Guatemala e Honduras 2 parte

IV giorno – Sabato 28 giugno 2003 Mi risveglia, di prima mattina, il chicchirichì di un gallo. Caspita ! Non mi succedeva dal 1990, a Faro, in Portogallo. Mi piace questo fatto e rifletto di come sia una cosa rara, al giorno d’oggi. Il gallo continua a cantare, mentre fuori è ancora buio e io decido di riaddormentarmi visto che il calore...
Scritto da: geutimes
guatemala e honduras 2 parte
Partenza il: 25/06/2003
Ritorno il: 12/07/2003
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 1000 €
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IV giorno – Sabato 28 giugno 2003 Mi risveglia, di prima mattina, il chicchirichì di un gallo. Caspita ! Non mi succedeva dal 1990, a Faro, in Portogallo. Mi piace questo fatto e rifletto di come sia una cosa rara, al giorno d’oggi.

Il gallo continua a cantare, mentre fuori è ancora buio e io decido di riaddormentarmi visto che il calore delle coperte è assoltamente piacevole.

Ma il gallo continua a cantare, e ora è quasi un fastidio. Nel dormiveglia odo anche un cane abbaiare. “Se il cane azzannasse il gallo …” penso.

Comunque mi riaddormento.

Ci svegliamo, infine, verso le sette, naturalmente, e facciamo colazione con i muffin acquistati nella panetteria della via principale ieri sera.

Alle 8.00 siamo pronti ed usciamo alla volta del lago per l’escursione in barca delle 8.30.

Lungo la strada decidiamo di comprare del pane per il pranzo e andiamo in una panetteria in una strada trasversale dove, per 2,35 Q, acquistiamo da una ragazzina tre panini e quattro dolcetti secchi.

Raggiungiamo infine il lago dove Cornelio ci vende l’escursione per 50 Q a testa. Alle 8.40 salpiamo, con la barca piccola perché siamo in pochi, alla volta di San Pedro.

Sul natante ci sono anche due italiani, di Ancona, quattro Guatemaltechi, due forse tedeschi e una donna in stato di gravidanza avanzata, probabilmente Americana, con il marito ed un altro bambino.

Il tempo è variabile, il cielo coperto, con il Sole che di tanto in tanto compare tra le nuvole.

Il tragitto dura circa 1 ora ed è veramente piacevole. Il lago è circondato da monti che si tuffano ripidamente nell’acqua, e da tre vulcani. Le loro pendici sono verdissime, di un verde estremamente vivo ed intenso. Si vede anche qualche piccolo villaggio e qualche casa isolata. L’acqua è assolutamente tranquilla.

Il Guatemalteco che mi siede a fianco mi chiede di dove sono e quanto costa la “camerita”con la quale sto facendo delle riprese. Gli rispondo 600 o 700 €, anche se costa di più; inoltre mi chiede dell’euro, e vuole sapere se ho con me alcune monete, ma non posso accontentarlo. Lui è di Quetzaltenango.

Avvicinandoci a San Pedro, vediamo delle zone in prossimità della costa, coperte da bambù. Inoltre, fatto che ci sconcerta abbastanza, diversi nativi si lavano e lavano i panni nelle acque del lago.

Finalmente attracchiamo.

Abbiamo un’ora ed un quarto.

San Pedro è un insieme di edifici e baracche attorno ad una strada ripidissima che porta verso uno spiazzo dove è situata la piazza centrale e la chiesa.

Mi stupisce come su quasi ogni edificio ci sia una scritta inneggiante a Cristo o a Dio, del tipo “Dio ti salva” o “Cristo ti ama” e così via. Sono veramente ovunque. Leggo sulla guida che le chiese evangeliche di stampo anglosassone sono molto diffuse qui, stabilite nell’ultimo decennio su mandato statunitense: di fatto sono un mezzo di controllo delle masse più povere che vengono in questo modo distratte dai problemi di questo mondo con promesse per l’aldilà. Lo stesso Rios Montt è il leader di una di queste sette. Qui questo effetto è veramente tangibile.

Nella zone del porticciolo sostano i soliti venditori nativi.

Oggi è un giorno di festa (che sia S. Pietro ? a Milano verificherò [effetivamente il 29 giugno, cioé l’indomani, è S. Pietro e Paolo]). C’è il mercato, per il quale anche i Guatemaltechi della barca scopro che sono venuti. Gli spazi per muoversi in questi stretti cuniculi ripidi sono angusti e si percepisce una generale atmosfera di sporcizia e degrado, probabilmente creata dalla grande confusione e moltitudine di persone, che penso ci lasci un’idea eccessivamente negativa.

Nella piazza principale, dove giungiamo con un certa fatica per via della calca, vediamo uno spettacolo curioso: ci sono dei danzatori locali, avvolti in costumi blu, oro e altri colori, con delle pittoresche maschere in legno sul volto, che si dimenano al ritmo allegro prodotto da un’orchestrina di suonatori di xilofono ed ottoni. Inoltre, c’è un personaggio il cui costume è verde, e che indossa delle corna di bue, che sembra essere il protagonista della scena. Non conosco il significato di questa danza.

Andiamo dentro la chiesa locale che mi incuriosisce e mi suscita un certo disagio perché, sebbene sia indiscutibilmente un edificio di culto cristiano, ha in sè degli elementi che sento essere estranei alla nostra ritualità. Sulle guide si legge che i nativi di questa zona mescolano culti maya precolombiani al cristianesimo, e questo credo che qui si percepisca.

Torniamo verso il porto, passando sotto la giostra, una grande ruota panoramica, a fianco alla chiesa, e districandoci tra le fittissime bancarelle.

Claudia s’intrufola nell’albergo vicino all’imbarcadero, in cerca di un bagno.

Ci sono anche degli occidentali, mischiati ai nativi, che vivono qui o, semplicemente, studiano lo spagnolo. Sono conciati peggio dei nativi e vendono qualche oggettino ai turisti.

Mi metto la crema perché il Sole mi sta ustionando.

Tanta confusione, odori e colori, ma anche qualche puzza: l’impressione generale è quella di aver scovato la povertà che a Panajachel non traspare.

In attesa della barca, sediamo nei pressi del molo, dove alcuni locali trasportano taniche di carburante, sempre caricandoli sulla schiena e tenedoli con un laccio attorno alla testa. Qua e là vagano alcuni Italiani randagi.

Ci reimbarchiamo e ripartiamo, questa volta diretti verso Santiago Atilan, il più grande e anche turisticamente allettante dei villaggi attorno al lago Atitlan.

Il tragitto, della durata anch’esso di un’ora, è simile al precedente. In più noto dei pescatori che, su piccole barche squadrate in legno, buttano i loro fili da pesca.

Santiago ha la stessa struttura di San Pedro, solo ha le strade un po’ più larghe, è molto turistica e la prima parte della strada in salita dal porto alla chiesa è circondata da botteghette di artigianato locale.

Compriamo un cocco da bere per 2 USD.

Una vecchia cerca di venderci non so cosa e non ci molla. Alla fine le diamo il cocco vuoto che lei si prende, forse per mangiarlo.

