Islanda, terra di vulcani surgelati

1. Questa sera, al momento di coricarvi, lasciate socchiuso il rubinetto della vasca da bagno e tappate lo scarico dell’acqua. Sotto il letto mettete un candelotto di dinamite con miccia lunga ma non troppo, accesa. Fra il materasso e il letto posizionate un potente vibromassaggiatore che si accende e spegne diciamo ogni mezz’ora. Poi andate...
Scritto da: trap
Ritorno il: 15/08/2009
Viaggiatori: in gruppo
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1. Questa sera, al momento di coricarvi, lasciate socchiuso il rubinetto della vasca da bagno e tappate lo scarico dell’acqua. Sotto il letto mettete un candelotto di dinamite con miccia lunga ma non troppo, accesa. Fra il materasso e il letto posizionate un potente vibromassaggiatore che si accende e spegne diciamo ogni mezz’ora. Poi andate a letto tranquilli. Avrete un’idea di cosa significhi vivere in Islanda. Qui l’inverno ha braccia e gambe più lunghe del nostro: disteso sul calendario ne copre una porzione ben maggiore, come la neve che gli fa da giaciglio. Tocca attendere che si rialzi, si stiracchi nei primi palpiti di primavera e migri verso il Vatnajökull, il più grande surgelatore d’Europa, che lo conserverà integro durante la breve estate islandese. Allora si può tornare a calcare la terra lasciata libera dalla neve. Ma basta che ti togli dalla strada principale (anche là si chiama A1, ma scordatevi l’autostrada del Sole) e ti getti sulle vie interne o peggio ancora sulle piste e come niente dovrai vedertela con più di un guado. A volte si tratta poco più che di ruscelletti, ma c’è di quei fiumi che la pioggia gonfia e rende arroganti come tori aizzati dalla folla durante una corrida. Tipo da noi un’autostrada quando c’è traffico ma non tanto da impedire una costante corsa a 130/140 all’ora: mica ti viene in mente di attraversarla, macchina o piedi che siano. In Islanda invece gli viene la fantasia di provarci, col risultato che puoi vedere anche giganteschi pullman, che definirei 8 x 8, arrancare e sbuffare come bufali maestosi poco avvezzi alla sconfitta – e poi fermarsi, piegarsi, arretrare. Superbi vichinghi dall’istinto di nocchiero sono costretti a rispettare la momentanea superiorità del dio fiume: non si passa e basta. Resti col fiato sospeso (perché tu sei su quel pullman), salvo strilli e bestemmie, mentre alcune tonnellate di acciaio e carne umana cominciano a pattinare sul fondo del fiume e vedi acque color fango che si accaniscono contro la fiancata del Caronte a motore come arieti imbestialiti e qualche rivolo filtra dalle portiere e sei in mezzo al guado e capisci che di là non si arriva e pensi questi sono matti e chi me l’ha fatto fare. Poi il vichingo al volante, glaciale come il fiume che lo fronteggia, al momento giusto innesta la retromarcia e lentamente, incredibilmente, recupera la sponda dalla quale ci eravamo allontanati. Scendiamo dal pullman che quasi non ci si crede e non puoi credere che quel toro di sessant’anni in maglietta a mezze maniche (noi, giacche a vento) continui a guardare il fiume cercando di carpirgli il segreto, di coglierne il tallone d’Achille dove trafiggerlo. No grazie, noi ne abbiamo abbastanza, per oggi e per il resto del viaggio. Acqua e fuoco: l’Islanda è butterata di vulcani, caldere, fumarole, solfatare. Una terra che bolle: in superficie, poco sotto, in profondità – ma il magma non è mai così distante da non poter venire a galla in poco tempo. La nostra guida, una inesauribile e inesausta valchiria dalle possenti forme, non manca di ripeterci in più situazioni che un fiume di lava scorre sotto i nostri piedi a circa due chilometri. Meno di un capello, in ambito geologico. Ti senti Ulisse fra Scilla e Cariddi: punto sul guado di fiume arrapato o sul vulcano in calore? Eruzioni e colate laviche non ne abbiamo vissute (del resto, non stavano nel programma), però