Capo nord 1957
Nelle pagine che seguono è riportata la relazione scritta da mio padre, Giorgio C., durante un viaggio svolto in compagnia di mia mamma con destinazione Capo Nord. Un altro viaggio in Scandinavia si dirà il Turista Internetnauta Itinerante, si ma con la particolarità che questo viaggio è datato: estate 1957. Sono quindi trascorsi più di quaranta anni da quando in quella lontana estate, una giovane coppia di sposi, con un budget di spesa alquanto limitato, con un mezzo di trasporto che oggi non verrebbe usato neanche per trascorrere il fine settimana in montagna e, soprattutto, con tutte le incognite che la realtà di quegli anni poneva, decisero, in alternativa a una vacanza marina in Italia di andare verso il Nord Europa. Non sorrida divertito il turista itinerante del terzo millennio, armato di cellulare, GPS e fedele carta di credito, nel leggere alcuni passaggi del racconto, ma cerchi di calarsi in quella che era l’atmosfera di 40 e più anni fa. In conclusione, una nota personale, un ringraziamento a chi, purtroppo, non c’è più da molti anni. A mio padre, che ha saputo trasmettermi la sua voglia di viaggiare, di scoprire sempre qualcosa di nuovo, che alle affollate spiagge della riviera ligure o romagnola ha preferito tranquille baie della Sardegna o della Calabria o della Sicilia, che anziché le agiate comodità di un albergo “all comforts” ha preferito la bellezza di un campeggio immerso nei pini della Foresta nera in Germania per svegliarsi al mattino successivo e far vedere ai propri figli – a me, allora bambino di non più di dieci/dodici anni – le affascinanti cascate del Reno a Sciaffusa, (già tappa del viaggio narrato nelle pagine seguenti), o che alla calda e confortevole accoglienza di un “Logis de France” ha preferito quel campeggio sulla costa atlantica dove le cicale facevano da colonna sonora al nostro sonno.
————————— PREMESSA Non sembri strano che a distanza di quasi due anni dal momento che sono state scritte abbia voluto dare una stesura leggibile a queste note nate durante le ferie dell’estate 1957. Mi sono deciso perché ancora oggi amici e colleghi chiedono notizie di questa mia escursione al Nord ed è difficile, così a distanza di tempo, riordinare e ricordare impressioni che spero siano tali da invitare almeno qualcuno a partire. Appunto con questa speranza mi sono accinto a questa piccola fatica, che non sarà completa se non mancherà qualche avvertimento. Ripetere il mio itinerario non sarà certo nulla di strano, di eroico, anche perché ogni anno che passa migliorano le condizioni delle strade, l’unica cosa che ho trovato arretrata. Migliorano i mezzi di trasporto, più robusti, veloci e potenti. I “budget” di ogni stato prevedono enormi spese stradali ad ogni esercizio finanziario e tra qualche anno parte del viaggio che descrivo nelle pagine seguenti sarà possibile farla su gigantesche autostrade. Se non si vuol attendere un domani che non si sa quanto lontano, e partire presto, dovrà solo aversi un po’ di coraggio, o di fiducia o di incoscienza perché al momento attuale, se si sceglierà il ritorno attraverso la disabitata Lapponia finlandese, si troverà in luoghi dove mancano del tutto i comfort e, più importante, non esistono stazioni di servizio e le possibilità di eventuali riparazioni sono minime. In secondo luogo non vorrei che il mio entusiasmo fosse considerato esagerato. Non a tutti potranno sembrare sufficienti quegli spettacoli agresti, quel contatto con la Natura che al Nord è così facile stabilire. L’avvertimento è: al Nord si trova solo questo. Il viaggio d’avvicinamento è lungo, molto lungo, specie se effettuato con una utilitaria che non consente alte velocità e di conseguenza lunghe tappe in poche ore di viaggio. Esclusa la Germania, nelle altre Nazioni visitate non credo esista una vita notturna, brillante e gaia che sovente richiama, allettante tanti nostri escursionisti festaioli. Con il portafoglio imbottito Eccezione fatta per rare manifestazioni moderne, non si trovano nel Nord richiami artistici che possono, in tanti altri Paesi, giustificare da soli il viaggio. La civiltà nordica è recente, non esistono collegamenti con i periodi storici passati e i ricordi più antichi, salvo poche eccezioni, risalgono al sei-settecento. Si ha l’impressione che la gente del Nord non abbia avuto tempo, possibilità di concedere qualcosa al superfluo, tutta presa nella lotta quotidiana con elementi ben più difficili da domare di quelli di tanti altri paesi. Per la stessa posizione geografica la Scandinavia non permette, inoltre, quei piaceri termali che è così comodo abbinare alle gioie turistiche. Il sole, quando si vede, lo si gusta molto meglio con un pesante maglione che con un ridotto costume da bagno. Le acque, anche se intiepidite dalla corrente del Golfo, sono molto fredde e non si dimentichi che il golfo di Botnia gela per diversi mesi sino alla latitudine di Stoccolma. Quindi gli unici bagni possibili sono quelli in vasca, con acqua riscaldata artificialmente. Inoltre, e sia questa l’ultima pecca, più si allontana dall’Italia, più il vitto peggiora. Non sia questa premessa un annullare quel che dirò nelle pagine seguenti: è solo voler inquadrare esattamente, a distanza di tempo e a mente riposata, le reali condizioni di vita e di viaggio a cui bisogna sottoporsi ripetendo il mio itinerario con lo stesso ruolino di marcia e con gli stessi mezzi, non certo limitati ma indubbiamente ben lontani dall’essere larghi. Questo per non avere sulla coscienza delle delusioni, che proprio mi spiacerebbe far nascere. Concludendo, secondo il mio parere, tre sono gli animi che dovrebbero tornare soddisfatti: i pastorali, i poetici e i contemplativi, perché si troveranno a tu per tu con la Natura, con la Bellezza con l’Infinito. Io ripartirei oggi stesso. Torino, marzo 1959 —————————
GLI OTTOMILA CHILOMETRI DELLE FERIE 1957
Giovedì 18 luglio: considerata la forte spesa di un viaggio in Sardegna, unitamente ad altri fattori generali, balena l’idea d’andare nelle ferie nel Nord. Dove? Scandinavia…. Per essere pronti a tutto acquistiamo al T.C.I. I libretti turistici della Danimarca, Svezia, Norvegia. Sabato 20 luglio: presentazione dei documenti per carnet, patente internazionale, libretto internazionale di circolazione ed assicurazione per l’estero. Sulla carta iniziamo uno studio a grandi linee del percorso. Dalle percorrenze familiari di qualche centinaio di chilometri passiamo a distanze con quattro cifre. Le tendenze di casa sono due: la mia, con punta massima Oslo e Stoccolma; quella di Carla, ancora incerta: ma si definisce dopo aver sentito parlare due amici che sono stati in su, molto in su, a Capo Nord. Ridimensionamento del percorso. Facciamo anche l’acquisto di un libretto turistico sulla Finlandia. Non si sa mai… Aumenta il mio punto massimo al Circolo Polare. Carla, se fosse possibile, vorrebbe andare al Polo Nord. Almeno …. . La percorrenza totale viene a sfiorare le cinque cifre. I progetti sono belli, ma un problema non è da sottovalutare: quello finanziario. Un lampo: dormire in macchina. A Mirafiori, all’officina 19, con il metro dei sarti vedo che la cosa è possibile. Ora si tratta di attrezzarsi con poca spesa. Altrimenti il problema è solo aggirato, non risolto. Reperiamo due materassini gonfiabili. Papà Riccardo studia delle brandine, che però troviamo poi già confezionate da un bravo artigiano torinese. Requisizione di tutti i plaids della famiglia. In camera da pranzo si concentra la merce: sembra un molo alla vigilia dell’imbarco per una lunga spedizione. Col 1° di agosto arrivano un po’ di fondi: Carla acquista sei diverse qualità di valuta. Mancano solo i marchi finlandesi, ma io sono sempre meno convinto di usarli. Gelsomina sta bene: ormai è rodata. La prova del dormire è fatta a Bardonecchia, nel cortile di una casa pronta ad accoglierci se eventualmente fallisse. Riesce discretamente, le tende funzionano, i materassini sono confortevoli. Il problema è di stivare tutta quella merce. Eppure continuano a dirci che lassù fa freddo….. . Quindi ancora maglioni, golf, calze di lana. Un po’ di viveri, le carte geografiche (una cartella intera), il cine a passo ridotto, macchina fotografica con accessori e buona riserva di materiale sensibile. Ancora il nylon per coprire i seggiolini anteriori che nella notte verranno sfilati per preparare il giaciglio. Una catena per legare i seggiolini al porta bagagli. Fidarsi è bene, ma contro la possibilità di guidare seduto sul pavimento è bene premunirsi. Tolgo del tutto il sedile posteriore guadagnando qualche prezioso centimetro. Intanto continuo a sommare lunghe file di numeri: sono i chilometri da percorrere. Anziché alla domenica, partiremo il sabato all’una. Sono ore guadagnate, per anticipare se mai il ritorno, per riposarci prima di finire le ferie. Non nascondo che sono agitato: per di più alla vigilia Gelsomina (è ora di dire, per chi non lo sapesse che questo è il nome della mia Seicento) si mette a gocciolare olio dal cambio-differenziale, precisamente dalla guarnizione del semiasse destro. E’ troppo tardi per farla riparare. Verificherò il livello ogni mille chilometri. Ossia un giorno si e uno no, perché questa è la media da mantenere per non correre il rischio di tornare a casa in autunno….. . I genitori ci guardano con certe facce! Ormai i bagagli non sono più solo in camera da pranzo, ma sono straripati ovunque. Eppure non si può lasciare a casa il cognac, il vov, il barolo e la cucina da montagna: l’elenco verrebbe troppo lungo, forse un po’ monotono. Per fortuna scopriamo in Gelsomina spazi sempre nuovi, ed è possibile partire senza bagagli sul tetto. Sabato 3 agosto è il gran giorno: Gelsomina è in cortile: Carla stiva la merce. Alle 12,45 (sono in ferie da un quarto d’ora) arrivo e trovo tutto a posto, stivato alla perfezione. Il contachilometri segna 3372. Spuntino, saluto ai genitori: attenzione, fate attenzione. Promesse, baci. Arrivederci a presto. Via! Siamo partiti. Siamo alle porte di Torino: la sosta ad un passaggio a livello viene a portare un po’ di calma ai nervi. Novara, il lago Maggiore, la frontiera. Acquistiamo il tricolore che ci accompagnerà per tutto il viaggio appeso al vetro del finestrino laterale posteriore. Sono ormai le 20,30: abbiamo lasciato Locarno e percorriamo la Valle del Ticino. E’ quasi buio e vediamo un camping. Ci fermiamo: la prima sera è laborioso preparare la nanna. Poi mangiamo qualche panino che ha ancora il profumo di casa. Di fronte a noi la ferrovia del Gottardo s’inerpica con incredibile pendenza. Dormiremo tra inglesi, tedeschi, lussemburghesi e francesi. Nessun altro equipaggio italiano. Un vero peccato che da noi l’uso del camping sia ancora poco praticato. Durante la notte il nostro riposo è ritmato dallo scorrere delle acque del Ticino su cui siamo accampati. Gelsomina ci ospita perfettamente: ogni notte che dormiremo in macchina saranno chilometri in più che potremo percorrere. La notte scorre veloce. La luce del mattino giunge attenuata dalle belle tende cucite da Carla. Tempo magnifico. La preparazione è già meno difficile: stiamo allenandoci perfettamente. Siamo ultra-soddisfatti d’essere riposatissimi. Faccio i conti di quanto risparmieremo dormendo sempre in Gelsomina. Credo che toccheremo ben pochi alberghi. Airolo, la salita del Gottardo. Il valico con il suo lago alpino dalle acque azzurre. E’ il displuvio tra Mediterraneo e il mare del Nord. Malgrado sia presto, circa le otto, il valico brulica di turisti, convenuti per tempo a godersi questo magnifico paesaggio inondato di sole. La traversata della Svizzera nella giornata festiva è compiuta a velocità bassissima, in lunga teoria molto educata e prudente. D’altronde gli scorci che appaiono sulle Alpi, sui laghi, nei paesi come nelle città sono tali che una velocità elevata non permetterebbe di gustarli. Ovunque folla festante: Altdorf, Brunnen sul lago dei quattro Cantoni, il lago di Zurigo dove infinite vele bianche confermano la ricchezza della plaga. Ancora folle enorme, gomito a gomito, alle Rheinfalls, ossia alle cascate del Reno presso Sciaffusa, dove per ammirare da vicino questa meraviglia bisogna realmente mettersi in coda. Otto anni sono trascorsi dalla prima volta che ho visto, un po’ sbigottito, questa muraglia d’acqua: l’impressione è sempre grande, come il rumore. …Eppure esiste un progetto di sfruttamento idro-elettrico. Sta agli Svizzeri, ben saldi nelle loro concezioni, la scelta tra bellezza ed utilità. Alle 17 la frontiera Svizzero-Tedesca a cui si perviene con una forte salita. Rapide formalità, poi la corsa tra borghi di vecchia e recente industrializzazione. Ciminiere, miniere, opifici. Contrasta, apparso all’improvviso su una collina a pan di zucchero, il fiabesco castello degli Hohenzollern, sfavillante di raggi solari che si riflettono sui suoi cristalli. A Stoccarda entriamo nell’Autobahn, la grandiosa autostrada che ci porterebbe fino ad Hannover (circa mille chilometri) se non avessimo deciso di rivedere la valle del Reno, nel tratto fra Mainz e Coblenza. Così dopo il camping di Karlruhe, ancora un po’ di Autobahn, poi uscita per vedere a Worms il famoso Duomo imperiale, quasi intatto tra rovine recenti. Gran traffico sulle strade: autocarri immensi, vetture, carri agricoli trainati da trattori. Così a Mainz, a Wiesbaden. Poi la valle del Reno: circa cento chilometri in cui il gran fiume è costretto da due rive formate da catene ininterrotte di colline, rivestite di vigneti che danno famosi vini. Molti castelli, numerosi ricordi wagneriani. Qui, dicono, è nata l’idea della Tetralogia; qui c’è la rocca di Loreley, un vino è battezzato “l’Oro del Reno”, i battelli si chiamano “Walkirie”, “Tannhauser”, “Siegfrid”. Sulle acque del fiume rimorchiatori trainano quattro, cinque chiatte cariche di merci, le più eterogenee: lungo le sponde le due strade costiere sono percorse senza sosta da veloci mezzi. Le due ferrovie rivierasche convogliano treni in continuazione: lenti merci, velocissime automotrici scarlatte, treni internazionali composti in massima parte da vagoni letto e restaurants. E ancora graziosi paesi dove i Tedeschi villeggiano, spiagge dove si bagnano, viali su cui passeggiano. Da Coblenza vorrei andare a Bonn, a Colonia per la strada normale, ma il traffico indescrivibile mi invita, al primo cartello indicatore, ad andare a cercare l’Autobahn. Sarà noiosa la marcia su queste autostrade, ma almeno si corre. Due carreggiate, nessun incrocio, piste per i mezzi lenti e per quelli veloci. Gelsomina tiene una posizione intermedia. Supera centinaia di mezzi pesanti, è superata da Mercedes, BMW, Porsche, insomma dall’élite dell’automobilismo europeo. Sfioriamo Colonia: per un istante intravediamo le guglie a noi già note delle Cattedrale. Poi centinaia di fabbriche, torri di refrigerazione, ciminiere, pozzi di miniere, mucchi di detriti di scavi. È la Ruhr. Ogni tanto una deviazione larga come piazza Vittorio porta a grandi città: Dusseldorf, Duisburg, Essen… . Qua l’anno scorso uscimmo per andare in Olanda. Ceniamo in un elegante Rastatte o luogo di ristoro sempre sull’autostrada. Quando è già buio fondo usciamo a Vlotho per cercare il camping. È molto rustico, sulle sponde del Weser, ci sono solo tre tende. Fa freddo ed in breve siamo sistemati. Malgrado il freddo e l’umido, il sonno non tarda. Al mattino scappiamo di corsa per ritornare sull’autostrada. Facciamo colazione ad Hannover, poi la strada verso Amburgo. La media cala in modo pauroso. File di autocarri in un senso, file nel senso contrario. Sorpassare è pericoloso. Il paesaggio cambia. Siamo nella brughiera. Ai bordi della strada vendono graziosi cestelli fatti con erica e fiori di campo. Più avanti la boscaglia è in fiamme ed una nuvola di fumo ci accompagna per un lungo tratto. Amburgo: non si sa se le gru del porto sono più numerose delle ciminiere. In compenso la città è bellissima, ricca di palazzi, monumenti, giardini ed un porto per le barche a vela da far invidia a Zurigo. Piano, piano, dietro ad un bell’autocarro andiamo verso la Danimarca. Scopriamo una strada secondaria: con questa, finalmente, possiamo di nuovo accelerare la marcia. Troviamo delle macchine con uno strano trofeo: corna di renna poste o sul padiglione o sul cofano. Arriviamo a Flensburg, al confine Tedesco-Danese, discutendo sull’opportunità, nel caso che si arrivi al grande Nord, di acquistare anche noi l’emblema del Circolo Polare. Io sono fortemente contrario. In Danimarca traffico meno intenso, belle strade, casette bianche con grandi strisce di legno e vivaci colori, il tetto ricoperto di erica. Traversiamo il piccolo Belt, a Middelfart ci accampiamo. È tardi, ma anche oggi la nostra bella razione di chilometri fatti ci rende soddisfatti. Solo a patto di continuare di questo ritmo potremo spingerci fino a..