Sri Lanka
Lasciato l’aeroporto, il paese mette le carte in tavola. Gli edifici, in vario stato di costruzione e distruzione, abbassano immediatamente le aspettative sul tenore di vita, ma per strada le sorprese si susseguono. Come mai i corsi di dizione sono così numerosi? Dalle strade laterali di terra rossa che, rispettose, si fermano all’asfalto della Colombo-Anuradhapura, sbucano i trattori, i pullman Lanka Ashok Leyland, i camion indiani Tata. Per chi saranno quelle Vespe nuove di zecca? I motocicli sono comuni, l’automobile ce l’ha chi può, ma ci si sposta principalmente su tricicli motorizzati, Api adattate al trasporto passeggeri grazie ad un sedile posteriore largo abbastanza per due o tre di noi, oppure per uno stormo di loro. Il compito di tagliaerba nei cimiteri è affidato alle mucche, ma oltre l’accademia musicale si trova una fabbrica italiana di piastrelle, poi un laboratorio di cuscini e un centro artigianale di batik. Passato lo stabilimento tessile s’allarga una struttura medica, mentre le scolarette in divisa – impagabile reminiscenza coloniale – sfilano costeggiando villette, bancarelle e saloni per ricevimenti. Agli incroci, vetrine con una Madonna o un Buddha interrompono la fila di palme da cocco che sovrintende l’umano daffare. I fili dell’alta tensione collegano chioma a verde chioma, decorate dai resti dei pipistrelli che, appendendosi per un riposino, hanno involontariamente toccato l’altro filo dell’alta tensione, rimanendo fulminati. Non corrono questo rischio i toponi volanti di Kandy: s’appendono come frutti maturi agli alti rami del pacifico, curatissimo Giardino Botanico Peradeniya, sconfessando il mito che siano animali notturni: anche in pieno giorno non trovano pace, disturbando continuamente i vicini. Tra alberi del pane e giache dagli enormi frutti, un lungo viale di palme reali porta ad un fico gigante di Giava che copre 2500 metri quadrati: le geometrie ardite dei suoi rami testimoniano la maestria d’un architetto provetto. E’ l’unico caso, nell’isola, in cui il regno vegetale viene irreggimentato. Da noi, è città o è campagna, come se il lavoro dell’uomo e quello della terra si fossero spartiti il territorio stimandosi incompatibili. Qui, il naturale e l’artificiale convivono: le egrette setacciano paludi e risaie mentre i panni stesi asciugano alla fuliggine del traffico e il pane fresco vien venduto ben allineato su vassoi arrugginiti: l’assenza di formalità è totale e il “contatto con la natura”, da noi tanto ricercato, è un concetto inesistente, perché qui la vegetazione è dappertutto. Anzi, è così pressante che potrebbe convincerti a passare dalla sua parte. La selva delle palme è rigogliosa tanto quanto quella delle insegne che affiancano le strade che, come da noi, presentano un limbo borghese senza le corse in tuk-tuk, senza i rimorchi che straripano di noci di cocco e senza la fatica necessaria per far crescere qualcosa di buono strappando un brandello di terra all’indiscriminata, onnipervasiva esplosione verde.