abbiamo attraversato, in macchina e a piedi, deserti neri di lava, campi sterminati di forme inverosimili, performanches di titanici artisti infernali. Vivi come un delirio, mentre a velocità da moviola zigzaghi lungo la pista del Landmannalaugar: siamo goffi astronauti a zonzo sulla Luna o anime dannate errabonde nell’Ade? Come chiazze di tempera schizzate da un artista naif, sul nero scabroso della lava spiccano macchie verdi di muschi e licheni: l’inno alla vita che, unico, osa sfidare la dittatura del silenzio. Anche il pensiero fatica a scivolare su questa anticipazione d’inferno. E ancora. Sui pendii in lontananza vedi levarsi pennacchi vaporosi, segnali di fumo trasmessi a noi da misteriose popolazioni sotterranee. Poi ti avvicini e li osservi levarsi a decine dal fondo di una vallata pianeggiante. Infine, li attraversi a piedi con percorsi guidati e obbligati (non che ci sentissimo poi così invogliati a cercare vie alternative). In alcuni tratti, senza snobistiche velleità letterarie, venivano spontanee alla mente infernali citazioni dantesche. Sarà che avevamo anche noi una guida (per quanto femmina)… che ci mostrava gli esiti dell’ultima eruzione del Krafla (era il 1984, ma Orwell aveva in mente altro): non fece danni solo perché in Islanda vivono poco più di 300.000 persone in 100.000 kmq e l’interno è praticamente deserto. E che dire dell’Hekla, che eruttò nel 2000 e degli altri grandiosi spettacoli sull’Askja (un lago caldo e sulfureo scodellato in un cratere, per fondale monti chiazzati di neve)? E del Laki, con il racconto di come sfogò su tutto il mondo emerso il suo odio infernale nel 1783? E il Katla, atteso a breve a una catastrofica eruzione? Cosa succede quando un vulcano erutta sotto un ghiacciaio? Te lo mostra un filmato, con riprese che preferiresti sapere girate in uno studio cinematografico; ma i risultati li vedi coi tuoi occhi: dà vita a un lago sotterraneo che si gonfia si gonfia si gonfia e poi esplode all’esterno stravolgendo il preesistente fiume glaciale e le terre lungo il suo corso e accartoccia ponti in cemento e acciaio. Ti chiedi come si possa vivere e dormire tranquilli in una terra così violenta e bollente. E oscenamente bella. Te lo chiedi spesso, avvolto in vischiosi effluvi solforosi, così persistenti da indurti a credere che se un inferno esiste, l’Islanda potrebbe esserne la reception. Fosse tutto qui. Dove non arrivano i vulcani a ricordarti la precarietà della vita, subentrano i terremoti: paradosso dei paradossi, questa terra dal cuore infuocato, trema. Ora sono brividi leggeri, che la notte un po’ angosciano chi è fresco del sisma aquilano; ora salgono alla superficie come un parkinson impazzito – e a noi tocca la buona sorte di apprezzarne i risultati sui pannelli esposti un po’ ovunque, a perenne monito: la Terra non dorme mai! E poi ti porta, la guida, a vedere i crepacci che i terremoti aprono, baratri – e sia pure un luogo comune – sull’inferno. Vediamo anche la famigerata faglia, nel Parco nazionale di Þingvellir (Thingvellir): qui si incontrano la placca tettonica americana ad ovest e quella Euroasiatica ed est. Le due, pur a Guerra Fredda archiviata, continuano imperterrite a voltarsi le spalle, marciando in direzioni opposte (non che ci lascerebbe più tranquilli l’esplosione di un’improvvisa attrazione fatale). Fra loro si è formata un’ampia pianura, quasi una terra di nessuno (alla lettera). Movimenti valutabili in tempi geologici, certo; ma ogni tanto un microaggiustamento ricorda che, se coma pare, coma non è – e son sempre dolori. E’ come se, durante la creazione, un ipotetico Creatore dalla memoria corta avesse sentito il bisogno di allestire in Islanda un riassunto-promemoria vivente di tutti i più sconvolgenti fenomeni geologici da piazzare un po’ qua un po’ là. Salvo poi scordarsi di disattivarli. Aspettano (senza per altro darlo troppo a vedere) un settimo