il tizio si lamenta che il giro è lungo portandomi dentro il negozio per illustrarmi il percorso su una cartina. Alla fine ci accordiamo per 1600 dram ma mi dice che devo aspettare dieci minuti e se ne va con il taxi. Il tempo passa e il tipo non ricompare; mi aggiro quindi con fare incerto per la piazza finché una ragazza occidentale mi nota e decide di venirmi in soccorso. Viaggia con un gruppetto in compagnia di un’armena che subito si accorda con un altro tassista per 1000 dram. I ragazzi sono in partenza con una corriera locale per raggiungere un villaggio nei paraggi. Karahunj, soprannominata la Stonehenege armena, sorge in una verde conca circondata da colline, a pochi chilometri da Sisian. In un paesaggio molto bello, allietato da un venticello che non fa sentire il caldo, sorgono innumerevoli rocce disposte a formare un circolo da cui si dipartono varie file; al centro una tomba formata da un cumulo di sassi con un piccolo dolmen. Molte rocce presentano un foro in alto e si è dibattuto sul suo significato. Arriva un gruppo di visitatori armeni (?), guidati da una specie di professore che in inglese illustra alcune ipotesi sull’origine dei fori. Un loro utilizzo pratico per il trasporto appare improbabile perché nei blocchi più grandi sono assenti; forse costituivano una sorta d’osservatorio astronomico ma i fori non sono allineati e quindi il mistero rimane fitto. Aggirandomi tra le rocce scopro una lastra che reca scolpita una figura con le braccia incrociate sul corpo. Per raggiungere la cascata dello Shaki ripassiamo per Sisian, proseguendo su una strada bloccata dal cancello chiuso di una centrale idroelettrica. Il mio solerte tassista non si da per vinto e riesce a farsi aprire. Proseguiamo per un altro tratto fino a uno spiazzo dove ci sono altre macchine parcheggiate. E’ domenica e il posto attira molti giovani per una passeggiata all’aria aperta. Un sentiero risale un ruscello fino alla cascata più alta di tutta l’Armenia. A causa della centrale l’acqua è molto ridotta e la cascata, che ha un fronte ampio, si è divisa in sette getti, formando in ogni caso un bello scorcio naturalistico. Un pastorello fa il bagno mentre le sue pecore si riparano all’ombra. La sera procacciarsi la cena a Sisian è una vera impresa: tutti i locali segnalati dalla Lonely Planet sono chiusi e ho l’impressione di essere l’unico turista in città. Alla fine chiedendo in giro riesco a trovare un khoravatsi sul lungofiume (si tratta di locali che offrono solo semplici barbecue). Sono il solo cliente e sembrano molto sorpresi dal mio arrivo. Mi portano in cucina per scegliere la carne mentre per la verdura è sufficiente indicare quella esposta nel frigo. Due signore continuano a ridere e chiacchierare con il proprietario. Sembrano molto allegre. Sisian mi appare veramente fuori da ogni circuito turistico. Lunedì 25 giugno: Sisian – Tatev – Sisian Nel prezzo della mia camera è inclusa la colazione ma l’albergo è vuoto e così ieri sera avevo ribadito il concetto, accordandomi per le nove e mezzo visto che prima non era possibile. La mattina mi presento quindi alla reception e la signora inizia subito una serie di telefonate, apparentemente senza riuscire a prendere la linea. Alla fine si scusa dicendo che c’è stato un contrattempo; si offre comunque di prepararmi un tè e mi porta un “cake” ma la merendina italiana allo yogurt reca come data di scadenza lo scorso febbraio! La mattina è dedicata alla vista del monastero di Tatev, attrazione principale del sud armeno. Per raggiungerlo mi faccio chiamare un taxi dall’albergo, accordandomi per 6000 dram più 1000 dram per ogni ora (almeno così credo!). Raggiungiamo di nuovo la statale, proseguendo verso Goris. La Lada si lancia oltre i cento chilometri orari ma poi dobbiamo rallentare perché pieghiamo verso sud su una malmessa strada secondaria. Attraversati i paesini di Shinuhayr e Halidzor con le case disposte tra gli alberi, raggiungiamo il canyon scavato dal Vorotan. Improvvisamente appare una curiosa costruzione, una sorta di gazebo appollaiato a picco sulla gola. La vista è spettacolare. Il fiume scorre molto più in basso tra alte pareti rocciose coperte di vegetazione, in lontananza si scorge il monastero di Tatev; verdi montagne chiudono il paesaggio mentre, sotto il monastero, le acque di una cascata formano una striscia bianca. La strada prosegue in discesa, in alcuni tratti invasa da frane, fino a raggiungere il fiume in corrispondenza del Ponte del Diavolo. La leggenda racconta che un grosso macigno si staccò dalla montagna aiutando gli abitanti dei villaggi, bloccati dalle acque nella fuga dagli invasori. Ripartiamo risalendo l’altro lato della gola, con gli stretti tornanti ridotti a una pietraia. In cima si trova il paesino di Tatev ma noi puntiamo direttamente al monastero, protetto da massicce mura con torri angolari. La chiesa principale dedicata ai Santi Pietro e Paolo risale al 900 ma è stata gravemente danneggiata dal terremoto del 1931. I restauri sono stati quasi completati (manca la torre campanaria) e l’imponente gru con tanto di binari è rimasta sul posto, anche se i lavori sono sospesi da anni. L’interno della chiesa è completamente spoglio con un pavimento di marmo scuro, frutto del recente restauro, che contrasta con la nudità delle pareti di basalto. La pianta è a croce latina con una sola abside dietro l’altare. L’alta cupola, da cui pende un lampadario di ferro, è stata rifatta nel novecento come rivela il colore più chiaro delle pietre. Sono solo nella chiesa, accompagnato dal crepitio delle candele. Tornato all’esterno, sulla facciata orientale sopra le finestre due serpenti recano in mezzo un volto umano. L’alto tamburo della cupola è decorato da bassorilievi con motivi geometrici, fatto insolito in Armenia. Davanti alla piccola cappella di San Gregorio la tomba di Grigor Tatevatsi è uno scrigno con il tetto spiovente che simula le nostre tegole. Sotto la sua guida nel trecento il monastero raggiunse il massimo splendore. La colonna nell’angolo opposto, sormontata da una croce, doveva servire per segnalare i terremoti ma gli anelli di ferro che la tengono insieme sembrano indicare che non ha funzionato. Il complesso presenta vari edifici di servizio, tra cui un vasto ambiente con volta a botte e nicchie sulle pareti, forse un refettorio. La