1990 – Indonesia: Sulawesi e Borneo

Aprile 1990 – Indonesia: Sulawesi, Borneo, BaliIl tipico disclaimer che si può leggere su ogni edizione della Lonely Planet recita più o meno così: “I posti cambiano, nuovi alberghi e ristoranti aprono, altri chiudono, altri ancora cambiano gestione e diventano peggiori o migliori…”. Ebbene, anche nella vita reale le cose cambiano e...
Scritto da: steweboy
1990 - indonesia: sulawesi e borneo
Partenza il: 01/05/1995
Ritorno il: 26/05/1995
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 1000 €
Aprile 1990 – Indonesia: Sulawesi, Borneo, Bali

Il tipico disclaimer che si può leggere su ogni edizione della Lonely Planet recita più o meno così: “I posti cambiano, nuovi alberghi e ristoranti aprono, altri chiudono, altri ancora cambiano gestione e diventano peggiori o migliori…”. Ebbene, anche nella vita reale le cose cambiano e diventano peggiori o migliori; al limite rimangono inalterate. È grazie a questa eterna legge di natura che un bel mattino di Aprile ci incontriamo all’aeroporto con la Franca… e Gianni, il suo nuovo fidanzato nonché nostro amico di vecchia data. La Franca ha sempre avuto un fortissimo carattere trascinante, e il suo rapporto con Gianni non fa eccezione (se conosceste la Franca sapreste perfettamente che non si può riuscire a farle fare qualcosa sulla quale non sia d’accordo, o a non fargliene fare una per la quale si sia anche solo minimamente intestardita); il nostro amico è un Uomo di Mare, tranquillo, accomodante, simpatico e disponibile… e non aveva mai affrontato viaggi all’estero di questa portata, specialmente con due Integralisti della Filosofia Basica di Viaggio come la Franca ed il sottoscritto.

Saliamo sull’aeroplanino (ATR42, il famigerato “Colibrì”) che ci porterà fino a Parigi, da dove parte il volo Garuda Indonesia diretto a Zurigo e quindi a Jakarta; da lì – dopo qualche ora di attesa – affronteremo la tratta con destinazione Denpasar, cioè Bali, dove atterreremo all’incirca verso sera. All’alba del mattino successivo un aereo della Bouraq (la terza compagnia di bandiera indonesiana) ci trasporterà fino ad Ujung Pandang, la città principale, posta all’estremo sud dell’isola di Sulawesi, l’antica Celebes: un nome che fa venire alla mente i mercanti di spezie, le scorribande di Sandokan, le giungle inesplorate e le tigri mangiauomini.

La parte positiva del viaggiare in giorni feriali “fuori stagione” (cioè non a Luglio ed Agosto) è che di norma gli aerei intercontinentali sono semivuoti: infatti sul Boeing 747 Garuda che vola da Zurigo a Jakarta riusciamo ad occupare una fila centrale da cinque sedili ciascuno ed a volare comodamente sdraiati per una decina di ore; l’attesa all’aeroporto di Jakarta è estremamente piacevole, grazie anche alla bellezza delle strutture, che ricalcano – con ovvi criteri di sicurezza e modernità – quelle delle case tradizionali batak, con i lunghi tetti a forma di imbarcazione; il volo per Bali è poco più di una formalità.

Giunti a Denpasar, evitiamo di proposito gli innumerevoli tassisti e guidatori di bemo che assediano i turisti appena sbarcati per offrire trasbordi a prezzi decuplicati rispetto al tariffario “ufficiale” dell’isola, percorriamo zaino in spalla poche decine di metri fino ad incrociare la strada principale e fermare il primo bemo che ci viene incontro. Dopo la solita trattativa sfiancante, riusciamo a farci portare per poche centinaia di rupie (ai tempi 1 rupia valeva 70 centesimi di lira; ora poco meno di 25) a Legian, nella zona di Kuta, una lunghissima strada costellata di negozi, ristoranti e locali di ogni tipo, oltre – ovviamente – ad incalcolabili guesthouse. Ne troviamo una al primo tentativo: carinissima, con camere pulite e molto ampie, ciascuna con il suo mandi (il bagno) privato, il letto a baldacchino e la veranda con mobilio in bambù; il prezzo per camera, con prima colazione a base di pancakes, insalata di frutta e bevande calde, si aggira ben al di sotto delle diecimila lire. Gianni è stupefatto: mai si sarebbe immaginato di arrivare in un simile paradiso e spendere per vivere un giorno quello che a Genova di solito si paga per posteggiare l’automobile in centro per un paio d’ore. Dopo aver sistemato i bagagli in camera (praticamente non abbiamo neanche disfatto gli zaini, visto che si riparte domani all’alba) ci regaliamo una bella passeggiata per i negozi ed i locali di Kuta; mangiamo nasi goreng (riso fritto con vegetali e uovo), bamie goreng (spaghetti di riso fritti con vegetali e verdure) e ikan bakar (pesce alla brace) acquistandone copiose – ed economicissime – porzioni dagli innumerevoli street vendors che popolano le vie. Passeggiamo fino a tarda sera sul lungomare; il buio è quasi completo, si intravede ogni tanto la schiuma di qualche onda che, più fragorosa di altre, si va ad infrangere sulla spiaggia di Kuta, ritrovo internazionale degli appassionati di surf (specialmente australiani e giapponesi). Bali è – come amo definirlo a chi mi chiede consigli sui primi viaggi D.I.Y. Da intraprendere – “un ottimo ingresso in Indonesia”. Sulla famosa “Isola degli Dei”, infatti, chiunque sia desideroso di annusare per la prima volta l’Odore dell’Oriente ma non di provare ex-novo i Disagi dell’Oriente, può trovare quello che cerca. Se brama spiagge bianche a Bali ci sono: a Kuta con le onde per il surf, a Sanur con il mare calmo ed il fondale corallino per fare snorkeling o tranquilli giri in canoa e windsurf; verso Nord, da Candi Dasa in poi, sufficientemente selvagge ed incontaminate per poter credere – almeno per un pomeriggio o due – di essere naufragati su di un’isola deserta e non su di un caposaldo turistico mondiale dove atterrano più di venti Jumbo Jet al giorno. Se il turista alle prime armi sogna paesaggi orientali da sogno, basta che si noleggi una moto od una jeep e si rechi all’interno: da Ubud in poi sono solo templi ricoperti di vegetazione, risaie a terrazze di mille verdi cangianti (complete di contadini e bufali d’acqua), villaggi abitati da persone allegre che sono sempre disposte a regalare un sorriso al turista che si ferma, anche solo per riposarsi un attimo. Persino i fanatici dei paesaggi naturali e del trekking “duro” potrebbero essere piacevolmente sorpresi da Bali: all’estremo Nord, infatti, partendo dalle pendici del vulcano Batur si può camminare per un’intera giornata verso la vetta, dalla quale si gode una vista indimenticabile di parte dell’arcipelago indonesiano; se il vulcano Batur non fosse abbastanza impegnativo, in un paio d’ore di traghetto si può raggiungere il vicino isolotto di Lombok, formato interamente da un vulcano spento, il Monte Rinjani, per conquistare la cima del quale si deve camminare per almeno due giorni; al centro del cratere si è formato un laghetto, in mezzo al quale sorge un isolotto; non esiste fatica che non possa essere ripagata da simili spettacoli. E per i romantici, direte voi, cosa offre Bali? Ma come, vogliamo tralasciare gli splendidi tramonti, la silhouette notturna del tempio di Tanah Lot (che avrete visto in almeno settemila dépliant turistici), i ristorantini intimi sulla spiaggia, gli spettacoli di becak, le danze locali e l’atmosfera “lontano da tutto, vicino al tuo cuore” (gasp!) che si respira in certi angoli riparati. Se desiderate chiarimenti più approfonditi su Bali, compratevi una guida (vedi Appendice), ho già fatto fin troppo il cicerone pubblicitario… Dopo la sontuosa colazione del mattino ci facciamo chiamare un bemo per l’aeroporto dal gestore della guesthouse; le procedure di check-in e boarding non creano il minimo problema; l’aereo sul quale ci imbarcano, invece, qualche problemino ce lo crea: sedili traballanti, cinture di sicurezza sfilacciate, impianto di condizionamento che trasuda abbondantemente… c’è persino una hostess con gli occhi storti! Insomma, il quadro tipico di un velivolo del terzo mondo. Il volo piuttosto breve trascorre in maniera addirittura quasi piacevole, e il panorama dai finestrini è magnifico; atterrati a Ujung Pandang ci dirigiamo con una certa sicurezza verso l’Hotel North Pole (visto che la temperatura esterna sfiora i 40° all’ombra vi pregherei di evitare commenti, grazie), consigliato dalla – ovviamente – Lonely Planet. Come al solito, abbandoniamo i “tassisti” dell’aeroporto per dirigerci sulle strade urbane, dove veniamo contattati dal proprietario di un ciclo-risciò che ci chiede dove siamo diretti. Quando gli pronunciamo il nome dell’albergo ci dice “Yes mister… North Pole… tu tausend!”; io e la Franca ci giriamo imbufaliti e gli diciamo “Tu tausend stocazzo, ladrone! Non se ne parla nemmeno!”; il tipo non demorde e ci offre “Uan tausen eit andred, yes, mister…”; questa volta se ne occupa Gianni che – notiamo con piacere io e Franca – sta assimilando a dovere la F.B.V., anche se non conosce l’inglese: “No… tu mach… vai via!”; il caldo ha raggiunto livelli danteschi, stiamo camminando sotto il sole con pesantissimi zaini e siamo completamente zuppi di sudore (sono le nove scarse del mattino!), ma il pedalatore instancabile ci tampina assillantemente “Ochei mister… uan tausend… ochei?”; io e la Franca gli rispondiamo in coro “Te ne devi andare a fan culo, uan tausend con quel cacchio di biciclettina” e continuiamo a camminare, pedinati dal tipo. Ad un tratto Gianni si ridesta da un torpore quasi mistico e ci chiede “Scusate, ragazzi, che io mi confondo ancora un po’ con i cambi… mille rupie esattamente quanto sono?”; risponde la Franca “Boh… più o meno settecento/ottocento lire”, al che Gianni ci urla “Ma siete rincoglioniti? Stiamo camminando sotto il sole da mezz’ora per non dare duemila lire a ‘sto pezzente? Ma che il Signore vi porti via” e, rivolto al tipo che si stava finalmente allontanando sconsolato, urla “Ehi, come here… ti do cinquemila rupie se mi porti a fare una doccia… five thousand!”. La Franca, delusa, lo guarda un po’ con odio un po’ con tenerezza.

Giunti di fronte all’albergo, e consegnato al guidatore di risciò un importo (rigorosamente prelevato dai fondi privati di Gianni: la cassa comune viene gestita da mia moglie e dalla Franca con cieco rispetto della F.B.V.) che gli permetterà di stare con le palle al sole almeno per il resto della giornata, scopriamo che un nuovo albergo è sorto a fianco di quello indicato dalla Guida. Per valutare il migliore decidiamo di esaminarli tutti e due: io e Gianni entriamo nel North Pole e chiediamo al proprietario se è possibile vedere una stanza mentre la Franca e mia moglie entrano nell’altra topaia. La stanza è ampia, ma la qualità è ben lungi – lo sospettavo – dalla guesthouse di Bali: pareti ammuffite che trasudano umidità, un fetido pagliericcio su due brande di ferro, pavimento che ha dimenticato da tempo come è fatta una scopa, bagno con mandi (la pozza – normalmente costruita in cemento piastrellato – nel quale si raccoglie l’acqua che viene utilizzata, aiutandosi con un pentolino di plastica, per lavarsi) che presenta una cospicua mucillagine sul fondo, finestra a tre metri di altezza che dà sul nulla. Ho visto di meglio, ma anche di peggio; guardo Gianni e gli dico “Non è poi così male, no?”. Lui mi restituisce uno sguardo un po’ triste e mi dice “No… non poi così male…”, ma non mi sembra tanto convinto.