grado della scala Richter, gli islandesi; se però migrano all’estero non è per non dargli la soddisfazione: fuggono dalle conseguenze (già pesanti al momento) del terremoto finanziario che li ha sconvolti molto più di qualsiasi altro fenomeno geologico. S’erano fatti prendere in massa dalla vertigine del facile guadagno, della ricchezza dietro l’angolo, dopo secoli di vita precaria, sempre contesa alla natura. Si sono indebitati sia i privati che le banche e ora, come al solito, i primi pagano per le seconde. Rischiano la bancarotta come Paese. C’è solo da sperare che gli antichi vichinghi rispolverino la loro antiche armi e tornino come un tempo a vivere del loro lavoro: della loro terra, del loro mare. E ora anche di un turismo quasi di massa: proprio la crisi e il crollo del valore della corona (meno due terzi rispetto all’euro in due anni!) ha spinto quest’estate autentiche orde di turisti a godere le bellezze di una terra rimasta ai più inaccessibile per i costi proibitivi degli scorsi anni. Ricordo ancora, ai tempi della lira, amici che si erano bevuti il caffè (e il cervello) a 12.000 lire la tazzina. Ora si mangia divinamente spendendo meno che in Italia. Basta astenersi da vino e superalcolici. Hanno molto, Islanda e islandesi, da offrire a turisti, viaggiatori, sportivi e amanti del (termine già un po’ meno di moda) wildness. Trovi alberghi di vario livello ma sempre (anche al più basso) all’altezza del pulito-dignitoso-confortevole, mentre dove non è possibile altra sistemazione hanno attrezzato campeggi,i spesso con strutture di supporto e piccoli rifugi non gestiti. La poesia, pur crudele, della natura va bene, ma la vita è fatta anche di piccole incombenze quotidiane – ed è un vero toccasana (tenuto conto anche del clima maramaldo) scoprire che esiste sul territorio una fitta ragnatela di bagni pubblici. Efficienti, spaziosi, puliti, sempre ben forniti di tutto ciò di cui puoi aver bisogno in quei frangenti. La civiltà di una nazione la si misura anche dai piccoli confort che sa offrire a chi la visita.

2. Raccontare l’Islanda è come descrivere una donna dal fascino ammaliatore, bella però di una bellezza asimmetrica, non quella della classicità ellenica. Una bellezza irregolare, che varia secondo che ti sposti e ad ogni mutare di posizione ti si presenta nuova e inaspettata e struggente. Mai ripetitiva, simile a se stessa. E capricciosa, la bella donna; volubile e facile agli scatti d’ira, ma capace sempre di sedurre, suscitare grandi passioni, amori che incatenano per la vita. Una bellezza non certo angelica. Non mette conto elencare le tappe del viaggio, come il programma di un’agenzia: è un susseguirsi, un accavallarsi di cascate pompose, tonitruanti, dai nomi sempre caratterizzati dalla desinenza –foss, cascata ( Dettifoss, Selfoss, Goðafoss (la cascata degli dèi), Aldeyjarfoss, Háifoss, Skógafoss, Gullfoss e, eccezione di tutto rilievo, la Glymur nel Hvalfjörður: la cascata più alta (198 m.) e infine la Svartifoss nel Parco nazionale Skaftafell, celebre per le colonne di basalto che le fanno da anfiteatro naturale). Di ghiacciai così vasti che li vedresti per giorni e giorni di cammino, se non fossero perennemente avvolti dalle nubi che loro stessi contribuiscono a generare (basti citare il Vatnajökull). Di vulcani vivi e morti con i loro derivati liquidi e solidi. Di fiumi glaciali tronfi e aggressivi come tori in calore quando è la stagione degli amori, ovvero quando i fronti dei ghiacciai si sciolgono e le piogge li rimpinzano, loro che altrimenti sono placidi e di scarsa portata (Ölfusá, quello con la maggior portata; Þjórsá, il più lungo, 230 km – e ho detto tutto). Di laghi, spesso poco più grandi di pozze d’acqua, ma sparsi ovunque e a tratti dotati di un fascino moltiplicato dalla natura turbolenta che li circonda (per tutti, il Myvath, di soli 37 km2 ma incastonato in una regione ribollente