Potremmo star ora decantando il caffè di Ceylon, se non fosse per un’epidemia che distrusse il raccolto del 1869, inducendo i coloni inglesi a puntare invece sul thè. Ovviamente, quello che si beve in Sri Lanka è scadente, posto che il migliore viene esportato. Salendo di quota, le rotondità dei rilievi si rassettano e le linee dei terrazzamenti pettinano il loro tappeto in linee ordinate e sinuose. Qualche casetta e qualche albero, che ripara le siepi di thè dalle bruciature che la brina scottata dal sole potrebbe provocare, introducono una occasionale nota di colore nelle coltivazioni che si estendono a perdita d’occhio. Le siluette bianche allungate contro il verde levigato del pendio non sono aironi ma donne e uomini Tamil intenti alla raccolta delle foglie. Alle condizioni imposte dai proprietari terrieri i singalesi, letteralmente “Sangue di Leone”, non si sottomisero, inducendo gli inglesi a trapiantare dall’India meridionale i Tamil. I sacchi che portano sul dorso, sorretti dalla testa con una fascia, verranno vuotati in fabbrica, dove le foglie verranno pestate dai macchinari, asciugate da getti d’aria calda, lasciate fermentare e separate per finezza. La lavorazione non richiede delicati calcoli di tempi e temperature come quella della birra, o palati fini come la produzione del whisky, ma è da qui che parte il thè che viene servito nel soggiorno della regina d’Inghilterra. Germogli d’argento, germogli d’oro, thè verde, orange pekoe, flowery pekoe, il forte broken orange pekoe fannings e la polvere mista del fannings sono i sette standard ai quali lo Sri Lanka affida il suo prestigio internazionale. Si sorseggia, si compra. A casa, il profumo e il sapore faranno ricordare soltanto le infinite pendici verdi d’un paesaggio sereno e sospeso che cela bene i propri conflitti. Perché il passato non si cancella, e i lasciti sono pesanti: circa 100.000 morti per le insurrezioni, iniziate nel 1983, delle Tigri Tamil contro il governo. La guerra civile è terminata pochi anni fa, ma non la miseria. Le dita ben divaricate di piedi mai costretti da scarpe, una palandrana strappata sotto una giacca chiusa e uno sguardo che non s’aspetta più nulla, a Nuwara Eliya, la località di villeggiatura preferita dai singalesi, vagabonda un assortimento di pezzenti silenziosi. Dopo tutti questi anni, l’ippodromo, l’elegante ufficio postale a mattoni rossi e la residenza del sovrintendente di polizia restano ancora incongrui in questa cittadina sdrucita e sporca, cinta dalle forbite curve verdi delle colline del thè, che spariscono e ricompaiono col movimento lento della nebbia. Intorno, la foresta è affollata come quella ad altitudini minori, le palme sostituite dai pini, dagli inglesi turpentine e dagli autoctoni maharaturale, ratatakuna, vetimara, nelu e mara, i cui legni vengono usati per mobili e per le statue di Buddha e di elefanti. E, a proposito di pachidermi, a Habarana ci si va a fare un giro, seduti sulla groppa o appollaiati sulla testa, toccando le ispide setole che gli crescono sul cranio e divertendosi a fargli prendere colla prensile proboscide una pannocchietta zuccherina, segretamente deridendo nella sua subordinazione l’atteggiamento di tanti, che demandano a minuscoli dittatorucoli ogni responsabilità limitandosi ad eseguire mentre, se solo lo volessero, potrebbero mandare il mahout e il suo pungolo a gambe all’aria. Ma no, si resta schiavi, si lavora da schiavi, e la sera, o anche di giorno, ci si ubriaca, come quell’uomo sdraiato per strada, attorno al quale s’è radunato un capannello. Sta male? E’ morto? Qualcuno ride: ha solo bevuto troppo, e sta dormendo la sua sbronza. In quella strada, nell’arco di 50 metri, ci sono tre rivendite di liquori… Ognuno risolve i propri mali a suo modo: troviamo molto più coinvolgenti i miracolosi rimedi a base di intrugli vegetali presentati con dovizia di particolari al Ranweli Spice Garden di Matale, esauriente vetrina della sapienza locale in tema di piante medicinali: in mostra cacao, ananas rosso, pepe, curcuma, cardamomo, cannella, chiodi di garofano, vaniglia, aloe vera e l’albero della noce moscata, che può raggiungere venti metri d’altezza…