Raggiungiamo la chiesa che da su una piazza ampia con al centro un grosso crocefisso. Di lato vedo una sorta di tendone con dei calcetti e dei giochi elettronici. Mi viene voglia di giocare a calcetto.

Andiamo verso la chiesa.

Subito sotto gli scalini vedo una ragazzina che letteralmente si trascina su delle mani monche e delle gambe deformi. Penso che abbia la lebbra o chissà cos’altro. La guardo e scorgo un sorriso sul suo volto: mi fa pensare … Se sorride lei, povero corpicino martoriato e abbandonato, io non ho certo il diritto di piangere e lamentarmi: se mi capiterà di farlo, dovrò pensare a quel sorriso e vergognarmi … L’interno della chiesa merita di essere visto, perché, sebbene i muri siano bianchi e spogli, vi sono appogiate numerose statue di santi, o pezzi da presepio, tutti a grandezza naturale, vestiti di stoffe multicolori.

L’altare e l’abside sono in legno con una statua di Cristo particolarmente intensa per il senso di sofferenza che trasmette.

Usciamo e decidiamo di tornare alla barca.

La ragazzina di prima, nel frattempo, è giunta al crocefisso in mezzo alla piazza, sempre trascinandosi faticosamente sul pavimento.

Iniziamo di nuovo la discesa lungo lo stradone principale.

Claudia si compra un braccialetto in perline nere.

Nei pressi dei moli delle barche decidiamo di pranzare: abbiamo il pane ed i dolcetti acquistati a Panajachel; in più Claudia compera dell’acqua e una scatola piccola di “Pringles”, vero totem della globalizzazione. Noto che ci sono dei grossi contenitori per la raccolta differenziata dei rifiuti.

Una bambinetta ci si avvicina con un’amichetta ed Claudia le dà il barattolo con le patatine avanzate: le prendono e si allontanano, ma poi tornano per farsi dare anche il tappo.

Passano alcuni contadini nativi, con arnesi in ferro infilati in manici di tronco d’albero grezzi.

Continuano per tutto il tempo ad avvicinarmi dei bambini che mi dicono “Maximon”, “Maximon”: non capisco cosa vogliano, visto che non hanno nulla da vendere e che di solito quando chiedono qualche soldo piuttosto dicono “un quetzalito”. Li allontano con un generico “non comprendo” che li stupisce. Scopriremo solo più tardi in camera, con molto rammarico, che Maximon è una sorta di santo locale rappresentato da una statua lignea con un sigaro in bocca; è custodito in una casa del paese a turno, e i bambini proponevano di portarci. Peccato, mi sarebbe piaciuto vederlo ! Santiago è certamente più bella, anche se più turistica, di San Pedro.

L’ultimo villaggio che visitiamo e San Antonio: qui i turisti sono cosa rara e l’impressione è di un paese molto povero. Probabilmente siamo di fronte ad un vero villaggio di nativi, a quelle che possono essere le case delle persone che vediamo a Panajachel vendere il loro artigianato. Ci sono poveri polli spelacchiati per le stradine strette e ripide e gli edifici sono a volte fatiscenti. In alcuni scorgiamo i telai manuali con i quali sono fatte le stoffe. Venditrici ambulanti ci darebbero la loro merce per pochi Quetzales.

Come al solito saliamo alla chiesa, che è più piccola delle precedenti, anch’essa posta su un punto elevato, e addobbata per un matrimonio.

Comincia a piovere, anche se molto leggermente.

Vedo un mesto cocker malconcio che mangia dei ciuffi d’erba.

Vicino all’imbarcadero, sotto la chiesa, c’è un’improbabile campo da calcio: un terreno irregolare con due porte di tubo metallico, una delle quali a ridosso di un dirupo che termina sul mare e che rende praticamente impossibile il recupero di un eventuale pallone in caso di goal.

Finora abbiamo visto diverse situazioni di povertà, ma non abbiamo avuto la sensazione che mancasse la dignità, o che qualcuno chiedesse l’elemosina.

Torniamo a Panajachel alle 15.30 e ci chiudiamo in camera perché siamo stanchi. Sento che diluvia e sto a letto volentieri. Poi ci laviamo, ci vestiamo e usciamo per cenare.

Andiamo da “ORALE” dove, per 120 Q mangiamo veramente bene, in stile messicano; anche il locale è piacevole e ben curato, con musica dal vivo, assolutamente migliore di quello di ieri sera.

Tornando in camera acquistiamo un cestino per 12 Q. Io ho solamente una banconota da 100 Q e la ragazzina nativa non ha il resto, per cui ci fa 10 Q. Poi, comprando acqua e succhi, ricevo diverse monete di resto, così torniamo indietro a dare i 2 Q mancanti.

Il Sabato sera Panajachel si anima tantissimo e vi piovono anche ondate di Guatemaltechi, probabilmente da Guatemala City e Antigua. Arrivano in macchina, con belle automobili, o comunque in buono stato. Questa è una considerazione generale: sinora abbiamo visto automobili nuove o ben tenute, mentre gli abituali cassoni dei paesi poveri qui sono del tutto assenti. Un po’ più malandati, invece, appaiono i numerosissimi quanto coloratissimi bus del trasporto pubblico o comunque locale: credo che siano vecchi “coaches” statunitensi dismessi e riciclati da queste parti; tuttavia sono davvero “simpatici” e mi sembrano il miglior simbolo per rappresentare questo paese. I locali guidano in maniera estremamente corretta e affatto spericolata. Anche questo fatto mi stupisce.

Qui a Panajachel il sabato sera è un continuo susseguirsi di veicoli locali, soprattutto fuoristrada, ma anche berline e persino una Fiat Palio, che in Italia non credo di avere mai visto, e un’Alfa Romeo. Si fanno largo nella via principale tra i passanti e scendono verso il lago, anche se non capisco né dove vadano né dove poi lascino la machina. Comunque nella strade laterali ci sono anche belle ville di privati, totalmente bunkerizzate.

La sera, poi il passeggio pullula di gente, soprattutto Guatemaltechi, e pare ci siano anche più bancarelle.

Ci corichiamo alla consueta ora, e anche questa sera prendo sonno facilmente e sono poi bruscamente svegliato dal solito gallo che, evidentemente, non è stato azzannato dal cane. Sta piovendo, e anche forte. Poi smette e sento della musica. Devono essere le 4.30 o le 5.00. Deve esserci una festa nei paraggi. Anche Claudia è sveglia.

Devo essermi riaddormentato; le coperte, per fortuna, sono ben calde sì che l’unico pigiama, leggero, che ho portato mi è sufficiente.

V giorno – Domenica 29 giugno 2003 Ci risvegliamo definitivamente verso le 6.30 e facciamo colazione con il succo di frutta ed i dolcetti comprati la sera prima.

Andiamo per comprare il pane dal solito panettiere nella via traversa, ma oggi è domenica e non ne ha di fresco. Compriamo quello di ieri. Non ci fa alcuno sconto per questo fatto, ed in effetti non vedo che sconto potrebbe farci su 20 centesimi di Euro.

