Tanzania, viaggio alternativo e autogestito, senza passare per le agenzie
A causa di una turbolenza appena partiti da Venezia, siamo atterrati a Istanbul, dove facevamo scalo, con più di un’ora di ritardo. Questo ha ridotto notevolmente il tempo della nostra coincidenza che, da un’ora e mezza, è passata a venti minuti. Abbiamo letteralmente volato da un capo all’altro dell’aeroporto Ataturk, schivando controlli e altri viaggiatori e, scortati dalle guardie, ci siamo fiondati nel bus navetta poco prima che chiudesse le porte. Col cuore che usciva dal petto, ci siamo seduti distrutti, ma soddisfatti ai nostri posti. Purtroppo le nostre valigie non sono state così veloci e sono dovute restare un giorno in più a Istanbul (hanno così apprezzato la città che anche al ritorno una di loro ha deciso di fare sosta). Dopo altre 6 ore e 45 minuti di volo siamo atterrati a Dar Es Salaam, capitale economica della Tanzania, alle 3 della mattina (ora della Tanzania, ovvero un’ora in più dell’Italia).
Ospiti di questo nostro amico, ci siamo riposati e rifocillati: frutti della passione, mango, formaggio, un miele buonissimo, ecc… Il primo impatto con l’ambiente ci ha mostrato una natura rigogliosa, alberi bellissimi e coloratissimi, così come insetti giganti e uccelli variopinti. La temperatura gradevole, tra i 22 e i 27 gradi, la brezza costante che spira, il clima secco: ironico venire a cercare il fresco in Africa, che rispetto all’Italia di agosto è il paradiso. Gli incontri fatti e le persone conosciute ci hanno arricchito molto. Questo viaggio ci ha fatto molto bene, scoprendo un mondo lontano e pieno di contraddizioni. La Tanzania è un grande Paese (4 volte l’Italia), pieno di ecosistemi diversi. Anche le persone sono diverse e di 4 gruppi principali: i Masai, il gruppo nilotico, i Bantu e altri popoli locali. In Tanzania la maggioranza della popolazione parla swahili e solo un 15-20% di loro parla inglese, quindi si deve andare “pole pole” (piano piano) ed avere pazienza. All’incirca possiamo dire che il 42% della popolazione è musulmana (era periodo di Ramadan), il 42% cristiana, una piccola percentuale indù (non dimenticatevi che l’oceano indiano bagna le coste della Tanzania) e gli altri si dividevano in confessioni animiste o atei
Recuperate le valigie, attese con molta apprensione e con la voglia di cambiarci, siamo andati alla stazione degli autobus di linea, gli stessi che usano i locali. Venditori a ogni lato ed a ogni piazzola delle merci più varie, andavano e venivano anche nel corridoio del bus, salendo e scendendo non si sa dove. Viaggio duro, non ci azzardiamo a scendere al punto di sosta previsto per il bagno (non vi dico che bagno), tra odori acri di carne cotta al fuoco, steppa secca e mosche attratte dal sudore. Finalmente, però, arriviamo a Mikumi, stanchi morti, ma vivi. Ci accolgono le cameriere dell’hotel con una bella spremuta di frutti locali e ci riconciliamo con il mondo. Anche la stanza è bella e rilassante.
Il giorno dopo partiamo per il safari fotografico (meglio specificare per non urtare qualche sensibilità) al Mikumi National Park. Mozzafiato, bellissimo, non c’è che dire. Gli elefanti giganti, gli impala e le antilopi timorosi ma fiduciosi, le giraffe eleganti in piedi e goffe quando bevono, le leonesse pazienti, i coccodrilli spaventosi, i serpenti pericolosi, gli gnu che si affidano alle zebre, le zebre intelligenti, i bufali imprendibili, gli ippopotami placidi e i baobab immensi. Ciò che colpisce di più è la perfetta integrazione degli animali nell’ambiente che li circonda: quasi non si vedono. Specie quelli gialli-paglia, come gli impala o i leoni. E poi il vento della savana, che piega le spighe dorate e rosse, alte e flessuose, che possono nascondere anche le giraffe e che potrebbero celare occhi felini.