chiesetta della Madre di Dio invece sorge alta sopra l’ingresso principale. Il suo interno è un piccolo ambiente con un alto tamburo coronato da cupola. Il gruppo di turisti armeni è andato via da tempo e ormai rimangono a farmi compagnia solo due contadini intenti a falciare l’erba. Termino la visita con un’occhiata, all’esterno del complesso, a un edificio in pietra con volta ogivale, che ospita una grande macina. Sulla strada del ritorno incrociamo subito una corriera sgangherata che arranca in salita verso il paese; proseguiamo poi riattraversando i paesini dell’andata. Arrivati a Sisian propongo al tassista di saldarlo con 10.000 dram (6.000 per i chilometri percorsi e 4.000 per le quattro ore spese) ma lui ne vuole solo 8.000. Non ha capito oppure è veramente onesto. In compenso non riesco ad accordarmi per la gita del pomeriggio: l’orario delle tre e mezzo sembra andargli bene e anche il percorso ma poi comincia a dire qualcosa d’incomprensibile e ci lasciamo senza che abbia capito le sue intenzioni. Nella piazza davanti al ponte ritrovo il simpatico tassista di ieri e mi accordo con lui per la gita ad Aghitu, Voratnavank, Voratnaberd e Shamb al costo di 2500 dram. Il primo tratto fino ad Aghitu sono in compagnia di quattro armeni. I taxi devono essere molto economici per i locali che li usano per spostarsi da un villaggio all’altro. Mi scaricano davanti a una strana tomba mentre il tassista accompagna a casa gli altri clienti. Il monumento ricorda un po’ quello di Odzum e non è chiaro quale fosse la sua destinazione. Sopra un alto basamento con due ambienti aperti su archi, si leva una struttura a due livelli. Il primo presenta una colonna centrale sormontata da un capitello con volute da cui partono due archi verso i pilastri laterali; il secondo ha due colonnine dalla forma elaborata e tre archi. Proseguiamo, in un paesaggio verde ma pietroso, lungo la valle del fiume Vorotan, quando su un costone si scorge il monastero di Voratnavank. Il complesso solitario in basalto, scenograficamente collocato e parzialmente in rovina per i passati terremoti, anche senza il valore artistico di monasteri più celebri, ha un fascino notevole. Due chiese, una vicina all’altra, formano con le loro basse arcate un angolo che assomiglia a un “chiostro europeo”, prospettiva insolita in Armenia. La prima chiesa dedicata a Santo Stefano presenta, secondo lo schema classico, il gavit e la chiesa vera e propria. Il gavit ha un interno rustico con la pietra lasciata grezza. Il secondo ambiente è a navata unica con volta a botte e abside terminale; questa volta la pietra delle pareti è levigata “ad arte”. Alcuni uccelli hanno scelto la chiesa per farvi il loro nido, mentre le pareti dell’abside sono piene d’immagini di Gesù, stile poster. La semplicità del luogo è coinvolgente; non mancano due stanzette laterali. La chiesa di San Karapet ha absidi su tre lati e quattro stanzette angolari. L’ambiente è dominato dall’alta cupola; su una parete si notano tracce residue di affreschi. L’insieme delle tre absidi e della cupola è molto arioso. Attorno alle chiese sorge un cimitero con alcune belle lastre tombali, tra le quali mi colpisce la rappresentazione di un cavallo con un’ascia legata sul fianco, e tre personaggi, due uomini e una donna che regge un’iscrizione. Arrivati a un bivio, il tassista mi chiede dove andare ma io non so fornirgli indicazioni. Ci teniamo sulla sinistra, sulla sponda nord del Vorotan ma arrivati all’omonimo paese non c’è traccia della fortezza di cui parla la Lonely Planet. Proseguiamo fino a un ponte di pietra, fra maestose montagne di basalto, formate da curiosi pilastri allineati uno accanto all’altro. Un paesaggio simile lo avevo visto in Islanda dove mi avevano spiegato che è prodotto dal rapido raffreddamento di una colata lavica. Dopo un altro tratto, il fiume si allarga in un lago e passiamo sull’altra sponda, raggiungendo Shamb, segnalata dalla Lonely Planet per le sorgenti d’acqua calda. Naturalmente non so come spiegare al tassista ciò che cerco e lui si ferma in mezzo al paese, pensando che voglio fotografare chissà che cosa; quando però non mi vede all’opera ci rimane male e comincia a chiedere in giro cosa mai potrà interessare a uno straniero, “anglis”, da queste parti. Ripartiamo costeggiando il lago, fino a una diga origine del bacino artificiale, dove la strada termina davanti a un cancello. Scatto un paio di foto per compiacere il tassista e ripartiamo alla volta di Sisian. Prima di Vorotan proviamo la strada alternativa che converge al bivio dell’andata ma della fortezza (berd) non c’è traccia. La cartina scaricata da Internet segnala una chiesa e una fortezza, la Lonely Planet parla di una fortezza mentre la Bradt parla del monastero che ho visitato. Rileggendo la Lonely Planet mi viene il sospetto che la fortezza sia in realtà il monastero che presenta delle fortificazioni. Rimane però il mistero della cartina!? Nell’ultimo tratto raccogliamo altri passeggeri e finalmente siamo a Sisian, dove premio gli sforzi del tassista saldandolo con 3000 dram anziché i 2500 concordati. Rispetto a ieri che era domenica oggi Sisian è “piena di vita”. In giro si vede un po’ di gente e nel khoravats al lungofiume, complice anche il mio orario anticipato, ci sono persino dei clienti e due signori che giocano a backgammon.
Martedì 26 giugno: Sisian – Yerevan – Ashtarak – Yerevan La mattina il cielo è coperto e per terra è bagnato. Sono le sette e mezzo e poiché siamo a 1600 metri di quota fa fresco, tanto che devo sfoderare il maglione di cotone che stavo per rimandare indietro con Stefania. Nella piazza dei bus non c’è ancora nessuno ma dopo qualche minuto compaiono i primi passeggeri, insieme all’autista con i ciglioni dell’andata che mi saluta calorosamente. Appena arriva il minibus per Yerevan salgo a bordo, approfittando del calduccio per scrivere il diario. Incredibilmente compare un altro turista: è un ingegnere neozelandese con il quale scambio quattro chiacchiere. Mi racconta che ha saputo che in Armenia c’è molta criminalità organizzata, la mafia si è arricchita con i traffici illeciti. Ha girato in lungo e largo per la Georgia che preferisce all’Armenia. Alla nove partiamo da Sisian ripercorrendo la strada dell’andata. Le nuvole nascondono le montagne limitando la visuale ai prati