Io mi apposto davanti al vicolo che porta all’hospitaye, in attesa dello shuttle per Chichicastenango, mentre Claudia telefona a casa. “I nonni stanno bene” mi riferisce.

? una giornata splendida, con pochissimi nuvole bianche appese ad un cielo di un blu molto intenso. Qui in Guatemala il cielo è bluissimo. Mi torna in mente, per contrasto, il celeste tenue del paesaggio iraniano.

Ho indossato la camicia con le maniche lunghe che ho acquistato ieri, quindi le mie scottature non temono il Sole.

Lo shuttle è puntuale e dopo aver raccolto altre due ragazze, forse Americane, e una famiglia di tre boh, forse Turchi, alle 8.15 partiamo.

La strada è parzialmente quella che abbiamo percorso per arrivare a Panajachel, ossia la ripidissima salita verso Solola, più un altro tratto fino ad uno svincolo che da una parte manda ad Antigua, mentre dall’altra, ed è quella che imbocchiamo, porta a Chichicastenango.

La giornata è limpida e lungo la salita possiamo ammirare tutti e tre i maestosi vulcani che vegliano sul lago Atitlan. Due sono quasi allineati e si ha piuttosto l’impressione di una doppia cima. È uno spettacolo davvero portentoso.

Il resto del viaggio è tranquillo, con immagini sulla falsariga di quanto già visto sul tratto Antigua – Panajachel.

In particolare noto ancora le sigle ed i simboli dei partiti politici che avevamo visto anche venedo a Panajachel: il tragitto è completamente circondato da queste scritte e disegni fatti a mano sui muri o dipinti su pietre o verniciati sui guard rail, ora con tratto nitido e preciso, ora appena abbozzati da una mano molto approssimativa. C’è il triangolo rosso con la sfera gialla al centro del DIA, l’aquila bianca su sfondo verde del UNE (Unidad National de la Esperanza), il Sole splendente del Partito Unionista, la bilancia bianca racchiusa da un cerchi mezzo rosso e mezzo azzurro del MR (Movimiento Reformador), la frecciona blu del PAN, il logo ANN bianco su sfondo rosso dell’omonimo partito, il mais stilizzato con le gambe verdi dell’URNG, ed, infine, la mano azzurra con due dita piegate del FRG, che sembra essere il più popolare, o, comunque il più capillarmente diffuso; mi colpisce anche la scritta “Rios Mont presidiente”, visto che la guida lo dipinge come un feroce sanguinario dittatore degli anni ‘80, ammesso che sia la stessa persona.

Dopo circa un’ora di tragitto giungiamo a Chichicastenango.

Chichicastenango, nei giorni di mercato, oggi è appunto domenica, appare come un gran fermento di persone, prevalentemente nativi, ma anche turisti che si mimetizzazano nella confusione infernale del mercato.

Lo shuttle ci lascia presso un distributore di benzina al limite delle prime bancarelle. Non sappiamo dove andare, quindi ci tuffiamo nella prima strada con dei banchi. Lo scopo è raggiungere la strada principale. Ci inoltriamo nel turbine di colori, rumori ed odori che ci circonda. Ci sono davvero tanti banchi, addossati l’uno all’altro, con solo un piccolo spazio per il passaggio, reso angusto dalla moltitudine di persone che si accalcano.

I prodotti in vendita sono tra i più disparati: si va dai manufatti più allettanti per i turisti, come le stoffe multicolori e i lavori di artigianato, fino ad utensili ed oggetti in genere che possono essere di interesse solo per i nativi.

Mi sembra, tuttavia, che comunque sia sostanzialmente un mercato per loro, per i nativi, in cui i turisti, non molti oggi, sono un’aggiunta posticcia e non protagonista: proprio così, gli attori di questo enorme spettacolo sono loro, i nativi; il turista è solo spettatore discreto.

Continuiamo a caminare tra le bancarelle e la gente che si accalca.

Vedo dei pulcini vivi, che pigolano disperatamente, delle galline, un maialino che viene trascinato al guinzaglio come fosse un cagnolino, e anche quello che credo sia un piccolo cinghialino. In una bacheca scorgo degli orologi, tra cui alcuni “cipolloni” da taschino funzionanti; chiedo il costo di un Omega: 1500 Q. Desisto spiazzato.

Compriamo delle tovagliette americane multicolori ed Claudia acquista anche un portamonete e io una maglietta di cotone per 50 Q.

Raggiungiamo la piazza centrale dove l’ulteriore infittirsi dei banchi e le loro coperture in nylon creano una atmosfera quasi dantesca; fa molto caldo e comincio ad essere stanco. Sui gradini della chiesa principale, cui sono già appoggiati i primi tavoli dei venditori, ci sono dei personaggi che spargono incenso a profusione, tanto che l’odore intenso ed il fumo danno quasi fastidio. La guida dice di non salire gli scalini perché i nativi potrebbero offendersi. Mi sembra una fesseria, però le diamo retta ed entriamo attraverso un accesso laterale. C’è la Messa. È proibito scattare fotografie, e la cosa mi infastidisce.

L’interno dell’edificio appare sulla falsariga di quelli che abbiamo già visto nei villaggi del lago Atitlan, con la solita atmosfera più pagana che cristiana. Lungo le pareti sono schierate le statue dei santi che vengono portati in processione: mani e visi in ceramica o plastica lucidissime e assolutamente kitch, avvolte in stoffe colorate. Alcune tengono in mano banconote da 1 Q, che credo non siano più in circolazione: da bravo collezionista sono tentato di prenderne una, però rubare una banconota dalla mano della Madonna, in chiesa, durante la Messa, mi sembra un po’ eccessivo; inoltre, con la fede maniacale che hanno qui, potrei anche essere linciato. Comunque la banconota da 1 Q è di colore verde.

Un mendicante mi chiede insistentemente soldi e non mi molla, quindi usciamo dalla chiesa e ci rituffiamo nella baraonda del mercato.

Attraversiamo veramente a fatica la piazza, per scoprire che sull’altro lato vi è un’altra chiesa, della quale non mi ero accorto. Poi, da uno spiazzo laterale udiamo della musica dal vivo: si tratta di inni sacri, con ritmo tipicamente latino americano. Una venditrice di, credo, granite attira la mia attenzione perché ha una macchina per tritare il ghiaccio meccanica: è di colore verde e sarà alta una cinquantina di centimetri: lei fa girare la manovella ed il marchingegno butta giù ghiaccio tritato. Ci sono anche degli imbonitori, come alla fiera di Bassano, di quelli che dimostrano le miracolose proprietà di qualche aggeggio assolutamente inutile. Mi avvicino ad uno di questi capanelli: non capisco cosa sta dicendo perché parla, credo, in un dialetto maya; comunque è giovane e mette delle erbe in un bicchiere d’acqua. Un altro, invece, più anziano, credo che voglia piazzare qualche medicamento, poiché ha davanti a sé un libro di medicina che dalle illustrazioni immagino risalga agli anni ‘50; riporta dei disegni a colori degli occhi in sezione, e colgo le parole “operacion” e “es terible”; il resto è in un dialetto che non capisco.