Gli insetti poi si mimetizzano perfettamente e l’insetto stecco ne è un esempio perfetto. Purtroppo è pieno di mosche tze tze e ne siamo stati punti: per fortuna solo punture continuate nel corso di più di un anno o quella della “mala sorte” trasmettono la malattia del sonno. Infine, le zebre sono proprio affascinanti. Almeno 4 di loro fanno la guardia mentre le altre e gli gnu mangiano. Guardano ai 4 punti cardinali e vedono benissimo. Quando scappano in gruppo, le loro strisce confondono i predatori che non sanno quando finisce una e inizia l’altra e non riescono, quindi, ad addentarle. Le strisce e il loro manto confondono anche gli insetti che non riescono a pungerle. Insomma, sono una vera forza. C’è tanto da imparare dalle zebre! E infatti gli gnu, ma anche altri animali se ne stanno vicino a loro.
Anche quando siamo andati nella foresta pluviale nel Parco nazionale dei monti Udzungwa (naturalmente pioveva), abbiamo trovato un groviglio di vegetazione verde – verde scura e animali che quasi non si vedevano. Soprattutto il ragno bufalo (piccolo, con delle corna e velenosissimo) e poi il letale black mamba (anche non è nero, ma solo l’interno della bocca lo è). Meno male che quest’ultimo lo abbiamo visto solo in gabbia, pare che abbia veleno per 200 uomini, corra a 23 km/h e uccida in 2 minuti. La foresta pluviale è umida, con il pulviscolo di pioggerellina che rimane a mezz’aria, piena di felci per terra e con fiumi e cascate intorno. Davvero un ambiente unico, rimasto intatto dal paleolitico, circa 100.000 anni fa. La metà delle piante di quel tipo di foresta è medicamentosa, l’altra metà è velenosa: meno male che c’erano i cartelli. Interessante è il tronco di una pianta (Mkunde) che, se battuto, suona fino a 2 km ed era così che comunicava la tribù degli he-he per radunarsi. Peccato che era troppo freddo per fare il bagno sotto la cascata, ma forse tra tutti quei serpenti, vermi e insetti pericolosi, non era indicato. Abbiamo visto anche 3 tipi su 10 di scimmie che vivono in quella foresta. Una simpatica ha un ciuffo rosso ruggine in testa, ma non è bella, anzi è un po’ bruttina. Abbiamo visto anche dei fiori e delle piante molto belle, ma purtroppo quelle più belle erano anche le più pericolose.
Il giorno dopo, abbiamo fatto acquisti di stoffe, coperte, tessuti e abiti Masai, sculture e incisioni e poi siamo andati a Dodoma, capitale politica della Tanzania. Lì eravamo ancora ospiti del nostro amico e, dopo aver visitato la città e il mercato, ci siamo mangiati una pizza capricciosa e una margherita. Non è da noi mangiare italiano fuori, ma durante il Ramadan era uno dei pochi ristoranti aperti e poi era buono. Invece, come cibo locale possiamo citare il pilau (riso colorato di scuro da una spezia, molto saporito), dei buonissimi fagioli con cipolle, le lenticchie e i ceci, l’usali (una polenta non molto saporita, ma con i fagioli di cui sopra è uno spettacolo). Comunque, se non si ama il piccante è meglio chiederglielo prima che ce lo mettano.
