Isralele, Palestina, Terrasanta?
Terrasanta,Terrasanta! (prima giornata) Sono tornato! San(t)o e salvo! Carico di sensazioni da metabolizzare con calma, di bolle nei piedi (il pellegrino cammina molto), di retrogusto di coriandolo che finirò di digerire tra un mesetto e con la consueta certezza che ti porti a casa da un viaggio; quella di essere partito con tanti preconcetti che la conoscenza diretta di cose, luoghi e persone, anche solo sfiorata, ti fa capire quanto sia deformante la lente dei media e quanto rimangano deformati i giudizi conseguenti. Ma le cose vanno maturate con calma, per cui, con una speciale macchina del tempo tornerò ad una settimana fa, al giorno della mia partenza, per ripercorrere a poco a poco la strada verso ed attraverso la Terrasanta, mentre continuerò per qualche giorno a ruminare le mie esperienze cercando di condividerle con voi. Chi mi conosce si sarà stupito della mia scelta. Pure, la voglia di vedere con i miei occhi questa terra stravolta dagli odi e dalla violenza mi ha indirizzato verso una soluzione che mi è sembrata la più corretta. Il pellegrinaggio, il gruppo di umanità varia, che con intenzioni diverse, da sempre ha cercato di approdare a quei lidi spinto da fede, passione, voglia di conquista, ricerca di sè stesso, un topos che si ripete all’infinito da duemila anni, quindi non è cosa da poco, un fatto da trascurare. Ecco quindi perchè non un viaggio in Israele o in Palestina, ma in Terrasanta. Torniamo quindi ad una settimana fa, quando alle 5 di mattina (ora a cui sono poco uso) mi dirigevo all’appuntamento dove si sarebbe addensato, come un tempo, il gruppo di penitenti, curiosi, in cerca di avventura o di spiritualità, carichi, non più di sai, fagotti, bastoni, sandali e dei pochi zecchini preparati per l’occasione, ma di telefonini, zainetti, Kway tecnologici, macchine fotografiche e pacchetti di euro da scambiare con preziose reliquie. Chissà cosa avrò dimenticato. Un paio di scarpe di ricambio, va beh, il pellegrino deve soffrire almeno un poco. I pellegrini, per loro natura temono l’ignoto, pur se lo affrontano con slancio e le descrizioni di tregenda dello spietato interrogatorio a cui verremo sottoposti dai feroci agenti del Mossad prima dell’imbarco, mettono in ansia non poche signore, timorose di non saper dare le giuste risposte agli aguzzini, se pur imbeccate con cura dai nostri mentori. Naturalmente tutto si risolve in pochi minuti di colloquio con una cortese fanciulla che ci assicura che, se ci domanda se qualcuno che non conosciamo ci ha affidato un pacchetto, è per evitare che sul nostro aereo ci sia, magari una bomba, cosa che non dovrebbe in fondo dispiacerci. Non volo più da quasi quattro anni e circondato da vocianti bimbi israeliti, mi appresto al primo impatto con il cibo kosher, come da regolare certificato allegato al vassoio. Avevo giurato di non mangiare mai in aereo e tutte le volte, la maledetta curiosità, mi ci fa ricascare; ingurgito così il primo di un’infinita serie di polli al coriandolo e curry che mi sarà compagna per tutto il cammino. Al nostro arrivo, subito la nostra guida spirituale Don Rafal, viene immediatamente bloccato e trattenuto con motivazioni tanto vaghe, quanto inconsistenti, forse perchè è polacco, forse perchè è prete, forse perchè ha sul passaporto un visto siriano. Quando finalmente, dopo un’oretta, viene liberato e sale sulla zattera di salvataggio del predellino del pulmann, un senso di liberazione coinvolge tutti i pellegrini, ansiosi di salvezza, non solo per aver avuto restituito il caro Don, ma anche per il fatto di riuscire ad arrivare in albergo in tempo per la cena. Il pulmann corre veloce lungo il mare e poi su per le colline della Galilea verso Nazareth. In questa terra, anche soltanto i nomi evocano