… . La meta è ancora da definire. Il temporale del mattino seguente ci invita a riprendere la corsa, dopo un affannoso preparativo di partenza sotto la pioggia scrosciante. Il cattivo tempo ci accompagnerà fino alla capitale. Odense, il traghetto di Nyborg, con la colazione a bordo del battello, un altro temporale, il pasto di mezzogiorno, durante una breve schiarita, in un prato, ancora un tratto di pianura proprio piatta, verde, opulenta di pascoli, disseminata di fattorie, poi le case si infittiscono: si arriva a Copenaghen. Sosta estatica dinanzi alle vetrine delle porcellane locali, triste considerazione che i prezzi, buoni a confronto con quelli dei medesimi oggetti nei negozi di Torino, sono ancora troppo elevati per le nostre tasche. Giriamo a piedi per la capitale danese sotto un cielo plumbeo. Poi il tempo migliora e quando siamo vicino alla statua della Sirenetta che ricorda la novella di Andersen, posta sul lungomare, appare il sole. Ammiriamo il tratto bellissimo tra Copenaghen ed Helsingor, dove i ricchi Danesi si sono costruiti magnifiche ville circondate da parchi. L’atmosfera tersa dopo la recente pioggia rende vivide le tinte e smaglianti i prati. Troviamo dei carrettini pieni di bimbi biondissimi, affidati alle cure di bionde governanti che spingono questi carichi vocianti. Su un carrettino una bimba moretta contrasta con le carnagioni rosate di questi piccoli Danesi. In lontananza compare la costa svedese. Ad Helsingor troviamo il traghetto: poca attesa, poi la partenza. Alle 19 sbarchiamo in Svezia. Le formalità le hanno svolte sul traghetto, mentre in coda io compravo sigarette a prezzo franco di dogana. Son solo le 19, ma qui tutto è fermo: è vero quel che avevano detto, il lavoro qui termina alle 17, poi riposo. I primi chilometri in territorio svedese, con la marcia a sinistra, sono un po’ caotici: poi ci si abitua ed in breve si è padroni della strada. Facciamo benzina e cortesemente ci forniscono di una dettagliata carta della Svezia. Come sempre, le mie previsioni sul chilometraggio per arrivare alla frontiera norvegese erano molto ottimistiche. Intanto cenare è un problema. Finalmente un locale ci serve un omelette, qualche patata, due birre. Spendiamo poco, ma che fame all’uscita. Ancora qualche chilometro, poi Falkenberg, dove troviamo un ragazzo che in bicicletta ci pilota al campeggio; il più bello di quanti visti in tutto il viaggio. La sera è tiepida e noi, sistemata la cuccia, seduti comodamente nel prato sulle poltrone di Geelsomina, ripercorriamo la tappa di oggi. Decine di tende ci circondano, il silenzio è profondo, la tranquillità infinita. Una cura magnifica dopo un anno di vita movimentata. Anche la digestione non è difficile, dopo la parca cena…. Eppure siamo solo all’inizio dei sacri digiuni. Il camping, che già alla sera era sembrato bello, al mattino appare magnifico. Amplissimo, vicino al mare, con negozio-spaccio di generi alimentari. Servizi igienici superbi, vasche dei lavabi in acciaio inossidabile. Docce, sostegni di ferro con sacchi di carta per i rifiuti. Così si elimina la noia del vuoto che è sempre maleodorante. L’incaricato ritira il sacco pieno e lo sostituisce con uno nuovo, di una carta che credo solo in Svezia si trovi così facilmente. Ne vedremo in ogni posto, in Svezia, nei paesi come lungo le strade. Uscendo dal camping automaticamente mi metto a destra, ma una vettura che mi viene incontro in direzione del mio cofano mi fa ricordare la circolazione a sinistra. Lindi paesi, belle fattorie, boschetti di betulle. Colazione o “frukost” con uova, formaggio, latte, marmellata, margarina. Facciamo il pieno…. Anche perché prevediamo di saltare il pranzo. Goteborg, bella città con numerosi cantieri navali, in uno dei quali sono in allestimento tre grosse navi: una quasi finita, una assai avanti nella costruzione, l’altra solo si indovina in una selva di pali. Prima di Uddevalla un anticipo di fiordo: più avanti, in un laghetto, delle ninfee fiorite. Davanti ad un negozio, una 600 ferma: è di tre giovani romani: Vengono da Hammerfest, li intervistiamo separatamente, ma le loro notizie sono così contrastanti da non poterci fare alcun affidamento. Unico dato di fatto, le condizioni della 600, molto malandata, con le ruote bollate in numerosi punti, non sono molto promettenti. Concordemente ci dicono che sin dalla frontiera la strada peggiora, per diventare impossibile subito dopo Oslo. In confine è a pochi chilometri. ……… Ancora qualche chilometro di marcia a sinistra, poi un cartello: Svinesund ed ecco la frontiera tra la Svezia e la Norvegia. Fin da Torino sapevamo questa essere una delle frontiere più belle del mondo e non è una fama usurpata. Quasi sempre la frontiera, ad eccezione di quelle italiane poste o sul mare come Gimaldi- Ponte San Luigi o sulle Alpi, su alti colli alla base di magnifiche montagne, sono insignificanti luoghi dove il timore degli uomini ha fatto sorgere uffici dove la burocrazia controlla persone e mezzi. Qui a Svinesund la natura ha voluto prendersi la rivincita sulla Signora Burocrazia e prima di presentare carte e passaporti è necessario rimirare questi luoghi. Qui la Svezia è divisa dalla Norvegia da un profondo fiordo, l’Iddefiord, le cui rive scoscese e coperte di pini precipitano per un centinaio di metri. E’ il primo vero fiordo che s’incontra, magnifico e lungo, dopo l’esempio che madre Natura ha posto in Svezia, prima di Uddevalla, dove il mare, circondando un’isola, da una prima esatta impressione di cos’è questa meraviglia. Lontano il mare aperto, a sinistra di un ponte arditissimo e moderno che parte dalla Svezia e con una sola arcata tocca il suolo norvegese. Sotto, l’acqua azzurra, solcata da battelli e da tronchi fluitanti. A destra il fiordo, con il suo andamento sinuoso, a perdita d’occhio, si chiude lentamente fino a girare e rientrare verso la Svezia. A Svinesund giungiamo nello splendore di un meriggio assolato che fa risaltare le due tinte del Nord, il verde e l’azzurro, nelle sue molteplici tonalità. Uniche tinte forti in tanta festa di colori pastello sono le bandiere dei quattro Stati scandinavi e, dominanti, quelle degli Stati confinanti. Poche formalità, rapidamente esaurite. Acquisto di qualche tavoletta di cioccolata e della bandiera svedese; riponiamo quel che avanza della valuta di questo Paese. Mettiamo a mano il portamonete con le corone Norvegesi. Saliamo in macchina, ci portiamo sulla destra, percorriamo il ponte. Lo so, non è educato fermarsi a metà ponte, ma la tentazione è troppo forte. Breve fermata per filmare e fotografare. Sospesi sul fiordo siamo in territorio neutro. Non più Svezia, non ancora in Norvegia. In questo istante godiamo dei benefici della extraterritorialità. Poi le formalità di frontiera norvegese. Un grande telone: “Welcome in Norway” – “Thank you” rispondiamo in coro Carla ed io. La prima meta del viaggio è raggiunta. Adesso bisognerà fare il conto dei giorni e dei denari a disposizione per decidere il da farsi. Per adesso andiamo ad Oslo. Passando da Moss, ricordandoci di quanto letto, decidiamo di andare a cena per evitare di trovare, più tardi, tutto chiuso. Sono le 18, un locale modesto ci accoglie. Farsi capire è un problema. Su un opuscolo a tante lingue punto il dito su “pesce”. Arriva, è proprio pesce, è buono. Un signore locale alza il suo boccale di birra: “Skale” ci dice. Proseguo la lettura dell’opuscolo – skale vuol dire salute. E’ una formula d’augurio. Con un po’ di ritardo alzo il mio boccale e sorridendo al signore dico anch’io: “Skale!”. La cena è finita: una sola portata, come abitudine in tutto il Nord. Noi facciamo eccezione bevendo birra mentre pranziamo. Solitamente non si beve nulla, da queste parti, o al massimo, qualche sorso di thè. Come un gruppo di signore la cui cena consiste in qualche pasticcino. Noi dovessimo mangiare senza bere…. Non so come si riuscirebbe. Qui mangiano asciutto e da questo si capisce l’utilità e la necessità della margarina, vero lubrificante di tanta gente. Anche le patate hanno cambiato aspetto: solo più bollite, a sostituire il pane. Non più arrostite e croccanti, come in Svizzera, Germania e Danimarca. Viviamo tra gente sobria che si stupisce assai vedendomi fare, in un angolo del piatto, una specie di purea con le patate bollite e la buonissima margarina. Tanto per riempire lo stomaco. Anche perché a chiedere pane serve a nulla: con viso adatto alla circostanza arriva il cameriere con un piattino nel quale si scorge una, una sola fettina che in un boccone sparisce. Eppure quella fettina dobbiamo dividerla in due parti eguali, per non fare torto a nessuno. Ripartiamo per Oslo. Turbe di ragazzini sgranano gli occhi al nostro passaggio, stupiti e contenti tirano fuori di tasca taccuino e matita: forse scrivono la nostra targa, chissà. Italia, Torino, gridano. Sono istruiti in geografia. Alcuni camminano tranquillamente. Come ci vedono, trasecolano; peccato non poterli fotografare nell’istante decisivo. Rallento apposta. Un gruppo più ardito fa cenno di fermare, alcuni scrivono affannati – uno, piccolissimo, con grafia incerta, fa dei numeri che solo lui capirà. Alcuni ci porgono dei libretti rilegati in quasi finta pelle. “Autograph” è scritto a caratteri dorati sulla copertina. -“Please autograph” ci dicono con fare compunto e severo – ne firmiamo diversi. Alcuni hanno già una bella collezione di firme. Un signore di Parigi ha anche messo la targa della sua vettura. Non voglio essere da meno e al mio nome, ben chiaro aggiungo: “GELSOMINA TO231137”. Poi si riparte, fino a Trondheim troveremo dei fanciulli che si interessano a noi, poi più al Nord, a parte le bimbe lapponi sulla nave, indifferenza assoluta. Anche i bambini hanno problemi, lo straniero non interessa, meglio un pezzo di merluzzo da succhiare crudo. Arriviamo ad Oslo. Troviamo il camping, in magnifica posizione, la strada che mena lassù s’affaccia sul fiordo della capitale. Il panorama è splendido: di lassù Oslo si presenta disposta attorno al fiordo, grosso paesone senza pretese, costretto tra il mare, le rocce e la foresta che incombe da ogni lato. Domina il paesaggio il trampolino di Holmekollen. Ad Oslo annotta tardi, ma grazie alle tendine, possiamo riposare tranquillamente in Gelsomina. Domani dobbiamo decidere il viaggio verso il Nord o il ritorno. Anche se non ne abbiamo più parlato, so quali sono le speranze di Carla. Riposiamo, per essere pronti, domani, a decidere per il meglio. Invece le decisioni sono rimandate a Trondheim: conosciamo solo orari e prezzi, ma la strada è un’incognita e non mi fido a fare prenotazioni avventate. Dopo la parca cena di ieri urge fare colazione: un locale discreto ci attira. Ci portano, assieme al thè, una tartina di pane con un pesce crudo e un uovo sodo affettato. Ma che il pesce sia crudo lo si capisce solo quando lo si mangia ed è troppo tardi per evitarlo…. Controllo della 600 presso una troppo modesta Commissionaria Fiat, salita ad Holmenkollen ad ammirare il trampolino Olimpionico, dove però la preoccupazione del differenziale non mi lascia ammirare troppo il paesaggio. Una visita allo sconcertante parco delle sculture di Vigeland. Poi al “Fram”, la bella nave che Nansen portò a svernare fra i ghiacci nel tentativo di giungere al Polo Nord sfruttando la deriva dei ghiacci. Posta in secca sotto un enorme capannone, è ancora allestita come se dovesse partire domani: solo le cabine sanno di museo, zeppe di ricordi, di oggetti usati durante la spedizione, di minerali e trofei di caccia polare. Poi il capannone che ospita il “KonTiki”, lo zatterone su cui un equipaggio di studiosi capeggiato da un Norvegese, ripercorrendo le orme degli antichi Incas, partendo dal Perù e solo sfruttando i venti e le derive, arrivarono in Polinesia. Sospeso nel vuoto su una fitta rete metallica che con un gioco di luce ricorda il dantesco tremolar della marina, il “KonTiki” sembra ancora galleggiare sui mari tropicali. Una tribunetta, a lato, ospita numerosi spettatori. Con aria estatica, rapiti dal desiderio d’evasione, questi si sono estraniati da Oslo e mentalmente veleggiano verso le isole di Pasqua. Noi saremmo molto più commossi davanti a una bella tavola imbandita; incominciamo a sentire nostalgia per la pasta asciutta. Pasto sempre frugale, invece, poi ricerca della strada, colazione anche per la generosa Gelsomina (che trova anche in Norvegia le marche delle sue pappe familiari) e si riprende il viaggio alla volta di Trondheim. Sono le 15 e la distanza è di 560 chilometri. Attendo di chilometro in chilometro la strada brutta, come preavvisato. Ma non arriva. E’ stretta, tortuosa, ma discreta. Troveremo solo un tratto di un centinaio di chilometri con fondo decisamente brutto, ma tale da permettere ancora una discreta velocità, la sull’altipiano di Dombas e nella discesa verso il mare. Troviamo un lungo, bellissimo lago che ci accompagna per più di cento chilometri. Incrociamo la ferrovia ed il fischio del treno ci tiene compagnia per lunghi tratti. Ceniamo a Lillihammer, poi proseguiamo approfittando del lungo magnifico tramonto. Costeggiamo un fiume maestoso, lo stesso che prima formava il lago. Sulle sponde e nelle sue isolette molti pescatori. Qui la preda è certo il salmone. Una recente pioggia solleva brandelli di nebbia sull’acqua. La luna compare a tratti tra monti scoscesi, creando ombre infinite tra i pini. La strada peggiora, sono quasi le 23 ed è notte fonda. Vediamo un camping con qualche tenda: fermiamo per un breve riposo. Domani sveglia alle 5, per tentare d’arrivare a Trondheim prima di mezzogiorno, ora di partenza del postale. Abbiamo già fatto oltre metà della strada, ma è un percorso faticoso. Anch’io comincio a sognare il viaggio sulla nave costiera per la possibilità che mi darebbe di riposare. Anche se il ritorno….. Prima di ritirarci in vettura sentiamo un trenino che arriva ad una stazioncina. Breve sosta, poi sbuffando il treno si muove. E per lungo tratto le varie boccate di fumo, quasi ferme nell’aria tranquilla, segnano il percorso del treno che s’allontana fischiando come i suoi fratelli del Far-West. Siamo già molto lontani da casa, ma queste visioni, questi suoni ci portano ancora più distante. Penso che questa Norvegia, questa vera Norvegia, sembri al Canada. E la bellezza della Norvegia incanta: spiace il passar del tempo, lo si vorrebbe fermare. Qualche istante dopo vorrei scorresse più veloce, per andare avanti, per arrivare presto a Trondheim. ……..Con questi contrastanti pensieri mi addormento. Sveglia, rapidi preparativi, rinfrescatina ad una cascatella sui bordi della strada, poi partenza. Paesaggio decisamente alpino, anzi alpestre. Dopo Dombas strada brutta, montagne con nevai, non più alberi. Nessuno. Per decine di chilometri. Poi una stazione senza paese. ….Caso opposto a tanti nostri paesi senza stazioni. Il paesaggio, a mano a mano che si scende dai mille metri dell’altipiano di Dombas al mare, si fa più dolce. Scompaiono le vette nevose, ritornano le piante. Un ampio fiume ci accompagna in Trondheeim, cittadina (la terza della Norvegia) posta su un lunghissimo fiordo. Odor di pesce, negozi con attrezzatura per la pesca sportiva e strumenti per la pesca d’alto mare: fiocine, rostri, fucili spara-arpioni. Il tempo è bello e fa caldo, però a pensarci bene siamo vestiti come da noi lo si è a Natale o almeno a dicembre. A Trondheim assaggiamo