Siamo stanchi e molto accaldati, quasi insolati.

Decidiamo di ripararci un po’ al coperto della chiesa principale. La messa è finita e ci accorgiamo che ci sono stati dei battesimi. I bambini nativi sono avvolti con i costumi tradizionali mentre i Guatemaltechi sono vestiti in bianco. Noto anche come le famiglie dei nativi abbiano una media di quattro figli.

Funziona: ci riposiamo e riacquistiamo le forze.

Usciamo dalla chiesa e gironzoliamo ancora un po’ per il mercato. Poi, per passare il tempo, ci sediamo nella piazza della musica dal vivo, all’ombra, su una panchina in mezzo a due lustrascarpe. Ce ne sono anche tanti altri. Stiamo a guardare con quale abilità e maestria, per 2 Q, puliscano e lucidino fino a farle tornare nuove, scarpe che sembrano da buttare. Il cliente si siede sulla panchetta e prende il giornale, mentre il lustrascarpe inizia la sua opera, piazzando delle lamine di plastica nelle caviglie per non sporcare i calzini; poi, se è il caso, toglie i lacci e comincia a spargere il grasso con le mani nude. Finita una scarpa, dà un colpetto al cliente, che gli alza l’altra e l’azione si ripete. Il tutto può durare anche una decina di minuti. A quest’ora, è circa l’una, tutti i lustrascarpe sono pienissimi di lavoro in un continuo susseguirsi di clienti. Mi perdo a guardare queste scene e sbircio sul giornale che, non so dove, è successo un grave incidente tra due camion e un pick up. Quando il cliente, finalmente, gira pagina, scopro che Bush ha dichiarato che la cattura di Saddam è imminente. Mi domando se sia il giornale di oggi o di due mesi fa ! Noto anche che il giornale parla anche di “militari della coalizione” e non di “militari Americani ed Inglesi”. Vedo pure che sono morti altri Palestinesi.

La musica è sempre rigorosamente sacra, con canzoni come “Jesus ti ama” o “Alleluyah”. Tra un brano e l’altro la cantante arringa la folla sulla bontà divina. Il ritmo è latino, mentre il cantato è in stile spirituals, anche se a volte rasenta l’isterismo.

Ci rilassiamo in questo modo per più di un’ora in un’atmosfera veramente piacevole e divertente, e ne approfittiamo per mangiare del pane che ci siamo portati appresso e alcune banane gialle e rosse che abbiamo comperato poco fa per 7 Q.

Quindi facciamo l’ultimo bagno di mercato e scopriamo che c’è anche un’area dedicata al cibo, dove si può mangiare seduti su tavoloni di legno. Tuttavia, la copertura in plastica provoca un caldo micidiale che unito al forte odore di cibo rende la zona non molto vivibile.

Arriviamo allo shuttle una mezz’ora prima dell’orario della partenza. Ci appollaiamo sul marciapiede accanto ad una croce con un nome e delle date, appoggiata al bordo, quasi per terra. Non so chi sia, comunque la fotografo e, se riuscirò, mi informerò.

Effettivamente avrei preferito passare una notte a Chichicastenango, poiché il nostro mordi e fuggi nel giorno del mercato non ci ha consentito di vedere ed apprezzare il villaggio, visto che in quel macello colossale del mercato si è solo e sempre circondati da bancarelle e venditori. Ho l’impressione che, se visitata con calma in un giorno ordinario, Chichicastenango abbia da offrire una atmosfera tipicamente nativa che nella confusione non abbiamo colto.

Alle 14.00 ripartiamo alla volta di Panajachel, dove arriviamo circa un’ora dopo.

Il tempo, ora, è nuvoloso e, mentre siamo in camera, addirittura ci accorgiamo che piove violentemente, ma il tutto dura qualche minuto.

Poi andiamo al lago e ci sediamo al solito posto sul lungolago. Ci avvicina una bambina nativa per venderci qualcosa. Noto che porta gli occhiali: è l’unica che abbiamo visto sinora. Ci chiediamo se ci vedano bene o se non vadano dall’oculista o se vedano bene perché non vanno dall’oculista. Comunque, occhiali o non occhiali, non le acquistiamo nulla e lei si allontana.

Andiamo a cena nello stesso ristorante di ieri sera (“Orale”), visto che ci è piaciuto. Questa volta spendiamo 95 Q per due doppie braciole di marrano con guacamole e patate, tortillas e birra.

Lungo la strada, da una macchina in sosta con i finestrini abbassati, odo una musica familiare: si tratta di “Sad but true” dei Metallica.

VI giorno – Lunedì 30 giugno 2003 È stata una notte un po’ agitata, durante la quale ho dormito pochetto.

Mi alzo verso le 6.30 e vedo che c’è un Sole splendente e che il cielo non ha nuvole. Penso subito al lago Atitlan e all’immagine dei vulcani senza nubi né foschia che ho goduto per una breve frazione ieri dal pulmino per Chichicastenango. L’idea mi esalta.

Consumiamo in fretta la colazione a base di muffin (6 Q l’uno) acquistati ieri sera presso la panetteria ladrona della via principale, e di succhi di frutta.

Poi andiamo sulla riva del lago dove le mie speranze si concretizzano nell’immagine maestosa dei tre vulcani eretti fieramente sulla riva opposta del lago. Ci sono poche persone e nessuna barca. Vado sull’orlo di un molo e comincio a scattare qualche fotografia. Decido poi di aspettare una mezz’ora (sono le 7.30) per riprovare nuovi scatti con un Sole più alto, sì che dia colore anche alla riva opposta del lago. La giornata è assolutamente limpida e si distingue chiaramente San Pedro, sull’altra sponda.

Ci spostiamo più il là, verso la foce del fiume.

Intorno alle 7.45 cominciano ad arrivare, l’una dopo l’altra, in rapida sequenza, le barche e le motonavi dei vari tours del lago. Mi appollaio sul bordo di uno degli ultimi moli, dalla parte opposta rispetto al nostro Hospitaje. Claudia cerca sassi e conchiglie, mentre io attendo il momento per qualche fotografia, ossia il momento in cui non ci siano né barche all’orizzonte, né scie di motori che solchino la superficie ondulata dell’acqua.

È un continuo attraccare di natanti mentre altri appaiono in lontananza.

Trovo l’attimo e faccio alcune foto. Mi accuccio per un’ultima foto, ma al mio molo attracca una barchetta. “Uno minuto” boffonchio, e il barcaiolo mi tranquillizza.

Finisco dunque la mia opera e ci riavviciniamo mestamente verso l’albergo per chiudere le borse.