verdi dell’altopiano. Dopo mezzora superiamo il Vorotan Pass a 2344 metri e siamo nella regione del Vayots Dor. Mentre scendiamo per i ripidi tornanti, incrociamo un camion che giace inclinato poggiato su un pendio. In basso il tempo migliora e compare un pallido sole. Viaggiare è essere liberi, conoscere il mondo e la gente. Tanto più assurde sembrano le guerre quanto più si conoscono i popoli! Il volto preoccupato di una mamma per il figlioletto che si sente male su un bus, non è forse lo stesso in tutto il mondo!? Sulla guida leggo che molte ragazze vogliono rifarsi il naso secondo i canoni occidentali. Che assurdità! Quanto sono belle le gobbe dei nasi sui volti armeni! Il bambino non sta bene e ci fermiamo di nuovo. Provo ad offrire un Travelgum, spiegando a gesti la sua utilità ma l’offerta è declinata. Il ghiaccio è rotto e il tipo che mi siede accanto mi chiede da dove vengo; appena scopre che sono italiano mi fa capire che italiani e armeni sono simili, hanno gli stessi volti. Rispondo che è vero, siamo entrambi cristiani (“Cristos, Katolikos”) ma lui mi ribatte che ciò che ci accomuna è la mafia e mi fa segno di tacere! Lo osservo meglio: l’anellone al dito, il completo gessato e il modo di fare m’inducono il sospetto che si tratti di un boss locale! Procediamo più spediti rispetto all’andata, poiché molta strada è in discesa e il minibus non è pieno. Il Vayots Dor mi sembra più brullo dopo le verdi praterie, stile Mongolia, del Syunik. Arrivati nella piana dell’Arax il tempo migliora ancora e verso Yerevan si scorge il sereno. Una coltre di nuvole bianche nasconde ancora i due picchi dell’Ararat mentre le parti più basse sono illuminate dalla luce del sole. Yerevan si avvicina e il “padrino” si dà una rinfrescata con un profumo in uno stick a forma di penna. Ormai splende il sole e il Masis si è liberato dalle ultime nuvole che ancora avvolgono il Sis, suo fratello minore. A mezzogiorno e un quarto siamo arrivati a destinazione alla Kilikia Station; una corsa con il minibus 68 mi porta in Piazza della Repubblica. Questa volta sono alloggiato nel lussuoso Congress Hotel, dove ho prenotato una stanza in offerta su internet. Il pomeriggio decido di fare una gita ad Ashtarak, rinunciando però a raggiungere la fortezza di Amberd sulle pendici dell’Aragat, il monte più dell’Armenia. I minibus partono vicino al mercato coperto e impiegano solo mezzora. La corsa dovrebbe terminare ad Ashtarak ma attraversando una cittadina mi viene un sospetto; riesco a farmi capire e scopro che sono arrivato ma il minibus prosegue perciò mi affretto a scendere subito. Tornato nella piazza centrale mi affido al solito taxi, scegliendo un signore anziano dall’aspetto tranquillo. Voglio visitare i monasteri lungo la gola del Kasagh e mi accordo per 4000 dram. Per primo raggiungiamo il paesino di Mughni, alla periferia di Ashtarak, dove sorge la chiesa rinascimentale di San Giorgio. L’edificio, circondato da un giardino, è caratterizzato dal contrasto cromatico tra il basalto e il tufo. Al suo interno si trovano interessanti affreschi. Ripartiti, raggiungiamo il monastero di Hovhannavank, a picco sulla gola. L’alternanza di pietra rossa e scura gli conferisce un aspetto particolare. La facciata ha una curiosa finestra centrale, divisa da una colonna mentre la porta si addice più a un cantiere che a una chiesa. Colonnine con arcate cieche trilobate alleggeriscono la facciata. Il gavit presenta una cupola con archetti aperti ed è particolarmente luminoso per gli standard armeni. L’ingresso della chiesa principale è racchiuso da decorazioni a bassorilievo mentre nella lunetta Gesù benedice cinque personaggi alla sua destra e caccia cinque personaggi alla sua sinistra; qualcuno li ha identificati con le vergini sagge e pazze, nonostante le barbe! La chiesa è meno bella del gavit con l’alta cupola ricostruita e una sola abside; particolari le stanze angolari su due piani, il secondo accessibile con una scala esterna. Tornando nel gavit, noto i numeri sui blocchi delle pareti, segno delle passate ricostruzioni. Sono in corso dei restauri e la chiesa più vecchia risalente al V secolo purtroppo è chiusa (il resto delle costruzioni è del duecento). Al monastero di Saghmosavank, opera sempre duecentesca, ritorna il gavit buio tipico dell’Armenia, preceduto da un portale decorato che sembra quello di una moschea. La chiesa molto piccola ha il pavimento coperto da tappeti. In una stanzetta angolare sono appese vesti bianche e rosse di foggia antica. Nella libreria un’abside piccola e delicata, una sorta di conchiglia, presenta angeli affrescati e scolpiti sull’arco in alto. Il monastero come il precedente sorge sull’orlo della gola scavata dal Kasagh nella piana e la vista è particolarmente bella, con il canyon formato da gradoni di roccia coperti d’erba. Tornato ad Ashtarak, chiedendo in giro raggiungo la graziosa chiesetta di Karmravor; risale al VII secolo e presenta pareti di tufo e tetto di tegole. In piccolo ha tutti gli elementi delle chiese armene: quattro braccia laterali e un timpano ottagonale con cupola. Nel prato intorno ancora una volta posso ammirare splendide khatchkar. Sopraggiunge il vecchio custode; l’interno è affascinante nella semplicità della pietra e la ristrettezza dell’ambiente. Curioso il collegamento elettrico dell’edificio: due fili si diramano da un palo della luce ed entrano da una finestrella. Servono per alimentare il lampadario, unica nota stonata dell’interno. A Yeravan la sera ceno di nuovo al Beirut, a due passi dall’albergo. Mercoledì 27 giugno: Yerevan – Tbilisi La mattina il tassista per portarmi alla Kilikia Station mi spara 1000 dram ma gli ribatto che la volta scorsa ne ho pagati 600 e tengo duro sul prezzo. Sono le sette meno un quarto e all’autostazione ci sono solo i minibus per Stepanakert in Nagorno Karabah e per Tbilisi. L’autista mi chiede se sono iraniano, evidentemente devo essere molto abbronzato! Il solito caffè freddo e sono pronto per la partenza. Alcune giovani passeggere sono eleganti e perfettamente truccate, come sempre. Approfitto dell’attesa per ripassare un po’ di cirillico, visto che l’alfabeto georgiano è più incomprensibile di quello armeno! Partiamo puntuali alle sette e mezzo. Una signora inforca gli occhiali e sfodera un libro. Dopo le lettere ad “acquedotto” degli