A Istanbul meglio che a casa

Città dei ponti, città della parola
Scritto da: Enzo da Napoli
a istanbul meglio che a casa
Partenza il: 13/07/2010
Ritorno il: 23/07/2010
Viaggiatori: 2
Spesa: 1000 €
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Il più grande merito del viaggio consiste nel fatto che ti permette, confrontandoti con una nuova realtà, con un nuovo stile di vita, di conoscere il tuo, di capire veramente quello che stai diventando nel luogo in cui vivi. E’ inevitabile il paragone! Beh, paragonare Istanbul alla brianza è davvero avvilente (per chi vive in brianza!). Non sto parlando dei paesaggi, dei monumenti, della storia, è chiaro (il paragone sarebbe davvero cattivo, in questo caso, e davvero superfluo), sto parlando della gente. A Istanbul succede tutto in strada; tutti sono, in qualche modo, legati agli altri da una rete fittissima di relazioni. Non ci vuole molto per capirlo, basta scendere tra le persone, nella Istanbul del porto come a Sultanahmet, per accorgersi che tutta la città si regge sulla comunicazione, sullo scambio, sull’aiuto reciproco, sul favore in cambio di qualcosa, sulla menzogna, sull’affabulazione, sulla cooperazione, sulla frenetica trattativa, sul baratto, sul mercato all’aperto che questo magnifico posto rappresenta 24 ore su 24. Simit in cambio di misir! C’è sempre un affare in sospeso, una parola da mantene… E quindi una promessa di rincontro! “Sei interessato alla mia merce? Entra, bevi un té, dimmi di dove sei e conosciamoci” (è pacifico che tutto questo sia finalizzato alla vendita, ma è il come avviene la trattativa ad essere indicativo di un modo di essere, di vivere! Accordarsi su un prezzo è civiltà!). Tutto è parola! Un Bosforo di parole! Un Marmara! Interrotto, solo per qualche attimo, dal canto del muezzin (anche qui, ancora parola!). Un’instancabile costruzione di ponti tra le persone, ponti forti come quelli che collegano le varie sponde della città! Sembra che tutti parlino tutte le lingue! Nessuno in modo veramente corretto, è chiaro, ma sembra che tutti siano capaci di comunicare con chi viene da lontano; e se così non fosse ci si mette un attimo a coinvolgere il primo passante capace di tradurre. Secoli di mani che gesticolano! Porta girevole sul mondo! Dervisci di frasi che ti avvolgono! La gente di Istanbul, ecco, appare abituata al diverso, allo straniero e alla ricchezza che esso rappresenta ed è disposta ad accoglierlo, a parlare con lui, ad essere gentile (abbiamo visto negozianti abbandonare il proprio posto di lavoro, perdendo quindi potenziale denaro, per accompagnarci per qualche centinaio di metri e metterci sulla strada giusta per l’albergo). Ci si abbraccia se ti piace il Galatasaray, si ride insieme se storpi il teşekkür… La notte come il giorno… Il cibo ad ogni angolo, ad ogni ora e per ogni tasca (questo rende una città davvero democratica! 🙂 ). Tutto sembra costringerti a camminare ancora,ad incrociare passanti, a respirare odori e puzze, ad ascoltare suoni e rumori, a perderti. Finché il corpo va, finché non si crolla in albergo, finché non si dorme, finché non sia il sogno a riportarti coi piedi per terra! Dall’affollata Taksim fino alla dolce Galata, dal ponte sacro al porto puttana, dal bazar dei sensi alla moschea degli uomini, dalle scale dell’albergo fino al giorno dopo per ripetere, inverso, lo stesso, sempre nuovo, percorso. Tutto attraverso strade strettissime che costringono al tatto. Parlando con gli uomini, mangiando in piedi, fumando seduti e accarezzando i gatti, veri e unici padroni di questa magnifica città. Con questo non voglio dire che a Istanbul non ci siano problemi, sia chiaro. Ci sono situazioni di assoluta povertà; il traffico è asfissiante; in alcune circostanze sembra che la folla possa inghiottirti e farti sparire per sempre; a volte la parola può nascondere l’imbroglio… Istanbul è piena di problemi! Ciò che bisogna avere il coraggio di affermare, forse, senza enfasi o romanticismi, ma semplicemente rimanendo su un piano descrittivo, senza per questo scivolare nel “si stava meglio quando si stava peggio”, è che magari sono proprio i problemi a costringerti a non essere solo, a misurarti con gli altri, a cooperare, a difenderti, a svegliarti. “Prima o poi tutti devono scendere in strada”, scriveva Céline, a Istanbul ci si nasce (l’unica città italiana che può essere paragonata a Istanbul, da questo punto di vista, è forse Napoli). A questo ci aggiungi la storia di Istanbul, il significato che ha avuto nei rapporti tra occidente e oriente, la sua posizione assolutamente strategica, il fatto che da sempre sia una città votata al mare, al mondo, aperta, ed il risultato è quello che ho appena descritto. La nostra confortevole brianza, le nostre efficienti città del nord, hanno problemi assolutamente risibili se paragonati a quelli di Istanbul… Ma come vive la gente da noi? Quanto tempo passa, in strada, la gente? A seregno, in brianza, ma ancora peggio nelle grandi città, in Italia come nelle metropoli europee, quanto tempo si è disposti a concedere agli altri e quanto tempo ci si concede per incontrare gli altri? Da noi le relazioni sembrano essere sempre più ridotte all’osso, essenziali. Milioni di individui soli attraversano le nostre strade. Tutto, al massimo, rimane all’interno delle cellule-famiglia: piccole monadi che si sfiorano appena all’uscita dell’oratorio, o in piscina, quando il piccolo ha finito il corso, nei supermercati alla domenica. Pochi sono i rapporti di amicizia veri. La coppia può facilmente tradursi in esclusione, in tentazioni di autarchia. Nelle metropolitane si sente solo il rumore del vagone: ognuno resta chiuso nel suo mondo, nella sua copia di giornale gratuito (a volte penso che sia distribuito proprio a questo scopo, il giornalino, proprio per tenerle occupate, le persone, per evitare che si parlino, che possano pensare e esprimere opinioni). Le uniche parole che senti, durante il viaggio, sono indirizzate ai cellulari: si parla solo con le persone affidabili (più di una volta mi è capitato di fermare una persona per chiederle un’informazione e vederla tenersi la borsa, spaventata…). Nei negozi tutto si riduce a “quant’è?”, il pagamento e via. Le facce sono anonime, senza espressione, stupide. Gli occhi sono persi, disattenti… Maschere, soldatini di piombo all’inseguimento del cartellino da timbrare, paralizzati dalla riservatezza, imbavagliati dalla privacy. A Istanbul, le pupille dei ragazzi, corrono veloci da un angolo all’altro dell’occhio… E brillano. A Istanbul ero a casa. Mi sono sentito più a casa a Istanbul in pochi giorni che in tre anni in brianza. Cittadino della parola!


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