Giungiamo al “nostro posto”, quello in cui siamo andati sempre, tutte le sere, a guardare il lago. Ci sediamo un’ultima volta per qualche minuto. Sul bagnasciuga sottostante pascola un cane randagio, di non so quale razza o incrocio, comunque taglia media, pelo corto e marroncino. Si stende proprio sotto di noi e volge il muso verso l’acqua. È un bel cane, mi piace ! Dopo qualche minuto arriva un signore distinto, in abito sportivo, dall’aspetto decisamente agiato, con due bei cani ben curati al seguito. Sembrano cocker, ma non lo sono; sono troppo grossi per esserlo. I cani cominciano a correre e saltare. Poi il loro padrone lancia un bastone in acqua e loro si fiondano a prenderlo. L’altro animale, quello randagio, guarda la scena da una certa distanza, con un velo di tristezza negli occhi. Forse, pensiamo, desidererebbe tanto avere un padrone che gli lanci un bastone ! Salutiamo il lago, torniamo alla camera, dove non c’è né luce né acqua, facciamo i bagagli e, borse in spalla, ci avviamo faticosamente a prendere il bus.

Dopo varie vicissitudini e richieste di informazioni più o meno soddisfatte, scopriamo che la fermata si trova presso il distributore Texaco, lungo la via alta. Saliamo sul bus “Robuli” delle 11.00, che però parte alle 10.30, stracarico; fortunatamente eravamo già lì alle 10.00.

Sul bus ci sono anche i Turchi di ieri, che però sono Israeliani, parecchi Guatemaltechi, e una Americana che parla Italiano e che mi attacca un po’ di bottone.

Ho fame e, prima di partire, mi compro un dolcetto tondo e piatto al cacao, con frutta secca varia. È buonissimo ! Purtroppo, essendo croccante, addentandolo ne lascio un pezzo in terra. Claudia si compera le patatine.

Mentre cerco di scattare fotografie ai bus, l’autista chiude la porta ed accenna a partire, al chè io corro e mi faccio aprire.

Il viaggio, questa volta, dura due ore ed un quarto e costa 25 Q a testa. Evidentemente all’andata il buon autista si è preso il suo ! Il tragitto è tranquillo ed io sono di ottimo umore. Il veicolo è strapieno e alcuni passeggeri ritardatari sono seduti nel corridoio su dei secchi di plastica rovesciati che il bigliettaio ha fornito loro; qualcuno è anche in piedi.

Arriviamo alla stazione degli autobus di Antigua, a fianco al mercato, e ci fiondiamo all’hotel che abbiamo prenotato tre giorni fa, mentre il bus prosegue per Guatemala.

L’albergo è il “Hotel Santa Lucia n° 4” davanti al mercato dove, per 100 Q ci è data una bella camera doppia con bagno ed acqua calda. Si tratta veramente di un bell’edificio ed è quasi un rammarico non esserci stati nei primi due giorni. Dovessi tornare ad Antigua dormirei qui.

Ci rinfreschiamo ed usciamo. Andiamo al mercato a comprare il “bussino” per la vetrinetta di casa. Qui sono più belli di quelli in vendita a Chichicastenango e costano la stessa cifra (35 Q).

Poi ci rechiamo a visitare la chiesa della Merced, che abbiamo tralasciato nei giorni scorsi.

C’è la messa e la cosa ci stupisce perché sono le 15.30. La chiesa è gremita, sebbene sia ampia e spaziosa. Scatto qualche foto al suo interno, cercando di passare inosservato. Poi mi piazzo al centro della navata, davanti alla porta di ingresso, gambe divaricate e salde sul terreno, respirazione sospesa per acquistare stabilità. Mi accingo a prendere la mira per una foto dell’interno della chiesa, quando mi rendo conto che il prete, che mi è esattamente di fronte, sta santificando il pane ed il vino. Mi defilo subito, simulando un atteggiamento commosso, e ripeto l’operazione qualche minuto dopo durante la Comunione.

Usciamo per immortalare l’esterno dell’edificio, quando, finita la messa, i fedeli escono. Solo ora ci accorgiamo che è un funerale, poiché una bara è trasportata fuori sulle spalle. Deve trattarsi di un ragazzo giovane, perché sulla cassa è adagiata la maglietta di una squadra di calcio; potrebbe essere quella del Manchester, ma non ne sono affatto sicuro.

Entro, per 3 Q, nell’adiacente convento, che non merita particolare attenzione, se non per la bella fontana al centro del chiostro.

Esco e vedo che sta per iniziare un altro funerale.

Ce ne andiamo verso il Parque Central per rilassarci e riposare un po’. Minaccia di piovere, ma non succederà nulla.

Troviamo una panchina libera proprio nell’anello centrale della piazza, davanti alla fontana e in prossimità del telo di una venditrice nativa. Inizio a scrivere il diario, mentre Claudia guarda le persone e di tanto in tanto attira la mia attenzione per mostrarmi qualcosa di particolare. Alla mia sinistra, sull’altra mezza panchina, siede una coppia di giovani ragazzi guatemaltechi. Mi vergogno un po’ perché durante la giornata ho sudato molto … Scrivo ed ad un certo punto Claudia mi fa notare una bambina molto piccola, di non più di quattro anni, nativa, con la sua blusa a fiori, con in testa un cesto enorme che porta con grazia e portamento impeccabili. Stiamo a guardarla un po’; Claudia tenta di fotografarla, ma lei si è ormai allontanata e persa nella folla. Poco dopo, di nuovo un’altra piccola, questa volta con gli occhiali, è la seconda che incontriamo, vediamo che gironzola con un enorme cesto in testa.

Claudia le scatta un paio di foto, anche se da distanza e di profilo. Poi la bambina ritorna verso di noi ed Claudia non fa nemmeno in tempo a fare il gesto di estrarre la macchina fotografica dallo zainetto che la piccola iena ci si fionda contro e boffonchia qualcosa in spagnolo tipo “per la foto comprami qualcosa”, porgendoci delle palle colorate che probabilmente servono a puntare gli spilli. Non capiamo se si è accorta o no che l’abbiamo già fotografata, comunque dimostra una personalità da leone. Continua ad insistere. Chiediamo al fratello di 9 anni come si chiami: è Kelly ed ha 5 anni ! Alla fine riusciamo a farla desistere, ma, allontanadosi, si volta e ci lancia uno sguardo di traverso, oltre i bordi delle lenti, che ci raggela. Restiamo a guardarla ancora per un po’ a distanza, divertiti per come meni il fratello e lo sgridi perché lui non l’aiuta a sollevare il grosso cestone con gli oggetti in vendita, che lei non riesce a maneggiare da sola. L’intero episodio è stato un vero spasso.

Poco dopo, mentre sono assorto nella scrittura, mi si siede a fianco un tipo incredibile: si tratta di un ragazzo a piedi scalzi, con le dita delle mani dipinte di smalto rosso, i capelli ricci e neri ed una espressione fortemente effeminata. La coppia guatemalteca si dilegua e io resto con questo vicino. Faccio finta di nulla e lui poco dopo se ne va.

Passa in questo modo, ossia nel completo relax, circa un’oretta e mezza.

Verso le 18.00 torniamo in albergo e, lavatici, usciamo di nuovo per la cena. Ci rechiamo dal panettiere davanti alla fermata del bus per del pane e poi andiamo al supermercato difronte per acquistare qualcosa per domani a Copan. Quindi raggiungiamo il McDonald’s dove, con i consueti 50 Q, consumiamo due menù e navighiamo una mezz’ora.