È un paradiso per la vegetazione, qui dove non fa mai freddo, ma una perenne stagione all’inferno per gli animali. Cani azzoppati. Cani rognosi, stesi per strada, storditi dal caldo, potenziali amici ignorati dall’amico: non s’avvicinano, sanno che al massimo riceveranno una sassata o un colpo di scopa. Povero cane, quello che nasce in Sri Lanka, vita di nessun valore destinata a perire o a durare secondo le occorrenze d’un fato indifferente. Qui tutto pare guidato dalla cecità del caso, e il caos conseguente coinvolge animali, piante e umani indiscriminatamente. Si alternano ai lati delle strade ficus, cocchi, cespugli fioriti e giovani tek con lo stesso spregio per ordine e logica delle imprese e dei commerci nella zona antropizzata, alla quale sono assegnati nomi nei punti di maggiore concentrazione ma che è essenzialmente un nastro d’asfalto su cui negozi, casupole e templi si spintonano per affacciarsi. Il diritto allo spazio però è concesso a tutti, anche ai memoriali in rovina, che siedono in disparte, sorpassati dalle recinzioni candide dei templi, intercalate dai tetti in lamiera profilata delle rivendite di generi di prima necessità in legno o muratura. Perché dunque stupirsi se tanti singalesi emigrano da noi, e trovano le nostre città ordinate e pulite? I mucchi di spazzatura ai bordi delle strade li abbiamo anche noi, ma almeno da noi c’è un responsabile da colpevolizzare: qui, è affare di nessuno, e l’immondizia resta dov’è stata gettata. È la scorza di questo giardino di delizie tropicali, un frutto che alcuni han trovato così dolce da sceglierlo per il viaggio di nozze o, addirittura, da farlo proprio per la vita. Il motivo per gli insediamenti portoghesi del XVII secolo sarà forse stata la necessità di un pied-à-terre in un pianeta improvvisamente più grande, ma furono le remunerative risorse di quest’isola, così felicemente disposta a metà della rotta tra oriente e occidente, a determinare gli olandesi ad impossessarsene. L’impronta coloniale è ancora visibile nei fortini a difesa dei porti e in alcune incongrue quanto squisite presenze architettoniche, lasciate dagli inglesi assieme al gusto per la caccia e ad una macchinosa burocrazia, rispettata tutt’oggi perché occorre comunque mantenere posti di lavoro a bassa valenza intellettuale, dato che non è alla portata di tutti passare da questa grafia circolare – tonda per non rompere le foglie di palma sulle quali veniva anticamente incisa – al nostro alfabeto, e da questa lingua di consonanti e vocali indefinite, simile al borbotto d’una pentola di fagioli, ai nostri suoni rotanti e sibilanti. Altro retaggio è un’educazione disarmante: dove altro un mendicante è in grado di rivolgersi allo straniero con un compìto: “Buongiorno, signore. Potreste darmi assistenza finanziaria?”. E, manco a dirlo, è il cricket e non il calcio lo sport più amato. Roba da chi ha la puzza sotto il naso. Nel caso specifico, potrebbero essere i forti odori della spazzatura lasciata a marcire, del lungomare usato dagli autisti dei pullman come latrina – pungenze ben note anche a noi – o, da qualche cucina paesana, una combinazione omicida di spezie. E ci si accorge del perché noi italiani siamo famosi per la nostra cucina: da noi i piatti hanno un nome e costringono lo straniero a informarsi, pena la fame. Qui si dà per scontata l’ignoranza del turista, al quale vengono proposte, sera dopo sera, lo stesso riso, gli stessi spaghettini e i medesimi curry: di lenticchie, di pesce, di carne, di verdure, tutti colori e sapori intesi a temperare il biancore e la neutralità del riso. Volendo rimanere nell’isola più a lungo d’una breve vacanza, vale la pena informarsi sulle insalate, sul kottu – pezzi di pane, verdure, uova, formaggio e carne variamente combinati e saltati assieme –, sulle melanzane, curiosissime per la forma allungata e le striature bianche e lilla e, perché no, sugli appa – una pastella scottata per un attimo in un tegamino semisferico, dentro alla quale viene cotto un uovo. Oltre, in prima istanza, a farsi una cultura sulle decine di curry che insaporano la tavola singalese.