il salmone fresco dalle carni rosate. Buonissimo, vera leccornia per i buongustai. Poi un intero pomeriggio a riposare . Che bellezza poter smaltire la fatica rivedendo e riparlando delle magnifiche cose viste! Come si scriveva, chiudendo lo svolgimento, al tempo dei diari scolastici. Ma a Trondheim, nel camping che domina il fiordo, di fronte alla foresta che affonda i suoi ultimi pini nelle acque azzurre del mare, occupammo proprio un pomeriggio a riordinare, soprattutto i primi ricordi del viaggio. Per sgombrare la mente e far posto ad altre immagini. Forse ancora più indelebili. Il conflitto ideologico sulla necessità del viaggio per nave lungo le coste della Norvegia era già latente a Torino, anche se la distanza da percorrere per arrivare al porto d’imbarco era tale da sconsigliare inutili discussioni. Personalmente, come già detto, ero partito da Torino con meta il Circolo Polare, da raggiungere con l’automobile, quindi ritorno sui nostri passi per qualche decina di chilometri verso sud, deviazione ad est verso la Svezia, il confine marcia verso Umea per immetterci sulla strada costiera verso Stoccolma con successiva marcia verso il traghetto per ritornare in Danimarca. Ma quel che donna vuole…. A Copenaghen girammo nelle varie agenzie di viaggio, andammo all’Automobile Club, non concludemmo nulla. Anzi la cosa pareva sempre più difficile, per non dire impossibile. La questione rimase sopita due giorni, ma ad Oslo, finalmente, conoscemmo prezzi, orari e la febbre assalì anche me. Decidemmo di andare a Trondheim il più rapidamente possibile, per sapere se era proprio possibile imbarcarci assieme a Gelsomina. Che proprio ad Oslo perdeva più del solito olio dal cambio, ma alla locale Concessionaria Fiat, dove armeggiarono alcuni secondi con una strana chiave, mi assicurarono che dopo sarebbe andato meglio. Ma fin che non potei sollevare la 600 su un ponte (che non avevo trovato alla Concessionaria Fiat) e verificare personalmente il livello di quell’olio che ad Oslo era diventato fiele, non fui tranquillo e sicuro di proseguire. Credo che il tragitto da Oslo a Trondheim, quei 560 chilometri percorsi in diciotto ore, incluso il riposo in un rustico tellplatz, possa quasi considerarsi un primato. Ricordo un rifornimento ad ora tarda (in Norvegia i distributori osservano gli orari degli altri negozi) verso le undici, nell’interminabile crepuscolo, in un piccolo paese. Bisognava suonare, attendere e poi pagare la benzina con un discreto supplemento. Ma quell’onesto benzinaio, che arrivò quando la 600 era già circondata da bambini, al vedere la nostra targa, si mise in quattro e rinunciò al sovrapprezzo, dispensando cordiali sorrisi. Alle porte di Trondheim mettiamo a mano uno stampato della Compagnia di Navigazione, al vedere il quale i locali ci indirizzarono verso gli uffici, dove troviamo gentili signori prima, una cordialissima signorina dopo. Lungo parlottare nostro in italo-inglese, risposta della Scandinava in norvego-inglese. Purtroppo quel giorno l’imbarco non si può effettuare. Provate a passare tra due ore e Vi diremo se potete imbarcarvi domani, ci dice. Ormai la febbre era a 40° per Carla e a …41° per me. Anch’io avevo finalmente capito che lo scopo del viaggio era il viaggio lungo i fiordi ed il ritorno attraverso la Finlandia. Il prezzo del biglietto era ammissibile per il nostro portafoglio. La prospettiva di riposarci due giorni e mezzo era allettante. In quegli istanti non pensavo più all’incognita del ritorno attraverso la Lapponia. L’assillo sarebbe immediatamente ritornato all’istante del ritiro dei biglietti. Per non lasciare nulla d’intentato, per non perdere un giorno che consideravo prezioso per un tranquillo ritorno, provai direttamente all’imbarco, dove una bella nave stava per salpare, a chiedere se non fosse possibile sistemarci.. Niente da fare. D’altronde dall’Agenzia avevano già telefonato alla nave. Poi, per un istante, sembrò che un ufficiale accettasse di portarci fino a Bodö. Poi ci spedì via. Ritornati in città, pranzammo, (finalmente il salmone fresco) e ritornati all’Agenzia trovammo i posti, pagammo e ritirammo i biglietti per la nave di domani. Usciamo: l’assillo del ritorno mi prende per lasciarmi ad Haparanda, alla frontiera finno-svedese. Rammento l’agitazione mia, mentre seduto su una panchina della stazione marittima scrivevo a Mamma e Papà che stavamo per imbarcarci e che non aspettassero posta per qualche giorno, perché dove s’andava non era troppo ben servito di telecomunicazioni. (Mentre proprio nel Nord, con la posta aerea, le nostre notizie, almeno alcune, sarebbero arrivate ancor più celermente che altrove.) Giriamo per Trondheim comperando qualcosa per cena nei negozi che chiudono per il week-end. Alle quattordici arriviamo al Camping di Trondheim, alto sulla collina. Riposiamo, saltiamo cena, arrivano tre torinesi, scambiamo le nostre impressioni. Un magnifico tramonto chiude quella agitata giornata. L’alba della domenica ci trova già svegli, in attesa di iniziare questo ormai favoloso viaggio per mare. Con tutta calma prepariamo Gelsomina, Carla fa cuocere delle uova, mangiamo e infine scendiamo in città. La partenza è per mezzogiorno. È ancora presto. Abbiamo tutto il tempo per visitare la bella cattedrale, la vecchia chiesa di Nidaros. Poco dopo le dieci siamo sul pontile. La nave ci aspetta, bella, ancor più bella dopo tanto desiderio. Gelsomina sale a prua imbragata in un attrezzo che va un po’ largo per le sue gambette. Saliamo anche noi: ci dicono che non c’è posto (capimmo poi dopo che parlavano della cabine per cui ci dettero il permesso di dormire in vettura: proprio quello che desideravo, anche se Carla temeva assai gli spruzzi dell’Atlantico). S’avvicina l’ora della partenza. Esploriamo la nave, la troviamo molto bella. I due ponti permettono una lunga passeggiata, poltrone e sedie invitano al riposo. Poco prima della partenza due pullmann rovesciano, è il verbo adatto, ottantadue italiani in viaggio verso le Löfoten. La nave si stacca dal pontile: inizia il viaggio scendendo il lungo fiordo di Trondheim. E’ l’ora del pranzo, ma rinunciamo volentieri. Abbiamo troppo da vedere, a destra e a sinistra, dietro e davanti. I gabbiani volano sulla nave, l’accompagnano, si fermano sui pennoni, si fanno cullare dal lieve rollio, volano attorno alla bella bandiera norvegese che garrisce a prua. Anche il sistema nervoso, finora agitatissimo, si distende. Solo a tratti affiora la paura del ritorno via terra, soprattutto perché un ritorno ancora via nave ormai sarebbe impossibile per …….. Mancanza di valuta. E poi che figura faremmo? Un controllo effettuato sotto il cambio della 600 mi tranquillizza di nuovo. Nessuna goccia. E per tre giorni il viaggio sarà gustato nella sua interezza, a tratti un po’, solo un po’, per carità, offuscato dall’idea del dopo. Il fiordo di Trondheim è molto lungo ed ora anche molto largo. Le coste sono un succedersi di rocce nude e di spiazzi erbosi su cui sorgono casette minuscole, gruppi di alberi, capanne, ben visibili perché la nave passa a pochissima distanza da terra. Una strada segue la costa. Ogni tanto transita un veicolo. Nei prati qualche animale che pascola tranquillamente. Possiamo seguire le anfrattuosità della costa sulla carta, quasi consultassimo un immenso plastico. Poi il mare aperto, disseminato di migliaia di scogli, con qualche isolotto abitato. Ogni tanto una lingua di terra verdeggiante. Numerosi fari segnano la rotta. Il tempo è bello, il cielo limpido ma l’aria fresca consiglia di ricorrere alla scorta di panni di lana. Non possiamo neppure pensare di ritirarci sotto coperta. Sulla costa sempre vicina i villaggi si fanno radi, aumentano i tratti di costa rocciosa. Monti nudi strapiombano. Le valli sono glaciali, a forma di U perfetto. Il mare entra profondamente nella terraferma: sono questi i fiordi, tutti sinuosi, alcuni scoscesi, con spazi pianeggianti gli altri, con minuscoli villaggi in verdeggianti lenzuoli di prati. Il paesaggio varia continuamente: in tutto il viaggio non stanca mai, perché è un succedersi di cose nuove. Ogni tanto incrociamo un’imbarcazione: al nostro passaggio balla a lungo sulle onde lunghe della nostra scia. La prima tappa sarà Rorvik, dove la nave attraccherà stasera alle 21 e 30. Cerchiamo di cenare un po’presto per poter scendere a terra e vedere anche questo paese. L’orario dice che la sosta sarà di un’ora. Lo “smorbrodh”. Una bella sala da pranzo in cui ci avventuriamo dopo che la nave ha smesso di ballare. Tavoli a quattro posti, sedie, il tutto ancorato al pavimento. Viene il nostro turno. In onore agli ottantadue italiani viene servito un piatto di pastasciutta ridotta a poltiglia, per giunta pepatissima. Il cameriere versa thè caldo in enormi tazzoni. Gli ottantadue italiani sono stati serviti in turni supplementari. Con noi sono solo turisti di altre nazioni e locali. Finita la poltiglia tutti si alzano e con un piattino in mano si avvicinano al banco che dal nostro tavolo manco si vedeva. Li seguo – lunga fila. Sul banco una ventina di piatti: formaggi, pesce crudo, acciughe in salsa, pesce marinato, cinque o sei piatti di affettati, il cui gusto ricorda vagamente quella carta assorbente masticata nelle prime classi elementari, e ancora polpette, aringhe, pesce fritto ma freddo e ancora tre qualità di marmellate, tre vassoi di pane, margarina. Ognuno si ferma davanti al piatto o ai piatti che interessano e si serve. A costo di scoppiare voglio assaggiare tutto. Quindi razioni piccole ma numerose: per fortuna ho portato il piatto grosso, non quello piccolo, come hanno fatto gli altri commensali. Sulla quantità trovo delle cose buone: come il pesce marinato con le cipolle. Ma altre…… Il cameriere continua a servire il thè. Alcuni, più raffinati bevono latte. Trepidando, quasi con vergogna, ordiniamo due birre. Alla fine, sazi e stupiti, con altrettanta trepidazione, chiediamo il conto: il prezzo è fisso e molto onesto. Neppure seicento lire a testa. Guardo con commiserazione, nell’euforia che si prova a stomaco pieno e con un buon boccale di birra in corpo, quei sobri norvegesi che han mangiato meno di me e pagano eguale. Anche nei pranzi seguenti avremo agio di notare quanto sia minima la quantità di cibo che mangiano i locali. La nave rallenta: lasciamo la sala da pranzo e risaliamo sul ponte. In tempo per vedere la “Ragnvald Jarl” (questo è il nome della nostra nave) infilarsi in una strettoia di poco più larga della nave stessa. È la strettoia di Rorvik a cui arriviamo con quasi un’ora di anticipo: questa strettoia è lunga qualche centinaio di metri, con pareti alte e scoscese. Poi uno slargo da cui parte in questo momento un postale diretto a Sud. La cameriera che ci ha servito esce sul ponte e saluta una figura maschile sull’altra nave. Forse il fidanzato, o il marito. Il prossimo incontro, sempre a distanza, tra una decina di giorni. Un incontro più sostanzioso forse a fine stagione. Indubbiamente solo per noi questa vita è romantica. La nave attracca. È ancora chiaro, ma il tempo è peggiorato. Vicino alla riva enormi serbatoi di carburante per la stagione fredda. A ondate, a folate arriva odore di pesce. Sono le prime merluzziere che vediamo: costruzioni in legno, semplici intelaiature triangolari altissime, con molti fili di ferro tesi. Appesi a questi, migliaia di merluzzi ed aringhe. Rorvik è un’isola, collegata al continente da un traghetto: poche case, qualche negozio, pochi abitanti, tutti sul molo. Scendiamo: quei pochi negozi sono aperti: comperiamo qualche cartolina. Vaghiamo per il paese immerso in un silenzio profondo: c’è poco da vedere, ma è l’ambiente che si fa gustare profondamente. Sembra d’essere in alta montagna e li c’è il mare. Nessun albero. L’asfalto sulle strade è scomparso. Pensando alla strada che dovremo percorrere provo col piede il fondo. È duro e piano. Carla ride a vedere questi armeggi. Spero abbia ragione lei e le mie paure siano infondate. Il tempo scorre veloce anche a terra. S’avvicina l’ora della partenza. Ritorniamo a bordo, a preparare la nanna in Gelsomina. Carla non è troppo entusiasta di dover dormire sul ponte della nave. Saremo isolati (il boccaporto d’acciaio viene chiuso, ma ho scoperto che lo si può manovrare anche dall’esterno) ma sotto lo sguardo vigile dell’ufficiale di rotta riposeremo tranquilli. La nave lascia cautamente Rorvik. Noi andiamo a prora, in mezzo alle automobili, nella nostra casa viaggiante. In nottata passeremo il Circolo Polare. Nella notte la nave si è fermata tre volte, dice l’orario, ma noi non abbiamo sentito nulla, tanto eravamo addormentati. Il tempo è incerto, a tratti piove e fa freddo. Siamo oltre il Circolo Polare e la temperatura lo ricorda, se ne fosse il caso. Alle dieci la nave, con il solito anticipo si ferma ad Ornes. Si vede che gli orari sono calcolati sulle peggiori condizioni di mare ed in questa tranquilla passeggiata la nostra nave si avvantaggia sul ruolino di marcia. Ad Ornes incominciamo la ricerca dei souvenir. C’è poca scelta. Bene perché le corone sono pochissime e tra breve dovrò cambiare qualche dollaro, ossia intaccare la sacra scorta per il ritorno. Parsimoniosamente acquistiamo le solite cartoline e qualche banana che, ironia, sono molto a buon mercato. Viviamo fuori dal tempo: la nave è il nostro borgo e la 600 la nostra casa. Abbiamo fatto l’adunata degli spiccioli e possiamo andare a pranzo senza attendere Bodo dove troverò un cambio. Anche se il tempo è brutto, la visione della vicina costa è sempre molto interessante: ormai i segni di vita sono rari, solo rocce e terreno pelato. La nave corre liscia sul mare calmo. Ogni tanto un gabbiano si tuffa in mare e ricompare dopo qualche secondo. È andato a cercarsi la colazione. Strani uccelli corrono velocissimi sull’acqua, ogni tanto uno stormo si alza in volo. Sembrano idrovolanti che prendano il volo. Ed idrovolanti veri, quelli del servizio costiero, li vediamo a Bodo, partire, volteggiare, ammarare eleganti. Ci informano che svolgono un capillare servizio di pubblica utilità, soprattutto d’emergenza per questi paesi del tutto isolati, sparsi su isolette a cui il postale non approda. Ad esempio, stamani ad Ornes è salito a bordo un bambino con una guancia gonfia. Probabilmente andrà fino a Bodo dal dentista. Una passeggiata di duecento chilometri. Non è certo lo zucchero che rovina i denti a questi bambini. Anziché dolciumi succhiano una coda di merluzzo. Forse per abituarsi alle asperità di questa terra a volte veramente ingrata. Bodo è un grosso paese. Con timore panico osservo le strade dopo la pioggia. Le buche (quante ce ne sono!) sono piene d’acqua, ma il fondo è ancora ben rassodato. Qui è tutto nuovo, rifatto dopo la guerra. Molti negozi, pochi gli articoli. Compriamo delle ceramiche nere, caratteristiche di questi paesi. Mi sento ricco: abbiamo cambiato (dal venditore di banane) ben dieci dollari. Ma le corone sono rotonde, corrono che è un piacere. Per non spenderle tutte ad una sola fermata, ritorniamo presto alla nave. Scriviamo le cartoline rituali. Chissà quando arriveranno in Italia. Incominciamo a sentirci ben lontani da casa. Ma abbiamo un bel tratto ancora da percorrere, prima di iniziare il ritorno. Fa freddo, ma i bambini norvegesi giocano ben poco vestiti; questi strani bambini, troppo calmi, dai visini forse già appassiti. Ben diversi da quei magnifici bimbi o nostrani o tedeschi o danesi che abbiamo visto sin qui. C’è uno stormo di ragazze di qualche organizzazione scoutistica del Nord (mi pare d’aver capito che ritornino dalla Gran Bretagna: un viaggetto di qualche migliaio di chilometri, ad otto, dieci anni, così per conoscere il mondo). Ad ogni paese ne scende qualcuna. Saran molti giorni che son lontane da casa, ma ben poche han qualcuno ad attenderle. Ragazzine di otto, dieci, al massimo dodici anni sbarcano, si caricano i loro voluminosi bagagli e via. A casa, in qualche isoletta che raggiungeranno con l’ausilio di traghetti, di battelli locali che fan capo ad ogni fermata del nostro bel postale. E nei rari casi che ci siano parenti, nessuna