Infine passeggiamo tranquillamente verso l’hotel; la serata è molto piacevole e le strade animate di gente. Ad un certo punto, lungo il tragitto, vediamo che dei locali hanno installato delle cucine di fortuna sul lato della strada e servono cibo su delle lunghe panche, affollate di persone che mangiano allegramente.

Giungiamo infine all’albergo dove, salite le tre rampe di scale fino alla nostra camera, mi appollaio per un pochino sulla bella panca in legno difronte al nostro uscio per scrivere qualche riga del diario. Noto che c’è davvero un gran via vai di turisti giovani.

Si fa tardi e decido mestamente di coricarmi, vista la giornata intensa che ci attende domani.

VII giorno – Martedì 1 luglio 2003 La sveglia suona alle 3.15: dobbiamo scendere per le 4.00 ed abbiamo giusto il tempo per una piacevole doccia calda e per chiudere le borse.

Siamo capitati davvero in una bella stanza.

Riusciamo a mangiare anche i biscotti con il succo di frutta acquistati prudentemente ieri sera al supermercato.

Verso le 3.30 il solerte custode viene a bussarci alla porta, sebbene ieri sera gli avessimo chiaramente spiegato che ci saremmo svegliati per conto nostro: probabilmente spera in una mancia, che, comunque, non riceve.

Sgambettiamo giù per le scale con le nostre borsone e gli zaini e la macchina fotografica a tracolla.

Salutiamo nuovamente il custode e usciamo dalla bella palazzina sulla strada antistante il mercato; è ancora buoi pesto e non c’è quasi anima viva; l’illuminazione stradale è comunque buona e di tanto in tanto compare qualche shuttle turistico illudendoci brevemente che la nostra attesa sia terminata.

Finalmente, puntuale, arriva il nostro veicolo: saliti, ripartiamo immediatamente e, dopo una breve ulteriore sosta per caricare altri turisti, partiamo alla volta di Guatemala city e poi Copan.

È l’ultima occasione per apprezzare e salutare Antigua in tutta la sua bellezza e peculiarità: le colorate viuzze disposte geometricamente acquistano un fascino particolare nelle ombre delle luci artificiali; passiamo anche per il Parque Central, illuminato e deserto, ma sempre speciale.

Il bussino è sostanzialmente carico: ci sono due coppie di giovani Spagnoli particolarmente distinti e due Inglesi che non sembrano conoscersi; in particolare lui è abbastanza curioso, nella sua aria da secchione.

Ho sonno, però la curiosità prende il sopravvento: non mi va proprio di dormire mentre sono in Guatemala, con tutto da guardare e scoprire ! Cominciamo a vedere i primi bagliori dell’alba: la strada è in discesa. Oggi lasciamo gli altipiani guatemaltechi per planare verso il mare di Livingston.

Evitiamo Guatemala City e imbocchiamo la carretera che unisce le due coste del paese, in direzione Puerto Barrios.

Il viaggio procede senza intoppi, attraverso un paese che diviene sempre più verde e collinoso.

L’autista guida spedito, ed ascolta alla radio un programma che credo parli di calcio.

Verso le 7.00 ci fermiamo presso un albergo/ristorante lungo la strada, evidentemente “convenzionato” con il nostro accompagnatore, per la colazione. Abbiamo già mangiato, ma scendiamo egualmente. Entriamo nell’ampio locale dove dei tavoli preparati ci attendono. Ci sediamo a coppie su tavoli diversi. Ci sono anche altri avventori, tutti locali, dall’aria di essere camionisti. La televisione accesa appesa alla parete trasmette un notiziario e poi dei goals di chissà quali partite. Non sappiamo cosa prendere e ci guardiamo attorno spaesati, quasi a cercare qualche ispirazione sugli altri tavoli. Però non abbiamo fame. Infine giunge anche il nostro turno e la camiera ci avvicina interrogativa: sfoglio l’inutile menù in cerca di uno spunto. Finalmente optiamo entrambi per un succo di Papaya ed un plumcake in due. La ragazza scrive e si allontana. Dopo breve tempo ritorna e ci chiede, rigorosamente in spagnolo, se lo vogliamo allungato con acqua o con latte: “No ! noi lo vogliamo puro” cerchiamo di farle capire. “Senza niente ?” sembra interrogarci con uno stupore che ci stupisce. “Boh !” replico io, mentre lei se ne va. Claudia ed io ci gurdiamo come dire “Oddio, adesso cosa ci arriva ?” o “Che cosa avrà capito ?”. Attendiamo ancora fin tanto che arriva il plumcake, ma dei succhi nessuna traccia. Dopo una lunga attesa, a dolce ormai già digerito, finalmente ci appoggia davanti due grosse coppe di pura spremuta di papaya al 100 % non allungata e densa: è spaziale ! veramente gustosa ! Così soddisfatti, dopo una doverosa pisciatina, pagati i 24 Q totali, riguadagnamo lo shuttle e ripartiamo alla volta di Copan.

Giunti a Rio Hondo, la strada si biforca: mentre la via principale procede verso i Caraibi, noi imbocchiamo la diramazione verso sud, verso l’Honduras.

Lungo la strada circondata da collinette ricoperte dalla consueta flora verdeggiante, oltrepassata Chiquimula, dove abbiamo in animo di trascorrere questa notte, giungiamo al confine.

L’impressione che lascia questa posto è di una certa desolazione: si tratta di un piccolo edificio che funge da posto di controllo e di una sbarra, a delimitare il confini vero e proprio. Ci sono diversi automezzi fermi in coda. I “doganieri”, in tutto una ventina di persona, vestono in abiti civili e solo qualcuno di loro è armato. In generale, non dà l’idea di essere qualcosa di serio.

L’autista scende, con i nostri passaporti e 3 USD a testa a titolo di tassa per l’ingresso in Honduras, e si dirige verso il fabbricato. Il ragazzo inglese secchione non ha dollari, ma soltanto Quetzales, che in Honduras non hanno alcun valore e non sono nemmeno accettati né cambiati; se li fa prestare dall’altra inglese. Anch’io smonto dalla macchina e faccio quattro passi lì attorno per poi sostare un po’ nei pressi dell’area di controllo a godermi quei personaggi alla “sergente Garcia”.

Le operazioni di confine durano in tutto circa una ventina di minuti. Espletatele, risaliamo sul pulmino e ripartiamo alla volta del sito di Copan, che dista solamente una ventina di chilometri.

Imbocchiamo una bella strada, larga ed asfaltata di recente; penso che sia una delle strade più belle del paese, anche perché probabilmente è la più battuta dal traffico turistico.

Giungiamo finalemente a destinazione: l’autista ci scarica proprio davanti all’ingresso della palazzina di accoglienza, al cui interno, attorno ad un bel plastico che ricostruisce il sito, troviamo la biglietteria, un piccolo gift shop, i bagni ed un ufficio per i ricercatori che operano nell’area. Sono le 10.00 e abbiamo tempo fino alle 14.00, quando il nostro accompagnatore ci verrà a riprendere per il ritorno. Lasciamo le borse sullo shuttle.