Incontriamo le ragazze in strada, e subito la Franca chiede a Gianni (forse vuole metterlo alla prova, dopo la gaffe del risciò) “Com’è la stanza che avete visto?”. Gianni tergiversa un po’, con lo sguardo che vaga da un punto all’altro dell’orizzonte, poi accenna un mezzo sorriso, cerca di sorridere con gli occhi senza riuscirci, poi prende un profondo respiro ed esclama “Mah… lui – e mi indica – ha detto che non è male. Per me un po’ fa schifo, però…”; dopo la descrizione che le ragazze ci fanno della loro “esplorazione” optiamo senz’altro per il North Pole, dove sistemiamo i bagagli per essere liberi di gironzolare per questa cittadina, giudicata “inutile” persino dalla Lonely Planet, che di solito trova qualcosa di interessante da visitare anche nelle fogne di Calcutta dopo il tramonto.

Ed ancora una volta la Guida delle Guide si rivela esatta: Ujung Pandang fa schifo. Non c’è nulla da vedere, nulla da fare, nulla da comprare, fa un caldo boia con umidità al 100%, e – cosa incredibile in Indonesia – non c’è quasi nessuno per le strade. “Forse si sono suicidati” scherza Gianni. Cerchiamo qualche posto dove poter mangiare, ed un autoctono ci indica il “lungomare” dove – ci fa capire a gesti e indonesiano strascicato – sorgono alcuni ristorantini tipici. In effetti il lungomare, per quanto squallidino assai, rispetto al centro città sembra Las Vegas a Capodanno. Scegliamo il ristorante più “sfarzoso” (vi pregherei di attribuire a questa parola il giusto significato, tenuto conto della localizzazione geografica: in pratica poco più di un baraccone di zingari) e prendiamo posto sulla veranda fronte mare. Per uno strano gioco di correnti l’acqua salmastra sotto di noi ristagna, corroborandoci quasi subito con un pungente aroma di pesce marcio che riesce a fare di tutto meno che stimolarci l’appetito. Arriva il “cameriere” che sorridendo ci sbatte sul tavolo un menu bisunto scritto esclusivamente in indonesiano e senza la minima figura esplicativa dei piatti.

Decidiamo di tentare nuove strade, cassiamo i sempiterni nasi e bamie goreng e ordiniamo una panoplia di cibi dai nomi impronunciabili; veniamo serviti dopo una decina di minuti e rimaniamo attoniti a guardare quello che ci è stato portato. Di fronte a Gianni è stato posto un piatto pieno di un brodo nerastro dentro il quale galleggiano due (uova?) di colore verde smeraldo; la Franca può godere di un pesce gatto – servito con pelle, baffi e interiora – che nuota ancora in un liquame trasparente e un po’ gelatinoso. Mia moglie ha ordinato un nasi-qualcosa che le viene recapitato dentro un nido di pastella fritta in olio di cocco, con dentro dei frammenti animali che ricordano un po’ troppo degli insetti capitati per caso nel riso per non esserlo davvero. A me arriva un piatto con degli spiedini ancora poggiati sulla brace, il cui aroma risveglia i miei compagni di viaggio dalla catalessi nauseabonda indotta dalle loro portate, e li porta a rapinare il mio cibo e lasciarmi a bocca asciutta senza alcun ritegno. La Coca Cola – almeno – è bella fresca.

Cerchiamo di passare alla meno peggio il pomeriggio, ma questo trascorre davvero con estrema lentezza; proviamo anche a stancarci il più possibile per non dover ammirare per troppo tempo la nostra cameretta; dopo una notte che puzza di muffa al North Pole Hotel ci svegliamo all’alba e ci precipitiamo (questa volta con un bemo, relativamente al prezzo del quale ingiungiamo a Gianni di farsi i cazzi suoi) alla stazione degli autobus dalla quale partiamo, a suon di clacson e di canzonette indonesiane a 150 decibel, alla volta di Bantimurung, un posto verso nord noto come “la valle delle farfalle”. Arrivati in loco dopo circa quattro ore, non facciamo fatica a decidere dove dormire: c’è un’unica guesthouse in tutto il “paese”, che – a fronte di uno squallore senza pari nelle camere e nelle strutture comuni – offre un nuovissimo campo da tennis con fondo sintetico.

Posati i bagagli nella stanza ed indossate le scarpe da trekking, ci dirigiamo verso il parco “delle farfalle” dove – com’è ovvio in questi casi – in oltre cinque ore di cammino possiamo osservare magnifici ragni, gigantesche mantidi religiose, un fiume che forma deliziosi laghetti nei quali ci tuffiamo con gioia, magnifiche grotte ed altrettanto stupefacenti pareti rocciose, ma non vediamo una farfalla neanche a pagarla.

Nota organizzativa: quando si viaggia in Paesi musulmani è bene informarsi (e sulla Lonely Planet c’era scritto ma non lo abbiamo letto…) sul periodo dell’anno nel quale verrà osservato il Ramadan; di solito è verso aprile/maggio, ma le date precise sono importanti, per evitarvi di dover saltare pasto o di non trovare aperto nulla, neanche i servizi più essenziali o interessanti (ospedali, studi medici, musei, parchi, ristoranti…).

Ritornati nel villaggio, contenti per quello che abbiamo visto ma delusi per le farfalle, ci infiliamo nell’unico ristorantino e scopriamo che è cominciato il Ramadan, quindi non c’è nulla da mangiare fin dopo il tramonto. Gianni è una persona squisita: gentile, disponibile fino alla nausea, generoso, cordiale e mite… ma negategli il cibo quando ha fame, ed ecco Mr. Hyde; non si ferma di fronte a nulla: potrebbe strangolare due bambini per un panino al prosciutto. Alla notizia che dovremo aspettare fino all’imbrunire – saranno le quattro del pomeriggio – comincia a rantolare bestemmiando (o forse a bestemmiare rantolando) frasi sconnesse del tipo “questo posto di merda dove cazzo mi avete portato se lo sapevo me ne andavo in Sardegna lì non hanno tutte queste palle bello girare il mondo con tre deficienti che godono a fare la fame e a dormire in mezzo alla merda io ci ho fame porca troia!”. Convinciamo il proprietario del ristorante a metterci a disposizione una pentola di acqua calda e tiriamo fuori dallo zaino due bustine Knorr di risotto alla milanese; inceneriamo con uno sguardo Gianni che borbotta “Bello sforzo, mi entrano in un molare ‘ste due bustine di merda!” e cerchiamo di tapparci il buco nello stomaco mangiando anche tutte le gallette di simil-pane che troviamo in cucina. Perdiamo un po’ di tempo al ristorante parlando, giocando a carte (attività che riesco a sopportare solo nei viaggi quando devo far passare il tempo. Per il resto della vita ODIO giocare a carte!) e pianificando con più accuratezza le attività e gli spostamenti dei prossimi giorni. Finalmente il sole cala e veniamo serviti dal ristoratore che ci offre un saporito piatto unico: spaghetti di riso bolliti e conditi, a nostra scelta, con ketchup o con noce di cocco tritata. Il Ramadan finisce al tramonto, è vero, ma durante il giorno i fornitori rispettano il divieto di lavorare, quindi non forniscono un bel niente. Gianni piange sommessamente con la faccia nell’incavo del gomito, poi opta per un piattone di spaghetti cocco/ketchup che ingoia con ancora le lacrime agli occhi. Ci dirigiamo verso la camera, che troviamo simpaticamente invasa da una dozzina di scarafaggi cicciottelli (non nella quantità di Singapore, vedi Capitolo 2, ma sicuramente con le stesse dimensioni ciclopiche); ci crollano le braccia: non siamo disposti a tollerare di dormire con questi ripugnanti insetti ma siamo ciononostante tremendamente stanchi. La decisione sorge quasi all’unisono: strappiamo i materassi – completi di lenzuola e copertine – dai letti e li depositiamo al centro del campo da tennis; creiamo una specie di microaccampamento scout e ci addormentiamo sfiniti. Veniamo svegliati di soprassalto nel cuore della notte: gli autoctoni stanno festeggiando la fine del Ramadan con canti e balli; il nostro ristoratore funge da deejay, urlando a squarciagola dentro un microfono collegato ad uno stereo da capogiro. Enormi altoparlanti sono montati sui pali che circondano il campo da tennis, ed il loro suono distorto rimbomba in tutto il villaggio. Rimesso il cuore a posto, ci precipitiamo verso la “cabina di trasmissione”, dove l’improvvisato intrattenitore continua a gridare e cantare – si presume – preghiere e salmi di ringraziamento. Contrariamente alla mia indole irrequieta e “selvatica”, decido di non urtare la suscettibilità del tipo, mi avvicino alla sua postazione, attiro la sua attenzione picchiettando cortesemente sul vetro e, con una cadenza che avrebbe fatto passare un londinese di Oxford Street per uno scaricatore di porto irlandese, gli sussurro “Pardon me, are you using the microphone?”; vengo messo da parte con una gomitata da mia moglie e dalla Franca, che gli strappano il microfono dalle mani e, al grido (meno male in italiano!) di “Brutto figlio di troia vogliamo dormire vattene a fan culo te, Allah, Maometto e tutti gli altri!”. Chiudo gli occhi paventando sanguinose ripicche locali al grido di “Morte agli infedeli!”, ma il rispetto che queste popolazioni nutrono per i turisti rasenta l’idolatrìa, e veniamo quindi graziati: la musica viene abbassata a livelli umani, le preghiere si susseguono recitate e non urlate a squarciagola, e persino l’atmosfera ridiventa piacevolmente orientale. Ritorniamo strascicando i piedi verso il nostro giaciglio tennistico e piombiamo in un sonno non scevro da incubi, dove mi sento tagliuzzato da sciabole musulmane per tutto ciò che rimane della notte.

Al risveglio ci precipitiamo verso un bemo e ci facciamo accompagnare alla stazioncina degli autobus, dove riusciamo a salire al volo su di un coloratissimo mezzo diretto a Rantepao, la capitale di Tana Toraja, una provincia di Sulawesi il cui nome significa “la terra dei Toraja” ed è popolata da una particolare genìa di indonesiani (i Toraja, appunto). Questo popolo differisce dagli altri abitanti dell’isola per due particolarità: la prima è che le case in legno che costruiscono ricalcano in tutto e per tutto lo stile batak originario di Sumatra, nonostante le due isole distino tra loro più di mille chilometri. La seconda, e più tipica caratteristica dei Toraja, è il loro modo originalissimo di celebrare i funerali. Quando una persona muore, infatti, il suo cadavere viene fasciato dentro lunghissime strisce di stoffa impregnate di una blanda soluzione imbalsamante (o quantomeno in grado di ritardare la corruzione del corpo), e tutti i suoi parenti – anche quelli lontanissimi – vengono avvisati. La salma rimane nel suo letto, in casa sua, fino a che tutti i parenti non sono arrivati a rendergli omaggio (la cosa peculiare è che certe volte può volerci anche un anno…); riunito tutto il clan, si può dare inizio ai festeggiamenti: vengono montati dei veri e propri accampamenti dove, in ordine rigorosamente gerarchico e di importanza nell’ambito familiare, vengono fatti accomodare tutti i parenti. Maestro di cerimonie è il capo del villaggio; a seconda dell’importanza del deceduto, e della generosità dei parenti, viene organizzato il clou della cerimonia, cioè il sacrificio dei bufali. Normalmente, per uno “straccione” qualunque vengono sacrificati dai due ai quattro animali; per un “medio-borghese” i capi salgono fino a dieci; un cadavere aristocratico o “in vista” richiede non meno di quindici bufali. Pare che durante il funerale di un nobile Toraja, morto una decina di anni prima, ne siano stati sacrificati oltre cento.

Dopo la cerimonia gli animali vengono macellati, ed i loro pezzi distribuiti al parentado, sempre in rigorosissimo ordine gerarchico (in pratica i figli e/o i genitori si prendono il filetto, i fratelli si cuccano le bistecche e gli ossibuchi, e lo zio in seconda che si è scoppiato mille chilometri in autobus e nove giorni di cargo per venire fin qui dal Nord di Sumatra si porta a casa due zoccoli e un metro e mezzo di budella); al termine della distribuzione la salma viene infilata in una bara cilindrica di legno colorato e viene portata di fronte ad una parete di roccia “sacra”, dove preventivamente è stato scavato un foro; l’altezza di questo da terra dipende, ancora una volta, dall’importanza che il defunto rivestiva nella vita terrena: in basso le merdacce e a salire la nomenklatura. Il feretro viene inserito nel buco, che viene quindi tappato con terra e sterpaglie, e buonanotte ai suonatori.