armeni, il georgiano mi sembra una serie di pallini con svolazzi. Viaggiamo da un’ora quando la giornata limpida consente di ammirare le vette rocciose dell’Aragat, in parte coperte di neve. Riattraversiamo il verde pianoro dell’Aragatsotn e superato il passo Pambak siamo nella regione di Lori. Rivedo Spitak, ricostruita dopo il terremoto, con la chiesa moderna in stile tradizionale e la piazza principale circondata da edifici di pietra rosa, nuovi di zecca. Dopo le nove le ciminiere annunciano Vanazdor. Proseguiamo nella gola del Debed in alcuni tratti molto bella, con le boscose pendici delle montagne e il fiume in basso, ma rovinata in molti punti dalle opere dell’uomo. Nel bus nessuno parla e l’unica compagnia è l’autoradio che trasmette musica senza interruzione. Riecco il camion che funge da distributore di gas. Prima di Alaverdi ci fermiamo per una sosta, in un “punto di ristoro” lungo la strada che corre ormai a fianco delle acque del Debed. L’autista si accomoda a un tavolo e vengono preparati degli spiedini cotti alla brace mentre io mi limito a mangiucchiare i dolcetti acquistati a Yerevan, visto che sono le dieci ed è un po’ presto per il pranzo. Ripartiamo; la gola è deturpata da fabbriche abbandonate e ponti arrugginiti ma la natura a tratti ha la meglio fornendo scorci suggestivi. Compaiono gli assurdi condomini di Alaverdi, collocati addirittura in cima alla gola, seguiti da una pestifera ciminiera. La funivia raggiunge in alto Sanahin mentre il vecchio ponte di pietra rappresenta una nota piacevole in mezzo a tanto squallore, subito seguito da un’immensa fabbrica abbandonata. Alle undici superiamo il bivio per Aktala, il punto più a nord raggiunto la volta scorsa, e dopo un quarto d’ora siamo al confine. La procedura per passare in Georgia dura più di un’ora, non senza qualche intoppo. Scendiamo dal minibus che passa rapidamente dall’altra parte e ci mettiamo in fila. Sul mio passaporto non c’è il visto armeno poiché ho fatto un e-visa su internet. Arrivando all’aeroporto di Yerevan esiste, infatti, questa comoda possibilità. Il problema è che adesso sto lasciando il paese da un valico terrestre e il poliziotto rimane interdetto dall’assenza del visto sul passaporto. Per fortuna ho una stampa del visto elettronico. Ormai tutti i miei compagni di viaggio sono passati mentre io vengo indirizzato a un secondo sportello, dove c’è un funzionario più alto in grado, che si tiene la mia stampa timbrandola e alla fine mi concede il timbro in uscita. Al punto di confine georgiano la situazione s’inverte: io passo senza problemi, per gli italiani non serve più il visto, mentre due russe sono sottoposte al terzo grado, a causa dei critici rapporti tra i due paesi. Mentre siamo in fila una passeggera “scopre le carte”, parlandomi in inglese: è una giornalista armena e sta andando a Tbilisi per interviste ufficiali sui problemi della numerosa comunità armena. Finalmente ripartiamo; in Georgia, oltre il confine, si apre una vasta piana coltivata. Attraversiamo alcune cittadine mentre la campagna appare più brulla che in Armenia. Dopo una discesa ecco apparire alti condomini, segnale inconfondibile di una città sovietica. E’ Tbilisi. All’una e venti, ad un’ora dal confine, arriviamo a destinazione alla stazione dei bus di Ortachala. Un anziano tassista si offre subito di accompagnarmi con la sua vecchia macchina arrugginita. Per sei lari mi porta alla Georgian House, vicino alla nuova cattedrale. L’ampia camera è piacevole con una porta altissima e bel mobilio. Alla reception mi spiegano che non posso pagare in euro ma solo in dollari o lari, perciò dovrò cambiare più soldi. Il pomeriggio mi dedico a un primo giro della città. Il centro si trova sulla sponda destra del Mtkavari, allungato nel poco spazio tra il fiume e le colline. Attraversato il ponte, dominato dalla vecchia Metheki e dalla statua di Gorgasili, si raggiunge la città vecchia con i vicoli riempiti dai tavolini dei caffè. Dopo i viali di Yerevan è una piacevole sorpresa che mi riporta alle atmosfere delle città europee. Raggiungo Piazza della Libertà, dominata al centro dalla colonna con la statua dorata di San Giorgio che uccide il drago. Dalla piazza parte Rustaveli, il viale principale della città ottocentesca. Il Palazzo del Parlamento, teatro di sanguinosi scontri dopo il crollo del comunismo reca due segni dei tempi nuovi: lo stemma sopra l’ingresso privato della falce e martello e la bandiera dell’Unione Europea che sventola accanto a quella georgiana! La prima impressione di Tbilisi è quella di una città molto diversa da Yerevan: passeggiando nella città vecchia per le stradine animate dai caffè e circondato dagli eleganti edifici di Rustaveli, quasi mi dimentico di essere in una città ex-sovietica. Le chiese sono molto più numerose che a Yerevan, segno della fede ortodossa comune con i russi. Lungo Rustaveli, nella bianca Kashaveti ritrovo l’iconostasi e i fedeli che si fanno tre volte il segno della croce “al contrario”, pregando estasiati davanti alle icone. In compenso i mendicanti sono numerosi; sono gli sfollati delle tante guerre degli ultimi decenni. Rustaveli potrebbe essere il boulevard di una capitale europea occidentale. Ci sono persino gli autobus; incredibilmente mancano invece i semafori e i pedoni se non vogliono usufruire dei lontani sottopassi devono buttarsi tra le auto scatenate. Una lunga passeggiata mi conduce al parco di Vera; il panorama sul fiume e la sponda sinistra, dominata dalla nuova cattedrale con il tetto luccicante d’oro, conferma la prima impressione: non si vede nessun palazzone di stampo sovietico. La Lonely Planet è decisamente obsoleta. Per cena finisco all’Hangar Bar, un pub nella città vecchia che ha sostituito un caffè georgiano. Sono circondato da chiassose tavolate di americani; il menù è quello classico da pub con hamburger a volontà. Scelgo la soluzione meno peggio: zuppa piccante di pomodoro e funghi ripieni di formaggio. Il risultato non è male. Non credevo che Tbilisi fosse così bella e la notte è ancora più affascinante. Passeggiando dopo cena ammiro scorci suggestivi, favoriti dal paesaggio di colline: alti sulla sponda destra la fortezza con la chiesa illuminata, la Madre Georgia, la torre della televisione, mentre sull’altro lato splendono la vecchia Metheki, la nuova cattedrale