Ci siamo addentrati nella regione di Dodoma e per due notti e tre giorni siamo stati in cima alla montagna Yobo (1.000 metri di altezza), senza luce, acqua corrente, gas e quant’altro, ma circondati dalla natura nel cuore dell’Africa.. Come dimora una capanna piena di cimici e come bagno un buco nel terreno coperto dalle cannicciate. Le cimici sono state uccise spruzzando il disinfestante la prima sera e per tre giorni hanno continuato a cadere per terra. Meno male che avevamo la zanzariera, sennò ci cadevano in testa durante la notte. Poi, la mattina le spazzavamo fuori. Al bagno ci siamo abituati in fretta e, comunque, sopra il buco era stato posizionato un wc alla bell’e meglio. Eravamo lì per visitare le miniere e vedere come lavorano quelli che consideriamo “gli ultimi della Terra”. Le miniere sono affascinanti. Quella che abbiamo visto noi era a cielo aperto e costeggia la montagna. Si estraeva una pietra verde, molto luminosa. In effetti fa un po’ impressione vedere come battono le pietre, in mezzo alla polvere. Impressiona vedere le loro case al villaggio, dove vivono in capanne di legno e terra cruda, con il tetto sormontato da terra. Quando piove tanto, le capanne si appesantiscono e a volte cadono, uccidendo chi ci sta dentro, perché sono pesantissime. Questo succede raramente, con piogge eccezionali, ma succede. Ad ogni modo abitano, mangiano e dormono con le galline, vitelli, gatti e altri animali. I minatori spaccano la pietra con piccozze e picconi, la scavatrice serve solo per spostare la terra e farsi largo. Fa effetto toccare con mano questa realtà, veder come anche tra di loro c’è una gerarchia tra chi comanda e sta meglio e chi ubbidisce. Quando sei in questi posti, ti accorgi che poco è cambiato in migliaia di anni. Comunque anche noi abbiamo preso la nostra piccola pietra e ce la siamo poi intagliata a Dar Es Salaam, creando un ciondolo che per noi ha un valore incommensurabile.
In montagna, senza elettricità si andava a dormire alle 21:30 e ci sembravano le 2 di notte. La bacinella per lavarci non ci lavava più di tanto e anche noi ci siamo assuefatti alla polvere. Il cielo, però, era ricoperto di stelle e costellazioni sconosciute. L’unica che abbiamo riconosciuto è stata la croce del sud. Inoltre, l’ultimo giorno, il nostro accampamento è stato individuato da una quarantina di scimmie assetate e affamate che ci ha invaso e, seppur spaventate, ci hanno rubato tutti i pomodori (li sbucciavano prima di mangiarli), un po’ di riso già cotto e un po’ di acqua. Le melanzane non le hanno volute, né le lenticchie cotte, forse perché queste ultime avevano un po’ di piccante! Robe da matti. Questo ci ha spinto a muoverci e a partire, ridiscendendo i sentieri e i costoni della montagna. Però siamo ridiscesi con il sorriso sulle labbra.
Visto che avevamo bucato, siamo stati fermi più di un’ora in un villaggio ad aspettare la ruota di scorta. Anche perché dovevamo addentrarci per 20 km in un territorio pieno di banditi, almeno così ci hanno detto. Ma visto che per andare lì, i militari alzavano una sbarra e quando ne uscivi ne alzavano un’altra, ci è sembrato plausibile. Inoltre, il nostro accompagnatore era pure armato. Così, per ammazzare il tempo abbiamo giocato ad un, due, tre, stella con i bambini del posto, insegnandogli a giocare. Se fra qualche anno diventerà sport nazionale della Tanzania, sapete di chi è la colpa. Poi, con le ruote a posto, la ruota di scorta inserita + due galline vive nel portabagagli siamo partiti attraversando la terra di nessuno.