Arriviamo a Rantepao nel primo pomeriggio, e veniamo come al solito assaltati dalla usuale folla di tassisti, procacciatori d’affari per le varie guesthouse, guide accreditate e non, venditori di souvenir e chi più ne ha più ne metta. Decidiamo di chiedere informazioni ad un tipo che se ne sta bello tranquillo in un angolino: dice di chiamarsi Giovanni (vedi Capitolo 2 – Bukit Lawang – Pietro…), di fare la guida e di lavorare per conto di un’importante guesthouse del villaggio, l’Indra Hotel, dove si affretta a condurci; in effetti il posto è bellissimo, con camere pulite e spaziose che si affacciano su di un meraviglioso giardino tropicale; all’interno del cortile c’è un ristorante, che sembra fin troppo pulito per le nostre abitudini, dal quale si sprigionano aromi finora sconosciuti (e che migliorano la qualità dell’Odore dell’Oriente respirato sinora). Come se non bastasse, il prezzo richiesto (sempre al di sotto delle diecimila lire a camera) è addirittura inferiore a quello segnalato dalla Lonely Planet edita due anni prima. Preso possesso della camera, scopriamo che Giovanni ci attende accovacciato nel giardino; un po’ sbuffando – non comincerà mica anche lui a diventare pressante? – ci avviciniamo al ragazzo, che ci bisbiglia di aver saputo che di lì a due giorni, in un villaggio un po’ distante da Rantepao si terrà un funerale con il sacrificio di almeno quattro bufali; lui, ovviamente, può farci da guida. Gli chiediamo cosa si può fare l’indomani, per ingannare l’attesa; concordiamo per il mattino una visita a Lemo e Londa, villaggi/luoghi sacri famosi per le statuette antropomorfe poste fuori delle tombe nella roccia, e per il pomeriggio una camminata impegnativa nella foresta che circonda Rantepao. Alla sera ci schieriamo al ristorante, dove mangiamo in una maniera superba; il piatto che ci fa letteralmente “sballare” è una specialità Toraja: pollo, riso, cocco, ginger e spezie varie, il tutto cotto dentro un pezzo di bambù che viene seppellito per quattro ore sotto la brace. Finito il pollo, Gianni ha il coraggio di ordinare un piatto di riso nero Toraja (una varietà di riso – scuro come se fosse condito con il nero di seppia – dai chicchi lunghi più di un centimetro e dal profumo che farebbe sfigurare le migliori qualità di Basmati) cotto con pezzi di carne, vegetali misti ed il sempiterno ginger ad insaporire il tutto.

Andiamo a dormire paventando incubi orrendi causati dallo stomaco dilatato; ci svegliamo invece belli tranquilli il mattino dopo e, dopo una colazione assolutamente all’altezza della cena, incontriamo Giovanni accovacciato nel giardino (dormirà lì?, ci chiediamo silenziosamente) che non appena ci vede si alza di scatto ed è subito in assetto di marcia. Per raggiungere il villaggio di Londa, la nostra prima meta, affittiamo un bemo, con il quale non c’è neanche bisogno di contrattare, visto che Giovanni, senza una parola, sbatte in mano all’autista una misera manciata di rupie: un prezzo che – da turisti – non saremmo riusciti a strappare neanche con due giorni di mercanteggiamenti. Arriviamo nel villaggio, che a prima vista ci delude un po’ in quanto è smaccatamente turistico: tutto è recintato, si paga un biglietto (simbolico, ma comunque un biglietto) per entrare, ed è troppo pulito è in ordine; somiglia più ad un giardino giapponese che ad un cimitero indonesiano. La vista è comunque di quelle che lasciano il segno: risaie a perdita d’occhio, una casa Toraja (che vorrebbe far capire di essere stata lasciata come un tempo, ma che tradisce purtroppo moderni ed estesi restauri), e soprattutto le tombe scavate nella roccia che presentano, come affacciate a balconi, statuette di terracotta alte da un metro a un metro e mezzo i cui volti riproducono, più o meno fedelmente, quello dei defunti ai quali sono state dedicate, ed i cui abiti sono ricavati da vestiti originali dei morti. L’insieme è un po’ macabro-feticista, ma l’impatto emotivo è sicuramente forte.

Ci rifocilliamo rapidamente e – con un altro bemo – proseguiamo per la seconda tappa. Camminiamo nella giungla fino all’imbrunire; Giovanni è un’ottima guida e ha capito quello che ci interessa fare e vedere: la parola d’ordine è “Turisti? No, grazie!”, quindi vogliamo evitare i posti consigliati dalle guide più popolari dove vanno tutti i gruppi organizzati, belli eleganti nei loro completi da tennis e con i loro cappellini colorati, che fotografano e riprendono poveri indigeni prezzolati che si esibiscono in dubbie “danze rituali”. Delle danze e dei canti non ci è mai interessato nulla, ma vedere un piccolo villaggio immerso nella vegetazione dove i bambini ti corrono incontro chiedendoti caramelle o anche solo una carezza, dove le donne tessono batik o puliscono il riso e dove gli uomini, tutti insieme e sempre sorridenti, si danno una mano l’un l’altro per costruire qualcosa (di volta in volta una capanna, una stalla o una ciotola per il riso) o semplicemente siedono a guardare il tempo che passa con una Kretek tra le labbra vi garantisco che – anche senza completo da tennis – gli occhi si riempiono fino a scoppiare. L’unico timore – ed il motivo principale per cui mi sono deciso, dopo anni, a scrivere queste pagine – è quello di non riuscire a ricordarsi qualcosa, che qualche immagine vada perduta, qualche scorcio finisca per essere dimenticato, qualche diapositiva indelebile cominci a schiarirsi.

Il nostro trekking culmina con l’arrivo sulla cima di una collina (che in Indonesiano si chiama bukit) dalla quale si domina tutta la pianura di Rantepao; con le tipiche nuvole tropicali ed il sole ormai arrossato dal tramonto imminente riusciamo tranquillamente a consumare mezzo rullino di diapositive. Ritorniamo a “casa” affamati come tigri, e prendiamo d’assalto il “nostro” ristorante sviluppandoci nuovamente una cospicua selezione di specialità Toraja. Crolliamo nei letti con gli zaini ancora sulle spalle e con i muscoli delle gambe che sembrano vecchie corde sfilacciate.

Al mattino, Giovanni appollaiato nel giardino non ci stupisce neanche più; facciamo una grandiosa colazione (come ci mancherà questo posto nei prossimi giorni!) e saliamo sull’ennesimo bemo alla volta del villaggio dove sarà celebrato il funerale. Prima di partire la nostra guida ci suggerisce di comprare un regalo per il capo del villaggio, un’ottima idea per facilitare la nostra partecipazione alla cerimonia; il presente viene identificato in una stecca di sigarette ai chiodi di garofano (tra i principali componenti dell’Odore dell’Oriente…) che paghiamo una cifra irrisoria.

Non appena arriviamo al villaggio, Giovanni parla con il capo, che ci fa cenno di avvicinarci; sembra un po’ uno di quei sovrani degli stati-operetta del Centrafrica, tutto coperto di stoffe colorate e intessute di fili dorati, gli manca giusto il copricapo di pelle di leopardo. Accetta comunque il dono sorridendo e inchinandosi leggermente, e ci invita a prendere posto nell’accampamento dei parenti, nel settore dei “quasi-importantissimi”. Veniamo subito presi d’assalto da torme di bambini e da un paio di vecchiette secolari che, nonostante la completa assenza di denti, continuano a biascicare enormi boli di betel con susseguenti sputacchi rossastri, per la gioia della nostra colazione semidigerita.

Trascorre quasi un’ora e, grazie al fatto che la copertura degli accampamenti è costituita da fogli di pesante nylon, ben presto cominciamo a sudare come minatori polacchi. Ad un tratto, nell’ “arena” di terra posta al centro dell’agglomerato di tende, fa il suo ingresso il primo bufalo. Mansueto ed enorme, viene accompagnato vicino ad un paletto infisso nel terreno da due “cerimonieri” bardati a festa; la corda con la quale viene condotto, annodata ad un anello che gli fora il naso, viene assicurata saldamente al paletto. Il primo cerimoniere, sempre continuando ad accarezzarlo ed a sussurrargli – presumiamo – paroline tranquillizzanti, dalla fusciacca di stoffa che gli cinge la vita estrae un affilatissimo coltellaccio (il Parang) che ricorda i machete, tipico dell’Indonesia. Rapida come la lingua di un camaleonte, la lama urta la gola del bufalo, aprendogliela da un lato all’altro. L’animale non si è neanche accorto di quello che gli è successo; dalle sue giugulari troncate di netto schizzano fiumi di sangue rosso carminio, mentre i due uomini si allontanano prudentemente. Assistiamo attoniti alla scena: nessuno di noi – chissà perché – si era immaginato una simile truculenza; dopo alcuni secondi il bufalo comincia a capire che qualcosa non sta funzionando per il verso giusto, e cerca di strappare la corda che lo blocca al paletto; è però ormai troppo indebolito, ed ogni sforzo ha come solo risultato quello di far schizzare ancora più sangue nella terra ormai zuppa, sfiancandolo ancora di più. Dopo un paio di tentativi di liberarsi, l’animale crolla a terra, e subito un’orda di indigeni gli è sopra: alcuni gli infilano canne di bambù nel collo a mò di contenitori per raccogliere il poco sangue residuo (la guida ci spiega che provvederanno poi a preparare dei sanguinacci: mia moglie realizza e comincia a vomitare in silenzio); altri, mentre il bufalo rantola, ancora vivo, cominciano a tagliargli via la coda e il naso, forse considerati come amuleti beneauguranti.

Prima che il bovino esali l’ultimo respiro, altri due vengono portati al centro dell’accampamento, e la cerimonia si ripete passo passo. Alla fine i bufali sacrificati saranno sei. Mentre Giovanni ci guarda annuendo e sorridendo come a dirci “Vi ho portato o no a vedere un bello spettacolo?”, cerchiamo – per pura dignità – di non rovesciare nel terreno quel poco che ci ballonzola nello stomaco. Quando crediamo che sia finita, e facciamo il gesto di alzarci, salutare ed andarcene ringraziando per la bella giornata, il capo ci fa cenno di rimanere seduti: comincia la divisione della carne; i bufali vengono scuoiati in diretta da mani esperte dotate di lame affilatissime, i loro ventri vengono aperti, le viscere estratte e ripulite dal cibo in digestione, gli arti mozzati e gli stalli migliori esposti e sezionati. Quasi subito l’aria si impregna di un odore indescrivibile, incrementato dal caldo orrido e dalle coperture di nylon roventi, dove il tutto ristagna. Mia moglie – non avendo più nulla da rigettare – sta cercando di vomitare la cena della settimana precedente; Gianni ha gli occhi rossi e una curiosa bava schiumosa alla bocca; la Franca fa la dura ma ha senz’altro conosciuto pomeriggi più divertenti; io cerco di distrarmi giocando al fotoreporter “estremo” gironzolando intorno agli animali con la macchina fotografica impostata su “scatto rapido”, ma nel mio stomaco sembra abbia trovato rifugio una colonia di pesci rossi vivi. L’opera di divisione dura più di due ore, e l’unico lato positivo è che alla fine ci siamo abituati al lezzo nauseabondo ed alla vista di organi interni e pezzi di carne – viva fino a poco tempo prima – esposti sulle foglie di banano stile mercato rionale.

Prima che la riunione si sciolga lentamente, alcuni incaricati si aggirano per l’accampamento porgendo ai convenuti grosse canne di bambù che tutti si portano alla bocca, bevendo qualcosa dal loro interno; la guida ci spiega che si tratta di tuak, un liquido fermentato e vagamente alcolico che viene raccolto in determinati periodi dalla cima di certe palme. Quando arriva il mio turno, assetato e parecchio nauseato, bevo avidamente dalla canna, incurante dei precedenti – numerosi – avventori che si sono rinfrancati. Il liquido è tiepidino e pieno di corpuscoli in sospensione, il gusto è una via di mezzo tra il saké e il Martini bianco caldo, l’effetto nello stomaco è dirompente (e scoprirò in serata a mie spese – nonostante la doppia razione di Bimixin – quanto dirompente sia l’effetto negli intestini…); in più, oltre a ubriacarmi parzialmente, col cazzo che toglie la sete.