emozioni, sentimenti, aspettative. La notte è scesa di colpo mentre i piccoli paesi scivolano alle nostre spalle. In fondo, sulle alte colline, in un cielo di stelle basse, è tutto un brillare di piccole luci, una per ogni casa, una per ogni speranza. La Terrasanta è raggiunta. Nazareth, il Giardino Fiorito, sembra il presepe lontano che facevo assieme alla mia mamma, tanti anni fa. Shalom o salam (seconda giornata). Già di per sè, calpestare questa terra, calpestata e ricalpesta-ta da migliaia di anni, da milioni di persone è una emozione, una sensazione di antico. Colline dolci, uliveti sterminati, persone gentili che ti salutano con un sorriso, ragazzi che ridono. Quanto tutto sembra lontano e distante da quanto mi ero preparato a vedere dopo anni di televisione dura. Qui in Galilea, non si avverte nulla della tensione che ci raccontano i media. La vita che vedi scorrere accanto a te è normale. I ragazzi che tornano da scuola e scherzano con le ragazze, la gente che va a lavorare, il traffico. Di ebrei in giro se ne vedono pochi, asserragliati in quartieri separati in cima alle colline, ormai quasi tutte coperte disordinatamente di case. Nazareth si è sparsa a macchia d’olio e ne occupa diverse, così il drappello dei pellegrini si sposta qua e là passando da un luogo della memoria all’altro con cura meticolosa. Dal monte Tabor, immerso negli ulivi, una grande vista fino alle montagne del Carmelo, sempre , nutriti, abbevarati, trasportati e coccolati in quanto una delle poche fonti di reddito, i pellegrini passano da un luogo all’altro, dove la devozione ha situato i momenti fondamentali dei Vangeli. La fontana di Maria, la casa di Giuseppe, il luogo dell’Annunciazione, dove puoi vedere strutture dei primi secoli o di epoca crociata, quasi tutti, disperatamente ricoperti da colate di cemento della moderna devozione che deve mediare la celebrazione grandiosa, la meditazione intima, la logistica organizzativa. Nel piccolo museo, oggetti di tutte le epoche, qui basta scavare e viene fuori di tutto. Tutto sotto assedio dei mercanti del tempio, che però devono pur campare, anche se vendono l’autentico vino delle nozze di Cana. Autisti, venditori di souvenir religiosi, produttori di rosari di ulivo, laboratori dove si lavora il legno, tutta gente che vive in pace e vorrebbe solo continuare a farlo senza problemi, in pace. Salam aleikun, shalom alek, pace a noi tutti; due lingue gemelle, due popoli gemelli, forse la gente comune vuole solo vivere in santa pace. Camminare sulle acque (terza giornata). Di fronte al mare di Galilea, il monte delle beatitudini si adagia verde, coperto di macchie di ibisco, punture rosse a ravvivare la memoria. Da qui è partito un messaggio deflagrante, talmente nuovo e dirompente da sconvolgere il pensiero filosofico che lo aveva preceduto, da condizionare ogni pensiero futuro. Il concetto di dare spazio a chi è ultimo nella vita e fare agli altri ciò che si vorrebbe fosse fatto a te, avrebbe dovuto fare strame di ogni pensiero precedente; il solo seguirne il profumo avrebbe dovuto risolvere per sempre il problema della convivenza umana. Il bello è che quasi tutta l’umanità che ha vissuto dopo quel momento, si ispira a questi due concetti, li ha fatti suoi e li ritiene fondanti per il consesso delle genti. Dozzine di pulmann carichi di pellegrini, si fermano qui ogni giorno per rafforzare questo concetto, per parteciparvi, per sentirsene parte viva; poi se ne torneranno a casa, tutti coi santini e le pietre del lago in valigia, qualcuno magari ad organizzare qualche ronda, qualcun altro a dire che non è certo razzista, ma che certa gente, per cultura e religione inferiore, è portata a violentare le donne e dovrebbero tutti andarsene a casa propria. Ma sul lago di Tiberiade la barca di Pietro scivola lenta, magari con