effusione. Altro che sangue latino! Però questo lo vediamo in molti ragazzi del gruppo italiano che han fatto, od almeno cercano, l’amicizia con le ragazze più alte delle scout e le loro accompagnatrici. Popolo freddo, come il loro clima, questi norvegesi. E ben temprato a questa temperatura e a quelle ben più rigide dell’inverno che credo le combattano soprattutto con il sacco a pelo. Ogni tanto vedo un mucchio informe, un sacco. Si, un sacco a pelo, con dentro un essere umano, che ogni tanto si muove. E stanotte, sul ponte, un sacco a pelo con dentro l’omino ha pernottato sulla panca di poppa. E dal cielo cadeva una acquerugiola fredda ed uggiosa, come la nostra di fine novembre. Anche i neonati combattono la loro battaglia contro il freddo in modo insolito: un’ampia tuta impermeabile, da cui non può scappare il calore che sprigiona a tutte le latitudini il miracoloso corpo umano. E con quella tuta impermeabile addosso, senza piangere, questi neonati viaggiano tranquilli, indifferenti che brilli il sole o l’acqua li accarezzi. A Bodo sono saliti dei lapponi, con la giacca sgargiante, bleu e rossa, con vistosi alamari gialli. Silenziosi resistono ore immobili con lo sguardo assente, in posizioni impossibili. Riescono a dormire sugli scalini che dal ponte coperto portano alla passeggiata di poppa. Si allenano per la notte polare. La cena è andata benone: la scelta è sempre molto varia. Inoltre non è stata servita la marmellata nel latte freddo. Carla ha assaggiato l’aringa affumicata: disgustosa. Io ho fatto piazza pulita del pesce marinato: quando mangiamo noi, tutti ci guardano. In compenso, noi guardiamo loro: stupefatti per cause opposte. Il gruppo degli Italiani si prepara a scendere a Svolvaer, nelle Lofoten, raggiunte dopo un tratto di mare aperto, con navigazione tranquillissima. Il tempo si è rimesso al bello: abbiamo anche avuto vividi arcobaleni senza traccia di temporali. Incontriamo qualche banco di nebbia leggera. Poi spuntano le Lofoten, dantesco insieme di isole dirupatissime, nere come la pece, con incredibili forme alpine che ne fan assomigliare alcune al Cervino, ai Denti d’Ambin, al Rocciamelone. E’ un arcipelago disseminato per decine di chilometri, il cui centro d’attrazione è Svolvaer. Preceduta da isole già nere per loro natura e che nel tramonto polare delle ventidue appaiono come tanti mucchi di carbone, con il nero rotto qua e la da piccoli lenzuoli di neve, arriviamo alla “capitale” delle Lofoten. Svolvaer è un discreto centro, il cui fulgore è dato in primavera durante la concentrazione dei battelli da pesca, dai banchi di aringhe, di merluzzi che passan qua vicino. Di qui partono battelli per diverse direzioni, fra cui Narvik, il porto di Kiruna, dove vanno gli ottantadue Italiani. Sbarchiamo: fa un freddo…. Norvegese. Malgrado l’ora tarda i pochi negozi sono aperti. I pochi clienti forse arrivano solo col postale. Stasera con lo sbarco di ottantadue persone, anzi, precisazione importante, di ottantadue italiani, a Svolvaer è arrivato il Carnevale. Le strade brulicano di gente: siamo tutti di noi, perché i locali, arrivato il postale, sono spariti. Anche i negozi, accontentati i turisti, spengono le luci, chiudono i battenti. Non ci rimane che tornare alla nave ed ammirare il paesaggio dal ponte, nella luce di un tramonto che sembra non finire. Puntuale come sempre, all’ora stabilita la nave si stacca dall’ormeggio: noi siamo ormai sistemati in Gelsomina ad attendere il moto leggero della nave ed il ronzio dei motori che qui giunge molto attenuato, in modo da sembrare una ninna-nanna. Non per nulla la prima classe è a prua, e noi siamo ancora più avanti della prima classe. Altre numerose fermate nella notte passano inosservate: ora il postale naviga tra piccole e grandi isole e su alcune di esse sorgono discreti centri abitati. La prima fermata, in ore civili per noi turisti, della giornata di martedì, è a Harstad. Qui la sosta, tra anticipo e il tempo stabilito dall’orario, è di oltre due ore. Abbiamo quindi la possibilità di gironzolare a lungo per le strade di questo paesetto, il centro più importante di una grossa isola a poca distanza dal continente. Concluso il nostro giretto ci fermiamo in un caffè per la colazione: e ci lasciamo attirare dai dolciumi norvegesi. Così otteniamo lo scopo di rimpinzarci di cose non troppo buone ma sostanziose e con gioia del portamonete rinunciamo al pranzo. Tra Harstad e Finnsnes la navigazione procede placida malgrado un tratto di mare aperto. La mancanza del numeroso gruppo italiano ha cambiato fisionomia alla nave. Tutti sono tranquilli: alcuni leggono giornali e riviste ed anch’io tento di aggiornarmi alle notizie del mondo scorrendo quotidiani locali. Più dalle illustrazioni che dal testo riesco a capire………. Che in Canada c’è stata un’alluvione e un tifone in Giappone. Un po’ poco, ma la mancanza di forti titoli in prima pagina sono sufficienti a tranquillizzarci. Una tensione internazionale particolarmente acuta in questi giorni sarebbe abbastanza drammatica. Sul ponte unico segno di vita le ragazze lapponi che cantano ed intrecciano girotondi giocando con cerchi che riescono a far girare vorticosamente attorno alla vita, al collo, alle caviglie. E’ ricomparso il sole ed ora inonda la tolda. Alcune tra le piccole lapponi raccolgono autografi: le controbatto chiedendo loro nomi ed indirizzi. Sui ponti ritornati tranquilli si può sostare indisturbati, con tutte le poltrone a disposizione. Non si deve più difendere il posto da due o tre aspiranti pronti ad approfittare della minima disattenzione. Abbiamo scoperto due punti incantevoli da cui si gode una vista circolare quasi completa. Abbiamo visto le cabine a nostra disposizione, ma ormai abituati ai campeggi ed al riposo in Gelsomina, mal ci adatteremo a dormire sotto coperta. Quindi anche stanotte dormiremo sul ponte. Siamo rimasti in pochi sulla nave e comandante ed Ufficiali sorridono divertiti quando armeggiamo attorno a Gelsomina. Il Commissario di bordo ci ha incontrati a spasso per Harstad ed è scattato in un magnifico saluto militare. A Finnsnes arriviamo, regolarmente digiuni, verso le due. Per prima cosa devo cambiare, ma poche lire o dollari, perché di questo passo stiamo compromettendo seriamente il ritorno a casa!! Entriamo in una banca, si, in una bella banca, perché su queste isole di pescatori non mancano i contatti con la più recente civiltà. Mucchi di banconote e non in cassaforte. Ben in vista, dietro un cristallo, in tagli che noi mai ci siamo sognati. Accettano di buon grado lire italiane, cambiandole ad un tasso più favorevole che a Torino. Un pallido sole rallegra quest’isola piena di vita. Negozi modernissimi con ogni ben di Dio, auto moderne americane, camion potenti indaffaratissimi a trasportare carichi di chissà cosa. Empori di elettrodomestici paragonabili ai nostri italiani, uno di articoli sportivi che presenta articoli da campeggio che è un vero peccato trovarsi con il denaro misurato. Sacchi a pelo, tende, materassini, in assortimento tale da far restare a bocca aperta. Sul molo, sbarcate di recente, lustre ed ancora da immatricolare, quattro automobili di foggia moderna ma sconosciuta: sfido, sono le Moskitss, se così si scrive, di provenienza russa. Il loro nome, sul cofano, come le indicazioni sul quadretto del cruscotto, sono scritte in cirillico, quindi non troppo chiare. Giro a lungo attorno a queste quattro automobili che per noi occidentali, oltre ad avere un richiamo esotico, sono una novità. E poi, non per nulla sono un quasi-tecnico dell’automobile. Mi spiegherà poi un signore norvegese (che viaggiava su Mercedes, lui, poveretto) che le auto in Norvegia sono soggette a licenza d’acquisto, rilasciata solo per comprovati motivi, escluse quelle provenienti da oltre cortina, a causa di particolari accordi commerciali coi sovietici che acquistano, anzi scambiano quei pochi prodotti che la Norvegia può esitare sul mercato internazionale. Quindi è logico l’interessamento sul mercato norvegese per le vetture russe. Anche perché, almeno esteriormente, fanno lo loro brava figura. Avrei voluto conoscerne il prezzo, confrontarlo con quello di altre marche, ma la difficoltà di scambiare chiacchiere lo impedì. Da Finnsnes a Tromso un lungo fiordo tra terraferma e le isole dirimpettaie alla costa. Su questa, montagne dirupate, le isole sono quasi tutte montagnose, molti nevai, alcuni ghiacciai di notevoli dimensioni che versano le acque di fusione con romantiche cascate direttamente in mare. Anche Tromso è su un’isola e qui, forse per la posizione fortunata per gli scambi e le basi dei pescatori, unitamente ad una orografia non troppo tormentata, la vita incomincia molto prima della città. Una lunga strada punteggiata di casette rosse, di prati verdi. Mancano quasi del tutto gli alberi. Tromso è un centro abbastanza grande, dalle strade polverose. Sembra d’essere nel Far West, almeno dalla descrizione che di questo ne fa il cinema americano. Case di legno, vicoli ciechi, contrastano con case moderne e strade spaziose. Così a negozi modernissimi e forniti di mille articoli (magnifiche pellicce e un orso impagliato per insegna richiamano la nostra attenzione e ci fa spendere altre preziose corone ed ancora una volta ci troviamo con in tasca appena i soldi per la cena) fan curioso contrasto negozi con vetrine polverose che sembra sian anni che nessuno tocca. Poi il paese finisce di botto e ricominciano i prati e le rocce levigate dai venti. Sulla nave, sistemati proprio davanti alla statua di Amundsen, scriviamo le nostre quotidiane cartoline mentre attendiamo la campana della cena. Con stasera lasceremo questa cucina a cui ci siamo rapidamente affezionati: perciò è meglio fare il pieno ed a tavola soprattutto son io che mi faccio onore: al punto che Carla ha l’impressione che mandino a chiamare il cuoco perché assista alla mia voracità, indice che le sue fatiche sono ben accette. Mentre ci convinciamo, vedendo la cena di una coppia norvegese che quassù la dilatazione di stomaco dev’essere un inconveniente sconosciuto. Il tempo è bello, la sera fresca. Ma di sera si può solo parlare guardando l’orologio: sono le ventuno ed il sole è ancora alto. Verso le ventidue incontriamo una serie di isole ad occidente: alte e dirupate, dalle forme prettamente alpine, con nevai e ghiacciai incombenti sul mare. Ogni tanto, tra una valle e l’altra, compare ancora il sole, fiammeggiante. Alle ventidue e trenta, per un istante, lo vediamo galleggiare sul mare, in un minuscolo canale tra due isole. Ad oriente il cielo è già scuro, ad occidente c’è ancora il sole. Siamo presso il 70° parallelo. Poi il sole sparisce per breve ora ed assistiamo ad un magnifico tramonto che senza notte passa direttamente all’alba. Giallo, arancione, rosso, granata: un’immensa tavolozza. Strisce fiammeggianti si accavallano a zone di luce intensa, bianca, grigia, lattea. In alcuni punti, sarà effetto ottico, compaiono pennellate di verde. La nave costeggia il continente mentre la catena di isole termina. Una zona di mare aperto: laggiù l’acqua sembra rossa, sembra acciaio liquido a causa del globo infuocato del sole appena sotto l’orizzonte. In quella direzione un puntino prima impercettibile che ingrossa. E’ di una nave che però non incontriamo. Più tardi, mentre ci avviciniamo a Skjervoy incrociamo un battello della medesima compagnia del nostro. I due capitani sul ponte si salutano militarmente mentre le sirene urlano il saluto alla voce. Sono le ventitrè e trenta: la luce è scemata, ma ne rimane ancora tanta da leggere comodamente. Continua la corsa verso il Nord e noi, coperti con tutto quanto disponiamo compresi i plaids sulle spalle, e tuttavia gelati ma indomabili, restiamo sul ponte per non perdere un istante di questo meraviglioso paesaggio. Solo noi e tre francesi. Solo i latini, difesi dal loro sangue caldo, a gustare queste bellezze. La nave attracca a Skjervoj: non c’è anima viva. Anche perché il paese è composto di cinque o sei casette. Ritorniamo sulla nave per riposare, ma è un’illusione che sparisce presto: già verso l’una il sole ricompare, poco oltre il Nord, e fiammeggiando inizia la sua giornata lavorativa di oltre ventidue ore. Quindici giorni fa la sua fatica era di ventiquattro ore filate e forse ora pensa già alle sue lunghe ferie invernali, quando per oltre due mesi lascerà queste contrade. Costa cara agli abitanti di queste zone la lunga giornata estiva! Dormire col sole che da spettacolo è troppo difficile: bisogna ammirarlo continuamente, Sua Maestà il Sole e con lui i ghiacci e le nevi adagiati su queste rocce. Verso le tre i marinai, col sole ormai alto in un cielo terso dall’aria veramente gelida, iniziano le loro manovre per slegare Gelsomina. Bisogna alzarsi, rimettere la vettura in assetto di viaggio, riempire il radiatore con acqua calda (che ieri sera per precauzione avevo svuotato a causa della temperatura gelida). Le operazioni sono appena finite quando compare Hammerfest. Il lungo viaggio per nave è finito. Lasceremo qui Gelsomina e se possibile faremo una capatina a Capo Nord. Poi inizieremo quel paventato ritorno…… . Silenziosa la nave attracca. Dopo pochi istanti Gelsomina appesa ad un robusto cavo volteggia per aria, poi scende dolcemente a terra. Gelsomina, le tue ferie sono quasi finite, ora la parola spetta a te. Il tuo motore rugge contento mentre il “Ragnvald Jarl” si allontana. Lo salutiamo commossi. Abbiamo passato sui suoi ponti, sulla sua tolda, delle ore veramente indimenticabili. E mentre aspettiamo un vaporetto per Capo Nord, già rimpiangiamo quella bella nave. Nello stesso tempo trepidiamo per Gelsomina che è arrivata sin quassù quasi senza sforzo, ma ora il ritorno è affidato a lei. Dal possente motore di una nave al piccolo cuore della 600. Ma anche con questo arriveremo a casa e vivremo assieme una bella corsa attraverso tutta l’Europa. Da Hammerfest un battello locale porta a Nord Kapp. Gelsomina è sistemata appena fuori del paese, poi si ritorna al porto, si riparte. Non sembra la nave dei giorni scorsi! Per fortuna il viaggio sarà breve. Purtroppo, partiti alle sette da Hammerfest con tempo ancora discreto dopo il magnifico sole di questa notte, troviamo nebbia fitta già verso le nove. La costa s’intravede appena, poi la nave, anzi il barcone è obbligato a tenersi più al largo per evitare delle secche e così non si vede più nulla. Una noiosa pioggerella ci spinge sotto coperta. Quasi con rabbia considero persa questa giornata. Neppure una foto, un metro di pellicola-cine. Avremo già potuto essere in Finlandia. Per fortuna ritorniamo ancora presto ad Hammerfest, parco spuntino, poi riposo in attesa di domani. Voglio fare più strada possibile. La sveglia posta sotto la brandina suona alle quattro. Il tempo è bello, il sole già discretamente alto. Sistemiamo rapidamente i bagagli, salutiamo Hammerfest ancora addormentata. In porto sta arrivando il postale mentre noi usciamo dal paese. La strada è discreta. Improvvisamente dietro una curva, ferma su una roccia, in controluce, maestosa, la prima renna. Non fugge, si muove lentamente. Ci fermiamo per andarle vicino. Ma tranquillamente s’allontana, più svelta di noi. Siamo emozionati: non aspettavamo le renne in quest’isola e partendo da Torino non avrei mai creduto di arrivare tanto al Nord. Risaliamo in macchina spiaciuti di non aver potuto foto-filmare l’avvenimento. Tra l’altro non immaginavamo le renne così maestose: sono grosse, molto di più di una capra e quelle corna…… . Comincio a pensare che se ne troverò un paio, anche a costo di rimangiare quanto detto a Flensburg…… . Sempre che non costino troppo. Improvvisamente un discreto branco. La strada segue la collina a mezza costa: renne sopra, sotto, due attraversano la strada. Sono mansuete, mi permettono di seguirle con la macchina da presa. Poi improvvisamente, via di corsa, tutte assieme, quasi dietro un ordine. Dopo queste, altri piccoli gruppi. Decisamente l’isola di Hammerfest è molto popolata di questi animali. Il loro mantello grigio-marrone le mimetizza perfettamente e solo le corna permettono di individuarle