Ancora piuttosto scossi – per non dire sconvolti – dall’accaduto, decidiamo di seguire Giovanni che ci porta a vedere un villaggio disabitato dove – pare – negli anni passati siano stati sacrificati in un giorno oltre cento bufali; saranno leggende metropolitane (se di metropolitano può esistere qualcosa nel mezzo di Sulawesi…), ma “dicono” che il terreno, zuppo di sangue, ha impiegato più di una settimana per asciugare. Indubbiamente il villaggio è suggestivo: due file parallele di capanne con il tipico tetto incurvato, per un totale di una cinquantina di abitazioni; le foglie di palma che coprivano le case sono seccate e si stanno sbriciolando; il legno, non più curato, è già pieno di fessure e spaccature che il vento fa risuonare sinistramente. In fondo alla “via”, due enormi alberi sono talmente carichi di enormi frutti neri da avere tutti i rami piegati quasi fino a terra. Camminiamo in maniera quasi riverente tra le capanne che sembrano fissarci dai buchi vuoti delle finestre; gli ultimi passi ci portano quasi sotto i due maestosi alberi, dai quali si sprigiona un rumore assordante. Giovanni, con cenni e sorrisi, ci invita a guardare in alto: tra i rami non ci sono frutti neri, ma enormi pipistrelli arboricoli, le cosiddette volpi volanti. Sono centinaia, grandi – per l’appunto – come volpini e con l’apertura alare di quasi un metro. Svolazzano da un ramo all’altro, appendendosi poi con le zampe posteriori ed avvolgendosi dentro il patagio (la membrana di pelle che – unendo tra loro le lunghissime dita delle zampe anteriori – forma le ali) per riposarsi. Nonostante il pipistrello rappresenti per molti un animale quantomeno da evitare se non abietto (io li adoro, ma so da tempo di non essere del tutto normale), lo spettacolo è affascinante e quasi ipnotizzante, tant’è che il tempo passa senza che ci se ne accorga, e facciamo ritorno verso l’inizio del villaggio solo quando il sole comincia platealmente a tramontare. Ritorniamo in albergo con il buio e ci accomiatiamo da Giovanni, in quanto il giorno successivo abbandoneremo Tana Toraja per partire di buon’ora alla volta di Pendolo, un villaggio al nord di Sulawesi.

Uno dei soliti, coloratissimi e rumorosi autobus colorati ci scarrozza per circa sette ore alla volta di un microvillaggio, avamposto da cui si attraversano le montagne (sito del Camel Trophy 1988) per raggiungere Pendolo, situato sulla sponda sud del lago di Tentena. Non appena arrivati cerchiamo un mezzo che ci porti fino al lago, ma forse questa volta abbiamo interpretato male le indicazioni – in inglese – della Lonely Planet: non esistono mezzi pubblici, la strada verso il lago è poco più di una mulattiera carrabile lunga oltre ottanta chilometri, la durata stimata del percorso – che può essere effettuato solo su jeep private noleggiate espressamente – è, salvo complicazioni (che in Indonesia sono sicure…), di circa dodici ore. Non restandoci altro da fare, ci rechiamo nel primo (e unico) “emporio” per acquistare qualche genere alimentare, poi chiediamo dove si può contattare qualche proprietario di jeep che intenda trasportarci fino in riva al lago. Veniamo accompagnati in una specie di stazione di autobus dove sono posteggiate alcune jeep Toyota Landcruiser piuttosto male in arnese; nel retro di una di esse sono seduti – silenziosi e tranquilli come solo gli autoctoni sanno essere – un uomo e (scopriremo poi) sua figlia, di circa sette/otto anni. Il proprietario dell’automezzo fuma una Kretek appoggiato al cofano della sua auto, e quando gli chiediamo di portarci al lago ci dice che ormai è tardi, che non riusciremo a raggiungere la meta prima di notte, che minaccia pioggia e che non ne ha tanta voglia. Dopo una buona mezz’ora di tira-e-molla riusciamo a convincerlo a partire; saliamo in macchina, salutando i nostri due compagni di viaggio (solo il più vecchio dei quali risponde, con un cenno della testa), e si parte verso le montagne.

Dopo un’ora dalla partenza comincia a piovigginare, e l’autista fa il gesto di tornare indietro; lo convinciamo a proseguire, ignari di quello che ci aspetta. La jeep comincia ad arrampicarsi per la strada, che definire dissestata è un’inutile eufemismo; la pioggia si intensifica fino ad assumere i connotati di una vera e propria tempesta. Dalle pendici che sovrastano la strada – tutto quanto è formato da rocce argillose – cominciano a rotolare dinanzi a noi, spinte dall’acqua e dal fango, pietre dalle dimensioni variabili tra l’uovo di gallina e la Vespa Piaggio (con portapacchi). Quando la jeep non riesce a passare io e Gianni saltiamo fuori e, sotto la pioggia torrenziale, spostiamo i macigni di quel tanto che basta a permettere il transito del veicolo; naturalmente, l’altro passeggero indigeno rimane bello tranquillo seduto a fianco della sua bambina: non parla, non sorride, non ringrazia, non guarda fuori, non sospira, non si preoccupa. Mah… La luce del giorno è sparita ormai da tempo, la pioggia non accenna a diminuire, la strada è una specie di fiume fangoso dal quale, come coccodrilli in agguato, spuntano di tanto in tanto pezzi di radice, massi e buche. Il tempo passa e l’auto arranca, sbandando, molto lentamente.

Dietro una curva, il nostro autista blocca di colpo le ruote per evitare di tamponare una jeep che è completamente ferma a luci spente in mezzo alla strada; non appena i tergicristalli riescono a spazzare via abbastanza acqua dal parabrezza per consentirci di vedere attraverso, scopriamo che davanti alla prima jeep ve ne è un’altra, e poi un’altra ed un’altra ancora: una lunga fila di automezzi bloccati nel bel mezzo della giungla, sotto un fortunale di proporzioni bibliche, con me e Gianni (che tra l’altro comincia ad avere fame…) fradici, infreddoliti, pieni di fango fino alle ascelle e l’autista incazzato come un toro perché “lui non voleva partire”. E gli altri passeggeri? Niente, fermi come statue di porfido, lo sguardo fisso davanti a loro; passi per l’uomo ma la bambina, cazzo!, potrebbe piagnucolare un po’ come tutti i bambini occidentali… chessò, un capriccetto, un broncio… niente di niente! Dopo un’ora di sosta in queste condizioni, e dopo aver provato a ripulirci dal fango – inutilmente – con i fazzolettini preinumiditi che (consiglio gratuito) è sempre meglio portare con sé, decidiamo tutti e quattro di scendere ed andare in cima alla colonna a vedere che cosa sta succedendo. Superiamo a piedi almeno una dozzina di jeep per scoprire che davanti alla prima della fila… c’è la strada bella libera! Osservando le nostre facce stupite e un po’ incazzate, l’uomo alla guida della vettura che sta bloccando il traffico abbandona il suo posto dietro il volante, ci saluta sorridendo e ci spiega – a gesti e con poche parole espresse in un protoinglese quasi incomprensibile – che ha deciso di fermarsi… perché era stanco! Ci guardiamo come a sincerarci di essere ben svegli, poi ci giriamo verso l’autista come ad accertarci che non sia un’allucinazione collettiva, poi ci riguardiamo… e quando finalmente siamo certi di vivere nel mondo reale, Gianni afferra l’autista per il collo, lo schianta con la schiena contro il cofano infangato della jeep e gli dice (tradendo un po’ di appetito) “Ora, brutto figlio di puttana, risali su questa cazzo di macchina, la metti in moto e cominci ad andare avanti o quant’è vero Dio ti faccio a pezzetti e li spargo per questa cazzo di giungla fino a che non ti trovano più neanche se ti vengono a cercare col microscopio”; la frase, espressa in italiano con forte accento genovese, è comunque estremamente comprensibile, tanto che l’autista sorride, scrolla le spalle, sale a bordo della jeep… e si addormenta di colpo dietro al volante. Tratteniamo Gianni che comincia a mordersi le mani (rabbia o fame?) e ci dirigiamo sommessi verso la nostra auto. Cerchiamo di dormire un po’, ma il fango secco sul corpo, il freddo umido e lo spazio più che angusto non ci concedono riposo; il nostro compagno di viaggio e la figlia dormono profondamente da tempo, la testa ciondoloni sul petto e le mani intrecciate sulle gambe. L’autista, che scemo non è, capisce il nostro dramma esistenziale e, senza una parola – come al solito! – scende dall’auto e ritorna dopo cinque minuti facendoci cenno di seguirlo; ci conduce verso un sentiero che si perde nella giungla (e un po’ cominciamo a spaventarci o comunque a guardarci intorno con una certa apprensione) fino ad arrivare ad una capanna di legno con il tetto ricoperto di foglie di palma dove veniamo invitati ad entrare.

L’interno della baracca è stipato fino al soffitto di letti a castello stile militare, sopra i quali si accalcano decine e decine di indonesiani dagli occhi stanchi, infangati fino alle narici; uno di loro spiaccica qualche parola di inglese, quel tanto che basta comunque per spiegarci che sono tutti operai di una società statale che dovrebbe effettuare dei lavori di miglioramento in quel tratto di strada, così da consentire il transito anche a mezzi più ingombranti e meno maneggevoli delle jeep 4×4. A giudicare dalla nostra epopea non è che i lavori stiano procedendo velocissimi, ma tant’è. Rimaniamo comunque un attimo basiti di fronte a questa moltitudine, stile verginella in un bar malfamato, quando alcuni autoctoni si alzano da letto – Gianni sussurra “Lo sapevo, ora ci fanno il culo tutti quanti!” – e fanno il gesto di cederci il loro giaciglio! Decliniamo rispettosamente (c’è meno fango per terra) e, ringraziando il nostro autista per il colpo di genio, ci accomodiamo sulle assi di legno dell’impiantito; incredibile ma vero ci addormentiamo di botto, per risvegliarci grazie agli scrolloni di uno degli operai, che cerca di avvisarci a gesti che le jeep sono pronte per partire.

Piove ancora, e la carovana avanza ad una media degna di un bradipo zoppo; dopo poco più di un’ora incontriamo un altro blocco: un pulmino Colt Mitsubishi (di fatto la carcassa di un minibus sugli assali di un fuoristrada) è finito dentro una buca fangosa e non riesce a disimpantanarsi, anche perché a bordo sono rimasti tutti i passeggeri, che siedono belli tranquilli come se stessero andando ad una gita scolastica. Per quanto la F.B.V. Ci urli nelle orecchie “Pensa Locale!”, io e Gianni scendiamo dalla nostra jeep (no comment sul nostro compagno di viaggio e la figlia, inerti come statue di sale), saliamo con gli occhi spiritati a bordo del pulmino, e al grido di “Ora ci avete rotto i coglioni!” prendiamo uno alla volta i passeggeri, li sbattiamo fuori dal veicolo, li facciamo appoggiare al retro di esso e – facendo segno all’autista di mettere in moto – cominciamo ad incitarli a spingere. Dopo un primo momento di stupore (occhio a palla, mandibola sbarrata), gli autoctoni cominciano davvero a darsi da fare, e siccome l’unione fa la forza – l’ho letto da qualche parte – dopo pochi istanti il pulmino è liberato dalla morsa di fango e si può ripartire. Quando torniamo alla jeep l’autista – per la prima volta da quando l’abbiamo incontrato – sorride.

Quando manca una decina di chilometri al lago, troviamo la strada bloccata, ma in maniera definitiva: un altro pulmino, simile al precedente, si è rovesciato brutalmente dopo un dosso, sprofondando in una piscina di fango profonda almeno un paio di metri e bloccando completamente il passaggio. Ci guardiamo, cercando una soluzione, ma l’unico rimedio è riassumibile nell’espressione “zaino in spalla e pedalare!”; belli carichi come cammelli nel deserto cominciamo ad arrancare verso il “traguardo”. Ha smesso di piovere ed è uscito il sole; il calore dell’astro porta l’umidità a livelli intolleranti, ed il fango – che crostifica lentamente in superficie – rende l’avanzata una vera e propria Fatica di Ercole.

