Cocktail di benvenuto
Andiamo nella cosiddetta riviera Maya, nota anche come il Caribe messicano, la fascia costiera che parte da Cancun e scende verso il sud della penisola dello Yucatán. Qui negli ultimi anni c’è stato un boom turistico, soprattutto di provenienza statunitense, accompagnato da megalomania, lusso, camicie hawaiane e sedili per ciccioni. Tredici ore di aereo sono state un vero trauma, superato grazie ad alcuni film americani e alle appassionanti immagini del planisfero solcato dall’aereo minuscolo che molto lentamente si allontanava dai familiari profili europei per avvicinarsi alle sconosciute coste centroamericane, restando per molte ore (in cui per fortuna ogni tanto mi appisolavo) parallelo all’infinito oceano Atlantico. Questo buco nero di angoscia è stato prontamente dimenticato all’arrivo, perché annullato dagli odori, dal clima, dalla vegetazione, dalle persone e da tutte le altre novità che si presentavano davanti ai miei occhi. Dopo tutte quelle ore con l’ansia di cadere nell’oceano e tutti quei pranzi e cene nella vaschetta di alluminio, scoprire che erano ancora le sei di pomeriggio e dunque dovevamo cenare di nuovo mi ha frastornata, ma poi nel frattempo il pulmino ci ha consegnati alle porte del villaggio dove questi animatori felicissimi di vederci ci hanno accolto porgendoci dei cocktail con la cannuccia e la fetta di arancia e poi ci hanno portati nei nostri bungalow prenotati dotati di aria condizionata, attraverso sentieri circondati di piante e fiori maestosi e il profumo è forse la cosa che resta più in testa insieme al caldo umido, e infatti avevo deciso di mettermi un vestitino leggero, e insomma poi non ci ho pensato più che dovevamo cenare di nuovo.
Questo finché non siamo entrati nella spaziosa villetta dove si mangiava e dove ho scoperto che qualunque cosa io volessi lì c’era e mi è venuta una lieve nausea anche se, siccome era tutto gratis, non potevo dire di no almeno all’assaggio di qualche pietanza e comunque come minimo un paio di birre medie che tanto lì potevi spillartene quante ne volevi all’infinito. Il rischio in questi casi è che fai come all’autogrill quando dalle 2 alle 5 di notte ti regalano il caffè, che lo prendi, magari metti anche lo zucchero dalla bustina, ma poi dopo un sorso lo lasci quasi tutto lì, con grande incazzatura simmetrica del personale tutto, che quel caffè te lo ha preparato per poi vederlo quasi intonso nella tazza.
Durante quella sera ci hanno anche messo il braccialetto al polso che nel nostro caso era azzurro perché eravamo italiani. In quel villaggio lì, situato a una quarantina di km da Playa del Carmen, oltre a noi italiani c’erano anche i tedeschi che avevano il braccialetto grigio, i canadesi che lo avevano rosso e non mi ricordo chi che lo avevano giallo, mi sembra gli spagnoli. Con questo braccialetto ogni volta che andavi in un bar o ristorante, a qualunque ora del giorno, ti davano qualunque cosa tu gli chiedessi da mangiare e da bere. E tutto questo se ci pensi ti crea una frenesia e un’ingordigia di mangiare e bere che non ti dà tregua, e anzi alla fine mi sono meravigliata di non aver visto mai nessuno che vomitava seduto al bancone del bar (come sarebbe normale dopo aver bevuto un numero incalcolabile di cocktail) e dunque sono arrivata alla conclusione che questi barman messicani sapevano il fatto loro e magari se vedevano qualcuno sull’orlo del vomito usavano delle finte bottiglie che da fuori sembravano cachaca o gin ma in effetti erano semplice acqua, ché tanto uno a un certo punto non si accorge più di quello che sta bevendo.
Comunque io quando vado in un posto nuovo, nonostante la stanchezza del viaggio (che magari hai pure passato una notte seduta in un treno espresso), il sonno mi passa completamente e devo subito guardarmi intorno e scoprire dove sono capitata. Per questo la sera del nostro arrivo ho sfidato il jet-lag doppiando le 24 ore da sveglia per abituarmi subito all’ora locale. Al mattino dunque, mentre gli altri neo-arrivati già alle 4 avevano gli occhi sbarrati e hanno quasi graffiato la porta chiusa del bar in attesa della colazione, io alle 8 ronfavo come se niente fosse e hanno dovuto telefonarmi e attendere anche diversi minuti prima che io rispondessi. In effetti le giornate che si prospettavano non erano proprio una schifezza: la spiaggia che è come uno si immagina una spiaggia tropicale, le palme, le piscine idromassaggio, i cocktail che se non ti piacciono li lasci abbandonati sul bordo e ne chiedi un altro, la sabbia bianca finissima e fredda, le canzoni caraibiche che tutti vanno alle scuole di ballo per impararle, gli animatori che ti trascinano a fare dei giochi cretinissimi facendoti ubriacare di tequila mentre indossi un cappello messicano gigantesco e ti senti una deficiente. Invece a poca distanza c’è questa mecca del turismo che è Playa del Carmen, una cittadina invasa per metà da negozietti e bancarelle, internet cafe’, ristoranti e bar, per l’altra metà sembra che sia stata da poco bombardata e che stiano cercando lentamente di ricostruirla.