Nei sogni, i protagonisti scivolano di azione in azione come puri spiriti. Nel mondo della veglia le cose vanno diversamente: è il terzo giorno dopo l’ascesa all’Adam’s Peak e i polpacci si svegliano ancora doloranti. Per noi, che abbiamo lunghezze d’ossa e masse di ciccia non indifferenti da muovere, la fatica è comprensibile, ma anche loro, queste donnine e questi ometti minuti, né belli né brutti, dalla carnagione d’un piacevole color cioccolato al latte, si siedono sul muretto, si fermano a riprender fiato e, dopo il primo facile tratto, salgono i 5.200 gradini di cemento uno a uno, ciascuno uno sforzo. A quest’ora antelucana c’è anche chi scende, evidentemente in visita per pellegrinaggio e non, come noi, per gustare l’alba da uno dei picchi più alti dell’isola. Non il maggiore, ma il peculiare profilo conico, svettante sui rilievi forestati tutt’attorno, accese la fantasia inducendo i buddisti a credere che la grande orma sulla roccia della cima fosse stata lasciata da Buddha, gli indù a identificarla col piede di Shiva e i cristiani e i musulmani a immaginare che fosse stato il primo passo di Adamo cacciato dall’Eden. La sacra pietra è protetta da un tempietto e l’impronta è coperta da paramenti sacri, quindi non è possibile verificare di quale piede si tratti, ma l’importante è seguire le tracce dei mitici viaggiatori – Fa Hien, Ibn Batuta, Marco Polo – che nei secoli si son cimentati in quest’impresa. E d’un’impresa si tratta, perché dopo un’ora, quando la salita si fa erta e, svolta dopo svolta, non concede tregua, ci si aiuta aggrappandosi ai grossi tubi del corrimano, tanto che pare di avanzare a quattro zampe. Chissà come sarebbe ridotto il percorso, con le piogge dei monsoni e la quantità di pellegrini, se non fosse stato cementificato. Pittorescamente illuminato dai neon che, da lontano, marcano nella notte questa scalinata verso il cielo, il cammino è costeggiato da baracchini di bibite e biscotti, ma la forza e la perseveranza necessarie non sono in vendita. Nel suo accento totalmente incomprensibile (ecco a cosa servono i corsi di dizione!), un poliziotto consiglia attenzione e prudenza: la vetta sarà molto affollata. Sui tetti delle costruzioni non si può salire, e la gradinata che s’affaccia a est è già tutta occupata. L’orizzonte è buio pesto e solo la macchina fotografica, alla massima sensibilità, registra una parvenza di luce. L’incedere della nostra stella, annunciata da intensi rossi e arancio, è lentissimo. Fa piuttosto freddo, siamo a 2.200 metri: dopo un’eternità il disco fa capolino, ma le dita gelate han perso sensibilità e non è agevole catturare le sfumature rosate e viola delle nuvole all’orizzonte. Ecco, il sole s’è liberato e ascende adesso a vista d’occhio: la luce brucia i colori, fuga i fantasmi e acceca: il miracolo d’un nuovo giorno è compiuto. Chi s’aspettava uno sconvolgimento si ritrova nel solito trantran, e lascia la vetta. E scopre che il panorama dabbasso è più affascinante ancora dell’alba: sotto la sequela delle colline che, come in un dipinto cinese, emergono dalla bruma, un manipolo di pini si specchia in un laghetto incantato. Sorprendentemente, la discesa dura due ore e mezza, esattamente quanto la salita. E i postumi, nonostante siano passati già tre giorni, si fanno ancora sentire.