Proprio mentre stiamo per decidere di cadere e lasciarci morire in terra indonesiana, una jeep arriva verso di noi: l’autista si sporge dal finestrino e ci chiede “Lake? Tentena?”. Gli corriamo incontro, quasi spaventandolo, e balziamo sull’auto tutti e quattro all’unisono, senza neanche toglierci gli zaini dalla schiena. Dopo neanche un’ora veniamo depositati nel paesino di Pendolo, proprio di fronte all’imbarcadero in riva al lago; ringraziamo il nostro salvatore ricompensandolo senza contrattare (e, comunque, con una cifra dal controvalore per noi ridicolo) e chiediamo un passaggio per l’altra riva del lago, in prossimità cioè del paesino di Tentena. Dopo le solite esitazioni, i mille “Yes mister” che non portano a niente e una mezza crisi di nervi di Gianni che sta morendo di fame, troviamo una brutta copia di pescatore che ci fa accomodare su di un vero e proprio relitto galleggiante: un barcone di legno lungo una decina di metri, che sul fatiscente specchio di poppa monta un fuoribordo Mercury 25 cavalli.

Con i soliti “tempi tecnici” indonesiani il natante molla gli ormeggi e si dirige, spinto dalla debole risacca, verso il centro del lago; osserviamo come i due “marittimi” addetti alla conduzione della barca stiano armeggiando intorno al motore con una panoplia di tubi, tubetti e tubicini. Dopo alcuni minuti cominciamo – aiutati anche da Gianni “lupo di mare” – a capire che cosa stanno facendo: siccome la benzina è molto cara, ed il cherosene per contro non costa quasi nulla, i due sciagurati cercano di avviare il fuoribordo con un “cicchetto” di benzina, passando subito dopo all’alimentazione a cherosene. Il raziocinio non è di casa da queste parti (o perlomeno quasi mai), quindi i “motoristi” stoppano con troppo anticipo l’afflusso di benzina, riuscendo a far spegnere il motore, dopo due miseri borbottii, almeno una quarantina di volte. Gianni si tormenta la faccia con le mani mormorando ripetutamente “Non è vero… non è possibile! Non posso credere a quello che vedo…Ma dove cazzo siamo finiti?”; alla fine, senza un motivo logicamente valido, il motore si avvia e, nonostante l’alluvione di cherosene che gli viene sparata nei carburatori, rimane in moto, spingendo il pesantissimo barcone ad una velocità quasi impercettibile. Provati dalla tensione (e dalle quattordici ore di fango, acqua e marce forzate), ci addormentiamo sui paglioli fatiscenti.

Quando apriamo gli occhi, il molo di Tentena è simpaticamente vicino; aiutiamo gli autoctoni nelle opere di ormeggio e, non appena a terra, ci precipitiamo verso la bellissima guesthouse sul lago, naturalmente raccomandata dalla Lonely Planet; i gestori sono oltremodo gentili, le camere – tutte a mo’ di microchalet di legno – sono veramente belle, i prezzi – come al solito – sono bassissimi. Posiamo i bagagli in camera e, visto che è appena cominciato il pomeriggio, ci sfamiamo nel ristorante annesso all’hotel (per la gioia di Gianni…) e decidiamo di andare a rinfrescarci sulle sponde del lago; i padroni della guesthouse ci consigliano una spiaggetta isolata a poche centinaia di metri da lì. Una volta raggiunto il luogo indicatoci, posiamo gli asciugamani sulla riva del lago e ci tuffiamo nell’acqua fresca e cristallina; finita la nuotata e rimossa ogni traccia di fango secco, sporcizia varia e sudore, crolliamo esanimi a terra e ci crogioliamo al sole per asciugarci. Ci risvegliamo all’imbrunire – abbiamo dormito quasi quattro ore! – per scoprire che, grazie all’azione combinata dei riflessi dell’acqua e dell’implacabile sole tropicale, siamo completamente, e gravemente, ustionati: labbra gonfie, occhi peggio delle labbra, pelle rosso fuoco che “tira” in maniera impressionante. Torniamo rantolando verso “casa”, suscitando l’ilarità di tutti quelli che ci incontrano, compresi gli albergatori; questi ultimi ci suggeriscono di utilizzare una crema antiscottature (mica scemi, eh?), e così dicendo ce ne regalano un tubetto king size. Il resto della serata trascorre in una sorta di semi incoscienza indotta dal colpo di sole; l’unica cosa che riusciamo a fare è stripparci con una favolosa grigliata di pesce di lago.

Il giorno successivo ci vede impegnati a riaverci dalla scottatura; in realtà saremmo dovuti partire già oggi, ma il solo pensiero di indossare dei vestiti e appoggiare la schiena e il culo sui sedili bollenti degli autobus locali ci fa rabbrividire; ci lasciamo scorrere il tempo tra le dita come acqua di sorgente, passeggiando nella quiete estrema di Tentena ed esplorando le rive del lago e i dintorni del villaggio, diventando amici di un paio di scimmiette e di un pappagallo rumorosissimo, assaggiando improbabili specialità gastronomiche locali e provvedendo a restituirle al lago dopo pochissimo tempo sotto forma di feci semiliquide. La sera ci coglie quasi di colpo; la situazione della nostra pelle sta migliorando nettamente e – visto che oggi, comunque, ci siamo rotti i coglioni a mille – decidiamo di partire l’indomani di buon’ora alla volta di Palu, da dove abbiamo progettato di prendere un aereo diretto nel Borneo.

Saliamo sull’autobus, prenotatoci direttamente dai nostri albergatori la sera prima, alle sette del mattino; miracolo!, l’autista mette in moto alle sette e dieci, e comincia a girare per le (poche) strade di Tentena, fermandosi ogni pochi metri e scambiando battute e misteriosi pacchi con gli abitanti del paesino. Abbandoniamo definitivamente il villaggio verso le nove e un quarto, e quasi subito comincia una strada orrenda che s’infila però nel bel mezzo della giungla, consentendo alla Franca e a me di scattare alcune irrinunciabili fotografie (oltre ad essere i maniaci della F.B.V.. Io e Franca siamo anche gli irriducibili fotografi, sempre pronti a chiedere al pulmino di fermarsi per non perdere un’inquadratura, o capaci di perdere l’unico treno del giorno per immortalare il trecentomillesimo bambino sdentato che ci sorride).

Per ingannare la tediosa lungaggine del viaggio (punteggiato dalle solite vomitate di mia moglie, da qualche sputazzo al betel degli autoctoni, dalla solita mezza dozzina di cani ed animali misti investiti durante il tragitto e dalla musica assordante propinataci dal sadico autista) cominciamo a scambiare qualche mezza parola con i passeggeri locali, che quando vengono a sapere che la nostra meta finale è Palu si stupiscono e cominciano a sussurrare “Black magic… Palu black magic… dangerous!”. Un indigeno un po’ più evoluto ci spiega che la città dove ci vogliamo recare è nota in tutta l’Indonesia per la sinistra fama di “magia nera” che la circonda.

Non rimaniamo impressionati neanche un po’ da tanto terrore superstizioso, ed infatti Palu non ci delude: rispetto a quanto abbiamo visitato finora è un paesino moderno, piacevole e dal clima meno asfissiante del solito. Troviamo persino da dormire in una guest-house pulita (!) ed a poco prezzo, dove il solerte gestore ci prenota – con i soliti mezzi a dir poco artigianali, cioè va di corsa a chiamare (a casa) il titolare di un’Agenzia Viaggi e lo porta lì di peso con il blocchetto dei biglietti aerei da compilare, stile tranviere – quattro posti sul volo Bouraq dell’indomani diretto a Balikpapan, nel Borneo Indonesiano (il Kalimantan). Trascorriamo la serata leggendo la guida, mangiando il mangiabile (piuttosto poco in verità, a parte gli onnipresenti Nasi Goreng e Bamie Goreng) e schiaffeggiandoci a vicenda per allontanare le zanzare ed i pappataci che ci tormentano.

Il volo per Balikpapan si svolge senza particolari patemi, e quando giungiamo sulla verticale della città un paesaggio da tregenda ci colpisce: il Borneo è uno dei paesi della Terra più ricco di petrolio, e la proliferazione selvaggia degli impianti estrattivi ha trasformato le zone ad esse circostanti in incubi tecnologici degni dei peggiori film di fantascienza: torri fumanti, distese di immensi serbatoi circolari, fiamme eterne che consumano l’aria con sbuffi roventi di idrocarburi nerastri; il tutto circondato da una delle più belle e selvagge foreste pluviali del Mondo.

Atterrati a Balikpapan, saltiamo ad occhi chiusi dentro un bemo, e quasi senza trattare il prezzo (orrore!) ci facciamo portare a Samarinda, un paesino situato una ventina di chilometri più a nord. Da lì, con un bus più scalercio che mai ci dirigiamo verso Tenggarong, un posto che segna l’ingresso al Parco Nazionale del Fiume Manakam; ci sono perfino i ranger, che ci fanno compilare il solito, onnipresente e ponderosissimo registro degli ospiti, dove viene chiesto di segnare nome, cognome, nazionalità, numero passaporto, scopo del viaggio, colore degli occhi, durata della permanenza in Indonesia, attori preferiti, piatto preferito, squadra di calcio, altezza, numero di scarpe eccetera. Per uno strano capriccio del destino (capirete fra qualche pagina…) invece di scrivere come al solito dati a capocchia (tipo Via Ledita Dalnaso come indirizzo) decidiamo questa volta di indicare dati reali e completi. Ci viene assegnato un numero progressivo e veniamo introdotti nel Parco dall’Ingresso Principale, che di fatto altro non è se non un traballante pontile di legno al quale, piuttosto spesso, attracca un barcone pubblico.

Una breve spiegazione si rende a questo punto necessaria: in questa zona del Borneo non esistono strade, e tutto il traffico – umano e mercantile – si sposta sull’acqua. Al posto degli autobus sono stati predisposti degli enormi barconi “stile chiatta” che ad intervalli “regolari”- compatibilmente con la mentalità autoctona – percorrono il fiume nei due sensi effettuando innumerevoli fermate, a richiesta e non. Può capitare che ad un attracco scendano quaranta persone, cento cani e nove galline ed in quello successivo – magari due pezzi di legno inchiodati a formare un embrione di pontile – salti giù un indigeno sfigato che vive in solitudine dentro una capanna sul fiume.

Dopo una breve attesa (che nel prontuario indonesiano significa “meno di quattro ore”) riusciamo a saltare sul mitico barcone, che rollando e beccheggiando comincia a risalire il fiume. Con un occhio alla Guida e un altro – ben piazzato – verso il pilota, che sembra tutt’altro che sobrio, cerchiamo di orientarci al meglio per capire quale potrebbe essere la nostra prima tappa. Alla fine optiamo per Muara Muntai, un villaggio fantastico costruito – strade comprese – interamente su palafitte. Troviamo da dormire in una specie di guest-house (anche se “abietta topaia” mi sembrerebbe – a distanza di anni – una descrizione più adeguata) e ci rechiamo a mangiare nell’unico “ristorante” (le virgolette si sprecano, ma vi giuro che è il caso!) del paese, che ci offre una panoplia di colori e sapori in grado di rendere dubbioso anche il palato di una ruspa. Scegliamo comunque il cibo dall’aspetto meno preoccupante, e mentre ci stiamo nutrendo (“mangiare” è un verbo un po’ troppo forte; durante le sue – frequenti – crisi da viaggio, Roberta ama ripetere che io – che amo assaggiare ogni ignominia – vivo per mangiare, mentre lei è costretta a nutrirsi per sopravvivere) un’enorme cicala comincia a ronzarci intorno, per posarsi quindi sullo stipite di una finestra a poca distanza da noi. Cogliendo il nostro sguardo preoccupato, il gestore si avvicina alla finestra, afferra il malcapitato insetto e lo spezza tra le mani con un rumore agghiacciante, gettandone poi i miseri resti, ancora tremolanti, sul pavimento che – vi prego di credere – ne guadagna.

Forti di questa azione digestiva, paghiamo il conto e torniamo a “casa”, dove incontriamo alcune sedicenti guide che si offrono di organizzarci una gita in barca nella giungla. Dopo le solite trattative estenuanti, concordiamo un appuntamento per l’indomani all’alba con la guida fasulla che ci è sembrata meno fasulla delle altre, e cominciamo ad avviarci verso le nostre stanze, quando un tuono di una potenza sconcertante scuote tutto il villaggio; Gianni riesce ad articolare una frase storica tipo “Che cazzo succede?”, e subito dopo comincia a piovere con una tale violenza che, fuori dalla finestra, svanisce tutto dentro una nube di acqua. Ci guardiamo negli occhi (e un po’ ci annusiamo): siamo stanchi ma soprattutto sporchi.