tanto di alzabandiera e inno di Mameli, poi , Un Italiano Vero e musica locale a base di Shalom; con il ragazzo che suona la tabla e la mamma che distribuisce il certificato di traversata del lago sulla copia autentica della barca di cui sopra. Bisogna pur vivere. Al ristorante, i pesci, miracolosamente moltiplicati, sanno un po’ di fango, come tutti i pesci di lago, ma non si riesce a rimanere esenti dal fascino del luogo. Un gruppo di soldatesse in libera uscita sciamano festose, allegre lungo il pontile. Mi raccomando, non fotografare. Come immaginare queste ragazzine scherzose, che correndo si tirano i capelli, domani, con un mitra in mano, a perquisire un’auto ad un posto di blocco. Eppure quante ne vedremo nei prossimi giorni. Poi giù lungo il Giordano, un rivolo di acqua fangosa, aspirata, contesa, rubata e spartita tra i campi assetati di Giordania e Israele, attraverso la Samaria sempre più secca ad ogni kilometro, dove compare, ad arricchire i cespugli spinosi del deserto, il filo spinato dell’odio e della prevaricazione. Un veloce bagno medicamentoso, nel fango del mar Morto, panacea benefica per la mia discopatia e per le mie rughe di espressione; poca cosa, ma che bello vedere, alto sulla riva opposta, il nitido biancore del santuario del monte Nebo, dall’alto del quale avevo guardato in basso trentacinque anni fa. Poi fermi nel deserto di Giuda, tra i calanchi ocra nelle sfumature del tramonto, a compiangere Jerico, la città più antica del mondo, dove da dodicimila anni vivono persone, circondata, offesa, violata, imprigionata da posti di blocco e filo spinato. Ancora un balzo per salire dalla più profonda depressione fisica del mondo, per arrivare a Gerusalemme, la Santa, forse a sentire un’altra depressione.
“Ed ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme! ” (Salmo 121 ) Le mura, il muro, i muri (quarta giornata). Yerushalayim, al-Quds, Gerusalemme la Santa. Le sue mura imponenti, illuminate la notte, severe di giorno, abbattute e ricostruite sempre più alte e come tutti gli inutili muri del mondo nuovamente distrutte e rifatte, cingono un grumo di luoghi storici in perenne conflitto tra loro, alla ricerca di una supremazia impossibile, ma bramata con violenza. Dalla spianata delle Moschee, si dominano le valli circostanti ed in fronte, il Monte degli ulivi, cosparso di monumenti a segnare ogni punto sensibile della storia, fa da controcanto, perchè non si dimentichi mai che quando si assiste al trionfo di un pensiero religioso, gli altri due sono comunque sempre presenti e contrastanti. Lo stordimento architettonico non sopravanza quello spirituale; comunque l’ammirazione per l’armonia delle forme viene temprato dalla devozione di chi si avvicina per colloquiare con il suo Dio. L’oro della Moschea della Cupola della Roccia brilla nel sole a contrasto con quella nera della Moschea al-Aqsa, mentre la notte per uno strano fenomeno di illuminazione, il tutto si inverte come per magia. Ci arriviamo dopo una estenuante coda di controlli e di posti di blocco, poi il piacere di rimanere soli con la storia. Discesi appena sotto, ecco l’altro Muro, dove si affastellano i fedeli del Dio antico, a festeggiare il Bar Mitzvah dei loro ragazzi, mentre da fuori, madri, sorelle e zie lanciano dolcini e monetine e gridano con sonorità magrebine. E vicino all’alto muro, tanti personaggi in nero, col cappellone ed i boccoli che scendono al fianco delle orecchie a pregare con movimento ritmico, in un colloquio solitario col Muro stesso, in cui infilare il bigliettino. Chissà perchè ai credenti di ogni religione, i riti e le gestualità delle altre religioni sembrano sempre ridicoli o fastidiosi. Cristiani che si chinano a baciare la pietra del Calvario o strusciano i foulard sul sepolcro, motteggiano le litanie e