e poco propensa alla meditazione; basti questa citazione: “Situato in un’area estremamente vulcanica, ha visto dal 1975 al 1984 nove eruzioni”). Di deserti petrosi e lavici da seccarti l’anima per la totale assenza di vita che non siano uomini in viaggio su mostruosi fuoristrada – ma anche su mostruosi motocicli a tre e quattro ruote e pure su precarie biciclette spinte da maschere di polvere e fango. E il vento a condire il tutto, in alcuni luoghi (il fronte di un ghiacciaio, una spiaggia da Stretto di Magellano…) capace di immobilizzarti, respingerti, inibirti il respiro – il pensiero, quasi. Raffiche gelate, da toglierti ogni briciola di calore, da farti desiderare un thermos di punch, una doccia incandescente. Ti ritrovi in un tifone tropicale, ma con pile e giacca a vento indosso. Non manca la pioggia, in Islanda, compagna inseparabile del viaggio: fuori Reykjavik ci gratifica tutti i giorni della sua umida, tenace compagnia. Scende su noi partendo da cieli spesso plumbei: espressione poco originale ma pur sempre quella che rende meglio l’atmosfera in certi momenti. Eravamo avvertiti degli improvvisi cambiamenti di umore del clima; viverli, però, fa un altro effetto: mai mollare la giacca a vento o almeno la mantellina. E se ti fai una scarpinata anche solo di mezz’ora, potresti rimpiangere di esserti scordato i sovracalzoni impermeabili. Ci sono anche le pianure verdeggianti costellate di balle di fieno incelofanate e qua e là, molto sparse, fattorie linde con i tetti rossi, poche pecore e cavalli. Animali liberi per tutta l’estate, senza mai conoscere l’oppressione di tetti e pareti. Esseri amanti della libertà e dei grandi spazi aperti, tutti quelli che qui nascono e vivono. Con i vantaggi e gli svantaggi che ciò comporta – ma i secondi sembrano esistere solo per noi: non è raro vedere islandesi intenti a chiacchierare sotto la pioggia battente, privi di quelle stramberie che si chiamano ombrelli. Che dire delle piste? Lunghe traiettorie mal definite che si snodano sinuose fra pietraie, campi di lava, deserti terrosi, rocce nude – e a volte s’impennano, s’inerpicano, si tuffano a capofitto, sfiorano corsi d’acqua che sei contento quando li vedi allontanarsi dalla nostra traiettoria. Velocità da centro città nelle ore di punta. Sobbalzi e scossoni senza sosta, da chiedersi come possa non sfasciarsi il nostro pullmino e non accartocciarsi le nostre colonne vertebrali. Trasferte di ore e ore e ore, stemperate in paesaggi allucinati, allietate dagli scenari e dai rari incontri umani. Gli islandesi? se sono sopravvissuti in una terra così irascibile e poco rassicurante, devono avere una filosofia di vita molto semplice e solida (quella che probabilmente li risolleverà da un attimo di follia collettiva). Non sono di grandi chiacchiere, ma ospitali e gentili sì. Hanno poca Storia alle spalle e allora ti portano a visitare anche una piccola casa con annessa chiesetta, dove vive Philippus, un arzillo novantottenne che tutti i giorni, alle sedici in punto, va al bar del paese vicino. Al volante della sua macchina, per prendersi cioccolata calda con biscotti – e perché ci trova giovani donne a deliziare gli occhi. La guida narra di sorelle ultracentenarie. Davanti casa c’è una vecchissima auto incidentata: è lì, forse a monito, da quando il fratello di Philippus ci fece un incidente. A novantotto anni, ma morì d’altro. Anche questa è Islanda. NOTA Lo so che sono fuori tempo massimo, lo so che non è un itinerario, ma mi faceva ugualmente piacere mandarvelo, vista la simpatia dei due boss del sito. Li ho conosciuti a Roma a Palazzo delle Esposizioni, domenica sera – e mi hanno fatto venir voglia di fargli conoscere la mia esperienza islandese. Se hanno voglia e tempo di leggere… Una proposta: perché, in società con Berlusconi, non mettono su ’Turisti per casino’?



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