sulle rocce. Qui non c’è ombra di pianta e quando, dopo qualche chilometro, troviamo un boschetto di betulle, quei rami spogli sembravano altrettante renne e io automaticamente staccavo il piede dall’acceleratore per meglio osservare. La strada, appena fuori Hammerfest, s’è fatta pessima. Discorrendo di renne arriviamo al traghetto. Nessuno. Solo due chioschi, incustoditi, di cui uno fornito di corna di renna. Ma padroni o commessi, neppure l’ombra. Non sono neppure le sei, ma il sole ha quasi raggiunto il suo zenith. Perché qua sta quasi tutto il giorno a mezz’aria. Il differenziale perde le solite gocce d’olio. Incomincio un’accurata esplorazione dei dintorni: poco distante trovo un foglio dattiloscritto appeso ad un palo. Malgrado sia scritto in norvegese, intuisco sia l’orario del traghetto. Purtroppo la prima corsa sarà solo alle 8. Abbiamo più di due ore d’attendere: sono lunghe. Beviamo un po’ di Vov, poi Carla m’invita, per calmare il nervosismo, a giocare con una palla da tennis trovata in macchina. Passeggiamo, guardiamo attentamente questo braccio di mare largo meno di mezzo chilometro che ci fa perdere tempo prezioso. Il battello-traghetto è sull’altra sponda. Suono a distesa, nella speranza di una corsa supplementare. Invano, non anima viva compare. Malgrado il sole fa fresco. Dal pontile scopriamo un’intensissima forma di vita sottomarina. Meduse che viaggiano a reazione, vorticelle leggiadre e trasparenti e tanti, tanti pesci, alcuni lunghi quasi un metro. Per la bocca ventrale e altre caratteristiche anatomiche li classifichiamo della famiglia dei pescicani. Il tempo scorre lentamente. Poi un rombo di un motore rompe il silenzio. Sono due motociclisti. Da come sono vestiti si direbbero pescatori. Impassibili, trafficano attorno alle loro macchine. Poi uno di essi trae dalla borsa un aggeggio: è un rasoio elettrico a batteria: su questa è applicato uno specchio. Tranquillamente l’uomo si sbarba, seduto su una pietra. Accarezzo negligentemente la mia barba: supera già il centimetro. Arriva un’automobile, si apre il chiosco, chiedo il prezzo delle corna di renna esposte: cinque corone. Ma come sempre ho i soldi (norvegesi) così misurati che non so se saranno sufficienti a pagare il traghetto. Il padrone del chiosco mi assicura che a Lakselv, fra cento chilometri, c’è una banca. Almeno, io capisco così……. . Finalmente le otto: il traghetto si stacca dall’altra riva, arriva da noi, scarica un’auto, saliamo, arriva una corriera. Si parte, siamo sul continente. La manovra d’attracco è un po’ brusca. Si scende a ritroso, quindi noi che eravamo i primi, ora siamo gli ultimi. Partono tutti, ci avviamo anche noi. Cento metri in salita, poi il piano, una curva. Ta-tan, Ta-tan, Ta-tan. Un rumore infernale dalla parte posteriore della vettura. Blocco, bianco come un lenzuolo lavato con Omo. Scendo, guardo se è partito il differenziale o la scatola del cambio. Esternamente tutto intatto. Per un istante avevo temuto che uscendo in retromarcia dal battello avessi battuto la scatola d’alluminio contro un sasso e si fosse spaccato tutto. Cosa sarà? Carla a piedi vicino alla macchina. Io avanzo in prima. Il rumore continua. Faccio cenno a Carla di salire. Proverò ad avanzare di qualche metro. Ancora qualche giro di ruota. Poi più nulla. Gelsomina è guarita! Abbraccio Carla: abbiamo provato cos’è la paura. Cosa avremmo fatto, qui, con un grave guasto? Meglio non pensarci……. . Alla prima occasione presentatami, messa la 600 su un ponte, notai delle rigature sulla campana che unisce la ruota al semi-asse. Probabilmente una pietra s’era infilata tra la campana ed il braccio o il tamburo freno, in posizione critica. Poi o s’è sbriciolata o un sobbalzo l’ha fatta cadere. Per tutto il viaggio ed oltre ricorderemo con terrore il rumore del traghetto….. . Incontriamo la strada n° 50, la costiera che viene da Oslo. Un cartello indicatore con la sua brava freccia indica la distanza: Oslo Km 2158 !! Qui la strada è decisamente migliore e si può spingere anche ai 50/60 orari. Qualche baraccamento, delle rovine dell’ultima guerra che non ha neppure risparmiato queste lande sperdute, qualche autocarro. I paesi, meglio le località, segnati sulla carta sono composti nel migliore dei casi, da non più di due o tre case. Costeggiamo un fiordo lungo trenta chilometri che comunica col mare Artico: siamo già ad oriente del Capo Nord. Nelle acque basse affiorano migliaia di pietre e mucchi di verdi alghe. Vicino ad un gruppo di case sorge un’enorme merluzziera. Un operaio stacca gli stoccafissi appesi ai fili di ferro tesi tra le intelaiature e ne carica delle carriole. Un bambino lo assiste succhiando un pezzo di merluzzo secco. Crudo, è sottinteso. Mi sfogo a far foto e a girare metri di pellicola cine. Sarà l’ultima merluzziera, per questo viaggio: tra poco, a Lakselv lasceremo il mare per addentrarci nella Lapponia, verso la Finlandia, verso quelle montagne che s’intravedevano, macchiate di neve. Nella tundra, a distanza dalla strada si scorgono accampamenti lapponi abbandonati. Intelaiature di tende formate da quattro pali uniti in cima a forma di piramide. Quando i proprietari sono in …. Sede, ricoprono questo telaio con pelli di renna, turano le fessure con muschi e licheni, lasciano un foro in cima per il tiraggio del fuoco e la casa è pronta. Dopo qualche chilometro infatti, una tenda fuma dall’intersezione dei pali. Il tiraggio funziona sempre, in quelle case! Nessuna traccia dei lapponi che dovrebbero abitarla: dopo quelli visti sulla nave e uno solitario al traghetto non abbiamo più visto questi omini vestiti da gnomi. Però tutti gli abitanti, uomini e donne, che vediamo hanno inconfondibili e caratteristici elementi mongoli, ma hanno abbandonato i vestiti chiassosi e il cappello a trepunte. Un bivio: è la strada per Karasjok, la nostra strada. Però vorrei cambiare un po’ di denaro a Lakselv, perché non mi piace continuare a viaggiare con pochi soldi in tasca. Dal bivio a Lakselv, secondo la carta, dovrebbero esserci pochi chilometri. Ne percorriamo dieci, poi intervistiamo un autista di un autocarro trovato fortunatamente fermo ai bordi della strada. L’abbiamo già passato, Lakselv. Ritorniamo indietro, non lo troviamo: altro che banca, non c’è neppure una casa! Abbandonato il mare, lungo la strada della Lapponia, vedo una casa con una vetrina: scendo ma il negozio, termine forse un po’ esagerato, è chiuso. La strada segue un’ampia curva di un gran fiume. La valle è spaziosa, solo ai lati, a discreta distanza, piccole montagne che sembrano formare altipiani. Nessun segno di vita. Karasjok è a settantasei chilometri Senza paesi, case o persone. Ci fermiamo un istante ad ammirare la tundra. Pinastri alti al massimo due metri, forse neppure. Muschio morbidissimo, bacche, funghi enormi e profumati. Laghetti azzurri, rocce nere, infinita gradazione di colori tenui, di un riposante pastello, gioia per gli occhi affaticati dalla ricerca delle buche sulla strada. La strada abbandona il corso del fiume ed inizia una corsa rettilinea attraverso colline. Dalla cima delle quali si vedono altre colline, in teoria che sembra infinita, con la strada che le scavalca tutte, senza una curva che servirebbe almeno ad evitarne qualcuna. Siamo a breve distanza dall’antica terra degli Zar, ma questo è già un anticipo di quelle che potrebbero essere le montagne russe. Poi Karasjok, quando già eravamo convinti d’essere diretti chissà dove. Un chiosco, alcuni fabbricati molto lontani uno dall’altro. In giro non c’è anima viva, ma a questo ci siamo quasi abituati. Finalmente un individuo: “Te restaurant? Te hotel” Sono quasi le quattordici e abbiamo fame. Riceviamo indicazioni approssimative, ma riusciamo lo stesso a trovare un albergo, credo della gioventù. Ci danno due panini, anzi due fette di pane nero con thè. Sturiamo la prima bottiglia di barolo. Cambiamo altri cinque dollari. Due bambini giocano con delle corna di renna, che poi abbandonano in terra. Le colgo e vado dall’ostessa facendo segno di volerle comprare. Cinque corone, circa quattrocentocinquanta lire. È costato poco il souvenir della Lapponia. Ma non avevo fatto i conti col chiosco…. . Mi pareva che senza scarpe di renna non si potesse tornare a Torino. Altri cinque dollari e ne rimangono solo venti. Arriva una vettura, sotto una coltre di fango si stenta a riconoscere una Vedette francese, di Marsiglia. Uno di loro parla italiano: sembra di conoscersi da sempre, a questa latitudine ci si sente fratelli con questi cugini latini. Effetti della lontananza dal mediterraneo. Raccontano le loro disavventure: il parabrezza infranto (ma sostituito a Rovaniemi), strade impossibili in Finlandia, buche, salti. Notizie scoraggianti. Invece i francesi sono al termine delle peripezie: vanno a Kircknes dove sperano imbarcarsi per Trondheim. Mi porgono una carta stradale della Finlandia (di cui noi eravamo sprovvisti e della quale avevamo necessità perché per me viaggiare senza carta è come per i marinai viaggiare senza bussola). Almeno, ora, sappiamo quali sono le distanze che ci attendono. Scambi di indirizzi, saluti e reciproci auguri: loro partono e vanno verso il bello, noi verso il brutto. Carla mi rincuora, impareggiabile compagna di viaggio. Uno sguardo alla solita goccia d’olio, pensando con malinconia che fino a Rovaniemi l’assistenza sarà nulla. Avvio il motore. La frontiera finlandese è a pochi chilometri. Auguro di cuore buon viaggio a Carla. Ingrano la marcia. ……siamo partiti. Con la barra di confine norvegese, pochi chilometri dopo Karasjok, incominciò l’avventura finlandese. La striscia di terra di nessuno, tra le due dogane, è larga quattordici chilometri e il miserando stato della strada, con l’ottimismo dell’incosciente, lo giustificai con il regime particolare dello spazio attraversato. Un ampio corso d’acqua, il Tana, scorre sotto la collinetta in cima alla quale sorge la dogana finlandese (che si chiama Tulli). Un ponte di legno, traballante come gli infiniti successivi, una rapidissima salita. Poi un funzionario cortesissimo mi fa compilare una dichiarazione di valuta stampata in finlandese, inglese e russo! Per meglio valutare la Finlandia e la sua gente non bisogna dimenticare che questa terra fino al 1917 faceva parte dell’impero Russo e di russo c’è ancora oggi discreta traccia. Un cenno di saluto, la barra si solleva e chi sperava di trovare una strada discreta dopo quanto sentito da chi l’aveva fatta, è rapidamente disilluso. Al punto che dopo pochi chilometri rimpiange la strada della terra di nessuno, poi spera solo più nella Provvidenza. Karagasniemi è un borgo di poche case, ma è un centro abitato, almeno c’è una parvenza di vita. Poi per centotrentotto chilometri, ad eccezione di Inari dove esiste perfino un vecchio distributore a manovella, nulla. Ad Ivalo un negozio dove è persin possibile comprare sigarette. Ad un bivio un cartello indicatore: la frontiera sovietica è a cinquantun chilometri. I tratti deserti sono lunghissimi: i nomi, i pochi nomi segnati sulla carta sono solo entità geografiche, forse località, forse paesi di un epoca che verrà. E’ strano leggere un cartello: Laanila o Petkula o Unari: si attende una forma di vita, delle case, qualcosa: nulla, solo di sfuggita, nello specchio retrovisore lo stesso cartello compare un istante ad indicare che Laanila o Petkula o Unari sono finiti. Finiti prima di cominciare. Località dove il piano regolatore può essere applicato alla perfezione. Località dove il “magone” prende il turista e gli fa rimpiangere la civiltà, anche quella rumorosa ed assordante. Il silenzio della tundra è impressionante. Ogni tanto, squassata la vettura dagli innumerevoli sobbalzi, stanchi i passeggeri, è necessario fermarsi, sgranchirsi le membra, dare insomma un istante di riposo al mezzo meccanico e al fisico umano. Si spegne il motore e un improvviso silenzio avvolge la tundra: tra i bassi pinastri prima, tra la densa vegetazione più a sud si prova ciò che è il silenzio, ovattato da uno spesso strato di muschio e di licheni. Nessun uccello, nessun insetto. E’ con un senso di sollievo che si risente il rombo del motore non appena si fa l’avviamento. Ma dopo poche centinaia di metri, certe volte già allo spunto quel senso di sollievo scompare: la strada, anzi la pista è tremenda: sorge la paura, paura fisica che quel rombo si spenga, che il motore non resista. E oltre il motore, gli sforzi possono ledere altri delicati organi. Per tutta la Finlandia ho invidiato chi guida la vettura senza conoscerne la meccanica. Quel salto può rovinare un ammortizzatore, la pietra che salta può tagliare un cavo o peggio, stroncare un tubo dei freni, lo slittare continuo della frizione usura tutti gli organi, tutti quei salti possono vuotare la scatola del cambio-differenziale del prezioso olio. Ogni organo, e sono molti, è passato in rivista. Carla s’accorge che di ogni pezzo c’è ne uno più importante, ma nessuno è il più importante, perché per tornare a casa devono resistere tutti. Camminare, viaggiare in queste condizioni è un vero tormento. Presto troviamo le buche, da asciutte che erano, piene di fango. In quelle pozzanghere la ruota anteriore (o le ruote anteriori quando la buca è di dimensioni tali da superare la larghezza di Gelsomina) entra, solleva uno spruzzo di mota (che ricade sul parabrezza con il risultato che si può immaginare) poi esce tranquillamente. Mezzo secondo, forse meno, ed in quella buca entra la ruota posteriore, mentre quella anteriore esplora già quella successiva. Quindi altro spruzzo di fango e questo per centinaia, migliaia di volte. Per tutta la Finlandia, o quasi. Agire sul tergicristallo vuol dire rigare il parabrezza. Quando non si vede quasi più nulla bisogna fermarsi per pulirlo con mezzi primitivi: straccio e acqua. Scendendo, in mezzo a quella fanghiglia, bisogna fare bene attenzione a dove mettere i piedi, per evitare scivoloni. Un unico vantaggio: si può spaziare a destra e a sinistra della carreggiata, alla ricerca di una traccia meno tormentata, perché non si vede anima viva, per decine di chilometri. Alla sera, dopo un tramonto dalle tinte meravigliose, da quel pantano si sollevò la nebbia: vera ovatta, ristagnava sul fonde delle vallette che la strada, nella sua ossessionante retta esplorava una dopo l’altra. Il freddo è adatto alla latitudine, ancora ben oltre il Circolo Polare; il fiato condensando appanna il parabrezza. Fango di fuori, nebbia sulla strada, vetri appannati di dentro. Le buche non si vedono più, si sentono solo. In quel tratto di strada, assieme alle altre paure, ho avuto quella di perdere le porte…. Ogni tanto, su quelle ripide impennate della strada (da prendere in seconda) le ruote scivolano sulla mota e l’auto accenna a sbandare. Per fortuna non ci sono curve da affrontare. Andar piano serve a poco, perché anche a velocità bassissima gli scossoni sono notevoli. Anche la benzina cala in modo anormale, e la lancetta dell’indicatore oscilla verso la riserva. Freddo, nebbia, fango e un po’ di fifa. E’ il quattordici di agosto, sono le otto di sera e in Italia (dove sarà l’Italia? Là, in quella direzione, a quattromiladuecento chilometri) fa caldo, è la vigilia di Ferragosto e tanta gente si prepara ad andare al cinema, a ballare, a divertirsi. Noi corriamo, per modo di dire, nella Lapponia finlandese, affidati alle preghiere di chi, a casa, pensa a due creature molto lontane. Lontane solo fisicamente. Carla tace, ma leggo i suoi pensieri. Facili a capirsi: sono come i miei. E le preghiere delle mamme, dopo Ivalo, ci mandano cento chilometri di strada passabile. Ritroviamo l’allegria e cantammo. Il contachilometri risale ai cinquanta, sessanta, settanta, titubando sfiora gli ottanta e su questa velocità rimane. Non più buche, non più fango. Avevamo fatto benzina a Ivalo, avevo cambiato i penultimi dieci dollari. Abbiamo marchi, benzina e strada buona. La Finlandia ci sorride. C’è ancora luce: viaggiamo tranquilli, parlando di quanto s’è visto. Il lento trasformarsi della tundra, con rari pinastri, agli attuali boschi d’alto fusto. Ci chiediamo cosa possano essere