l’abbigliamento degli ebrei ortodossi, che a loro volta sono infastiditi dal richiamo alla preghiera del Muezzin, i cui fedeli deridono l’attaccamento alla Croce dei loro nemici storici. E infine all’interno di ogni luogo santo, che spettacolo, la litigiosa spartizione in metri quadri di ogni piccola variante di fede, così come il cantare più forte degli altri col solo fine di disturbare i vicini e per convincere la divinità ad ascoltare le proprie preghiere in precedenzaa quelle degli altri. In Gerusalemme ci sono quindici diverse varianti di Cristiani (6 ortodossi, 7 latini e 2 protestanti) tutti in antagonismo tra di loro a disputarsi anche fisicamente, spazi e offerte dei fedeli che arrivano da tutto il mondo. Chi non ricorda le bastonate tra i santi monaci ortodossi e copti alla Natività per uno sgarro di invasione dell’area di pertinenza. E nel cortile del Santo Sepolcro, che tenerezza il monaco Melchita che correva da un annoiato drappello di soldati israeliani a protestare per un presunto sgarbo dei Maroniti, intervento ovviamente negato con sufficienza. All’interno del tempio tuttavia, il fervore dei visitatori infonde grande partecipazione. Il desiderio di toccare le Sacre pietre, i luoghi del Mistero, i punti dove sono accaduti i momenti fondamentali riportati nei Vangeli, forma lunghe file affannate. Poca differenza dalla folla del tempio di Puri in Orissa, dalle puje della città templare di Tiruchirapalli nel Tamil Nadu o dalla devozione fisica e ritmata del Jokang di Lhasa o dei tanti altri luoghi della devozione che ho visto sparsi per il mondo. Il desiderio di avvicinarsi alla divinità è uguale sotto tutti i cieli e le formalità si sovrappongono. Ma dopo le mura ed il Muro, altri muri ci aspettano oggi. Quelli nuovi, alti anch’essi otto metri, ma più grigi, più ruvidi, rinforzati dal filo spinato e dai cavalli di Frisia, per uscire da Gerusalemme ed arrivare a Betlemme, pochi kilometri di slalom tra i posti d blocco, per arrivare a quella che più che una città è un campo di concentramento in cui è lungo entrare, ma è molto più difficile uscire per chi ci vive e non può lavorare o andare a cercare lavoro, come se tutto fosse calcolato per aumentare la tensione, per incattivire gli animi, per inasprire i contrasti, per dare mano e vigore ai fondamentalismi. Ormai qui solo i pellegrini portano soldi e aiutano un po’ una economia esangue. Quindi volentieri si comprano i soliti souvenir inutili, ma prodotti dalle cooperative locali, compresa la polvere magica della grotta del Latte che fa rimanere incinte le signore con problemi (attenzione alle non interessate). E la conoscenza di persone di grande interesse come le vecchissime e malandate suore di un istituto, che invece di essere a loro volta ricoverate in luogo di riposo, raccolgono orfani, malati mentali e fisici, anziani bisognosi e non domandano a nessuno a che religione appartengano. E tanta gente allegra e spiritosa, con tanta voglia di fare, che ci ha detto “Se non ridessimo molto, saremmo già tutti morti di depressione.” Poi però si torna dall’altra parte, si ripassano i muri, ricoperti di murales con colombe della pace a forma di bersaglio, i reticolati, i posti di blocco, coi ragazzi soldati che ti guardano col mitra in mano, domandandosi cosa ci andiamo a fare da “quella” parte. Gerusalemme brilla solitaria la notte, solo il Muro del pianto è popolato ancora di nere figure dai grandi cappelli neri che ciondolano ritmicamente.