In meno di un minuto siamo fuori, in costume da bagno con una bottiglietta di bagnoschiuma king size, lavandoci allegramente sotto il rovescio apocalittico; ben presto i pontili (ricordiamo che non ci sono strade) si popolano di indigeni che seguono il nostro esempio. Per accelerare i tempi di eliminazione del sapone, Gianni si posiziona sotto una grondaia che lascia cadere un copioso getto d’acqua; al secondo risciacquo – rimosso dalla sua bara naturale (qualche tegola?) dalla pioggia torrenziale – gli cade tra capo e collo uno stupendo esemplare di pantegana morta, che oltre a stordirlo momentaneamente lo costringe a ripetere freneticamente le sue abluzioni.

Terminato il bagno inaspettato, ci asciughiamo alla bell’è meglio e riguadagniamo il nostro alloggio; tra cigolii sinistri e animalume vario che corre e striscia riusciamo ad addormentarci quasi subito, golosi dell’indigestione di giungla che ci attende a partire dall’indomani.

Alle sette in punto, mentre facciamo colazione con caffelatte (di solito si tratta di acqua bollente dove viene versata un’incredibile quantità di latte condensato e un paio di cucchiai di caffè in polvere – non liofilizzato! Dopo aver atteso una decina di minuti l’intruglio – basta non mescolarlo mai per non risvegliare il temibile deposito sul fondo del bicchiere – diventa quantomeno piacevole da bere) e biscotti Roma (una turpe marca di gallette appena edibili che si riesce a trovare solo nei più sperduti posti del mondo), si presenta la nostra guida con indosso un giubbotto tipo “bomber”, un paio di stivaloni da montanaro e un machete da sterminio di massa che gli striscia per terra.

Paventando chissà quali pericoli e disagi, ci attrezziamo come se fosse la nostra ultima passeggiata nella giungla: scarponi pesantissimi da trekking rinforzati in carbonio con inserti in Goretex, borracce, cappello anti intrusione di fauna alata, occhialoni stile “la mosca”, bussola, macchine fotografiche e l’onnipresente Guida ben riparate in sacchetti di nylon anti-schizzo-di-fango-marcio. Intabarrati e felici, ci presentiamo alla guida, che ci dice in un inglese rozzo ma comprensibile che, prima, dobbiamo passare un attimo da casa sua affinché si possa cambiare; ammutoliti, e curiosi di vedere quali protezioni indosserà, lo accompagniamo senza fiatare verso la sua capanna; all’interno della quale sparisce per un paio di minuti…Per uscirne sorridendo con una T-shirt scolorita e rappezzata, un paio di blue jeans corti, un micromachete da unghie e un paio di ciabatte di cuoio. Attende con consumato mestiere che le nostre mascelle – attonite – si richiudano, ed esclama a tutti denti (marci) “Let’s go?”.

Abbandoniamo il paesino sopra una piroga con annesso fuoribordo tossicchiante, e ci infiliamo quasi subito in un torrente marrone completamente coperto dalla vegetazione, cominciando ad inoltrarci nella Giungla, quella vera. Il paesaggio è sicuramente splendido, ed in poche decine di minuti la Franca ed io rimpolpiamo la nostra scorta di rullini esposti. Ad un tratto il verde di mille sfumature si allarga, e di fronte a noi si intravede un approdo fangoso, dove il nostro condottiero si lancia a tutta velocità per incagliarsi a dovere. Scendiamo, e subito i nostri mega scarponi affondano in una melma cedevole ed appiccicosa, che comincia immediatamente ad infiltrarsi tra la tomaia e le calze, trasmettendoci quella deliziosa sensazione di disagio che – errore atavico di mille e mille mondi – ti fa esclamare “Beh, peggio di così non può andare!”.

Ci incamminiamo in un sentiero che, dopo un paio di metri, si tramuta in una traccia di erba calpestata neanche troppo di recente, per perdersi definitivamente nel sottobosco dopo altri venti passi. La guida procede fischiettando con le sue babbucce quasi immacolate (tanto che Gianni mi chiede se, per caso, l’ho mica visto volare sopra il fango), portandoci in una giungla tanto fitta da non permettere quasi l’ingresso della luce; dopo un bivio – che solo l’indigeno ha notato – sprofondiamo nella fanghiglia molle fino alle ginocchia, ed andiamo avanti così per un’oretta circa. “Capisco perché gli americani hanno perso in Vietnam”, è l’unico commento che riesco a spiccicare. Lentamente, troppo lentamente, la profondità del fango comincia a diminuire, e contemporaneamente il verde si allarga, fino a ritrovare – miracolo! – un sentiero visibile sotto i nostri piedi. Come era cominciata, la giungla svanisce di colpo, lasciandoci all’ingresso di un villaggio, con un’unica strada di fango rossissimo ai lati della quale sorgono alcune – miserrime – capanne.

Veniamo aggrediti da un branco di innumerevoli bambini, alla sempiterna ricerca del “nasi gula-gula” (le caramelle). Gianni si ritrova in tasca alcuni bon-bon svizzeri alle erbe (risalenti sicuramente al duty free di un aeroporto di almeno tre viaggi prima…), belli ricoperti di peluria da vestiti, che gli vengono comunque depredati dalle mani in pochi secondi. Ci fermiamo nel paesino per rifocillarci un attimo, ma le risorse alimentari sono pressoché inesistenti; grazie alla previdenza di Roberta, un morso di gallette Roma e un sorso di Coca Cola fresca ma sgasata non vengono negati neppure alla nostra guida.

Furbescamente, per il viaggio di ritorno ci viene fatto percorrere un altro itinerario, ugualmente fangoso e faticoso; quando finalmente arriviamo in vista della piroga Gianni si lascia sfuggire un ululato di gioia (frammista ad appetito…); torniamo nel “nostro” villaggio in tempo per la cena ma – sorpresa! – l’unico “ristorante” è chiuso per motivi inesplicabili. Reprimendo feroci bestemmie, Gianni comincia a trafficare nello zaino, trovando in fondo due confezioni di pastina in brodo liofilizzato acquistate in qualche negozio di Ujung Pandang o Rantepao. Con il fornello a pastiglie di Franca cominciamo a far bollire l’acqua, mentre sul fiume il sole tramonta con meravigliosi e caleidoscopici effetti di colore; una volta immersi nell’imbrunire, decidiamo di accendere il lume ad olio fornitoci come benefit della stanza (l’elettricità, naturalmente, non è di questi luoghi) proprio mentre la Franca “butta la pasta”. Il tempo (due minuti scarsi) di farla cuocere e di versarla nelle “gavette”, e la nostra postazione in veranda viene circondata da un miliardo circa di microscopici moscerini, che ci si infilano in (quasi) tutti gli orifizi, ma non rimanendone evidentemente soddisfatti decidono di tuffarsi a pesce nel brodino caldo. Gianni, con gesti misurati da lord inglese, ne scosta sul bordo del piatto la prima decina, ma quando la situazione diventa insostenibile dal mero punto di vista numerico, chiede mesto: “…E se chiudessimo la luce finché non finiamo la minestra?”. La proposta, con muta rassegnazione, viene accolta all’unanimità.

L’indomani mattina ci vede di buon’ora assiepati sul molo di attracco del barcone, belli decisi a proseguire il nostro fatale andare verso l’interno del Borneo; dopo neanche un’ora arriva il natante, che ci carica a bordo insieme ad un assortimento abbastanza folcloristico di autoctoni cum animali misti e si dirige controcorrente verso i territori “inesplorati”, patria dei mitici Daiacchi ex-tagliatori di teste. Sulla barca incontriamo due viaggiatori occidentali, che paiono molto esperti del posto: sono francesi, ed in patria hanno un negozio che commercializza prodotti del “terzo mondo”; in Borneo – ci dicono – vengono a comprare statue di legno, batik, borse di paglia e cerbottane. Ci suggeriscono di proseguire fino a Melak, dove – noleggiando una piroga – si può andare a visitare una delle ultime longhouse originali rimaste.

Questo tipo di abitazioni – peculiari del Borneo – accoglievano tutti gli abitanti del villaggio, che passavano insieme ogni momento della vita, compresi gli avvenimenti eccezionali (nascite, morti, piani di guerra, ecc.). Costruite su palafitte, ma all’asciutto, l’accesso alle longhouse era costituito da due porte strettissime, collegate al terreno da scale ripide ed altrettanto strette, così da ostacolare eventuali invasioni di “ospiti” indesiderati (umani e/o animali); qualora non si fosse riusciti a ritirare in tempo le scale, gli accessi angusti avrebbero comunque impedito ingressi di massa.

Arrivati a Melak dopo quasi un giorno di viaggio sul fiume, troviamo alloggio in un losmen carinissimo, costruito su due piani e caratterizzato da un tentativo di balconcino spagnoleggiante in legno intorno al primo piano. Come al solito, trovare la piroga non costituisce un problema, in quanto tutti i possessori di natanti del villaggio ci aggrediscono non appena scesi dal barcone. Concordiamo l’appuntamento per il giorno dopo con quello che ci ispira un po’ più fiducia (in questo genere di contrattazioni – ripeto – ben difficilmente ci si lascia condizionare dal prezzo, comunque irrisorio, quanto dall’impressione che ci fa chi ci propone l’affare), naturalmente di buon mattino. In serata riusciamo anche a mangiare qualcosa di decente (se per “decente” vogliamo intendere le solite sbobbe tipo nasi goreng, ayam goreng e compagnia cantante) nel ristorantino annesso alla guesthouse.

La piroga è solo lievemente migliore di quella che abbiamo noleggiato a Muara Muntai; in compenso il “capitano” è un pazzo schizofrenico, che tira il collo al fuoribordo Mercury infilandosi a venti nodi dentro rigagnoli fangosi completamente infestati di mangrovie e fichi strangolatori, effettuando virate che alzano spruzzi di svariati metri tutto intorno e rischiando di farci schiantare più volte contro gli argini; bene o male riusciamo ad approdare, come al solito sul fango appiccicoso, ed a dirigerci verso il villaggio che ospita la longhouse. Una volta arrivati, scopriamo che in effetti, per quanto su molte guide siano raffigurate numerose illustrazioni delle celebri abitazioni indonesiane – e più tipicamente del Kalimantan – il vederne finalmente una di persona è sicuramente stupefacente; la capanna è lunga alcune decine di metri e sorge sul terreno stile palafitta; al suo interno si può penetrare solo attraverso due strette porte per raggiungere le quali ci si deve arrampicare difficoltosamente su scalette di legno intagliate rozzamente da tronchi.

Indugiamo qualche minuto all’esterno, fino a che quello che pensiamo essere il capo del villaggio ci invita ad ampi gesti ad accomodarci all’interno della capanna. Non appena affrontiamo la scaletta, al secondo scalino capiamo subito che saremmo degli assalitori falliti: è già estremamente difficile mantenere l’equilibrio utilizzando quattro arti, figuriamoci zompare sulla scale armati di tutto punto e contrastati dagli inquilini! L’interno della longhouse è incredibilmente organizzato ed ordinato; i vari locali si diversificano tra loro solo grazie all’ausilio di tappeti e di tendaggi che ne separano uno dall’altro. Vi sono spazi separati per uomini e donne, specie per ciò che concerne la “zona notte”. Al centro della capanna siede il capo del villaggio con – si suppone – una sorta di “Gran Consiglio”; i bambini sono accuditi verso il fondo, nella zona “femminile”. I servizi igienici, ovviamente, sono ampiamente fruibili all’esterno… Su richiesta degli inquilini, scattiamo qualche fotografia compiacente, doniamo un paio di pacchetti di sigarette al capo, ringraziamo con ampi cenni di testa e mani e ci arrabattiamo giù dalla scaletta per riguadagnare la nostra imbarcazione e ritornare al paesino, che raggiungiamo nel primo pomeriggio.