i pali bianchi che fiancheggiano la strada (sapremo poi che sono tombe di soldati tedeschi). Parliamo delle renne che abbiamo visto e cinematografato in silenzio. Ricordiamo i Francesi che ci hanno dato la carta a Karasjok. La Norvegia con i suoi porti, le navi belle e pulite, i negozi di elettrodomestici, i pescatori di Hammerfest con il rasoio a pila e lo specchio incorporato sono già cose lontane. Son solo ricordi di ieri, o di oggi stesso. Il sole dalle vette delle colline ancora ci appare fiammeggiante. L’abbiamo visto sorgere all’una di questa notte, quando ci ha svegliato, e ancora non è andato a riposare. Cento chilometri di sogno. Lontanissimo il rumore di Hammerfest, dopo il traghetto. Distante anche lo scuotimento di poco prima. Quei cento chilometri li ricorderemo a lungo. Anche se li percorriamo in meno di un’ora e mezza; e ci consideriamo fortunati d’aver fatto quel tratto di strada evitando la rottura dei fanali o, peggio del parabrezza. Per settantotto chilometri non troviamo mezzo, animale o uomo. Qualche casa, abbandonata, ci appare nella penombra. Abbiamo ritrovato la serenità, il motore di Gelsomina romba. Purtroppo vediamo fermo un trattore trainante una strana macchina. E’ la macchina-che-aggiusta-la-strada, molto curiosa, in verità: un’aratro a tanti vomeri che smuove la terra ed una specie di spazzaneve che pareggia ciò che i vomeri prima hanno sollevato. Il risultato è naturalmente provvisorio e duraturo fino al prossimo acquazzone. Cullandoci nella speranza di ritrovare un tratto rimesso in sesto di recente, percorriamo di nuovo strada pessima. La velocità è diminuita di botto. E’ notte fonda e viaggiare alla luce dei fari è molto faticoso. Verso le undici ritroviamo la civiltà: l’entità geografica questa volta è un paese. Sentiamo un cane abbaiare, vediamo delle case, questa volta con le finestre illuminate. Sulla destra un distributore di benzina, con a fianco un alto palo della luce, un lampione e una réclame della Pirelli. Dormiremo sotto quella luce amica, in un luogo dove ci sono degli uomini e non solo pini, paletti bianchi e cartelli con nomi di paesi che non esistono. Sono le ventitrè, ormai anche fuori dai boschi è scuro, almeno nella forma che annotta al quattordici di agosto oltre il circolo polare. Dalle cinque di stamane abbiamo percorso oltre cinquecento chilometri, i primi cinquecento chilometri verso casa. Verso la nostra bella, comoda casa che quella sera era tanto, tanto lontana. Siamo a Sodankila e campeggiamo presso il distributore di benzina. Fa freddo, ma forse a farci battere i denti è il sistema nervoso troppo eccitato. Prepariamo in silenzio la nostra casetta. Anche lo stomaco rivendica i suoi diritti: se si esclude quel tozzo di pane col thè, è dalla sera precedente che non riceve nulla. Ma a quest’ora, in questo paese, sarebbe follia cercare cibo. Quindi non rimane altro che coricarci ed attendere domani. E per assopirsi, ripercorrere mentalmente la strada fatta. E’ una gran fortuna essere arrivati a Sodankila indenni. Abbiamo ancora il parabrezza, e la meccanica della macchina è integra. Un senso di ottimismo ci induce a credere che il peggio sia passato. Sarà vero infatti. La strada brutta avrebbe ancora continuato, ma non nelle condizioni di quel giorno. Inoltre ci siamo avvicinati a Rovaniemi, che si può considerare l’inizio del paese civile nel senso moderno. (a Rovaniemi, infatti avremo ritrovato la strada ferrata, simbolo della civiltà, tranquillante mezzo per tornare a casa nel caso di una sconfitta del motore a scoppio). Una cosa vista nella penombra mi cullava i sogni: una fossa nel garage annesso al distributore, una fossa in cui avrei potuto finalmente controllare l’olio del cambio, che a Oslo era diventato veleno e ancor mi dava preoccupazioni, perché una perdita rilevante ci avrebbe messo in serie difficoltà. …..Col cambio e il differenziale bloccato non avrei neppure potuto farmi rimorchiare dalle renne e non avrei neppure potuto lasciare la povera Gelsomina nella Lapponia. Anche Carla era di questo avviso e tutte e due, in silenzio e senza comunicarci i reciproci timori, nei punti critici avevamo pensato agli eventuali mezzi di salvataggio. Personalmente, quando uscivo dalle buche più profonde ero propenso a vedere Gelsomina issata su uno dei rari autocarri carichi di pini. Ma il problema sarebbe stato issarla, lassù. Erano paure inutili e insensate, Gelsomina non ci tradì. La notte era fredda, lo stomaco vuoto impediva un sonno regolare. Ogni mezz’ora ero sveglio a ripensare alla tappa appena conclusa. Le buche, i salti, i ponti di legno. Soprattutto questi sono traditori, perché tra il piano perfetto del ponte e la pista fangosa si forma uno scalino, ad angolo vivo, di discreta altezza e non sempre ben valutabile. A prenderlo in velocità c’è il rischio di fracassare tutto. Peggio che sulle buche. Su decine di questi piccoli ponti arrivavo in folle a passo d’uomo, quasi a chiedere permesso, a scusarmi per il disturbo. Qualche ponte lo presi in velocità, dove lo scalino sembrava non esserci e Gelsomina gridò, ferita in tutte le su parti già doloranti. Si fece forza e con un cigolio del suo ammortizzatore anteriore destro mi ammonì a fare più attenzione. Quel cigolio era solo causato da un po’ i fango sullo stelo, e una volta seccato, sparì. Dimenticavo di dire che in Lapponia i ciclisti non danno fastidio. E’ un’esperienza nuova percorrere centinaia di chilometri senza vederne uno. E gli scooters non sono neppure conosciuti. Forse questa è una precisazione inutile. In Lapponia è un fatto strano quando si vede qualcuno, uomo o animale esso sia. E’ una specie di deserto, con le renne invece dei cammelli, con il muschio anziché la sabbia, con i pini al posto delle palme. Dune infinite che la strada scavalca inesorabile. Con le impennate da II marcia e il fondo fangoso che fa scivolare. Eppure malgrado tutto quello che ho scritto, è bella anche la Lapponia. Dove si può vedere mamma renna che rifiuta la fuga perché il suo piccolo, ancora bianco e senza corna, non sa scappare. E l’emozione mi fece sbagliare la messa a fuoco della macchina cine ed è per questo che questo episodio durante la proiezione appare sfuocato. Per farmelo ricordare meglio, se ce ne fosse bisogno. Questa la vera Lapponia, che per noi finì a Sodankila, sotto un lampione, vicino ad un distributore di benzina. L’alba di Ferragosto ci trova sotto il lampione, sistemati in Gelsomina, dove abbiamo dormito vestiti, coperti di tutti i nostri indumenti, nel tentativo di scaldarci. Usciti di macchina esploriamo i dintorni. Poche case, ad un piano, strade ridotte a pantani, la posta. Troviamo pure un ristorante-bar , dove finalmente possiamo sfamarci. Abbiamo difficoltà a farci capire: finora il nostro vocabolario di parole straniere ci ha sempre permesso di capire e soprattutto di farci capire. In Finlandia non è compresa nessuna lingua straniera, almeno nella parte da noi visitata. La loro, anche se musicale e sonora, non ha nessuna parentela con altre lingue europee. Non si può proprio intervistare questi boscaioli con stivali e berretto a visiera alla moda russa, e la cameriera del ristorante, immobile dietro il banco, ci porge i piatti con il …..semolino, l’unica cosa che altri avventori mangiavano e quindi ordinata puntando il dito sui piatti altrui. Cercai di disegnare un ovetto nel porta-uovo, sperando di avere un uovo alla coque..… Arrivò al burro, anzi alla margarina. Verificato l’olio del cambio, gesticolando come un sordo-muto riesco a farmi indicare una strada secondaria che, se ho ben capito dovrebbe essere migliore di quella seguita finora. Percorriamo ancora lunghi tratti deserti, ma con maggior serenità di ieri. Abbiamo lunghe ore di luce davanti a noi e io spero di raggiungere la frontiera di Haparanda prima di sera. Nelle brevi fermate cogliamo lamponi, freschi e profumatissimi. Raccolgo, anzi strappo cespugli interi di mirtilli. Mentre viaggiamo Carla pilucca le piantine: ogni tanto dal cavo della mano della vivandiera succhio i frutti saporiti. Dopo un accenno di sole, il tempo si rimette al brutto: la strada subito peggiora e ridiventa scivolosa. Fino al bivio di Meltuas non troviamo nessuno: è un nuovo primato di solitudine: quasi cento chilometri, vedendo unicamente una renna che al nostro arrivo si rifugia nel bosco. Gelsomina è irriconoscibile sotto una crosta di fango, la cui tinta ricorda vagamente il colore originario della 600. A pochi chilometri da Rovaniemi passiamo quella linea immaginaria che i Finlandesi chiamano Napapiiri, il nostro Circolo Polare. Si ritrova la nostra moderna società, con i suoi affari e i suoi malanni. Qui, perché siamo al Circolo Polare, mentre in tutta la Finlandia le cartoline costano al massimo venticinque marchi, le stesse cartoline con la stessa renna, lo stesso lappone con lo slittino costano quaranta marchi. Un piccolo aumento turistico, come a Interlaken, Venezia o Cannes. Ma questo non bastò a farci rimpiangere troppo la Lapponia: è difficile essere del tutto d’accordo con quel filosofo che disse “homo homines lupi” ossia, all’incirca, che l’uomo è selvaggio, è poco adatto alla vita sociale. Credo che per fare l’eremita sia necessario un bel coraggio. Quindi non siam neppure d’accordo con chi disse: “Beata solitudo, sola beatitudo”; la presenza di nostri simili lascia sperare nella loro solidarietà, anche se qualche volta questa non si verifica. Al contrario l’assenza di uomini, di società organizzata, non lascia neppure questa speranza. Perciò a Rovaniemi considerai chiusa l’avventura, se così può chiamarsi, lappone e ringraziai Carla per il suo coraggio e il suo aiuto prezioso che mi permise di fare in fretta questo tratto che sin da Oslo paventavo e non a torto. Rovaniemi è una città del futuro. Occupa un’area immensa, tra casa e casa enormi spazi vuoti. Strade a 90° gradi si intersecano regolari, larghissime, mentre instancabili slittoni ne pareggiano le asperità. Negozi discreti in cui acquistiamo uova e pane. Unitamente a strane gallette dallo spiccato gusto di garofano e cannella. Un palazzo delle poste più grande e soprattutto più bello di quello di Torino. Una vera stazione di servizio Esso, dove distribuiscono carte turistiche. Ed, ultima ma più importante, la ferrovia, ossia la civiltà. In Finlandia, in genere, la strada ferrata divide l’uso dei ponti con le carrozzabili. Bisogna fare attenzione nell’infilare il ponte, che non si profili dall’altra parte una di quelle antiquate locomotive piccole piccole, seguite da un colossale tender: carico di legna chiara di betulla che quassù è il combustibile economico delle ferrovie. Da Rovaniemi alla frontiera svedese, la strada anche se di poco, è già migliore di quella percorsa sin qua. Solo alcuni tratti polverosissimi rendono faticosa la marcia. Come sempre poco traffico. Nei cento e più chilometri dopo Rovaniemi incrociamo meno di una dozzina di mezzi a motore. Numerosi, al confronto, i carri a cavallo, carri lunghi a ruote basse che ricordano, se le descrizioni lette sono giuste non avendole mai viste, le “teleghe” russe. Qua il pericolo per il parabrezza è vivissimo: il fondo stradale è cosparso di brecciame e se passasse un autocarro in velocità le pietre sollevate potrebbero causare guai. Per fortuna non facciamo incontri di questo genere e i pochi mezzi incontrati rallentano: tutto si risolve con un poco simpatico picchiettare della ghiaia sulle lamiere. Ogni tanto qualche breve tratto in pessime condizioni: ma sia le sospensioni come la struttura della 600, malgrado le vibrazioni, sopportano egregiamente la prova. Haparanda è vicina: troviamo il mare: è il golfo di Botnia, gelato per diversi mesi dell’anno. Sulle rive isole galleggianti di centinaia di metri di lato: tronchi fluitati dai corsi d’acqua, in attesa di impiego o di trasporto alle grandi fabbriche di pasta di legno. Deviamo dalla strada nazionale n° 4 che ci accompagna dalla frontiera norvegese ed è diretta ad Helsinki, da cui distiamo meno di novecento chilometri. Perdiamo la strada giusta per andare vicino ad un bellissimo castello medioevale circondato da acque calmissime, insomma abbiamo tanto atteso questa frontiera, ma ora che siam giunti ci spiace lasciare la Finlandia. Dopo aver girovagato lentamente ci portiamo alla frontiera. Sento con vero piacere, e senza essere indiscreto, un dialogo tra finlandesi: la loro lingua è una musica, una parlata dolce dove le poche consonanti (e nessuna aspra) è letteralmente soffocata da un diluvio di vocali. Acquisto la bandiera finnica, che aggiungo al mio piccolo gran pavese. Allo stesso chiosco compero qualche pasticca per liquidare tutta la valuta: tenerla in serbo per la prossima volta sarebbe eccessivo……. Rapide formalità, un cenno d’assenso e via. Un ponte su un gran corso d’acqua: è il Torniojoki. Uno strano otto dipinto su un cartello indica che si circola a sinistra. Siamo di nuovo in Svezia. Ne avremo per quasi duemila chilometri: avrò tempo ad abituarmi a questa circolazione opposta alla nostra!! E’ strano come un semplice corso d’acqua possa dividere due mentalità, civiltà, educazione. E’ tutto diverso, qui. Con qualche parola d’inglese riusciamo di nuovo a farci capire. Alla frontiera, in dogana, meno aria di caserma…russa. Nel paese la strada è asfaltata: il primo tratto che vediamo da quando ci siamo imbarcati a Trondheim. Chioschi ben forniti vendono prodotti noti, cose europee, il cui nome richiama alla memoria la nostra casa, la nostra cucina, il nostro bagno – Persil, Cadum, Liebig o che so io. Ritroviamo la birra e ne gustiamo due generosi boccali. E’ tardi, siamo in ritardo sul nostro ruolino di marcia, ma la speranza di trovare la strada buona ci spinge avanti. La strada, anche fuori dei centri abitati, è discreta. Numerosi, colossali “Kor sacta” ossia cantieri stradali con lavori in corso per rettificare la strada che ora corre tra immense foreste. Poco traffico. Troviamo dei tratti asfaltati dove correre è veramente piacevole. Considerando l’impegno e soprattutto i mezzi meccanici usati per questi lavori stradali è facile pensare che tra qualche anno si giungerà sino ad Haparanda su una immensa, grandiosa autostrada. I lavori qui sono sollecitati anche dalla posizione strategica della zona: alla frontiera distribuiscono un avviso col divieto di fotografare per una larga fascia lungo il mare; la neutrale Svezia qui potrebbe trovarsi costretta a difendersi e da quanto solo si intuisce attraverso una perfetta mimetizzazione, si comprende che non sottovaluti questo rischio. Già in Italia avevo tempo fa letto di interi aeroporti sotterranei, sempre pronti per ogni evenienza, caserme e magazzini in profondità, con provviste per resistere mesi, soprattutto in vista di un nemico implacabile che da ottobre ad aprile potrebbe bloccare ogni rifornimento: il freddo e la gelida notte circumpolare. E’ tardi, siamo stanchi e in verità, anche leggermente “sales” per dirla alla francese e dopo dodici notti trascorse in Gelsomina decidiamo di concederci un riposo in un vero letto. A Ranea troviamo un modesto alberghetto. In pochi minuti siamo sistemati, dopo aver rapidamente trattato le modalità del soggiorno in un …. Accademico inglese, lingua che dopo la parentesi finlandese risuona quasi familiare alle nostre orecchie. Sarà poi necessario più di un ora per districare il groviglio dei nostri bagagli e cercare una sistemazione in base alle esperienze dei giorni passati. Poiché siamo in un albergo ….. Saltiamo cena. Sia perché siamo talmente stanchi da non sentire appetito, sia perché di corone svedesi ne abbiamo davvero pochine. La camera dà su un campo di calcio. Sono le ventuno e un tramonto superbo tinge di rosa l’occidente. Due squadre giocano in questa luce irreale. Composti e silenziosi gli spettatori osservano. Anch’io mi soffermo alla finestra a vedere questo spettacolo che ci avvicina alle nostre usanze. Inavvertitamente poso una mano sul termosifone. E’ caldo, anzi tiepido. Malgrado sia la sera del quindici agosto, il dì della Madonna. Con i bagagli ben sistemati, riposati, sazi di un succulento “frukost” a base