Il biglietto di ingresso è veramente caro: 15 USD per la visita, 7 USD per l’accesso ai tunnel sotteranei e altri 7 USD per il museo, naturalmente cadauno. Rinunciamo al museo, che la guida indica abbastanza scarno, e ce la caviamo, si fa per dire, con 44 USD in due.

Facciamo una doverosa sosta nei gabinetti e poi entriamo. Si tratta di un parco nazionale, quindi l’area delle rovine è circondata da zone verdi e punti di sosta. Tutto il complesso è gestito e mantenuto in maniera ottimale, con prati verdi “all’inglese”, con piccoli alberi piantati di recente, e brevi tratti di foresta con sentieri ampi ed ordinati.

Percorriamo la via che porta alle rovine quando scorgiamo dei bellissimi pappagalli multicolori che camminano sul terreno o sono aggrappati ad una rete: ci coglie la solita frenesia della bestia urbana che incontra animali vivi. In realtà, avvicinandoci, ci rendiamo conto che si tratta di alcuni esemplari allevati dai guardiani e che la rete altro non è che il posto del controllo biglietti. Comunque ci piacciono egualmente e li fotografiamo.

Procediamo verso le rovine, da soli, con il solo ausilio della mappa della guida e di alcune fotocopie che ho portato dall’Italia. La boscaglia, per brevi tratti, è abbastanza fitta, con alberi e liane.

Ci dirigiamo verso il retro del tempio 16, dove giace una copia (l’originale dovrebbe essere al museo) del bello e famoso altare Q. Poi ci arrampichiamo verso il cortile ovest, ammirando l’intensità dell’architettura e soprattutto dei bassorilievi maya, qui veramente in ottimo stato di conservazione.

Dal cortile ovest si accede ai tunnels, quello della Rosalila, davvero interessante, che conduce all’interno del tempio 16 dove è racchiuso, intatto, il tempietto più antico (mi viene in mente la porziuncola di S.Francesco ad Assisi), e quello dei Giaguari, più esteso, ma probabilmente meno suggestivo, che sbocca di nuovo verso l’area dell’altare Q e ci costringe a risalire per poi scendere nuovamente al cortile ovest.

Percorriamo dunque il perimetro del cortile per giungere alla Piazza grande, dove si affaccia il grande tempio 11 e la maestosa scalinata dei geroglifici del tempio 26, tra i reperti più significativi del centro america.

Scatto molte fotografie. La ricchezza, la varietà e le ottime condizioni dei particolari mi esalta.

Intorno alla scalinata, non accessibile, sono affacendati degli studiosi, che sembra che stiano facendo dei rilievi ai vari livelli. La cosa mi irrita, perché devo aspettare che si allontanino per poter fotografare l’insieme ed i detagli del monumento. Attendo con pazienza, mentre Claudia si appolaia su una panchetta accanto alla stele M e legge la guida.

Quindi percorriamo in lungo e in largo lo spiazzo delle steli, dove mi sbizzarisco nel fotografare praticamente tutto.

Ci accorgiamo che mezzogiorno è passato e decidiamo di pranzare: abbiamo del pane e dello youghurt, oltra all’acqua che in quest’area torrida è assolutamente indispensabile. Ci accovacciamo su due panche in pietra sotto un misero alberello che fa un po’ d’ombra.

Mangio di gusto, ammirando quel posto davvero bello e tranquillo. C’è pochissima gente, tutto è in ordine, la vegetazione rigogliosa e curata, e non odo rumori molesti. Ci sono alcuni grossi alberi con fiori rossi alle estremità dei rami che disegnano quasi un’aureola colorata.

Il sito è archeologicamente di sicuro interesse, anche se non offre né la maestosità, né la vastità, né il fascino che incontreremo a Tikal. Però credo proprio che sia valsa la pena di arrivare sino a qui.

Sono quasi le 14.00 e l’ora dell’appuntamento si avvicina. Ho giusto il tempo per scattare una fotografia alla “Piazza grande”: mi stendo per terra e attendo pazientemente che i due maledetti locali seduti sulla struttura centrala dello spiazzo erboso si spostino. Finalmente sembrano muoversi; metto a fuoco; no, cambiano idea, restano; anzi no adesso se ne vanno; prendo la mira; accidenti, ora si stendono; disgraziati !. Resto in queste condizioni per dieci minuti buoni, finché, finalmente, si dileguano. Però ora ci sono altri tre turisti che vagano tra le stele. Colgo l’attimo in cui sono dietro una di esse e finalmente scatto. OK, ora possiamo andare.

Percorriamo il largo sentiero tra gli alberi che porta al centro di accoglienza. Siamo una decina di minuti in anticipo e ne approfittiamo per acquistare dell’acqua, che qui non è mai troppa, e per dare un’occhiata veloce al gift shop, che è abbastanza misero.

Infine ci avviamo verso il ristorante oltre il parcheggio che l’autista ci aveva consigliato e dove immaginiamo che gli altri turisti siano andati a pranzare. Infatti vi troviamo gli Spagnoli e la guida, seduti su uno scalino, intenti in una specie di siesta.

Degli Inglesi non vi è traccia. Evidentemente restano a dormire da queste parti.

Ci muoviamo e salendo sullo shuttle ricordo all’autista che noi, come pattuito, dovremmo scendere a Chiquimula. Cade dalle nuvole e si inalbera. Lui, ci dice, deve tornare ad Antigua e non può perdere tempo: al limite ci può lasciare sulla strada che da Copan porta a Rio Hondo, a circa 5 km dal paese. Accidenti, come ci arriviamo alla stazione dei bus, presso la quale vorremmo prendere la corriera di domani mattina per Puerto Barrios ? A piedi e con le borse ? Gli manifesto queste perplessità, oltre al fatto che avevamo preso accordi ben precisi con Monarcas, mentre lui, tra l’irritato e l’ironico, ci dà dei fessi, perché potrebbe tranquillamente lasciarci a Rio Hondo dove potremmo prendere oggi stesso il bus locale per i Caraibi.

Claudia ed io ci guardiamo incerti: non sembra una brutta idea, però da Rio Hondo a Puerto Barrios ci possono volere anche 4 ore ed arriveremmo con il buoi; insomma abbiamo un po’ di paura, viste le precauzioni che guide e siti internet suggeriscono per questo paese. L’autista ci assicura che non c’è di che preoccuparsi e che, sebbene sia assurdo, possiamo comunque dormire a Rio Hondo, dove lui conosce un hotel davanti alla stazione dei bus.

Ci convinciamo: andiamo a Rio Hondo e facciamoci scaricare lì. Poi troveremo una sistemazione. La guida indica anche soluzioni per dormire.

Partiamo.

Usciti dall’area del sito, ci dirigiamo inspiegabilmente verso il centro del villaggio di Copan Ruinas, bruttino e molto polveroso. Raggiungiamo la sede locale della Monarcas, dove ci fermiamo per caricare una valanga di persone, evidentemente dirette ad Antigua. Siamo stipati e le borse sono tutte ammassate sul tetto del veicolo, legate con degli elastici. Credo che i nuovi venuti siano tutti Americani; sono molto giovani. Inoltre c’è pure una ragazzina locale che evidentemente “scrocca” un passaggio.