e una moderna cupola trasparente. Nella città vecchia le chiese illuminate sbucano affascinanti da vicoli scuri che si alternano ad altri riempiti dai tavolini dei caffè. Giovedì 28 giugno: Tbilisi – Metskheta – Tbilisi Una corsa in metropolitana mi porta alla stazione degli autobus di Didube. Nel vasto piazzale ci sono centinaia di minibus e le destinazioni sono scritte solo in georgiano. Neppure la mia “conoscenza” del cirillico può aiutarmi. Non mi resta che chiedere in giro e fare avanti e indietro seguendo le indicazioni. Alla fine trovo il minibus per Metskheta e acquisto il biglietto a uno sportello. La cassiera mi domanda qualcosa che io interpreto come “biglietto andata e ritorno” (due lari)!? Salito sul minibus arriva una signora che mi chiede in inglese se volevo un biglietto oppure due. Mi hanno fatto due biglietti perciò prende lo scontrino e mi porta indietro il resto di un lari! Attraversando la periferia di Tbilisi, i condomini mi appaiono in buone condizioni, addirittura con facciate dipinte a colori vivaci. Anche nella piazza di Avlabari, vicino all’albergo, l’enorme condominio è ingentilito da fiori finti ad ogni balcone. Metskheta, la vecchia capitale, si trova a una ventina di chilometri da Tbilisi. La cattedrale di Sveti Tskhalevi, la più grande della Georgia, è circondata da un vasto quadrilatero di mura turrite. L’imponente edificio è dominato dal tamburo della cupola mentre archi ciechi ingentiliscono la massa di pietra. La facciata presenta un bell’effetto “telescopio” di corpi sporgenti: il portico, il nartece, la chiesa e il tamburo della cupola in alto. Sulla facciata posteriore un bassorilievo rappresenta un’aquila e un leone. Il vasto interno a tre lunghe e alte navate è chiuso da un’abside con un gigantesco affresco di Cristo Pantocratore. Nella navata destra una cappella è la copia in piccolo del Santo Sepolcro di Gerusalemme, con una porticina, due finestrelle e un tamburo ottagonale con cupola, mentre sul pavimento della chiesa si notano le lastre tombali degli ultimi re georgiani. La nota più interessante sono in ogni caso gli affreschi. In fondo alla navata destra un grande Giudizio Universale raffigura a sinistra l’inferno con vari mostri tra cui una bestia con sei teste su lunghi colli, una tigre con il volto di donna e alcuni draghi, al centro Cristo circondato dai santi e dai segni dello zodiaco e infine a destra i beati, una serie di nobili coronati elegantemente vestiti. Anche un’edicola è coperta di affreschi: sopra le quattro pareti si leva una loggia culminante a punta con un modellino di chiesa. Tra gli affreschi ritrovo Gesù che solleva Adamo ed Eva dalle tombe, un re e un prelato con il cappello piatto che si scambiano un libro davanti a una chiesa; altre scene recano re e soldati dai volti scalpellati. La chiesa è frequentata da alcuni fedeli: le donne con un fazzoletto sulla testa pregano baciando le icone e accendendo candele. In un angolo è in corso una cerimonia: un prete, con una lunga barba e i capelli legati, benedice le offerte, cibo e bevande in bottiglie di plastica. Poi spruzza i fedeli d’acqua con un pennello gigante. Una donna bacia un pilastro della chiesa, un uomo la croce al collo del pope. Lasciata la cattedrale, raggiungo la chiesetta di Antiopi alla confluenza dei due fiumi che attraversano Metskheta. Il piccolo edificio ha un aspetto antico, rovinato all’interno dagli affreschi appena ridipinti. Una suora vestita di nero siede nella cappella lavorando all’uncinetto. Metskheta appare piacevole con le sue basse casette dai tetti di tegole e le boscose montagne che la circondano. Raggiungo il museo locale, dove il mio arrivo suscita una notevole sorpresa. L’esposizione è piccola ma non priva di spunti interessanti. Dopo una serie di punte di lance, pugnali e vasi di coccio delle età del bronzo e del ferro, una vetrina espone una grossa cintura rituale di bronzo con volute incise. Una statuetta stilizzata di un cavallo con quattro ruote proviene da un cimitero del XIV secolo a.C. Il pezzo più bello è una cintura rituale del VIII sec. A.C., un groviglio di animali incisi, cervi con corna e dorso a pallini, altri animali fantastici. Una statuetta di bronzo di un cervo dalle lunghe corna (VIII sec.) mi ricorda lo stile ittita mentre un bel pettorale è formato da piccoli calici di bronzo, una volta tenuti insieme da fili ormai scomparsi. Attraversata la piazza, raggiungo la chiesa di Samtavro frequentata solo da donne che pregano davanti alle icone; nel cimitero un gruppo di persone cura i fiori sulla tomba di un pope. La chiesa a pianta quasi quadrata è dominata dall’alta cupola che reca tracce di affreschi, con le pareti in pietra bianca. Esternamente il tamburo è ricoperto da bassorilievi mentre in un angolo del giardino sorge una cappella, sul luogo dove pregò Santa Nino. Una passeggiata lungo la statale, sotto un sole cocente, mi conduce alle rovine della fortezza costruita su una collina a ridosso del fiume. Non c’è anima viva e all’ingresso due cani mi fanno desistere da altre esplorazioni. Sulla sponda del fiume opposta a Metskheta sopra una collina si scorge la chiesa di Jvari, amatissima dai georgiani. L’unico modo per raggiungerla è una corsa in taxi (15 lari). Dall’alto il panorama è fantastico: si domina la confluenza dei due fiumi con le acque verde pallido in contrasto con le boscose montagne. La città, con le basse casette dominate dalla cattedrale, è adagiata nella piccola piana mentre in lontananza, oltre la fortezza, spicca un quartiere di condomini dipinti a colori vivacissimi. Jvari è costruita in tufo con il tetto di tegole ed ha il classico schema a croce greca. L’interno spoglio trasuda antichità per la ruvidezza della pietra. Tra le quattro absidi si trovano archi per l’accesso alle stanzette angolari mentre un crocefisso moderno di legno è posto esattamente nel mezzo, sopra un altare esagonale in pietra. Questa volta i fedeli sono tutti uomini. E’ strano vederli farsi tre volte il segno della croce davanti al panorama, pregando verso la cattedrale. Tornato nella piazza di Metskheta prendo al volo un affollato minibus che mi riporta a Tbilisi. Il pomeriggio riprendo la visita della capitale. Nella piazza Gorgasili davanti al ponte di Metheki sorge la cattedrale armena, malridotta e circondata da fatiscenti case