di latte, uova, margarina, formaggio e marmellata, con la barba già discretamente lunga curata amorevolmente col rasoio elettrico nel tentativo di renderla leggermente accetta a Carla, partiamo ad ora discretamente tarda, malgrado la prospettiva di una tappa di circa seicento chilometri. Vorrei arrivare per sera a Sundsvall, per arrivare la sera successiva a Stoccolma. Superata Lulea, importante centro posto sul mare, uno strano rumore mi fa sussultare ogni qualvolta Gelsomina supera gli ottanta orari. Una vibrazione cupa, che non capisco dove nasca. La strada è bella, spiace non approfittarne, ma il rumore mi impedisce di toccare le alte velocità. Ancora qualche chilometro e il rumore lo si sente anche sui settanta, poi sui sessanta. Mi sporgo dal mio finestrino, sembra nascere dall’avantreno, no, viene di dietro, dalla mia parte. Con aria da-quasi-tecnico indago quale possa essere la causa. Carla mi aiuta: si sporge dal finestrino, vorrebbe fare pericolose acrobazie per identificare l’origine del rumore, convinta che venga dall’avantreno, dalla sua parte, no, forse no, forse viene di dietro, ma dalla sua parte. Se ci fosse una concessionaria Fiat nei dintorni……. Per fortuna, scartata l’idea di ritornare a Lulea, decidiamo di resistere, anzi di sperare che Gelsomina resista fino al prossimo concessionario, ad Umea, dopo trecento chilometri. Andrò piano, cercherò di tenermi sotto la velocità critica. Per fortuna, ho detto: ad un certo momento, col rumore in atto forse nel gesto di chi impensierito si tocca la fronte, sfioro il tetto di Gelsomina…… che vibra paurosamente. La causa è sul padiglione di Gelsomina, che non ne può niente, all’infuori di non avermelo detto prima. …..Sono le corna di renna sistemate sul portabagagli: la corda s’è allentata e con la velocità, ad una determinata velocità battono sulla lamiera. Bella figura avrei fatto dal meccanico, se l’avessi trovato!! Verso mezzogiorno compriamo delle fragole che un vecchietto offre sul bordo della strada. Condite col generoso Barolo che con fare da prestigiatore estraggo dal cofano della 600, formeranno il pranzo odierno, assieme alle uova acquistate in un “Konsum”, lindo negozietto di uno sconosciuto paese. Viaggio senza storia. Foreste immense, qualche laghetto, abitazioni pulite e molto decorose, qualche borgo, poche cittadine. Ancora colossali “kor sacta” che feriscono con profonde trincee la foresta. Il nuovo tracciato si stacca dal vecchio per chilometri e chilometri. La nuova strada, ampia e diritta, sovente taglia la vecchia che a paragone, sembra una piccola strada di campagna. I nuovi tratti in genere non sono ancora asfaltati, ma si viaggia comodamente su un solido fondo e su un leggero strato di sabbia: sembra che Gelsomina viaggi in pantofole. Nei tratti in cui non ci sono lavori in corso (e certe volte sono centinaia di chilometri) la strada sinuosa e non troppo ben tenuta taglia inesorabile la foresta. Su una 600 marroncino, sulla strada sinuosa, nella foresta infinita che all’avvicinarsi della sera incomincia a cambiare colore, Carla e Giorgio corrono verso Sundsvall, verso Stoccolma, verso Torino. A destra pini, abeti, larici. A sinistra larici, abeti, pini. Dobbiamo solo correre: é così lunga la Svezia! Al tramonto fermata di prammatica per una cenetta, questa volta in un locale di qualche pretesa. Ma anche questa volta non riusciamo a sfamarci del tutto. Poi ancora in macchina. E’ notte fonda quando arriviamo a Sundsvall, grande centro industriale con immense fabbriche per la preparazione della polpa di legno, acciaierie, stabilimenti chimici. Ritroviamo abbastanza traffico, che ci sembra caotico, in quanto non siamo più abituati alle strade affollate. Gli addetti ai distributori di benzina sono ormai i nostri consulenti turistici: anche qui dopo tre o quattro rischieste di informazioni riusciamo a raggiungere il camping. Sistemato su un lungo declivio che finisce in mare, fornito di discrete attrezzature, molto affollato, è come in genere i camping del Nord a disposizione dei turisti, che non devono neppure pagare quella minima tassa che si usa altrove. Tra le auto in sosta rivediamo una vettura Italiana: una Giulietta Sprint di Milano: è la prima targa italiana che vediamo dopo quella dei giovani romani prima di entrare in Norvegia. Durante la notte le sirene delle navi che entrano ed escono dalla rada accompagnano il nostro sonno. Appena fuori ritroviamo foreste, laghi, qualche campo, prati con fieno steso ad asciugare come già visto in Norvegia. In ogni corso d’acqua attraversato, portati pigramente dalla corrente, tronchi fluitati verso il mare. Sosta fuori programma in una linda cittadina dove pensavamo di fermarci pochi minuti per la spesa quotidiana….. Posteggiamo la 600 in una piazza traversata dalla strada nazionale (quella strada nazionale n.13 che abbiamo trovato ad Haparanda e che ci condurrà fino a Stoccolma) e dove confluisce la via maestra della cittadina. Lungo questa, ad ogni vetrina, ammiriamo l’esposizione delle merci più disparate esposte con una tecnica raffinata. I colossali “konsum” di alimentari in cui accanto ai cibi di nostra conoscenza s’allineano serie infinite di scatolami che imprigionano strani alimenti, destinati a rimanere misteriosi causa il prezzo. Empori di vestiti confezionati, altri di oggetti casalinghi come a stento vediamo nelle nostre città; negozi di primizie (per quassù, dove la stagione è almeno tre mesi in ritardo o se si preferisce, si hanno all’altitudine del mare le manifestazioni stagionali dei nostri milleduecento-millecinquecento metri sul mare), negozi con frutta mediterranea, la nostra frutta, che ci fa venire l’acquolina in bocca: Tutto questo in una cittadina piccola e linda, così poco importante di cui non ricordo neppure il nome. Dove, come in tutta la Svezia, le commesse ricordano le nostre infermiere, con i loro candidi camici e la cuffia in testa per impedire ai biondi capelli di mischiarsi con le merci. Dove in genere i prodotti sono già confezionati in cellofane affinché siano distribuiti con il minimo contatto di mani. Dove tutta la carta di queste confezioni finisce tutta, tutta ripeto, nei cestini appositi. E le strade danno l’impressione di essere lavate accuratamente ogni mattina. Forse sarà stata una nostra impressione che non avrà alcuna attinenza con la realtà, ma il percorrere quelle cittadine così ordinate, pulite, sterilizzate quasi, ci trasportava molto più lontano, nel nord degli Stati Uniti, dai quali, così almeno ho letto, la Svezia in questi ultimi tempi, assorbe usi e costumi. Non per nulla la Svezia occupa un posto che l’avvicina alla sua maestra d’oltre Atlantico. Consumiamo i cibi acquistati, in uno dei tanti angoli di bosco preparati per il contatto degli Svedesi con la natura: vialetti che s’intersecano nel bosco, ai bordi della strada su cui incomincia ad ingrossarsi il traffico del week-end. Questa fine settimana bloccherà tutto, tra poche ore. Appena in tempo facciamo provviste anche per domani, e son solo le quattordici. Qui i negozianti non possono, come pure i commessi, lamentarsi per la mancanza di tempo libero. Ci avviciniamo ad Uppsala e sono soddisfatto d’essere in anticipo sul ruolino di marcia. Alla famosa città universitaria arriviamo dopo ….. Spuntino, perché sarebbe irriverente per i nostri usi, usare il termine di pranzo. Fa caldo. Visitiamo la sede universitaria: le aule, la sala dei professori, l’aula magna. Una grandiosa ma soprattutto severa Cattedrale, circondata da giardini verdissimi. Numerosi i laboratori scientifici, i negozi di apparecchiature chimiche o fisiche, le librerie e le biblioteche. Per un vasto raggio attorno l’Università, Uppsala è solo una città studiosa, china sui libri e sui banchi di scuola. Da Uppsala a Stoccolma sessanta chilometri pieni di vita. Ormai il Nord è lontano. Per questo viaggio è finito l’isolamento , la solitudine. È sabato e colonne di automobili continuano ad uscire dalla capitale. Stoccolma ci appare magnifica nella luce serale, dall’alto degli arditi ponti che scavalcano i bracci di mare che dividono la città. Abbiamo ritrovato la beata indolenza dei turisti: abbiamo tempo davanti a noi e ci permettiamo di bighellonare a lungo nella bella città. il porto, con un magnifico veliero in rada; il palazzo reale dove abita il più democratico re del mondo e dove, probabilmente, il cambio della guardia a cui assistiamo è fatto per accontentare i bravi turisti che salgono fin quassù. Un palazzo Reale davanti al quale è possibile posteggiare la macchina, senza che nessuno venga ad indagare o peggio ad invitare ad allontanarsi. Possiamo goderci nella sua interezza un tramonto, non assaliti dai chilometri che ci separano dal luogo della sosta. Anche se il camping, che sappiamo esserci, ci è stato indicato molto vagamente sulla carta e ci farà perdere molto tempo per rintracciarlo. Passeggiamo in magnifici giardini mentre le ombre si allungano e il sole sta per nascondersi. Girando a casaccio capitiamo nella città vecchia, accanto alla quale sorge un complicato sistema di vie sopraelevate e sotterranee, modernissimo nodo direzionale dove, causa la circolazione a sinistra, l’oscurità che ormai è subentrata alla magnifica luce dorata di poco fa e i complicati segnali stradali, rimango a lungo imbarazzato, decidendomi ad uscire contravvenendo alle regole della circolazione. Senza conseguenze, per fortuna. Stoccolma la ricordiamo volentieri ….. Anche perché finalmente, in un milk-bar riusciamo a cenare quasi all’italiana, con tomato-suppen, cotoletta con patatine, birra e gelato. Sazi, con quella leggera euforia che prende specie all’estero quando si ha in corpo un buon pranzo e una buona razione di birra, riprendiamo a girare per Stoccolma, ora illuminata a giorno, alla ricerca del camping, continuando il duello con i bracci di mare, canali, ponti con senso vietato. Anche con la birra bevuta, mi ricordo quasi sempre di circolare a sinistra……… Domenica. Incomincia l’ultima settimana di ferie, siamo a Stoccolma, quindi a buon punto del viaggio: diluire il ritorno per i giorni che avanzano sarebbe eccessivo, anche perché preferirei riposare completamente qualche giorno prima di riprendere il lavoro. Quindi le tappe saranno di cinque-seicento chilometri, in modo da arrivare a Torino ….. Il giorno è meglio lasciarlo in bianco, perché la strada è ancora molto lunga e le incognite possono nascere ad ogni istante. Stasera vorrei sbarcare in Danimarca. Malgrado la prospettiva del chilometraggio che ci attende, bighelloniamo ancora per Stoccolma ripercorrendo l’itinerario di ieri. Finché troviamo la magnifica autostrada (tale per pochi chilometri) per il Sud: con rimpianto lasciamo la capitale e via di corsa, con foga latina, a spaventare i buoni svedesi. I quali svedesi vivono, a mio avviso, all’insegna della placidità. Anche quando guidano. Tranquilli, dietro un capo-fila, a colonne di dieci, venti vetture. Nessuno di loro cerca di superare chi lo precede. Quindi i miei sorpassi si contano a centinaia. Mi sento un torero che infilza … vitelli, immaginarie vittime da offrire alla dama del cuore. Offro queste ipotetiche vittime alla mia compagna di viaggio che resiste superbamente a questo tour de force. Ormai le campagne sono ubertose, le foreste diradano. Molte città, grandi e piccole. Sfila davanti ai nostri occhi tutta la serie di paesi col nome terminante in ping: Jonkoping, Nykoping, Norrkoping. Nuovo pranzo sui bordi della strada, poi un lungo lago ai bordi del quale gli svedesi passano le ore di riposo. Per tutto il giorno supero file di dieci o più vetture, il cui sorpasso viene effettuato in una vola sola tanto è bassa la loro velocità. Prendo un certo qual gusto a superare le macchine sulla destra, come prescritto, e poi chiudere repentinamente, con contorno di severi richiami, sia di mia moglie, sia degli impauriti svedesi … . (Nota della moglie: per fortuna delle nostre orecchie gli epiteti arrivano in svedese!) Lunga marcia d’avvicinamento attraverso la bella Svezia meridionale: foreste fittissime ricoprono le alture, belle pianure ubertose permettono una marcia spedita. Ancora fieno tagliato steso ad asciugare, qualche laghetto, il castello di Granna affollato di folla domenicale. Il tempo peggiora e verso sera si mette decisamente al brutto. Gli ultimi cento chilometri di Svezia sono sferzati dalla pioggia. Ci avviciniamo ad Halsinborg, dove chiuderemo l’immenso giro della Scandinavia; qui traghetteremo in Danimarca, la parte restante del ritorno sarà fatta su strade già percorse o conosciute buone. Arrivederci Svezia: ancora qualche chilometro di guida a sinistra, ancora un rifornimento presso una delle strane stazioni di servizio dive è possibile scegliere tra le dieci o dodici marche di benzina presenti sul mercato, ognuna presente con una colonnina. Arrivederci: saliamo sul traghetto che con breve corsa sulle acque nere, sotto la pioggia, ci porta in terra danese. E proprio sotto gli spalti del castello di Amleto, ad Elsinore, ossia Helsingor per i locali, in un camping bene attrezzato dove il guardiano ci dà il benvenuto, riposiamo, per nulla turbati degli spiriti inquieti che Shakespeare diceva abitassero nei dintorni. Rapida visita al castello di Kromborg, ossia di Amleto, poi la costa fino a Copenaghen, tra magnifici parchi di ville lussuose. Nei sobborghi della Capitale troviamo la fabbrica della birra Tuborg, industria danese conosciuta in tutto il mondo. In un cortile dello stabilimento un’incredibile piramide di bottiglie vuote. Sono immagini rapide di una corsa attraverso la Danimarca. Attraversiamo di corsa Copenaghen, poi lungo la strada per Nyborg, la solita spesa (in più acquistiamo della margarina da portare a casa, per prolungare nel tempo il ricordo del Nord) e il pranzo nel bosco sulle rive di un tranquillo laghetto. Anche qui troviamo (e vorrei proprio sapere se è il caso a farceli incontrare o se le campagne sono disseminate di angoli di pace pronti ad accogliere i passanti) rustiche panche e un tavolo verde di muschio su cui pranziamo coll’ormai collaudato menù: uova alla margarina, formaggio, frutta. Non molti giorni fa mi stupivo della sobrietà nordica: ora ne siamo noi stessi assertori. Anche se sogno in continuazione ….. Una bella peperonata con delle milanesi che straripano dal piatto. Sul traghetto del Grande Belt incontriamo due equipaggi italiani, esclusivamente maschili, che ci raccontano le loro notevoli traversie: una vettura ancora adesso viaggia con un foglio di nylon al posto del parabrezza rotto per la seconda volta e non più sostituito non capisco se per mancanza di ricambio o di fondi. L’altra, invece, ha nientemeno che fracassato l’albero motore ed oltre alla spesa della sostituzione ha dovuto attendere per più di una settimana l’arrivo del pezzo di ricambio. I componenti questi equipaggi si complimentano con Carlin, una delle poche donne incontrate sulla rotta del Grande Nord. Ad Odense la casa di Andersen ci riporta per un istante nel mondo delle favole, mentre una lunga fila di negozietti che riversano sin sulla strada le loro belle porcellane dagli alti prezzi ci riportano alla realtà. Ad Aabenraa finalmente guardo il cambio-differenziale ed il meccanico aggiunge un po’ d’olio: dopo oltre seimila chilometri. I miei timori, e Dio sa quanti ne abbia avuti, possono considerarsi superati. Ancora qualche chilometro di strada danese, tranquilla e silenziosa, poi la frontiera. Arrivederci Scandinavia, che ci hai dato tanti bei ricordi per le sere d’inverno, quando sarà lieto e nello stesso tempo nostalgico il ricordare queste giornate intensamente vissute, dall’alba a notte avanzata, anche quando e dove la notte, intensa nel senso di oscurità non viene mai. Germania: ricomincia il traffico caotico. Si procede molto lentamente tra le belle campagne dello Schleswig-Holstein, in un succedersi di villaggi dalle case ricoperte di erica. Ancor prima di Kiel la luce scompare: è meglio fermarci per tempo, in modo da poter partire presto domani per recuperare la strada che oggi non facciamo. Perché oggi non abbiamo fatto la “norma” richiesta. Preparata