Nelle ore immediatamente successive provvediamo ad informarci sulla possibilità di proseguire lungo il corso del fiume, anche senza utilizzare il solito barcone ma con una piroga privata; sia gli autoctoni che un paio di turisti tedeschi ci confermano che – in questa stagione – è impossibile avanzare anche solo di qualche chilometro: il fiume inizia a presentare improvvise e violente rapide, la vegetazione impedisce di costeggiarlo a piedi, e nessuno ha intenzione di accompagnare quattro “stranieri” attraverso la giungla “vera”.

Visto che il numero dei giorni di vacanza a nostra disposizione – al contrario di quello (immorale) di Gianni e Franca – volge inesorabilmente verso gli sgoccioli, decidiamo di saltare sul barcone della serata che torna verso la “civiltà” e di cercare per il giorno dopo un volo per Bali che ci consenta di trascorrere quasi una settimana di relax al mare dopo questi ultimi, massacranti tragitti. Salutiamo quindi i nostri amici dandoci appuntamento a Bali, facciamo i bagagli in tutta fretta e riusciamo a trovare posto sull’imbarcazione diretta verso Tenggarong.

Prima di continuare (capirete, capirete…), mi sembra venuto il momento di chiarire una cosa che vuole fungere da imperituro memento a tutti; ogni guida turistica, da quelle per indomiti “zainisti” rotti a tutte le esperienze fino a quelle per pensionati e/o interdetti legali, sottolinea che durante i viaggi è assolutamente necessario dividere denaro, documenti, carte di credito e quant’altro in due o più “nascondigli”, per evitare problemi connessi a perdite o furti. Il nostro metodo personale vedeva coinvolti: a. Un marsupio sottilissimo – con passaporti, biglietti aerei e una carta di credito – che ero solito portare sotto i pantaloni, b. Un marsupietto da collo – con un po’ di biglietti di grosso taglio ed una seconda carta di credito – che ero solito indossare sotto la maglietta, c. Un portafoglio per la “cassa quotidiana” in mano a Roberta, d. Un altro portafoglio con documenti vari e qualche biglietto di grosso taglio che mia moglie portava addosso in una tasca segreta (la cui ubicazione ignoravo anch’io).

Bene.

Quella sera sul barcone viviamo alcune esperienze fantastiche: un tramonto di cui non ho mai più visto l’uguale, con il sole che tinge il cielo di tutte le sfumature del rosa e del viola, e tutto si rispecchia nel fiume calmo; le mangrovie ai lati che mormorano sommesse sotto la brezza del crepuscolo; riusciamo persino a vedere due Inie, rarissimi delfini di fiume – la cui esistenza era stata rivelata solo pochi anni prima da una spedizione del mitico Comandante Cousteau – che se la spassano di fronte alla prua della nostra imbarcazione. Una serata splendida. Tant’è che – dopo quindici giorni vissuti con lo stress da smarrimento/rapina e quindi con tutti i nostri beni sparpagliati giorno e notte per il corpo come più sopra descritto – decidiamo di comune accordo di sederci sul bordo del barcone a guardare scorrere il fiume, e per stare più comodi mettiamo tutti i nostri valori dentro la borsa fotografica, che non abbandono mai. Detto, fatto; e ci adagiamo comodi sul ponte a goderci il fresco della sera. Cadiamo addormentati per non più di un’ora, durante la quale il barcone effettua le solite fermate a richiesta lungo il corso del fiume. Mi risveglio di colpo e tasto istintivamente alla mia destra per assicurarmi che la borsa fotografica sia sempre al suo posto. Oh oh… sento solo le umide assi del ponte. L’adrenalina mi schizza dietro agli occhi ed in un secondo sono in piedi, sveglio mia moglie gridando “Dove cazzo hai messo la borsa, stavolta?” e dallo sguardo che mi restituisce capisco che non lo sa, ma che comincia perfettamente ad intuire che cosa è successo: qualcuno ci ha osservato mentre mettevamo portafogli e marsupi vari nella borsa, ha visto che crollavamo addormentati ed alla prima fermata ha deciso di rischiare: ha preso la borsa e si è dileguato nel buio.

Corro dal capitano, gli faccio segno di fermare il barcone, e prima ancora che attracchi comincio a svegliare tutti i passeggeri intorno a me ed a guardare brusco tra le loro borse, sotto i sedili e dentro le ceste che portano con loro; ovviamente non trovo niente. Mi spiego a gesti e finalmente un passeggero mi dice “Polis”, indicandomi un casolare illuminato dove – mi par di capire – abbia sede un posto di polizia. Mi ci reco correndo, accompagnato dal capitano; la denuncia richiede circa tre ore, in quanto io non parlo che poche parole di indonesiano ed i miei interlocutori neppure una di inglese; bene o male, alla fine ho nelle mani – ed è ahimé l’unica cosa… – una denuncia ufficiale che ricapitola il maltolto: 1.000 dollari americani, 300.000 rupie indonesiane, una telecamera Sony, una macchina fotografica Canon con tre obiettivi originali, due carte di credito, la mia patente di guida, i nostri due passaporti e – dulcis in fundo – i biglietti aerei da Bali a Genova via Jakarta e Francoforte.

Ci troviamo nel Borneo indonesiano, a dodici ore di navigazione dal primo villaggio “civile” e a tre ore di volo da Bali; non abbiamo documenti, né biglietti aerei né denaro di alcun tipo: frugandomi in tasca trovo un biglietto da 100 rupie, cioè circa 70 lire al cambio di allora.

Mia moglie siede catatonica sul bordo della barca, scuotendo la testa e continuando a piangere; il capitano – imbarazzato – mi chiede se può riprendere il viaggio; senza parole davvero, scuoto la testa affermativamente.

Al mattino sbarchiamo a Tenggarong, e mi precipito nell’ufficio dei Ranger dove, all’andata, abbiamo compilato il registro con le nostre – reali, ricordate? – generalità; il guardiano si ricorda di noi, legge la denuncia scrollando la testa, ci esprime tutto il suo dispiacere, chiede scusa a nome del suo popolo e si informa su cosa può fare per aiutarci. Gli dico che il mio volo di ritorno per l’Italia parte da Bali, dove tra l’altro è presente un Console Onorario del nostro Paese, e che se riusciamo a raggiungere Denpasar saremo ad un ottimo punto: riusciremo infatti ad ottenere il duplicato del passaporto ed un po’ di denaro, con il quale pagheremo il vitto e l’alloggio nonché le copie – penale compresa – dei biglietti aerei.

Il Ranger annuisce e comincia a scrivere una lettera lunghissima su quella che crediamo sia la sua carta intestata personale; finito di stendere le sue memorie, chiude la lettera in una busta e chiama un suo collega, che ci scorta fino ad una jeep della Polizia, dove veniamo fatti accomodare. L’automezzo parte rombando e ci deposita – un’oretta di scossoni dopo – a Samarinda, di fronte ad un’agenzia viaggi; il poliziotto alla guida della jeep ci fa segno di entrare e di consegnare la lettera al titolare dell’agenzia. Eseguiamo, piuttosto sconcertati; il proprietario dell’agenzia legge la lettera con attenzione, mi chiede in un inglese più che decente di poter vedere la denuncia; la esamina attentamente scrollando la testa, sospira sconsolato, si volta verso la sua segretaria e le parla a lungo in indonesiano. Nell’accozzaglia di parole mi sembra di decifrare una serie di numeri e la parola “Denpasar”; veniamo fatti accomodare e ci viene offerto del the. Mia moglie è sempre più catatonica (meglio che il solito umore incazzoso, comunque…): guarda di fronte a sé scrollando la testa e non profferisce verbo.

Dopo una decina di minuti, il titolare si avvicina e ci consegna una busta: al suo interno ci sono due biglietti aerei per Denpasar (la partenza è da Banjarmasin, un paese ad un centinaio di chilometri a Sud di Samarinda, ma va benissimo così), un’altra lettera di presentazione per chiunque ci dovesse richiedere referenze e 80.000 rupie (circa 60.000 lire ai tempi, comunque una cifra in grado di garantirci tre-quattro giorni di vitto e alloggio, e peraltro il valore di uno stipendio mensile per un impiegato medio, in Indonesia). Rinnova le sue scuse per ciò che abbiamo dovuto sopportare dal suo popolo, ci assicura che non tutti gli indonesiani sono così e ci chiama un taxi per accompagnarci alla stazione degli autobus dove potremo partire per Banjarmasin: l’aereo è infatti prenotato per l’indomani e non c’è tempo da perdere.

Siamo senza parole; ringrazio il padrone dell’agenzia abbracciandolo e gli ricordo che non ho una lira in tasca; come faremo per rimborsarlo? Lui mi scrive su di un pezzo di carta il suo numero di conto corrente e la banca presso la quale lo intrattiene, e mi dice che gli potrò spedire i soldi quando arriverò in Italia, ma ora di sbrigarmi che se perdo l’autobus perdo anche l’aereo.

Il viaggio notturno trascorre tra incubi e scossoni; per quanto voglia fare “il duro” – anzi ci sia costretto per non lasciarmi morire a dodicimila chilometri da casa – ho accusato il colpo; quello che mi fa più male è l’aver perduto la mia fedele attrezzatura fotografica, i miei rullini, la mia videocassetta con tutti i momenti spensierati del viaggio; il veder rovinato un viaggio pianificato con tanta fatica e tanto entusiasmo (e tanto denaro…); l’esser stato depredato come un qualunque deficiente colpisce inoltre il mio smisurato orgoglio: eccolo lì, quello che insegna agli altri come si deve viaggiare: per la strada come un barbone che non sa neanche se e quando tornerà a casa; ma stattene a Genova, stupido! Bene o male riesco a prendere sonno, ed alle prime luci dell’alba l’autobus ci deposita alla stazione centrale di Banjarmasin, dalla quale uno dei soliti trasporti urbani al limite della sopravvivenza ci consente di raggiungere l’aeroporto.

Il primo siparietto si svolge quando l’addetto al check-in ci chiede i passaporti: presento senza batter ciglio la copia della denuncia e la lettera di presentazione del titolare dell’agenzia; il tipo legge per venti minuti, poi scrolla le spalle e ci consegna la carta d’imbarco. Quando l’aereo della Bouraq stacca le ruote dalla pista ed il Borneo sparisce lentamente dietro di noi non riesco a trattenere – il primo dalla notte del furto – un sorriso; è fatta, mi dico, ora a Bali contatto il Console ed in un paio di giorni, con un nuovo passaporto e le copie dei biglietti aerei, si ritorna in Italia; magari – penso ottimista – mi faccio prestare una somma un po’ più alta e ci scoppiamo qualche giorno alla grande sull’Isola degli Dei, tanto per dimenticare.

Oh, quanto mi sbagliavo! Atterrati a Denpasar, saltiamo su di un bemo e ci facciamo portare in Legian Street, dove sorgono le guest-house più economiche di Bali; presentando l’omnifunzionale denuncia riusciamo ad ottenere ancora un ulteriore sconto sulla stanza, depositiamo i bagagli, facciamo una doccia e cerchiamo il numero di telefono del Consolato Onorario Italiano a Denpasar; risponde la segretaria del Console che ci concede un appuntamento per la mattina dopo presso l’atrio del Bali Beach Hotel a Nusa Dua.

Arriviamo lì, piuttosto sconvolti, ed il console – bello elegante – ci aspetta nella hall di questo albergo “cinque stelle”; ci stringiamo la mano, ci sediamo sui divani di pelle e spieghiamo tutta la nostra storia. Facciamo presente le nostre necessità essenziali, sottolineiamo che non abbiamo intenzione di continuare la nostra vacanza e che tutto quello di cui abbiamo bisogno è di un duplicato del passaporto e di qualche rupia per poter pagare la penale sulla riemissione dei biglietti aerei da parte della filiale locale della Garuda Indonesia; dopodiché partiremo sul primo volo disponibile alla volta di Genova.

Il Console ascolta, con le mani giunte sotto il mento; ogni tanto annuisce o scuote la testa in segno di solidarietà; quando ho terminato la mia esposizione dei fatti socchiude gli occhi, sospira rumorosamente e comincia a parlare. Ci dice che lui è solo il Console Onorario e non ha il potere di rilasciare duplicati dei passaporti; che per ottenerli bisogna andare all’Ambasciata Italiana a Jakarta; che non può anticiparci denaro perché non dispone di un fondo di cassa; che non sa come aiutarci. Un po’ stressato dai difficili giorni trascorsi e dalla situazione, gli chiedo che cosa faccia lì, allora. Mi risponde che si trova a Bali per aiutare i cittadini italiani che abbiano problemi di salute o problemi con la legge tali da rendere consigliabile il loro rimpatrio.