E insomma perché devo fare la snob a tutti i costi disprezzando una eccezionale settimana tutto incluso in un paradiso terrestre? È vero che gli spettacolini serali nell’anfiteatro erano tremendi e che gli animatori a volte erano rompicoglioni, ma le gioie per gli occhi non erano trascurabili e tra mangiate, bevute, bagni, letture e conversazioni con i colleghi dai braccialetti di colori diversi non ci si può proprio lamentare.
Va bene il mare cristallino, il sole cocente, le tortillas con salse piccanti, le palme da cocco diagonali, gli animatori che ti mettono la lingua in bocca in discoteca, ma qui siamo venuti anche per ammirare le testimonianze storiche e artistiche risalenti alla grandiosa civiltà maya, che ebbe il suo centro appunto nello Yucatán (dove ancora oggi vivono i loro discendenti). A tal proposito mi ha divertito molto apprendere che il nome Yucatán probabilmente deriva da “Yectean”, esclamazione che significa “non ho capito”, come rispondevano queste popolazioni agli spagnoli che gli chiedevano il nome della propria terra.
La sera del nostro arrivo, mentre gli altri dormivano, avevo ricevuto la dritta che di domenica l’ingresso ai siti archeologici è gratis: dunque si va senza indugio a Tulum, usufruendo di un pullman di seconda classe con l’aria condizionata al massimo, in compagnia di alcune galline vive e altre morte. Tulum sorge proprio di fronte al punto dell’oceano in cui al mattino sorge il sole e questa posizione costiera era sicuramente favorevole per i commerci marittimi (oltre a donare al posto un grande fascino estetico), ma poi gli si è rivoltata contro nel momento in cui sono arrivati gli spagnoli; i poveri maya con le loro piroghine sono stati immediatamente sconfitti dagli invasori, e proprio nel loro apogeo di prosperità che qui, a differenza di altre località, coincise proprio con il periodo appena precedente alla Conquista spagnola.
Ciò che colpisce maggiormente di questo sito è il Castillo, un tempio fortificato costruito a picco sul mare. Spingendosi verso l’interno nell’aria rovente si possono visitare il tempio degli affreschi, la casa delle colonne, il tempio dedicato al mitico dio discendente (una divinità metà uomo e metà ape dotata di ali e di coda di uccello, solitamente raffigurato a testa in giù) e tutte le pitture e i bassorilievi che rappresentano le infinite e paradossali divinità maya, gli animali marini e i serpenti. Per fortuna che ci si può refrigerare comodamente con un tuffo nell’ondosissimo mare e godere della piacevolissima brezza che soffia sulla costa. Avvisto un iguana pensando chissà a quale rarità, ma alla fine del viaggio mi renderò conto che è come in Italia avvistare un gatto randagio. Scavalcati migliaia di negozietti di amache e sombreri, ci beviamo una birra Corona ghiacciata sotto un ombrellone.
Non paghi, si va a Chichén Itzá, cazzutissima città maya-tolteca che dominò lo Yucatán per circa tre secoli. Come al solito le gite iniziano molto presto, e comunque già alle 6 e mezza di mattina il sole spacca le pietre, mentre alle 18 e 30 è buio pesto. Per questa visita siamo dotati di una guida (Luis, di bianco vestito e profumato di fiori) che ci racconta una marea di dettagli irrinunciabili (storia, usi e costumi, caratteristiche del posto ecc.), ma purtroppo mi addormento perdutamente in autobus.
Inizialmente visitiamo la parte più recente, che risale al periodo Post-classico. Per primo il suggestivo Sacro Cenote, un enorme pozzo destinato ad accogliere le offerte in onore di Chaac, il dio della pioggia: esseri umani e animali sacrificati, caucciù, giada, vasellame, oggetti d’oro. I cenotes in epoca maya erano importantissimi perché fornivano l’acqua necessaria alla vita delle popolazioni, acqua che si accumulava grazie al terreno calcareo. Ma c’è anche chi ha visto proprio in questo una delle cause della decadenza della città: bere acqua in cui si sono sbriciolate ossa umane probabilmente non fa benissimo alla salute.
Poco più in là appare il gigantesco campo del gioco della pelota (o sferisterio): questo gioco, chiamato in maya “pok ta pok”, era un famoso rituale legato al culto del sole, una cerimonia pericolosa in cui alla fine c’era chi perdeva letteralmente la testa. Sui muri sono incise scene dal significato religioso e mitologico, che ci aiutano anche a capire come si svolgeva il gioco. Il campo è a forma di “i”, la palla di caucciù poteva essere toccata soltanto con i fianchi, le ginocchia e i gomiti e dunque necessitava di enorme abilità, specialmente per centrare gli anelli di pietra che erano posti in alto sui muri.