Il Paradiso, quindi, è ad un passo, ma visto che è ancora off limits, per una vacanza serena, rilassante e varia lo Sri Lanka è un’accettabile approssimazione. Oggi, ad esempio, si va a far visita alle balene. Le hanno avvistate ieri prossime alla costa, e certo non se ne saranno allontanate molto. Il mare, assonnato, appena increspato dai misteriosi venti che si dice corrano in profondità, riflette il cielo grigio, rabbrividendo all’alba. Mentre le barche dei pescatori continuano a rientrare nella rada, il sole stenta a schiarire il cielo lattiginoso. Si vedranno le balene, se i pescherecci che si sventagliano via via che ci si allontana dalla riva non le hanno spaventate. Al momento, solo qualche medusa paonazza sotto il pelo livido dell’acqua, e una ciabatta rotta che impiegherà mill’anni e mille per disintegrarsi. La scia di scintille che segue il sole a est segna la rotta. Un’apparizione di delfini apre la danza della nave, danza che costringerà i marinai a pulire il ponte più e più volte da colazioni e cene rimesse. Per un paio di deludenti ore, alla luce ormai accecante, si zigzaga rincorrendo gli sbuffi dei cetacei, oggi particolarmente schivi. Ma in un inatteso gran finale, gli animali, vicinissimi, si riscattano con un paio di piroette mostrando il lungo dorso e, con la coda, ci salutano inabissandosi. Sul molo, tra i colori sgargianti delle barche e dei pennoni, l’odore forte dei filetti di tonno stesi a seccare attira mosche e fotografi. In programma questo pomeriggio un massaggio ayurvedico, un tuffo nell’oceano, una capatina al porto o magari una scappata alla bella Galle. Lì ci si diverte, si fa la ronda sugli spalti del forte portoghese, intorno al faro e sotto l’enorme ombrello verde degli alberi di guadapara, mentre i turisti cercano invano un bar o un ristorante che serva birra – la città è musulmana – nelle stradine piene di botteghe artigiane e di gioiellerie che offrono le pietre preziose di cui questa terra è ricca, lampi di colore vivo incastonati in barocchismi islamici o splendidi in collane postmoderne e neoprimitive. La città è una trappola per turisti: i bassi edifici coloniali trattengono acquattati il fiato, pronti a saltare addosso al visitatore consenziente e, mentre si fa sera, l’aura d’un antico incantesimo scende nei vicoli stretti, che serbano i segreti di vite sconosciute, quelle sfuggenti di adesso e quelle, sfuggite alla storia, degli schiavi africani e dei conquistatori d’oltremare, che sedevano sotto le verande prima di passare la sera nei cortili, colorati di fiori come adesso. Sullo sfondo del jazz anni ’40, esotico ma educato, i quadri e le cartoline di Ceylon riportano al prosaico qui ed ora un passato favoloso ed impossibile, prossimo ma irrimediabilmente perduto sotto la sferza del progresso e della globalizzazione. Ceylon allora era un luogo immaginario, foresto e ignoto come ora appare Marte. Si lasciano le boutique al loro dorato letargo e si trova alfine una birra in un luogo di perdizione per infedeli. Nel cortile, un complesso di cinque provetti locali ricrea le melodie intramontabili dei Creedence, degli Eagles, di Dylan. E’ vergognoso ammetterlo, ma per il turista, provato da tanta estraneità, quelle canzoni sono una boccata d’ossigeno più che benvenuta: son come ritrovare un amico perduto.