che le sono a ridosso. L’interno, con il pavimento tristissimo e le mura scure, conferma l’impressione. Sulle tombe riconosco l’alfabeto armeno. Uscendo non posso fare a meno di notare il contrasto con la nuova cattedrale che risplende in lontananza. Raggiungo le terme, già apprezzate da Dumas, per le quali la città è famosa da secoli (“tbili” in georgiano significa caldo). Le cupolette color argilla, con i buffi comignoli a quattro archetti, formano uno scorcio originale, completato in un angolo della piazza dalle maioliche della moschea. Tornato nella città vecchia percorro i vicoli tra Lesidzen e il lungofiume invasi dai tavolini dei caffè. La statua di bronzo di un tizio che regge un calice non è la solita scultura moderna stilizzata ma la copia di un originale del VII secolo a.C., scoperto nella Georgia occidentale. In poche decine di metri convivono edifici di varie religioni: la sinagoga, una chiesa armena sconsacrata con una preoccupante crepa e la chiesa ortodossa di Jvaris Mama al cui interno gli affreschi sono stati appena ridipinti. Il signore che mi accompagna nella sinagoga, arredata con alti banchi, mi spiega che a Tbilisi ormai sono rimasti solo 500 ebrei. Proseguendo nella passeggiata attraverso la città vecchia, raggiungo Ankishati. L’interno con la molteplicità degli stili dimostra l’antichità della chiesa: le pareti grezze sono formate da grossi blocchi di pietra, le quattro colonne massicce da mattoni, mentre gli affreschi rovinati sono di difficile lettura e le icone nuove di zecca. Anche la facciata è parte in pietra e parte in mattoni. La cattedrale di Sioni, centro della religiosità georgiana, mi appare invece fredda insieme all’incongruo campanile neoclassico culminante con una cuspide nordica, sull’altro lato della via. Anche l’interno con gli affreschi anneriti non è bello. Il crocefisso di Santa Nino di Cappadocia è fissato su una roccia mentre al centro della navata, come in altre chiese, è collocato un pomposo seggio di legno. Per cena mi reco allo Dzvelo Metheki scenograficamente collocato ad Avlabari, affacciato sul fiume e la città vecchia. Il locale è vuoto e la cena deludente. Per consolarmi raggiungo Rustaveli in metro. Il palazzo del Parlamento è illuminato da luci che cambiano colore. Forse tutto ciò non si addice molto a un luogo istituzionale ma l’effetto è gradevole e allegro; serve anche per sdrammatizzare i tragici avvenimenti di cui è stato teatro negli ultimi decenni. Venerdì 29 giugno: Tbilisi – Gori – Tbilisi I georgiani non hanno il senso degli affari con i turisti. A Tbilisi non esiste un ufficio del turismo e del resto i visitatori mi sembrano quasi del tutto assenti; al contrario ci sono diversi stranieri presenti per lavoro. Sono due giorni che chiedo all’albergo di organizzarmi una gita a Davit Gareja. Gli armeni della Hyur Service si sarebbero fiondati sulla preda mentre i georgiani non sembrano molto interessati. L’ultima versione è stata quella di rivolgermi all’ufficio situato nell’albergo che apre solo alle undici. Cercherò quindi di stimolarli ancora al mio ritorno da Gori. Didube ha il classico aspetto delle stazioni del terzo mondo: la confusione è accresciuta dalla presenza delle bancarelle del mercato. I venditori ambulanti si avvicinano ai minibus cercando di convincere i viaggiatori ad acquistare la merce. Anche oggi non mi resta che chiedere in giro per individuare il minibus per Gori. Partiamo alle nove e mezzo e dopo essere passati sotto la Jvari vicino Metskheta, proseguiamo in un’ampia vallata densamente popolata. Siamo sulla direttrice che porta in Turchia come testimoniano i TIR di Trabzon che sorpassiamo. Dopo un’ora raggiungiamo Gori, la città natale di Stalin, dove la storia sembra essersi fermata 50 anni fa. La via principale è intitolata a Stalin e davanti all’imponente municipio si trova ancora la statua del leader imbacuccato nel suo cappotto. D’altra parte se tutto ciò è concepito per attrarre qualche turista, il tentativo sembra miseramente fallito poiché in giro ci sono solo io. Il museo dedicato a Stalin (15 lari l’ingresso) suscita una strana impressione. L’esposizione presenta la sua vita come quella di un personaggio famoso, tacendo i crimini di cui si rese autore. S’inizia dall’infanzia, percorrendo tutta la “carriera” politica: si passa dalle varie prigionie con le relative evasioni, alla rivoluzione, proseguendo con il raggiungimento del potere fino alla morte con la lugubre maschera funebre. La mia accompagnatrice illustra le numerose foto, tra cui una curiosa con un giovane Stalin “scapigliato” e i numerosi regali, quasi tutti da parte di paesi comunisti anche se non mancano un paio di minuscoli zoccoli di legno dall’Olanda. Sembra di vedere un’istantanea del passato, ferma a 50 anni fa, che ignora tutto quello che è successo dopo. Di fronte al museo la piccola casa dove nacque Ioseb Jughashvili (ma sarà poi vero!?) è stata racchiusa da un padiglione neoclassico come per proteggere una reliquia. La guida sostiene che gli arredi del “monolocale” sono originali; il messaggio che si vuole trasmettere è quello di un uomo nato povero, asceso alla grandezza assoluta. Un’altra curiosità è costituita dal vagone ferroviario utilizzato da Stalin per raggiungere la conferenza di Postdam alla fine della seconda guerra mondiale. Il lussuoso interno non manca di un elegante salottino. L’unico altro elemento interessante di Gori è la fortezza merlata, che domina la città dalla collina in centro. Arrivato in cima naturalmente trovò il portone chiuso. Il romano Pompeo arrivò fin qui assediando l’antenata dell’attuale fortezza medievale. Vicino Gori si trovano anche le rovine della città rupestre di Uplistsikhe ma devo rientrare a Tbilisi per definire una volta per tutte la gita a Davit Gareja e del resto non avrei voglia di visitare un sito da solo sotto il sole cocente. Ormai è l’ora di pranzo e alla stazione dei bus di Gori le venditrici ambulanti gridano “kachapuri, kachapuri!”