Venerdì o sabbath? (quinta giornata) Il Monte degli ulivi è tutto un ribollire di genti che passano da un luogo all’altro, una processione senza fine che va dalle cupole dorate della chiesa ortodossa agli ultramillenari ulivi dell’orto del Getsemani. Un amico di cui vi parlerò domani, sta organizzando una clonazione di un milione di alberelli di ulivo all’anno provenenti direttamente da questi alberi, da far arrivare ai cristiani di tutto il mondo. Il business non si ferma mai, ma se ha un risultato utile, perchè no? Ne riparleremo. Poi entrando dalla porta dei Leoni, è ancora Gerusalemme, facendosi largo tra i mussulmani che stanno andando alla spianata delle Moschee. Oggi è venerdì, tocca a loro; la città è percorsa da un fremito islamico. Le famigliole se ne vanno a pregare, le ragazze sul velo esibiscono paillettes, i posti di controllo dei militari israeliani sono più rigidi e frequenti. Si alza forte la voce dei Muezzin, ora tocca a questa lingua di essere ascoltata lassù. Il souk è in fermento esalando odori di spezia, colori di frutta, sapori di kebab e falafel in ogni angolo. Che voglia di normalità. Si percorre adagio la Via Dolorosa, dalla Flagellazione all’Ecce Homo, lungo le stazioni della Via Crucis, tra piccole cappelle mescolate ai negozietti di vestiti o di casalinghi, una commistione millenaria che concentra gli affari dove transitano i pellegrini. E’ storia di ogni mondo e di ogni epoca. Fino all’apoteosi del climax del Santo Sepolcro di cui ho già detto. Città di occidente coi sentori dell’oriente, città di religione con la sua concentrazione di preghiere, di devozione e di luoghi simbolo, città di guerra con le sue insanabili divisioni, mantenuta stabile con le armi, impugnate o anche solo mostrate ad incutere timore. Poi a poco a poco scende di nuovo la sera, mentre ci godiamo una delle più belle viste della città illuminata dalla terrazza di un collegio francescano, che naturalmente ha tra i suoi allievi almeno la metà di mussulmani. La festa dell’Islam è finita e con il calar del sole comincia il Sabbath ed è allora festa per un’altra fetta di città. Che complicazione. Qui l’affare si ingrossa, perchè gli ebrei sono parecchio osservanti. Vanno ancora ad augurare la buonanotte al loro Muro e poi via di corsa al riposo sabbatico. Già in albergo la qualità dei servizi cala vistosamente, a cena, presenza minima e cibarie approssimative. Tutto si ferma per 24 ore e tutto diventa buio, non si deve neanche accendere la luce. Lo sapevate che c’è un ascensore apposta per ebrei che, al sabato, parte e ferma automaticamente ad ogni piano, in quanto schiacciare il bottone è considerato lavoro? Olio extravergine (sesta giornata) Oggi ho conosciuto un personaggio staordinario. Ancora una volta (quante volte!) muro e reticolati, poi il pulmann si arrrampica sulle colline della Giudea, coperte ancora per poco di pallido verde. Ancora qualche curva, poi tra gli uliveti, ecco Taybéh, l’antica Efraim dove secondo il vangelo si rifugiò Gesù. E’ un villaggio arabo cristiano da duemila anni e la prima cosa che chiarisce padre Raed a chi si stupisce di trovare qui una comunità cristiana assediata dall’Islam, è proprio che loro sono stati i primi cristiani in assoluto, noi caso mai, discendiamo da popoli convertiti successivamente, e che non c’è alcun tipo di difficoltà con i vicini mussulmani, con i quali hanno convissuto pacificamente per 1300 anni. “Se in Europa avete un attrito con i musulmani, non pensate che anche qui ci siano questi problemi; i giornalisti vengono, carichi dei loro preconcetti, poi io leggo gli articoli che scrivono al loro ritorno e mi accorgo che non hanno capito niente della nostra reale situazione” insiste. Non è certo un semplice prete di frontiera, come può apparire al primo impatto, ma è stato per anni segretario del Patriarcato di Gerusalemme e conosce bene il mondo, ma ha voluto tornare qui, nel paese dove è nato e che stava morendo, economicamente strangolato dal blocco israeliano, dove gli abitanti si erano ridotti in pochi anni da 4000 a 1200 persone, obbligati ad andarsene, come i loro vicini mussulmani, per poter