È ancora giorno, ma per poco, quando un bel viale di frangipani sale frettoloso la collina di Mihintale giusto in tempo per assistere ai vespri: tre monaci musicanti s’avvicinano alla base dello stupa che conserva la reliquia del Buddha armati di nalave (flauto), dawula (tamburo) e thammatthama (tamburo segnatempo) e suonano con determinazione la solita, stridula serenata serale che se alla divinità, che presumibilmente ha avuto una giornata pesante, non basterà per rappacificarsi coll’universo e le sue istanze, di certo metterà in fuga gli spiriti malvagi. Dell’antico tempio, costruito dove il principe Mahinda predicò per la prima volta il buddismo in Sri Lanka nel 246 a.C., rimangono solo gli stipiti, eretti in pietra a causa delle termiti. Anche le migliaia di monaci che abitavano questa grande groppa rocciosa sono andate, lasciando nell’aria della sera la devozione, l’unica risposta possibile alla potenza e alle dimensioni del creato, qui testimone silente ma pressante. Stoppini accesi nell’olio di cocco fanno luce al sito, presenziato da un grande Buddha bianco. Di rientro al monastero, i monaci troveranno thè e caffè: il prossimo pasto a base di riso e latte sarà per domani mattina, dopo una notte di meditazione. Anche senza luna, quassù la notte è chiara, e la foresta intorno misteriosa. Mihintale è al limitare dell’area archeologica di Anuradhapura, uno degli antichi centri politici e tuttora capitale religiosa per i buddisti che venerano il sacro Bo. Il famoso albero, nonostante sia il più antico del mondo, è solo una propaggine di quello cresciuto da un germoglio, portato nell’isola da una principessa, del Bo originale sotto il quale Buddha ricevette l’illuminazione. Lumini, vassoi di fiori di loto e offerte d’incenso si allineano per Shakyamuni, protetto nei bassorilievi dal ventaglio a sette petali del Naga. Leoni di pietra impreziosiscono le balaustre, mentre alla base degli scalini si trova il moonstone, il semicerchio di pietra che simbolizza l’arrivo al loto del nirvana attraverso il ciclo del samsara e dei suoi travagli, rappresentati dall’elefante, dal leone, dal cavallo e dal toro, ai quali fa da contrappunto il cigno, che indica la capacità di distinguere tra bene e male. Quest’esoterismo poco importa al gruppone di pellegrine, tutte in bianco, che si sono accovacciate all’ombra del Bo. Fedeli dall’Indonesia lasciano corolle d’ogni colore sugli altari dove le statue di Buddha, disposte per dimensione, vengono omaggiate di frutta e cibo e supplicate da devoti d’ogni dove asiatico. Non se lo aspetterebbe, l’occidentale distratto, ma la religione della Via di Mezzo copre un’area vastissima, e l’interessante Museo del Buddhismo di Kandy ne dà una panoramica paese per paese, puntualizzandone le peculiarità e le caratteristiche artistiche. Ignorando le scimmie intente a spidocchiarsi, i cani si sono alzati e scortano un’altra bianca processione che avanza costeggiando gli stupa Ruwanwelisaya e Jatavana che, coi suoi 120 metri d’altezza, fu il terzo edificio più alto del mondo al momento della costruzione. Ai basamenti delle candide dagobe fanno da cariatidi fotogeniche file di elefanti, e il cielo azzurro intenso, l’espressione serafica del Buddha e il quieto andirivieni a piedi scalzi dei devoti creano un circondario che davvero induce alla meditazione, alla preghiera, alla pace. Dopo l’intimidatorio incontro col gigantesco, ieratico Buddha di Aukana, superbamente intagliato nella roccia, si ritrova l’Illuminato a Polonnaruwa in tre posizioni: seduto sul loto, stante e sdraiato. Pare voler condividere i momenti salienti del suo percorso, ed è un mare di camicie bianche che si è radunato intorno a lui, stasera. E’ una funzione per i poliziotti, e c’è un giovane monaco in trono – cosa ne sapranno, i suoi trent’anni, della vita? – che predica alle centinaia sedute sui prati. Da un carretto si distribuisce a tutti, anche agli occasionali infiltrati, thè caldo e un pezzetto di zucchero di canna.