Gelsomina sulle rive del Baltico, carico la sveglia. Alle cinque!! Buona notte. Suona puntuale. Appena in tempo per evitare una brusca sveglia da parte della nuova Wermacht che credo abbia necessità della spiaggia per le esercitazioni estive. Dov’è andato il bel tempo dei giorni scorsi? Una nebbia bassa e fredda ristagna sul mare e sul retroterra, a tratti si condensa e gocciola come bruma di novembre. In pochi minuti togliamo il campo, ma stamane Gelsomina è tarda a partire: starnuta, sotto gli sguardi dei soldati in assetto di guerra, poi si decide: il motore parte, zoppica finché non è caldo. Riprendiamo la marcia in questa Germania così operosa: malgrado l’ora mattutina ogni attività è già in pieno svolgimento. Operai, ragazzi, donne, bimbi con cartelle portate quasi fossero zaini militari. Enormi autocarri con rimorchi, automobili di ogni classe, scooter che ritroviamo dopo tanti giorni. Kiel, Lubecca con la porta antica; qui lasciamo il Baltico, anzi per questo viaggio abbandoniamo il mare: iniziamo la traversata dell’Europa continentale. Costeggiamo la linea di demarcazione della Germania. Al di là di questo lago è la Repubblica Popolare Tedesca di Pankow, per noi vietata. A Lauenburg, proprio sull’Elba che continua ad essere un fiume storico per la storia dell’Europa, la strada sfiora il confine dove una rotabile che proviene dall’Est si inserisce sul nostro percorso. Berlino è a duecentoventiquattro chilometri. Il soldato di guardia alla sbarra di confine mi dice che la strada è transitabile, previo pagamento di pedaggio e formalità da adempiere presso i suoi colleghi dell’altra Germania. Il transito è libero su questa strada che ha tutti i raccordi con le terre circostanti profondamente arati. La tentazione è forte e per un po’ rimango imbambolato dinanzi al milite con il berretto guarnito di un’aquila, già vista ieri sul copricapo del poliziotto che m’aveva ripreso perché non avevo rallentato ad un passaggio a livello. Mentre penso a quell’aquila assolutamente eguale a tante altre viste anni fa devo anche decidere la deviazione. La tentazione è forte, ma l’idea di allungare di altri cinquecento chilometri il percorso e soprattutto l’entità attuale delle nostre sostanze ci fa savi. Niente Berlino, niente corsa all’Est. Mettiamo di nuovo la prua diretta al Sud. Corriamo nella brughiera verso Braunschweig, passiamo a pochi chilometri da Wolfsburg città che si identifica con la Wolkswagen. Braunschweig, dove pranziamo, è un’ottima scusa per scuoterci dal torpore. Giriamo quindi a lungo, a piedi, per questa antica città che non ha ancora rimarginato le sue ferite della recente guerra. Una corsa attraverso le miniere di sale di Salz-gitter, verso l’Autostrada che ritroviamo quando la fatica del viaggio sulle strade aperte della Germania incomincia a farsi sentire. Il tempo, incerto da stamane, con rari squarci di sole verso mezzogiorno, con l’avvicinarsi della sera peggiora. Dopo pochi chilometri d’autobahn incomincia a piovere. Così è più facile, vicino a Fulda, nel punto in cui avrei dovuto abbandonare l’autostrada per puntare ad est, verso Bayreuth, per una rapida visita ai luoghi Wagneriani e ritorno a casa attraverso Norimberga, Monaco, Innsbrucck ed il Brennero, è più facile dicevo prendere all’unanimità la solenne decisione. A casa, a casa: è ora di tornare alle nostre care abitudini. Andremo a vedere i luoghi Wagneriani con tutto il testo in un prossimo viaggio. Intanto continui scrosci di pioggia prima ed una nebbia fittissima che ci obbliga a viaggiare a fari accesi subito dopo ci fa sembrare ancora più saggia la nostra decisione. Seguiamo nella foschia l’Autobahn che in questo tratto ricorda (astrazion fatta per il fondo e per il traffico) le strade Lapponi ed affronta senza curve le colline ricoperte di nuovo di fitte, immense foreste. Ancora prima delle sette arriviamo a Francoforte: da stamane ci siamo digeriti settecento chilometri! Francoforte è bellissima, forse solo di sera. Le luci multicolori sono dirette solo verso gli angoli prescelti, le enormi macerie che ancora dominano anche il centro della città sono dimenticate, escluse da questa festa di luci, mentre sciabolate di fari illuminano gli immensi palazzi nuovi, modernissimi, funzionali. I grattacieli della Siemens, della AEG, di altre imprese famose. Le vetrine di tutti i negozi convincono che questa Germania è ricca, contenta, spregiudicata. Chi di noi, a più di dieci anni dalla fine del conflitto, metterebbe un lussuoso negozio in una casa semidistrutta? I tedeschi si, e il negozio, l’emporio, il grande magazzino rutilante di luce è circondato dal buio più profondo che serve a far risaltare di più le vetrine, i manichini, le merci. Un traffico enorme ma ben regolato fluisce nelle strade di questa città, tipico esempio della rinascita tedesca. Una folla circola davanti ai cinema dalle insegne fantastiche, davanti alle vetrine, lungo le rive del Meno, sui numerosi ponti che collegano i vari rioni di Francoforte. Lungo queste rive troviamo il camping ed anche questo è superlativo. Fornito di molte comodità, con un emporio di oggetti da campeggio che se avessi marchi a profusione…… Malgrado i battelli illuminati a festa che viaggiano sul fiume con gli altoparlanti a tutto volume che rovesciano note su note, pur con l’incredibile traffico di numerose, vicine ferrovie ed il rombo di innumerevoli aeroplani che vanno e vengono dal vicino campo (famoso per essere il più grande d’Europa, potenziato al tempo del Ponte aereo di Berlino) riusciamo ad addormentarci. Ne avevamo bisogno. Ancora un giretto per Francoforte, al mattino, poi via verso l’autostrada che seguiremo fino al termine, provvisorio, di Baden-Baden. Appena superato il gigantesco raccordo a quadrifoglio ci troviamo nuovamente nel traffico caotico e nello stesso tempo ben regolato dalle carreggiate ampie e divise per i due sensi di marcia. Karlsruhe, poi Rastatt, dove abbandoniamo questa realizzazione tedesca , nata senza dubbio da intendimenti militari, ma ora apprezzatissima da quanti viaggiano in Germania. L’Autobahn ci ha permesso di attraversare il Reich a una media che in altri paesi risulterebbe impossibile. Ai bordi della strada delle ragazze vendono frutta fresca: fermo e mi precipito a comperare. Susine! In breve un chilo di ottima frutta fresca sparisce, divorata da bocche che di queste leccornie quasi non ne ricordavano il sapore. Pranzo a Friburgo, poi nella sonnolenza del meriggio e nella stanchezza che incominciamo ad accusare, proseguiamo verso la frontiera svizzera, verso Basilea. Poi, sulle strade affollatissime che impongono ogni tanto delle soste nei verdissimi prati per evitare di accodarci a file lunghe come la Quaresima di pesanti autocarri, verso Lucerna. Il Brunig Pass nella nebbia ci collega con la valle dell’Aare e Interlaken, dove “prenotiamo” il camping di cui prenderemo possesso dopo una cenetta a base di pollo e una igienica passeggiata lungo la via dei “peccati di gola” dove le vetrine di numerosi negozi espongono ogni ben di Dio. Oggetti che farebbero la felicità di tanti amatori, dal fotografo al cineamatore, dall’appassionato di antiquariato al collezionista di arte moderna, dal numismatico a chi ama i capolavori di orologeria e oreficeria o semplicemente di chi voglia comprare qualche grazioso souvenir. Mia moglie accetterebbe volentieri un piatto scolpito in legno. Ancora un preparativo della nostra casetta mobile: ormai abbiamo raggiunto una praticaccia…… Peccato che siamo ormai alle porte d’Italia. E sulle rive dell’Aare, in un camping immenso e ben fornito trascorriamo ancora una notte sotto il cielo straniero ma veramente amico di un paese della bella Europa. Al mattino pioggia a dirotto: riusciamo a partire senza grave danno per i bagagli e via, verso Spietz, poi attraverso i monti, verso Gsaadt, dove troviamo il sole. Che ci accompagnerà fino a Torino e quale efficace guida ci indicherà, con i raggi del suo tramonto, la direzione di Bardonecchia dove idealmente stasera spero di concludere il viaggio, dopo esserci riuniti alle nostre famiglie, A Torino prima, e lassù in montagna, dove per qualche giorno staremo fermi. Dal Col de Pillon scendiamo verso il Rodano: siamo ritornati in paesi latini: queste acque che ancora scorrono per la recente pioggia arriveranno un giorno nel nostro Mediterraneo. Torino non dista che duecento chilometri. A Martigny colazione per noi, pranzo per Gelsomina ed ultimi acquisti con i franchi svizzeri: anche il capitolo souvenir dovrebbe essere tranquillamente esaurito, abbiamo anche ricordato lo zio che fuma sigari e il nipote che mangia la cioccolata. Iniziamo la salita del Gran San Bernardo tra frutteti carichi di albicocche: le Alpi riescono a far ritardare la raccolta di questo frutto di oltre un mese. Gelsomina è felice di trovarsi alle prese con le sue montagne, su cui si è svezzata, dove un giorno mi tranquillizzò quando sull’Assietta le chiesi cos’era capace di fare. Il motore pulsa felice verso il valico, centellinando questa buona benzina che costa solo settanta lire al litro. Nei punti panoramici più suggestivi facciamo qualche sosta per precauzione. Cantine del Praz: siamo a millecinquecento metri. Il tempo splendido ci consente un magnifico panorama sul Gran Combin, sul Velan. Dietro questi monti è Italia. Dopo un’ultima impennata, che Gelsomina supera con l’ausilio della “prima” qui usata per la prima volta dall’inizio del viaggio, perveniamo al Colle del Gran San Bernardo. Ancora qualche litro di economica benzina poi un caro arrivederci a questo colle, a cui siamo veramente affezionati e che vediamo con immutato piacere per la terza volta nelle terze ferie in comune. “Rien à declaré à la Douane? – Passé, svp. “Niente da dichiarare”, chiede a sua volta il finanziere italiano, un po’ stupito delle corna di renna. Uno sguardo ai documenti, un cenno. Carla è commossa, siamo realmente rientrati in Italia. L’avventura sta per finire, Torino è a centocinquanta chilometri. Scendendo su Aosta troviamo il caldo, il vero, quasi dimenticato caldo mediterraneo. Siamo così impazienti che decidiamo di non fermarci per pranzare. Solo due panini, per non rompere la tradizione. A San Vincent cento chilometrici separano da Torino. Incontriamo decine di vetture straniere che ritornano oltre le Alpi: fra queste, salutate con un’enfasi che senz’altro avrà fatto dubitare delle nostre facoltà i turisti, alcune vetture scandinave. A Mercenasco sono severamente ripreso dai nostri agenti della Polizia Stradale. Oh, niente di straordinario, stavo abbordando una curva alla …… Svedese. Siamo stanchissimi, ma Torino è a cinquanta chilometri. A Chivasso prendiamo l’autostrada, per arrivare prima. Al casello diamo nostre notizie. Un cartello indicatore ben conosciuto: TORINO! Siamo arrivati, attraversiamo la città, vediamo di sfuggita casa nostra, salutiamo Papà e Mamma, diamo loro i souvenir. Un bagno lungo e ristoratore ci riconcilia con la vita civile. Ripartiamo in tromba per Bardonecchia e alle ventidue, euforici, felici, commossi, togliamo dall’ansia altri genitori; da quel momento, per qualche giorno, saremo noi il centro d’attrazione di ogni discorso: la rievocazione di questo nostro grande sogno realizzato in modo magnifico, dal progetto piuttosto nebuloso e vago del diciotto luglio Grazie, Carla. Cara compagna di viaggio. Grazie Gelsomina, che hai assolto come meglio non avresti potuto il tuo compito e che, con i tuoi avvertimenti, le tue perdite d’olio, hai ricordato a chi ti guidava i tuoi limiti di vettura utilitaria, obbligandolo a quelle poche cure indispensabili che forse, dimenticate, avrebbero causato danni difficilmente valutabili.
Siamo in sosta, in riposo per qualche giorno, fino alla ripresa del lavoro. Continuiamo ad alloggiare in Gelsomina, col sistema a cui siamo oramai affezionati. Questo riposo è veramente necessario: la stanchezza incominciava realmente a farsi sentire. Da Stoccolma in avanti, ogni giorno mi sarei fermato per il riposo notturno qualche ora prima. L’ultima tappa, partiti alle sei da Interlaken, diventò faticosa già verso le dieci del mattino. Un progressivo ritorno alla vita normale con la notte ancora trascorsa in macchina. Poi anche questa stravaganza finirà e sarà la vita di sempre, il tran-tran quotidiano, ad impadronirsi delle nostre giornate. Ma il ricordo di questo viaggio, i documenti foto-cinematografici, le visioni che si evocano solo socchiudendo gli occhi, ci permetteranno di rivivere a nostra volontà i giorni trascorsi al Nord, i giorni che non mi stanco di definire belli e un po’ avventurosi. Ritorno alla normalità: non più orari strani, febbrili consultazioni di carte, opuscoli o ricerca del terreno del camping. Non più frasi in quello strano linguaggio adottato per farsi capire da gente dagli inverosimili idiomi. Carla non dovrà più fare il conto di quanto chilometri mancano a …., quanti chilometri siamo di …., quando abbiamo fatto il pieno, quanti marchi, o corone, o franchi abbiamo ancora. Dovrà solo più pensare a quante lire abbiamo ancora per arrivare al fatidico ultimo del mese. Non dovrò più stringermi al volante, quasi a richiamare Gelsomina, pari a un cavallo senza briglie, durante i sorpassi un po’ arrischiati. Non dovrò più tendere l’orecchio a tutti i rumori o scrutare la strada per evitare la buca, la pietra, la rotaia sporgente. Dovrò ritrovare la strada dell’ufficio e mi parrà lunghissima. Carlin alle prese colla casa forse rimpiangerà la sobria vita di questi giorni. Quando si rimediava al pranzo con le uova, cotte per tante volte nello stesso recipiente …. Senza lavaggi intermedi. Arrivederci Camping, scoperta felice delle ferie 1957, dove abbiamo fatto tante considerazioni, non sempre favorevoli a noi italiani e dove per la prima volta ci siamo sentiti Europei, al di sopra del concetto di nazionalità, ristretta idea che voglia Iddio possa essere un giorno veramente ed universalmente superata. Cari Camping, tutti sconosciuti eppure considerati una meta, un porto dopo una giornata di corsa, di viaggio. Dove abbiamo conosciuto la discrezione dei Nordici, l’ordine dei Tedeschi, la meticolosità degli Olandesi, la pulizia degli Svizzeri e dove abbiamo constatato nei Francesi le stesse qualità negative di noi Italiani: disordine, nessun amore per la quiete, tanto apprezzata dagli altri popoli, poco adattamento alla vita in comunità. Dimenticavo in questa rapida rassegna gli Inglesi, ammirati per la meticolosità del loro equipaggiamento, per le grandiose roulottes con cui viaggiano imperterriti su qualunque strada. Di tutti i popoli, di ogni razza abbiamo ammirato i bimbi, alcuni piccolissimi, che con gioia e serenità partecipavano a questa vita all’aria aperta, ritraendone, a prima vista, un indubbio giovamento, come quella bimba inglese che ci chiese se eravamo Cinesi o il piccolo finlandese che a Trondheim girava a quattro gambe attorno alle tende di mezza Europa. E ancora, in quei camping, molti erano forniti di grammofono o di radio e sovente nei nostri preparativi eravamo accompagnati da un motivo ben conosciuto dalle nostre orecchie. Come anche a Sodankila, al distributore di benzina, un bel momento la radio attaccò una canzone di Carosone, e la distanza, solo per un istante, sparì d’incanto. Arrivederci, Scandinavia: contiamo di ritornare, un giorno, come si spera di tornare da un amico sincero. E un secondo viaggio, ne sono sicuro, sarà il desiderio di chi una volta in quei paesi è già stato. Poiché da quando siamo stati al Nord abbiamo l’impressione d’aver visto la parte più interessante d’Europa, certo quella che è più diversa dal nostro Paese. E’ per questo che del viaggio di cui ho scritto queste note, Carla e io siamo pienamente soddisfatti. Di ogni chilometro degli ottomila percorsi. Anzi, dei diecimila chilometri, per non dimenticarsi del percorso lungo i fiordi, sulla bella nave. Quando assieme al viaggio, per tre giorni, abbiamo fatto anche una piccola crociera. Per rendere più interessante il viaggio fatto in perfetta comunione di spirito, Carla e io, con l’aiuto instancabile di Gelsomina. Ad nova itera.