Infine, diretti a Zanzibar (isola dei neri in arabo antico): un’isola un tempo famosa per il traffico degli schiavi e delle spezie. Oggi povera, ma meta del turismo di massa occidentale, specie italiano ma non solo. Per arrivare abbiamo preso il traghetto da Dar Es Salaam. Controlli a non finire, come quando si prende l’aereo; forse perché c’era un grande afflusso di gente per festeggiare la fine del Ramadan, in un’isola a maggioranza musulmana. Ci siamo seduti fuori sul ponte, ma il vento ci ha sballottato duramente. Meglio il vento, però, del mal di mare che ci ha colti al ritorno. Arrivati a Stone Town (capoluogo di Zanzibar), una guida ci attendeva per la visita e lì abbiamo fatto il grosso degli acquisti. Interessanti sono state le porte della città, intagliate e scolpite nel legno: se c’erano delle catene intagliate voleva dire che quella era la casa di un commerciante di schiavi, altrimenti potevano esserci spezie o quant’altro. La città è in decadenza e tutto quel turismo insopportabile, per chi viene dall’interno del Paese. Però l’isola è bella e il mare stupendo. Con queste imbarcazioni a vela triangolare che solcano l’oceano indiano, la sabbia bianca e l’acqua trasparente. Non male dopo tanto peregrinare. Il pesce che si mangia è buonissimo e a buon mercato, ma è consigliabile il king fish, i calamari e il polpo; invece l’orata e il tonno non sono freschi, ma i turisti li chiedono so stesso. Certo, trovarsi nelle spiagge di Zanzibar piene di gente bianca non fa nemmeno sembrare di essere in Africa.
A Zanzibar, dopo aver gustato il buonissimo miele di Dodoma, è apparsa anche la luna, con un bellissimo sorriso orizzontale (sì, perché a quelle latitudini, ma già in Nord Africa, la luna è sdraiata, non verticale): così è diventata una vera e propria luna di miele. Questo ha posto anche fine al Ramadan, ma non ci ha impedito di vedere le stelle cadenti, perché la luna era ancora piccola e poco luminosa. Le prime passeggiate sulla spiaggia ci hanno rivelato delle stupende stelle marine, rosse e marroncine chiare, che la bassa marea aveva lasciato scoperte. Anche la lumaca di mare ci ha impressionato, così come i granchi bianchissimi sulla sabbia bianchissima e quelli color del legno sopra il legno. Lì il mare è bello anche con le nuvole nere e minacciose di pioggia e ci si abbronza anche con il cielo coperto. Bellissimo il contrasto tra i nuvoloni neri, il mare azzurro e la sabbia bianca.
Il blu safari che abbiamo fatto il terzo giorno lì, ci ha portati alla scoperta della barriera corallina. Prima di buttarci abbiamo fatto sosta in una isola che durante l’alta marea semplicemente non esiste. La marea è veramente veloce e il paesaggio cambia velocemente, quindi siamo ritornati sulla barca per tuffarci tra i coralli. Il panorama che si apre appena ti metti la maschera è da restare mozzafiato. Coralli dai mille colori (verdi, marroni, gialli, blu, rossi, ecc…); pesci grandi e piccoli: pesci zebrati (non pesci zebra che quelli sono di acqua dolce), pesci gialli e blu, pesci neri con gli occhi gialli che vogliono mordicchiare le dita se ti avvicini, anche se poi desistono in fretta. C’erano spugne giganti e esseri gelatinosi viola e rossi, molto grandi e appoggiati al fondale, che fluttuavano e muovevano i loro capelli di alghe. C’erano filamenti di corallo gialli e marroni che salivano dal fondo. Le foreste di corallo blu erano le più belle. In mezzo passavano i pesci e c’erano ricci di mare dagli aculei lunghissimi e con tre puntini gialli all’interno e blu intorno. Lì è tutto vivo e si muove intorno a te: uno spettacolo indescrivibile. Anche i mangrovieti sono molto belli, perché creano ecosistemi unici. Poi, spiegare le vele e planare sull’oceano indiano, sentendo il rumore del mare, è un’esperienza indimenticabile.
Ora siamo ritornati in Italia. Gli echi della Tanzania sembrano già lontani, ma invece sono sottopelle e nel cuore.