. A Tbilisi in albergo mi accordo rapidamente per l’escursione di domani. L’ufficio della Exo Tours si trova al piano terra, a fianco del ristorante. Chiedo il minimo indispensabile, cioè l’auto con conducente ma senza aria condizionata e guida; dai 100 dollari iniziali riesco a scendere a 120 lari (circa 70 dollari). Anche oggi posso dedicare il pomeriggio ai miei giri per Tbilisi. Ne approfitto per visitare il museo storico nella città vecchia. Alcuni reperti risalgono al 2500 a.C. Ma l’elemento più interessante sono le riproduzioni di stampe d’epoca e le vecchie foto, incluse le cartoline di una città ormai scomparsa. Curioso il modellino di un tram a cavallo e interessanti le ricostruzioni dei negozi d’inizio novecento. Al primo piano una bella mostra fotografica è dedicata ad avvenimenti e personaggi degli ultimi anni. Un’altra sala invece espone vecchie foto ingiallite, che ritraggono monasteri, uomini e donne di varie etnie in costumi tradizionali. Alcune foto mostrano Tbilisi allagata da un’alluvione. Tornando verso l’albergo visito la chiesa di Metekhi, davanti alla quale sono passato ormai tante volte. Alta su una roccia a picco sul fiume è affiancata dalla statua equestre del re Gorgasali, il padre della Georgia vissuto nel V secolo. Il sito ha subito molte vicissitudini e oggi non c’è traccia del palazzo reale che vi sorgeva. La chiesa esternamente ha un aspetto antico, grazie alla pietra lasciata grezza, mentre all’interno è tristemente tinteggiata forse a causa del suo utilizzo come teatro in epoca sovietica. Finalmente questa sera al Puris Sakli, sul lungofiume vicino le terme, riesco ad ottenere una vera cena georgiana a base di chikhirtma (brodo con pollo bollito) e chakapuli (carne in umido con prugne e verdure), accompagnati dalla birra Kazbegi. Sabato 30 giugno: Tbilisi – Davit Gareja – Tbilisi Oggi ho in programma la visita al monastero di Davit Gareja. La mattina alle otto e mezzo parto in compagnia di un dipendente dell’albergo che parla inglese. La Ford Astra non sembra male ma invece i problemi iniziano subito: dopo alcune decine di chilometri l’acqua del radiatore comincia a bollire. L’autista la rabbocca e misteriosamente il problema si risolve. Raggiungiamo la città di Sagarejo, lasciando poi la strada principale verso sud. Attraversiamo un paesaggio di colline verdissime ma l’autista mi spiega che con il caldo fra un po’ assomiglierà al Sahara. Poco prima del monastero incrociamo due soldati armati di mitra e gli diamo un passaggio! Il confine con l’Azerbaigian è dietro l’angolo. Il monastero di Davit Gareja è formato da un insieme di costruzioni in pietra e di grotte adattate ad abitazione dai monaci. L’aspetto del complesso è affascinante mentre gli interni sono di scarso valore, probabilmente poiché i sovietici utilizzarono il monastero come bersaglio per le esercitazioni di tiro dell’artiglieria! La visita è molto rapida anche perché non posso accedere alla sezione abitata dai monaci, nemmeno ripristinando i pantaloni lunghi. Una faticosa ascesa mi porta in cima alla montagna dietro il monastero. Siamo proprio al confine con l’Azerbaigian e la vista spazia sul “mondo islamico”, un verde paesaggio completamente vuoto. Sul lato georgiano, oltre le costruzioni in pietra di Davit Gareja e le dimore del monaci ricavate nella roccia, in fondo alla vallata curiose collinette con vari colori, sembrano i residui di antiche dune di sabbia. In cima si trova una cappella e un gruppo di georgiani mi ha preceduto nella scalata. Al suo interno, una giovane è prostrata per terra, assorta nella preghiera. Il semplice edificio ha due ambienti, il secondo scavato nella roccia. Il sentiero prosegue appena sotto la cima lungo il crinale azero, ricoperto di fiori (molto belli alcuni gialli dalle grosse corolle). Le donne ne raccolgono dei mazzi. Il sentiero segna proprio il confine tra i due paesi e nulla impedisce di sconfinare! Nella roccia si aprono anfratti in passato utilizzati come rifugi dai monaci; alcuni presentano affreschi molto rovinati. Raggiungo un complesso più grande. Il primo ambiente è quasi completamente franato ma sopravvive un angolo con una parete arcuata sulla quale sono affrescate varie scene: si distinguono santi e re, angeli e scene evangeliche. Il secondo ambiente forse era un refettorio, vista la presenza di banchi tutto intorno. Sul soffitto quattro angeli reggono uno stemma con una croce; sulle pareti affreschi, sempre molto rovinati. Superata una chiesetta con abside (chiusa), un trespolo di tubi arrugginiti segna il punto più alto dal quale la vista spazia su entrambi i lati, georgiano ed azero. Nel frattempo scuri nuvoloni avanzano minacciosi e mi affretto a concludere la passeggiata tornando al monastero. Dopo un picnic a base di kachapuri, pomodori e cetrioli, ripartiamo per il percorso di ritorno ma subito ricominciano i problemi. L’acqua riprende a bollire e ci fermiamo continuamente per rabboccarla. Il driver smonta qualche tubo e il termostato ma senza ottenere nulla. Spesso viaggiamo in discesa con il motore spento. Arrivati a Sagarejo passiamo prima da un gommista per farci sistemare un pneumatico e poi da un meccanico. Nell’officina il padrone gioca tranquillamente a backgammon con gli amici mentre tutto il lavoro è nelle mani di due ragazzotti, con le mani nere di morchia. Il più esperto smonta vari pezzi eliminandone uno (il termostato!?); poi rimonta tutto ingrassando le parti. Naturalmente il problema persiste ma un’altra operazione (elettrica o meccanica?!), legano qualcosa, sembra risolutiva. Ripartiamo e lo sfortunato driver nonostante la preoccupazione di danneggiare la macchina decide lo stesso di tirare dritto fino a Tbilisi. Nel frattempo si scatena anche un nubifragio. Arrivati sani e salvi in albergo apriamo il cofano e l’acqua naturalmente continua a bollire: l’unico effetto della riparazione è stato impedire alla lancetta della temperatura di andare sul rosso! La gita mi è costata 120 lari ma il percorso, contrariamente a quanto afferma l’obsoleta Lonely Planet, non è peggiore rispetto ad altre gite. La soluzione migliore a posteriori sarebbe stata prendere un taxi, più economico e affidabile. Il problema è che l’Hotel Georgian House si appoggia a un’agenzia e quindi è impossibile farsi chiamare un taxi da loro, come avevo fatto per l’escursione a Tatev da Sisian. Tbilisi è allagata dalla pioggia torrenziale. Per cena scendo in centro in metro e raggiungo il “Tblisuri”. Il locale è semideserto ma non manca la musica dal vivo; la cucina invece è sprovvista di molte scelte del menù e devo quindi ripiegare sul kebab e sulle khinkali, le tipiche polpette speziate georgiane. Domenica 1 luglio: Tbilisi La nuova cattedrale è diventata un elemento dominante nel paesaggio di Tbilisi. Sorge su una collina dietro il mio albergo, nel quartiere di Avlabari. E’ imponente, costruita in pietra beige, e culmina nel tamburo con il tetto dorato a punta. Tutto intorno sorge una vasta piazza, oggi piena di gente, soprattutto giovani. Vista frontalmente la cattedrale forma una strana prospettiva, stile matrioska, come se tre chiese sempre più grandi si trovassero una dietro l’altra, sormontate dall’alto tamburo. Il vasto interno è di un bianco candore, ancora nudo per la mancanza di decorazioni. E’ domenica e una folla converge verso la chiesa; sopraggiunge un’auto blu che scarica l’anziano patriarca davanti all’ingresso. Non riesco a capire se oggi si celebra qualche cerimonia particolare, anche perché mi sembra che da ieri le campane suonino a morto!? La chiesa è stracolma di fedeli, per la maggior parte giovani. Le donne hanno il capo coperto da fazzoletti colorati. La cerimonia ha inizio con il patriarca che bacia le icone e prosegue con una messa cantata senza che io riesca a capire molto. Molti recano candele accese ma l’atmosfera è molto informale con gente al cellulare e chierici con la videocamera, anche perché nella cerimonia i fedeli non hanno nessun ruolo attivo. Si procede tra canti e spostamenti dei pope tra il trono collocato al centro della navata e lo spazio davanti all’iconostasi, anche se la maggior parte della cerimonia si svolge nell’abside nascosta dall’iconostasi. Dopo un’ora e mezzo non ho nemmeno capito se la messa vera e propria è iniziata e desisto dal rimanere ancora. Nel vedere un popolo così religioso, che si fa tre segni della croce ogni volta che scorge una chiesa, il pensiero va al comunismo che regnava solo qualche anno fa e all’imprescindibile desiderio di trascendenza che l’umanità di oggi sembra esprimere ad ogni latitudine. Lasciata la cattedrale, attraverso un quartiere di palazzi decrepiti e cadenti che mi riporta bruscamente alla cruda realtà post sovietica. Scavalco il Mtkavari su un ponte allietato dalla curiosa statua di un fotografo longilineo. Ancora un po’ di pioggia e le acque bionde del fiume potrebbero straripare! Raggiungo il mercato domenicale delle pulci per nulla turistico. E’ in vendita di tutto: servizi di tazzine, transistor, cimeli della vecchia Unione Sovietica comprese collezioni di francobolli, ferri da dentista. Per pranzo raggiungo piazza della Libertà dove si trova una spartana tavola calda vegetariana, l’ottimo Caffè Lotus; assaporo un pasticcio di riso, patate e melanzane e un ciambellone alla banana, accompagnati da un succo. A poche decine di metri si trova il Museo Artistico Statale della Georgia. In una sala c’è una mostra sui ricami, con alcuni bei mitra coperti di perle, pietre preziose e medaglioni con figurine di apostoli ed angeli. Tutto intorno, arazzi di seta finemente ricamati. Un’altra piccola sezione espone una mummia egizia, insieme a quadri ottocenteschi con donne dai grossi ciglioni in costumi tradizionali. Tutto il resto è chiuso e gli ambienti versano in condizioni pietose. Le mie esplorazioni della città si concludono con l’ascesa alla collina della fortezza, non prima di avere attraversato alle sue pendici un quartiere di case devastate. Dalla cima si domina tutta Tbilisi. Sulla sponda opposta la cattedrale appare un gigante rispetto alle costruzioni circostanti: solo ora mi rendo conto di quanto sia alta. Anche il condominio della piazza di Avlabari non è da meno, un mini “corviale” georgiano! Le coppiette cercano i punti più spericolati, appollaiandosi su torri a precipizio. Alla mia sinistra la statua della madre Georgia veglia la città brandendo una spada e una coppa di vino, il vecchio concetto del bastone e la carota. In basso le acque del Mtkavari sono bionde come non mai mentre la città vecchia è dominata dal color ruggine dei tetti in lamiera con le chiese che fanno capolino qua e là. Tornato in piazza Rustaveli non mi sfugge il contrasto tra il grosso Mc Donald e l’accademia delle scienze, ancora dominata dalla stella comunista. Come sono cambiati i tempi! Sono migliorati? Difficile dirlo: per i mendicanti nei sottopassi certamente no, ma per tutti gli altri? Lo stipendio medio si aggira sui 500 lari (200 euro) con una forte disoccupazione ma c’è la libertà e nessuno muore più per le sue idee, forse!? Sicuramente c’è la speranza, non ultima quella religiosa e ciò aiuta molto. La Georgia ha bisogno di sentirsi accetta dai potenti del mondo: addirittura ha intitolato una strada a George Bush e davanti al Parlamento sventola la bandiera dell’Unione Europea. Presto, o meglio prima o poi, al posto del prestigioso museo statale aprirà un museo dedicato all’occupazione sovietica, altro segno della rottura con il passato. Cosa penserà Rustaveli, il bardo nazionale, sotto la cui statua scrivo queste note? Ne ha viste tante: in fin dei conti il comunismo è stato una moda passeggera, ora sono tornati i pope e la gente ad ogni occasione si fa tre volte il segno della croce. Le sere passate a Tbilisi ho percorso chilometri alla ricerca dei ristoranti segnalati dalla Lonely Planet, spesso chiusi oppure introvabili. Questa volta invece faccio centro al primo colpo: il Paradise Lost si trova di fronte a Mc Donald a 50 metri dalla fermata Rustaveli della metro e il menù è pieno degli introvabili piatti tipici georgiani. Non sono ancora le otto e sono l’unico cliente, a parte un paio di persone che bevono birra. Ancora non sono riuscito a capire quali sono gli orari dei georgiani per la cena; sicuramente è strano per loro che una persona si presenti da sola. Il cameriere parla inglese e il locale è piacevolmente arredato con luci soffuse e foto di attori. La cena è grandiosa: matsoni (zuppa a base di yogurt acido) e una porzione mostruosa di chanaki (squisito agnello con il sugo, patate e melanzane), innaffiati dalla birra Kazbegi. Il volo è nel cuore della notte e devo far passare il tempo. Mi sposto di una fermata di metro ed eccomi di nuovo seduto davanti alle fontane del Parlamento. Alle dieci e mezzo torno in albergo e mi faccio chiamare un taxi per l’aeroporto. Il volo per Vienna parte alle 4:40 e mi aspetta una lunga attesa (anche a Tbilisi come a Yerevan tutti i voli per l’Europa partono e arrivano nel cuore della notte).