“Non c’è problema – gli rispondo un po’ alterato – se per tornare in Italia devo rapinare una banca me lo dica. Cosa ci vuole: entro nella prima filiale, dò un pugno al cassiere e rubo una mazzetta di rupie, poi vado alla polizia e mi costituisco; a quel punto lei mi rimpatria? Se mi dice di sì vado fuori adesso!”. Lui mi chiede di calmarmi, sospira e tira fuori di tasca cinquanta dollari: tutto quello che è autorizzato ad anticiparmi in via di emergenza. Prima di congedarsi da noi (con evidente sollievo peraltro) ci chiede tutti i nostri dati personali, compreso il numero di conto corrente, “per iniziare le pratiche di richiesta del rimborso di quanto anticipato”. Mi allontano rapidamente per non picchiarlo, e ci avviamo verso la filiale della Garuda Indonesia, dove dopo una coda infernale la cortese impiegata mi conferma che la riemissione dei biglietti costa U$ 50 per ogni biglietto, e quindi – visto che le ho dato solo cinquanta dollari – di scegliere a quale nominativo deve riemettere il documento di viaggio. Le rispiego tutto, evidenziando la situazione di emergenza, le risbatto sotto il naso la denuncia e – ormai alla frutta – comincio a dirle che se i suoi compaesani fossero onesti io a quest’ora starei sdraiato sotto una palma sulla spiaggia di Kuta, e non in piedi di fronte a lei a mendicare cinquanta fottuti dollari per poter tornare a casa.

In coda dietro di noi si trovano due ragazzi napoletani, che udito l’accaduto mi allungano un verdone da cinquanta e mi dicono di pagare i due biglietti; quando li ringrazio e dico loro di darmi l’indirizzo per rispedirglieli, sorridono e mi dicono di mandare un mazzo di fiori a Maradona. Giuro che l’ho fatto appena tornato in Italia. Rose gialle e gigli bianchi, spedito con Interflora alla sede del Napoli Calcio.

Il primo aereo disponibile per Jakarta – dove ci dovremo fermare almeno mezza giornata per ottenere il duplicato del passaporto dall’Ambasciata – partirà dopo due giorni, il che riporta tragicamente attuale il tema “vitto e alloggio”: nelle nostre tasche rimangono ormai poche migliaia di rupie che non ci consentono neppure di pagare il prossimo pernottamento; informandoci presso le banche veniamo a sapere che il tempo minimo previsto per ricevere un bonifico dall’Italia – ammettendo nessun intoppo burocratico o tecnico – è di sette/otto giorni, quindi anche l’ipotesi di chiedere soldi a casa cade miseramente.

Ed altrettanto miseramente ci troviamo in serata a gironzolare nella zona di Kuta-Legian, piena di splendidi ed odorosi ristorantini, senza poterci permettere neppure un piatto di nasi goreng presso una delle onnipresenti baracchette su ruote; ci guardiamo in faccia e ci chiediamo in silenzio come faremo a sopravvivere altri due o tre giorni (fino cioè al nostro arrivo a Genova) senza mangiare nulla; mia moglie si limita a scrollare le spalle ed a lasciar di nuovo piombare la testa tra le ginocchia (sue…).

Ad un tratto, da un vicino ristorante sentiamo delle voci impegnate in un alterco piuttosto violento; alcune di esse – anche se esprimono concetti in inglese – portano alle nostre orecchie un marcatissimo ed inconfondibile accento genovese. Senza una parola saltiamo in piedi e ci infiliamo nel ristorante, dove vediamo una coppia impegnata a discutere con il proprietario in merito ad una presunta truffa: il suo locale pubblicizzava infatti lunghissimi happy hour (il periodo di tempo in cui le consumazioni hanno prezzo dimezzato) che non rispettava però all’atto dell’emissione del conto, bellamente calcolato a tariffa intera.

Ci intromettiamo con delicatezza e, sedata la rissa, cominciamo a parlare con gli italiani che ci confermano in effetti di essere di Genova e che cosa ci facciamo lì e di dove siamo e blablabla; quando comincio per l’ennesima volta a raccontare la nostra disavventura, dagli sguardi che i due si scambiano credo di capire quello che pensano: ecco altri due tossici che hanno finito i soldi e si sono inventati questa panzana per tirare avanti altri due giorni con i primi creduloni che abboccano alla loro storiella patetica. Per rafforzare il concetto della nostra buona fede, allora, dico anche di aver provato a contattare telefonicamente la banca dove lavoro per chiedere se era possibile ricevere in tempo utile un bonifico; a questo punto la ragazza mi interrompe e mi dice “Lavori in banca a Genova? In quale banca?”; quando le dico il nome dell’istituto di credito dove presto la mia opera si mette a ridere e mi dice “Ah, e non hai mai parlato con l’Ufficio Economato? Perché io lavoro lì da otto anni!”. Cazzo. Dodicimila chilometri per dare una facciata dentro una collega.

A questo punto, ovviamente, la diffidenza si scioglie come neve al sole; scopriamo anche di abitare vicini, di aver lavorato negli stessi uffici in differenti periodi, di frequentare colleghi ed amici comuni… in pratica ci prestano trecento dollari per consentirci di terminare dignitosamente la nostra permanenza in Indonesia.

I due giorni successivi li trascorriamo insieme ai nostri nuovi amici e Salvatori, gironzolando per l’isola con la loro jeep a noleggio; viene quindi il momento della nostra partenza – prima tratta Bali-Jakarta – che ci vede abbandonare con un certo sollievo questo luogo popolato da impiegate senza cuore e da inutili e supponenti Consoli Onorari.

Arriviamo a Jakarta e ci facciamo portare da un taxi presso l’Ambasciata italiana, presso la quale veniamo accolti in un Ufficio piuttosto lussuoso dove attendiamo una buona mezz’ora prima che un incaricato si presenti e mi chieda di raccontargli che cosa ci è successo; finito il racconto, annuisce e ci fa accomodare in un ufficetto dove ci vengono scattate quattro foto tessera uso passaporto (che ci verranno addebitate in ragione di U$ 5!!). Attendiamo ancora un’oretta prima che venga consegnato a ciascuno un foglio di carta scritto in indonesiano ed in italiano, pieno di timbri e con una nostra foto bellamente pinzata nell’apposito spazio. Con questo – ci assicurano all’Ambasciata – è come se viaggiassimo con un passaporto italiano in piena regola; trattasi di un documento riconosciuto in tutto il mondo, da qualsiasi Autorità. L’unico neo è che prima di partire dobbiamo recarci alla Centrale di Polizia di Jakarta per farlo vidimare dall’Ufficio Immigrazione; ma la Centrale è qui dietro l’angolo, possiamo andarci a piedi.

Camminiamo un’oretta sotto il sole a circa 42° di temperatura prima di arrivare al palazzo dove ha sede la Centrale di Polizia, una sorta di castello kafkiano di oltre venti piani nel quale fiumi di persone entrano ed escono senza soluzione di continuità. Entriamo e chiediamo dell’Ufficio Immigrazione; ci chiedono il perché, e rispiego il tutto facendo vedere la solita – ormai consunta – denuncia, il nuovo “passaporto” e i biglietti aerei. Veniamo praticamente spinti dentro un ufficio dove l’impiegato osserva la nostra documentazione e ci chiede dopo un attimo a che ora pensiamo di partire per l’Italia. Rispondo che il volo Jakarta-Francoforte parte alle 18.30; lui guarda l’orologio e scuote la testa, poi alza le spalle, infila un foglio di carta in una macchina da scrivere probabilmente assemblata da Remington in persona, batte un paio di linee, estrae il foglio, lo infila in una busta sulla quale scrive in bella calligrafia “Office 23 – 4th floor”, mi consegna la busta e mi dice “Office tuentitri, fors flor”.

Al quarto piano, fuori dell’Ufficio 23, c’è una discreta coda; me ne sbatto lo sbattibile e passo davanti a tutti. Nessuno protesta. Dentro, una signora corpulenta dietro una scrivania strapiena di carta afferra la busta, la apre, estrae il foglio e lo legge, poi mi chiede di vedere i soliti documenti; annuisce e mi chiede a che ora parte l’aereo per l’Italia. Ascolta la mia risposta sospirando, poi prende un altro foglio di carta, lo infila in una macchina da scrivere che avrebbe fatto passare la precedente per un computer della Nasa, batte anche lei alcune righe, infila il foglio in una busta dove scrive rapidamente “Office 77, 7th floor”. Mi consegna la busta rantolando un “Ofis Sepentisepen. Sepen flù”. Corriamo su per le scale mentre medito tra me e me progetti di carneficina; spalanco la porta dell’Ufficio 77 senza bussare e sbatto la busta e tutti i soliti fottuti documenti bisunti sulla scrivania dell’impiegato attonito.

Questi legge il tutto con attenzione maniacale, poi sorride, estrae da un cassetto un timbro grande come uno stuzzicadenti, lo intinge in un tampone grande come un francobollo e appone sul retro dei nostri “passaporti” un segnetto quasi impercettibile. “Ochei mister hev a nais dei” mi dice, riconsegnandomi il tutto.

Usciamo dal Castello, saltiamo su di un taxi e, promettendo una mancia imperiale, ci facciamo portare di corsa all’aeroporto di Jakarta, Terminal Partenze Internazionali. Al banco del check-in, l’impiegato non riconosce il nostro “passaporto” e minaccia di non farci salire a bordo se non compiliamo una dozzina di moduli scritti in indonesiano entro venti secondi; scrivo le prime cose sensate che mi vengono in mente, copiando parti della lettera del ranger, parti della denuncia e spezzoni della lettera dell’agente di viaggio di Samarinda. In perfetto orario, l’aereo diretto a Francoforte decolla; attendo il “clac” del carrello che rientra e poi, finalmente, comincio a piangere.

Arrivati in Germania ci rilassiamo un attimo, anche perché ora – per male che vada – possiamo salire su di un treno e farci sbattere fuori dopo qualche fermata per poi saltare sopra un altro e così via, fino ad arrivare comunque in Italia. In caso disperato posso telefonare a mio padre e farmi venire a prendere fin qui. Posso aspettare un bonifico, che impiega non più di 24 ore per arrivare qui dal’Italia. Di nuovo al bancone del check-in il nostro documento non viene riconosciuto valido; meno male che parlo tedesco, e dopo aver raccontato per la tremilionesima volta la nostra Odissea ed aver fatto ridere fino alle lacrime il Direttore della Lufthansa veniamo ammessi sul volo Francoforte-Milano Linate.

Atterriamo finalmente in Italia; sono trascorsi tredici giorni dalla notte del furto; ho perso nove chili, parzialmente la Fede e acquisito un centinaio circa di capelli bianchi e probabilmente qualche pulce; al controllo passaporti veniamo fermati in quanto il documento che presentiamo non viene riconosciuto valido. Ci troviamo così seduti sulle panche di legno fuori del Posto di Polizia aeroportuale, insieme a due extracomunitari che sono stati sorpresi mentre cercavano di salire come clandestini nel vano bagagli di un aereo diretto negli Stati Uniti ed a due coniugi di Torino che hanno “rubato” un bambino in Gabon: si trovavano in visita ad un villaggio quando da una capanna è uscita una donna che ha consegnato loro il bambino in questione (un tenerissimo maschietto di sette/dieci mesi circa) dicendo che gliene erano già morti sei e non voleva che questo seguisse la stessa sorte, pregandoli di portarselo via.

Vi basti sapere che io e mia moglie siamo stati gli ultimi ad andar via, dopo essere stati riconosciuti telefonicamente da mia nonna (ottuagenaria e con chiari sintomi di Alzheimer: alla fine della telefonata ha salutato il Commissario con un “Grazie a lei, signorina”); usciti dalla zona riservata incontriamo i miei genitori. Seduti in macchina sulla via del ritorno, scopro che Roberta tiene ancora stretto tra le mani il cappello conico di bambù colorato che abbiamo comprato fuori della longhouse in Borneo, qualche secolo fa.

Devo averlo ancora in cantina, da qualche parte; l’unico souvenir che non ho mai appeso al muro.



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