sopravvivere. La ricchezza del paese sono 30.000 ulivi, ma l’olio che producevano da millenni, non poteva avere mercato e lui appena giunto in paese, dove comincia a riorganizzare la scuola, viene pagato dalle famiglie con bidoni di olio che si ammucchiano in magazzino e di cui non sa cosa fare. Ma Padre Raed è molto sveglio, crede in questa terra ed in questa gente, mette in moto tutti i suoi contatti e in poco tempo riesca a fare accordi con diverse catene di supermercati francesi. Sapendo che con una minima possibilità di reddito, l’emorragia si fermerà, crea una cooperativa locale e grazie anche a qualche aiuto che arriva, costruisce un moderno frantoio e adesso l’olio extravergine palestinese di Taybeh, profumato e delicatamente fruttato, se ne va per tutto il mondo e a poco a poco si porta dietro altro: i prodotti tradizionali dei vasai, lanciando le lampade della pace a forma di colomba con gli altri tradizionali articoli di artigianato e lo straordinario cous cous palestinese, scuro e saporito, presente in molti negozi del commercio equo e solidale (quando Israele consente che possa passare la frontiera). Così riparte la scuola (che vedete nella foto di apertura), dove ci sono più di 600 allievi, in buona parte mussulmani che arrivano dai villaggi vicini, perchè è da piccoli che comincia il rispetto dell’altro. Il coro della scuola, composto da ragazzi ebrei, cristiani e mussulmani nel 2006 ha girato l’Europa per dimostrare che alla gente interessa convivere in pace. Infine l’ultima realizzazione, la casa di riposo per anziani , funzionante da pochi mesi. L’emorragia degli abitanti si è fermata, anche se i potenti vicini non sono molto contenti. Le iniziative fanno tutte utili e danno lavoro e reddito a decine di famiglie del paese che ne beneficia poi nella sua totalità. Tutto questo in soli cinque anni. Padre Raed (che in arabo vuol dire Pioniere) è un vulcano di iniziative, una ne pensa e l’altra finisce di realizzarla, sempre in anticipo sui tempi previsti. Ma sì avete capito, è sua l’idea della clonazione degli ulivi del Getsemani da vendere a tutto il mondo di cui ho parlato ieri, e di chi se no! E state tranquilli che ne sentirete in giro presto. Lui chiede solo di fare conoscere le sue iniziative, attirando turisti per moltiplicare i contatti. Ad un religioso che gli faceva notare che a Lourdes avevano sette milioni di turisti all’anno perchè la Madonna vi è apparsa diverse volte, lui candidamente rispondeva, che lì potevano offrire nel pacchetto non solo Lei, ma anche tutto il resto della famiglia. Naturalmente non è mica appeso al pero, è molto informatizzato come potrete vedere dando un’occhiata al suo sito (http://www.Taybeh.Info/) , con annesso forum di discussione e negozio virtuale (eheheh, metti nel carrello!) dal quale si possono acquistare direttamente tutti i prodotti della cooperativa, dall’olio, ai saponi, agli altri prodotti di artigianato. Se gli scrivete ne sarà molto contento, perchè quello che gli interessa maggiormente è far conoscere le sue iniziative. Naturalmente potete farlo in italiano che, come ovvio, è una delle cinque o sei lingue che parla in modo assai forbito. Quale sono i suoi problemi? Ufficialmente ti dice che non è ha, poi abbassa un po’ l’occhio e ti spiega che, ogni tanto, arriva un foglio che comunica che “per ragioni di sicurezza” viene requisita una collina del territorio del villaggio. In pochi mesi le ruspe e le betoniere fanno sorgere una bella colata di villette a schiera e si insedia un gruppo di coloni ultranazionalisti, poi ci fanno un bel muro intorno, i reticolati lungo tutta una bella strada nuova che va a Gerusalemme e dalla quale non si può più passare. Così i ragazzini che venivano a scuola dal paese vicino facendo due kilometri adesso devono farne trenta. Oppure