Polonnaruwa è stata la capitale del periodo d’oro di Parakramabahu il Grande che, oltre a restaurare le rovine di Anuradhapura e Mihintale, unificare e potenziare il clero e difendere l’indipendenza nazionale, cambiò i connotati geografici della regione ordinando gli scavi di estesi laghi e d’un’imponente rete di bacini e di canali, in superficie e sotterranei, per irrigare questa regione riarsa. S’affitta una bicicletta e, spostandosi all’ombra dei bei viali di kumuk, di tamarindi, di maara, di manghi e di tek dalle grandi foglie, si fanno soste alle magnifiche rovine dei templi, degli stupa, dei palazzi e delle piscine di questo sito archeologico patrimonio dell’umanità, predato dai portoghesi nel XVI secolo, sepolto dalla giungla e riscoperto infine dagli inglesi. Le statue del Buddha siedono all’aperto, ad ascoltar gli animali frinire, gracchiare e richiamarsi, circondate da artistici bassorilievi e rallegrate dal rigoglio della natura. Oppure siedono protette in ripari ricavati sotto le sporgenze delle rocce, in grandi caverne stupendamente affrescate, come a Dambulla. Da sito a sito, il senso artistico varia dal sublime al kitsch – il tempio di Devinuwara a Matara, per esempio, ha tutte le pareti interne dipinte a fumetti edificanti che illustrano gli insegnamenti buddisti, mentre a Dambulla sfila una processione di fedeli in cemento degna dell’Owl House di Helen Martin in Sud Africa o del giardino di statue di Fred Smith in Wisconsin. La facciata del museo buddhista è pura Disneyland. Ma è interessante l’espressione dell’impulso religioso, la raffigurazione di quella fede nel divino che da lungo tempo abbiamo perduto, e sorvoliamo le cadute di gusto per riempire le memorie delle nostre macchine fotografiche coi mille altari del grande uomo e, ad Alu Viharaya, con le spaventose immagini dell’inferno buddista, molto più raccapriccianti e cruente dell’oltretomba dei dannati raffigurato nelle controfacciate delle nostre cattedrali. Anche qui, come da noi, la carota non basta: serve anche il bastone.
Se Polonnaruwa è l’Angkor Wat dello Sri Lanka, Sigiriya ne è il Machu Picchu: una cittadella inespugnabile costruita in cima alla Roccia del Leone. La storia è avvincente: Kashyapa, figlio illegittimo di re Dathusena, mura vivo il padre libertino per usurpargli il trono. Il vero erede, Moggallan, si rifugia in India e giura vendetta. Il fratellastro, temendo la rivincita, fa costruire un nuovo palazzo reale sulla cima dell’enorme formazione rocciosa di Sigiriya. Radunato un esercito, Mogallan ritorna e ingaggia battaglia. Le cose non vanno male per Kashyapa, che vuol volgere le sorti della battaglia risolutivamente in suo favore sorprendendo il nemico di lato. Muove l’elefante ma i suoi scambiano l’azione come segno di ritirata. Vistosi perduto, Kashyapa si suicida tagliandosi la gola con il pugnale. Del suo imponente palazzo restano solo i terrazzamenti con le fondamenta degli edifici e delle piscine, raggiunti dopo un’arrampicata non indifferente su scale metalliche affiancate alle pareti verticali della roccia, sulla quale restano le incisioni degli antichi gradini, senza dubbio usati da servi acrobati e vallette equilibriste, probabilmente quelle, prosperose, delle quali si vedono i famosissimi affreschi a metà salita, sotto una tettoia di roccia. Se quelle erano le donne del re, Sigiriya era effettivamente un palazzo di piaceri, ipotesi corroborata dalla cura con la quale, alla base della rupe, furono progettati i giardini reali, tra i più antichi della storia, con fontane, laghetti ed isole, e la contigua città, con canalizzazioni che ancora funzionano. Altro indizio sulla personalità di Kashyapa è fornito da un tratto di muro, levigato fino a potercisi specchiare. Le immagini del video “Save a prayer” dei Duran Duran, oltre a presentare l’allegro con brio dei cavalloni dell’oceano contro le spiagge singalesi (a 2’49”), le tradizionali, strette imbarcazioni per la pesca con un galleggiante a lato (a 1’36”) e i caratteristici trampoli sui quali i pescatori della costa meridionale si appostano (a 2’00”), regala una panoramica aerea del sito (a 2’27”) che dà un’ottima idea dell’estensione della cittadella e di come Kashyapa si dovesse sentire davanti ad un panorama a 360° (a 4’23”). E riesce anche a dar l’impressione del caldo tropicale (a 3’20”), della frescura del gioco degli elefanti al bagno (a 4’20”) e della magnificenza dei Buddha scolpiti nella roccia di Polonnaruwa (a 4’03”), il cui volto, meno idealizzato delle immagini stereotipiche, ha la forza persuasiva d’una persona viva (a 4’15”). Di Siddhartha, venerato in tantissimi templi, un dente è arrivato a Kandy, antica capitale in una conca protetta dal tempo e dai nemici e allietata da uno specchio d’acqua artificiale. Per un’occhiata al tabernacolo dove un piccolo stupa dorato conserva la reliquia, ci si ammassa con le moltitudini alle incessanti geremiadi dei musici del tempio.