Finalmente arriviamo al cospetto del tempio di Kukulcan o Quetzalcòatl, amichevolmente conosciuto come El castillo. Si tratta di una piramide alta 24 metri e dotata di 4 scalinate ornate da serpenti piumati, ognuna di 91 gradini, per una somma totale di 364 che, aggiungendo l’unico gradino del tempio, fa 365, l’esatto numero dei giorni del ciclo solare. Le conoscenze astronomiche dei maya erano avanzatissime e li avevano portati ad elaborare un calendario di estrema precisione. Oltre che salire fino alla sommità, è possibile entrare nelle budella del tempio tramite una ripidissima e umidissima scaletta, che porta ad un altare antropomorfo raffigurante un uomo semisdraiato e a un trono a forma di giaguaro.
Della parte post-classica fanno parte anche il tempio dei guerrieri, decorato di bassorilievi di guerrieri e serpenti piumati, e il tempio delle mille colonne, luogo di riunione dei guerrieri Itzá, il cui tetto è già crollato da eoni perché era di legno.
Della parte vecchia, risalente al periodo classico, fanno parte il Tempio dei pannelli scolpiti, il cosiddetto Convento delle monache, dedicato al dio della pioggia, e il Caracol, l’osservatorio astronomico da cui i maya registravano i movimenti celesti che furono alla base dei loro sorprendenti calendari, quello civile e quello religioso.
A partire dal XIII secolo le rivalità tra Chichén Itzá e le altre città guerriere si accentuarono, iniziò un periodo di declino e gli spagnoli al loro arrivo nel 1527 praticamente si trovarono nel bel mezzo di una guerra civile, cosa che non facilitò certo la conquista. Ma insomma alla fine, nonostante la strenua resistenza, ce l’hanno fatta.
Per il pranzo ci portano in un ristorante circondato da un vasto giardino con alberi di mango e palme, dove assistiamo a una danza inspiegabile in cui i ballerini si muovono portando in equilibrio sulla testa un vassoio con una bottiglia di birra semipiena e dei bicchieri. Sulla via del ritorno sono previsti: una sosta in un tanguis, ossia un mercatino indigeno dove non trovo niente da comprare anche perché i prezzi sono altissimi e tanto vale comprarli alla galleria delle nazioni della Fiera del Levante, un ragazzino grasso e bisunto che sale sul pullman per farci fotografare un armadillo schifosissimo in cambio di denaro e infine la sosta a Valladolid. La cittadina ha ancora oggi un grazioso centro di origine coloniale e i palazzi costruiti dai conquistadores; durante la sosta nella piazza Parque Francisco Canton Rosado c’è un’esisibizione di danzatori concheros, dai costumi di velluto e dalle acconciature con le piume, che sembra fatta apposta (e forse è fatta apposta). In questa città acquisto in una videoteca una pelicula dell’eroe cinematografico locale “El Santo”, usata, all’astronomica cifra di 100 pesos (circa 25 mila lire).
A parte l’ottundimento villaggesco e le visite storico-culturali, il resto è tutto mare, isole e natura.
Facciamo una puntatina a Coco Beach, nei pressi di Playa del Carmen, praticamente deserta al mattino presto, dove il mare è azzurro e sterminato. Poi, due isole da vivere: Cozumel (l’isola delle rondini), coi suoi fondali trasparenti adattissimi agli amanti dello scuba diving, e l’isla Mujeres (l’isola delle donne), famosa per le sue spiagge. Purtroppo a un sole così io non ero abituata: mi ha scatenato una reazione allergica inusitata che mi ha praticamente impedito di stare in costume per tutto il viaggio.
Ma il momento sublime è rappresentato dall’isola di Contoy: un paradiso incantevole e disabitato. Si tratta di una riserva ornitologica protetta, per cui il numero dei visitatori è limitato e ci puoi andare soltanto con una gita organizzata. Si parte da Cancun e nel tragitto ci si ferma per fare snorkeling sulla barriera corallina, che è una cosa che non avevo mai fatto lo snorkeling ed è meraviglioso. Lì sulla spiaggia le razze enormi si lasciano accarezzare e i pellicani buffissimi passeggiano e vengono sfamati, con il loro sottile collo che si deforma al passaggio del cibo. Il pranzo consiste in pesci enormi cucinati sulla brace, mentre al ritorno il capobarca Manolo (un personaggio da film) ci rimpinza di tequila e io non so cosa ho negli occhi ma mi elegge a protagonista della festa, facendomi bere l’impossibile (che con il mal di mare non è il massimo).
La sera andiamo al Coco Bongo, una terribile e pacchianissima discoteca di Cancun dove faccio le 5 ballando sul bancone del bar. Cancun sembra Las Vegas e quindi tutto quello che posso dire è solo già visto e già immaginato da chiunque. Ciò che per me resterà sempre metonimia di Cancun è una chitarra gigante fatta di lucine colorate.
E così il viaggio finisce in un battibaleno, con l’impressione di non aver penetrato per niente la vita vera ma solo la vita fasulla e luccicante che sembra quello che i turisti vanno cercando, visto che di vita vera e noiosa ne hanno già abbastanza nelle loro quotidiane vicissitudini.