ogni tanto ti tolgono l’energia (elettrica) o ti bloccano le spedizioni di merce alla frontiera per qualche mese. Ma l’altra energia, a Padre Rael non la tolgono e lui continua a ridere e a raccontare storielle (sì è lui che diceva che i Palestinesi sono molto allegri per non morire di depressione). Mi raccomando, scrivetegli, sarà contento e magari anche voi, dopo. Noi intanto, dopo aver visto i resti della chiesetta di epoca crociata e una casa tradizionale palestinese del diciassettesimo secolo, uguale in tutto e per tutto a quelle di duemila anni fa, da cui si capiscono molto bene certe descrizioni evangeliche, altrimenti difficili da interpretare (la grotta, il bue e l’asinello e così via) riattraversiamo il muro e il filo spinato col soldato che chiede cosa siamo andati a fare di là.
Datteri freschi (settima giornata). E’ l’ultimo giorno. Sapore di datteri freschi a colazione. Che deliziosa sensazione, questi grossi bacherozzi dalla pelle traslucida ed umida che si apre sotto i denti mentre esce la polpa morbida, dolce ma non troppo, ruvida e carnosa. Un frutto antico come questa terra che sto per lasciare, bella e quindi ambita da molti, fin dai primordi. Qui, nella mezzaluna fertile, è nata l’agricoltura e con essa la voglia di appropriarsi della terra dell’altro, della sopraffazione giustificata da ragioni superiori, dalla ragione dettata da chi è più forte, dalla rabbia incontrollata di chi è più debole, magari anche per questo facilmente manovrabile. Tutti la volevano, gli Egizi e gli Iksos, i Babilonesi e gli Ittiti, tutti a spese di quelli che già ci stavano, tribù nomadi e stanziali, che avevano solo la colpa di stare a casa propria in un bel posto. Percorriamo per l’ultima volta la città Santa, le sue mura orgogliose e passiamo a Meah Shearim, il quartiere ultraortodosso, ben sveglio dal mattino presto dopo il giusto riposo del sabbath, dove è tutto un correre indaffarato di questi personaggi nerovestiti, un po’ folkloristici con le grandi barbe ed i boccoli che scendono al lato delle orecchie, delle donne infagottate con schiere di bambini (cinque sono il taglio minimo obbligatorio, altro che diatribe sul preservativo!), tutti sempre di corsa come se stessero per perdere il treno. Non devono trastullarsi in impegni futili come il lavoro, dice il loro credo; anche i bambini non devono perdere tempo a giocare inutilmente, hanno infatti la faccia un po’ stranita, poveracci. L’unica occupazione dei maschi adulti è lo studio dei testi sacri e della Kabbalah, la teoria numerologica che vede nella corrispondenza tra numeri e lettere dell’alfabeto una complessa spiegazione di tutta la spiritualità e non solo. Ci sono vecchi saggi che hanno dedicato la vita al tentativo di spiegare perchè la Bibbia inizia con la lettera B invece che con la A. Così è la vita. Costoro e le loro famiglie, vengono mantenuti completamente dallo stato ed hanno una notevole rilevanza politica, formando il nerbo dei partiti estremisti ultraortodossi che hanno per costituzione, un numero di seggi garantito nella Knesset e udite udite, diritto di veto su molti pronunciamenti del Parlamento stesso. E’ chiaro quindi che qualunque governo deve fare i conti con questi scomodi personaggi, che essendo certi che la terra di Israele è stata loro promessa da Dio in persona, non sono molto disponibili a dividerla con nessun altro, anche se lì ci sta da duemila anni. Come già aveva fatto a suo tempo il re David conquistando Gerusalemme nel X secolo a.C. E cacciando i precedenti abitatori, costoro sono certi di essere nel giusto, ritenendo che questa gente deve andarsene, non interessa dove, o anche semplicemente sparire, levarsi di torno per non intralciare il disegno divino. Questo è forse uno dei tanti motivi per cui questa gente in questa terra difficilmente