I fuoristrada si arrabattano sulle strade accidentate che traversano le macchie del parco Yala tra mandrie di bufali a mollo nelle lagune salmastre, pavoni, varani, manguste, tortore, cinghiali, coccodrilli, cormorani, tantali variopinti, elefanti e gli invisibili leopardi. I gruccioni verdi corteggiano vezzosi la carovana dei turisti, al contrario del martin pescatore dell’estuario del fiume Madu che, agilissimo ed elegantissimo nel suo corpetto arancione e livrea azzurra, si lancia in picchiate fulminee per tornare sul paletto a scrutare il pelo dell’acqua. Quelli svolazzavano intorno alle jeep, questo non degna d’uno sguardo la nostra barca. Che la maremma di Madu sia speciale è confermato da un cartello nell’isola Kothduwa, dove cresce un altro Bo nato da quello dell’illuminazione di Buddha: il suo tempio millenario dagli “speciali poteri cosmici” permetterà progressi spirituali a chi ne rispetti la pace e il silenzio. Più in là, una ragazza vende bibite e noci di cocco agli assetati turisti da una palafitta tra le rive, definite dagli intrecci delle mangrovie. Attratte dall’acqua, le piante estendono una ragnatela di lunghe dita per impossessarsene. I varani e i coccodrilli, che occorre aver buoni occhi per identificare nell’intrico, confermano l’importanza di questo ecosistema. Qui cresce la cannella, base per preparati dai magici poteri: candele antizanzare e olio antisettico e fungicida per l’emicrania, l’artrite, il colesterolo e il diabete. Inoltre ci si può far mangiucchiare le pellicine morte dei piedi dai pesci pedicure, ma non tutti hanno il fegato di mettere i piedi a mollo, in caso sotto le mentite spoglie di pesce podologo si celi un piranha. Al molo, sorvegliato dai mustacchi d’un capitano che sembra uscito da un film di corsari, foto dell’epoca coloniale illustrano quest’angolo dell’impero inglese, popolato da tribù di nativi promossi da poco alla categoria “sapiens” e di grassi coloni in piacevole conversazione o scorrazzati sui risciò. Di quell’età restano le testimonianze in quell’incredibile capsula del tempo che è il tempio Gangarama a Colombo: una raccolta infinita di oggetti di pregio o storici, passati a miglior vita nelle bacheche che circondano la divinità.
Le pagine delle grandi città hanno forse meno cancellature, errori e sgorbi, ma è del mondo naturale che poi ci si ricorda. Dei tramonti, delle spiagge e delle alture, che lasciano gli strati di storia ad appilarsi come la vegetazione delle foreste. E delle occorrenze fortunate di questa gentile isola della serendipità, votata ad offrire scoperte felici e insperate per caso, quest’isola del thè e del caucciù, dell’artigianato, della fauna selvatica, dei templi millenari, che nel loro periodo d’oro inviarono emissari perfino agli antichi romani: storie che non sapremo mai, ma che arrivano colle onde dell’oceano, col soffio del vento, col tocco rigeneratore dell’Ayurveda, dell’arte, cioè, del vivere sano. E la rara consapevolezza di poter vivere lasciandosi vivere è il regalo d’arrivederci dello Sri Lanka a chi sappia guardare oltre il verde della sua terra e il blu del suo mare.