Partiamo nuovamente.

Lungo la strada vedo diversi turisti dirigersi a piedi verso il confine; uno di questi ci ferma e chiede un passaggio: lo scaltro autista lo fredda con un “10 dollari” che lo fa desistere.

Sono agitato per via del non preventivato cambiamento di programma.

Quasi alla sommità della salita che porta al Guatemala, improvvisamente, ci arrestiamo ed invertiamo la marcia: sembra che ci sia un problema meccanico e si debba tornare a Copan per recuperare non so quale pezzo.

Sostiamo, dunque, brevemente presso la Monarcas e poi aspettiamo che l’autista acquisti in una botteghetta un elastico per fissare meglio i bagagli.

Partiamo ancora e questa volta arriviamo abbastanza indenni al posto di confine. Lungo il tragitto, di tanto in tanto, mi volto e controllo che non siano caduti i bagagli, soprattutto lungo la salita.

Questa volta l’attesa alla dogana è un po’ più lunga e non riusciamo a cavercela in meno di venti o trenta minuti. In compenso non ci viene chiesta alcuna tassa, né d’uscita né di ingresso.

Sfrecciamo dunque alla volta di Rio Hondo, dove giungiamo verso le 16.00. Il buon autista ci scarica, davanti alle facce attonite dei nostri compagni di viaggio, come promesso, alla “stazione dei bus” ossia all’incrocio tra la strada da Copan e quella da Puerto Barrios, accanto ad un paio di baracchini che vendono frutta e cibo vario, davanti ad un distributore di benzina, proprio in prossimità del guard rail al bivio delle due strade. Scarica frettolosamente le nostre borse, ci indica un hotel, ci saluta alla buona e parte come una scheggia.

Ci guardiamo in giro un po’ sperduti in quello che sembra essere un posto caotico.

Borse in groppa, decidiamo di andare a vedere l’albergo indicatoci e di dormire qui. Attaversiamo a piedi l’area di servizio e entriamo nell’hotel Rio. Da fuori non si presenta molto male. All’interno ci accoglie una ragazza che ci conferma la disponibilità di stanze da 50 Q o 60 Q, con bagno, e ci manda all’edificio attinguo dove un ciccione ci mostra la stanza. È decisamente bruttina, buia, spoglia e sporchetta, con un bagno abbastanza fatiscente e non pulito. È rivolta verso un campo incolto che aumenta il senso di tristezza e desolazione che proviamo. Il tutto per 50 Q.

Siamo stanchi e preoccupati poiché comincia ad essere tardi e l’oscurità incombe: Claudia vorrebbe andare a Puerto Barrios, ma io insisto per restare. Accettiamo e paghiamo. Poggiamo i bagagli. Claudia va in bagno mentre io mi guardo in giro e vedo una gatta pelosa vicino al letto. Non lo dico ad Claudia. Sono veramente demoralizzato.

Usciamo per ambientarci. Claudia insiste per andare via, così torniamo alla stazione dei bus per vedere che aria tira. C’è un torpedone fermo proprio al bivio delle due strade, che sembra diretto proprio a Puerto Barrios. Ci avviciniamo al posto del guidatore dove un autista ciccione e dall’aspetto gioviale sta divorando famelicamente della frutta da un sacchetto di plasica. Gli domandiamo dove sia diretto e quando parta: è lapidario: “Puerto Barrios” e “ahora”. Ci guardiamo e ci intendiamo subito, lo imploriamo che ci aspetti per 5 minuti perché dovevamo recuperare i bagagli. Annuisce gentilmente confermando che ci avrebbe aspettato quanto volevamo. Sembra contento di averci a bordo.

Voliamo all’albergo, ci fiondiamo in camera, ci carichiamo in spalla le borse e corriamo fuori. Incontro il ciccione e gli chiedo se, andando via, poteva restituirci qualcosa: “nada” risonde brutalmente deciso. Si fotta, penso, e corriamo al bus dove depositiamo i bagagli nel cassone e, trafelati, saliamo a bordo.

Il bus parte verso le 16.30, mentre noi ci accomodiamo verso il fondo, sul lato destro per controllare meglio il bagagliaio alle varie fermate.

Si tratta di un veicolo abbastanza malconcio, ma simpatico: i sedili sfondati e i vetri quasi opachi lo rendono sicuramente caratteristico; probabilmente è un veccho bus statunitense riciclato.

Il bigliettaio ci chiede 25 Q a testa, che ci paiono un cifra un po’ eccessiva, anche perché mi sembra che gli altri passeggeri paghino addirittura con le monete.

Non siamo riusciti a capire esattamente la durata del tragitto, ma dovrebbe essere tra le tre e le cinque ore.

Di tanto in tanto si ferma per far salire qualche locale, mentre noi tiriamo il collo per controllare i bagagli. Il tragitto è scorrevole, ma io sono preoccupato poiché si sta facendo buio.

Gli altri passeggeri sono tutti locali, che salgono o scendono alle varie fermate.

Superata Morales, cominciamo a percepire una atmosfera caraibica con una vegetazione più marittima. Ormai è praticamente buio. Siamo prossimi a Puerto Barrios. Sulla guida sono indicati diversi alberghi a buon prezzo; decidiamo di farci portare a colpo sicuro direttamente a quello che ci sembra il migliore, ossia l’Hotel Europa II. Ci alziamo e chiediamo all’autista dove possiamo trovare un taxi, una volta giunti a destinazione. Ci rinfranca assicurandoci che ce ne sono molti proprio alla stazione dei bus.

Raccogliamo le nostre cose e, una volta arrivati a Puerto Barrios, scendiamo e recuperiamo le nostre borse. Quindi l’autista ci indica i taxi, che effettivamente sono ad una ventina di metri da noi, all’angolo della strada. Senza indugio sgambettiamo verso il primo: il taxista, per 10 Q, ci porta all’albergo, che anche lui considera il migliore tra quelli a buon prezzo.

Sono le 20.30 ed ormai è buoi pesto.

Di Puerto Barrios vediamo ben poco, se non che ci sono diverse aree che paiono dismesse e zone completamente buie. A piedi non avremmo fatto molta strada e, soprattutto, non avremmo mai trovato l’hotel, che è più lontano di quanto sembrasse dalla guida.

Giunti a destinazione, all’interno di un cortile, scendiamo dalla vettura e contrattiamo subito una stanza per 100 Q: è evidente che il ragazzo che ci ha accolto ha sparato una cifra alta, vista l’ora, ma accettiamo senza indugio.

La camera è più che dignitosa, con un ventilatore funzionante e silenzioso. Ci facciamo una doccia tonificante, dopo la levataccia, le corse e le sudate della giornata. Compro dall’acqua alla reception, ossai il patio dell’abitazione dei proprietari. Gioco un pochino anche con la piccola scimmetta al guinzaglio legata all’ingresso. Ceniamo con un po’ di nachos avanzati da chissà quando e, spenta la luce, ci addormentiamo esausti, ma soddisfatti della giornata.



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