potrà trovare la pace che vorrebbe avere. Poi ancora la località di Emmaus e gli affreschi splendidi della basilica crociata, per un ultimo pensiero prima dell’aereo. Bisogna ragionare adesso, fare decantare le sensazioni. Maledizione, ci sono cascato ancora una volta ed ho mangiato tutto il pollo al curry della vaschetta. E’ già passata una settimana ma mi rinviene ancora il gusto di coriandolo. Riassumendo (fenomenologia della Terrasanta) Adesso è il momento di ruminare con calma tutto quello che ci passato davanti agli occhi in fretta, sempre troppo in fretta per poterlo soppesare con la giusta considerazione. Cosa ci si porta a casa dopo un viaggio? Immagini, informazioni, oggetti, ricordi, considerazioni. Se si è partiti con la voglia di capire, se si è tentato, certo solo tentato, ma la buona volontà conterà pur qualcosa, di lasciare a casa i preconcetti; se si è cercato di accoppiare le informazioni alle cose viste, alle sensazioni; se si è fatto il tentativo di scavare almeno un poco sotto la superficie dell’apparenza, credo che si sia partiti almeno col piede giusto. Avere un risultato credibile, certo è molto più difficile. Quindi riassumendo, ho visto un paese, Israele, apparentemente tranquillo e vi faccio grazia della classica frase: è un paesi dai grandi contrasti e dalle mille contraddizioni. Scemenza tipica che si adatta anche a Castellazzo Bormida. Quando ci sei, non puoi muovere passo senza sentirti inseguito dalla storia o dalla spiritualità a seconda del tuo sentire. Ogni pietra è carica di passaggi, di mani che l’hanno toccata, di piedi che l’hanno calpestata. Tutto questo è sempre presente e ti insegue anche se vuoi soltanto gustare un paesaggio. La durezza del deserto, le colline fertili, la piana coltivata da chi riesce ad accaparrarsi l’acqua, i paesi corrosi dall’isolamento e dal desiderio di sopravvivere, le città presidiate a scacchiera da chi si richiama allo spirito e tiene comunque un occhio fissato verso il flusso di denaro che arriva col pellegrino, i giovani, che hanno voglia di ridere e scherzare e di avere un futuro. La compagnia dello straordinario biblista, Padre Marcato, che ha saputo sottolinearci con una competenza sottile e profonda i molti aspetti delle realtà non soltanto spirituali con cui siamo venuti a contatto, squarciando il velo di Maja della superficie, per farci vedere anche qualcosa di quanto sta sotto, è stata un aiuto indispensabile all’assunto iniziale, il tentativo di capire e per questo lo ringrazio di cuore.Isrele, Palestina, Terrasanta anche i nomi, che in fondo definiscono lo stesso luogo, si rivestono di significato ben più profondo del loro topos geografico. Tre religioni sorelle ma poco disonibili a trattare, due popoli gemelli che sognerebbero la sparizione dell’altro come soluzione a tutti i problemi, la gente comune che vorrebbe soltanto vivere in santa pace. Ancora una volta il concetto più forte che mi porto a casa e quello che la certezza di essere nel giusto senza nutrire il dubbio, di essere portatore della verità assoluta, che richiede comportamenti conseguenti, è una delle dannazioni dell’uomo, è il fondamento della violenza inestinguibile che ritorce su sè stesso. Avete ragione, non è una gran pensata, potevo anche starmene a casa per avere questa illuminazione, ma assieme alla polverina che fa avere figli, alla pietra del lago di Tiberiade, al rosario di ulivo, alla crema al fango del Mar Morto e al cous cous di Padre Raed, mi pare importante averla ben marcata nella mente. Cosa comune a molti luoghi, certo, qui, un po’ più gridata che da altre parti. Avrei voluto capire qualcosa di più, ma credetemi è difficile; intanto adesso cerchiamo di farci amici tutti e poi devo mettere in ordine le fotografie, ci penserò più tardi.
Enrico Bo enricobo2@tin.It