Karpathos 2000
29 maggio L’isola di Karpathos ci è apparsa a poco a poco in tutta la sua severa ostilità di roccia brulla a strapiombo dal finestrino dell’aereo di linea che la collega a Rodi, un curioso apparecchio bimotore a dieci posti per trasvolazioni già appartenuto a D’Annunzio. La mano ferma e sicura del comandante ci ha tuttavia deposto delicatamente all’aeroporto di Karpathos, ovvero una striscia d’asfalto nel deserto con un bilocale più servizi a fare da aerostazione. Senza frapporre indugio una volta giunti in città abbiamo noleggiato un’auto (Citroen Saxo, ZZZ1867) ed abbiamo aggredito l’isola. La montagna fornisce senza ritegno fragranze mediterranee multiple di timo, salvia, incenso, pino e chissà cos’altro ancora; ovunque oleandri dai fiori di colore variabile si articolano agli ulivi fioriti ed ai cardi, oppure alle altre miriadi di cespugli che pungono. Si arriva così a Lefkos alle 18,35; la spiaggia è vuota, i tre bagnanti presenti sono risaliti ed i gabbiani volteggiano vociando per non so quale necessità. Di fronte alla spiaggia l’isola di Xokastro sparisce nella nebbiolina azzurra mentre un gatto bianco e nero a pelo lungo, visibilmente lurido, stazione sulla veranda del nostro appartamento assieme alle formiche più grandi della Grecia. Alla sera, dopo aver mangiato un pesce appena pescato e cucinato con salsa al timo, rimane un qualcosa da cartolina, che supponenza, una musica folkloristica lontana, la risacca e i grilli. Solo le zanzare non fanno parte del programma turistico. All’imbrunire la spiaggia è attraversata da un gregge transumante al suono di campanacci dopodiché la notte greca si impossessa della scena discretamente inghiottendo i turisti scandinavi seduti ai tavoli della taverna. Eccomi nell’ultimo posto del mondo, o forse nel primo, a sovrapporre il presente a latenti rimembranze cretesi, perché la storia è sempre quella, il mare e le possenti, aride, catene.
30 maggio Il nostro veicolo dà segni di irrequietezza accendendosi di numerose spie, salvo poi manifestare niente più di una fastidiosa aerofagia al radiatore, come uno scorreggione qualsiasi. E’ un giorno fatto apposta per scorrazzare su e giù per lo scoglio, da Lefkos a Pigadia via Menetes e poi ancora su, Volada, Othos, verso Mesochori. Giunti alla sella che mostra il mare da entrambi i lati troviamo i resti di una fila di mulini a vento in pietra (anemòmilos) forse medievali ed una taverna dallo stesso nome con adeguata ombra per l’ora del mezzodì. Più avanti c’è la strada di Spoa e, forse, di Olympos, ma non si sa ancora se esiste e, caso mai, come considerarla. Si procede pertanto verso sud su di una sterrata che costeggia la vertigine del precipizio senza tuttavia dotarsi di qualsivoglia precauzione sotto forma di guard rail, come usa da queste parti. E’ una via polverosa, che rivela, ad intervalli, voragini di spiagge turchine ed apparentemente irraggiungibili e si getta in macchie di conifere per condurre infine a Kyra Panagia, raggiunta caricando due autostoppiste francesi. Qui si entra in possesso dell’appartamento che il giorno precedente era stato trovato occupato: una stanza che affaccia sul terrazzo delle mille e una notte tra vento, mare e gerani. In questo luogo si potrebbe agevolmente restare qualche milione di anni; dovremo farci bastare due giorni.
31 maggio Gran parte della giornata per me, persona umbrofila, trascorre sparpagliata sulla terrazza a guardare il mare. L’interno ombroso di questa antica dimora karpaziana offre silenzio e diletto: la porta, suddivisa in due battenti orizzontali anziché verticali, si apre al mattino sul sole accecante riverberato dentro il mare. Il nostro appartamento è situato proprio sopra alla minuscola chiesetta di Kyra Panagia che ha il portale blu, le cornici delle finestre celesti e la cupola rosso mattone. Dietro la chiesa c’è un terrazzo, ovviamente a strapiombo sul mare, un albero e, quasi sempre, un gatto.
Nel pomeriggio prendiamo un sentiero nella macchia che diparte da Kyra Panagia per raggiungere la vicina baia di Kato Lako. La suddetta macchia è dominata da tre colori essenziali: il blu oltremare dell’oltremare con il turchese verso riva che fa “pandant” o come cacchio si dice, il verde scuro dei pini unitamente agli altri verdi meno accesi dei cespugli e degli altri arredi della macchia ed il rosso terra bruciata, esattamente lo stesso colore dei campi da tennis. I cespugli citati sono di natura essenzialmente ostile: cardi, anacardi, vegetali secchi e spinosi, rami duri e taglienti, piante senza foglia alcuna, solo dipendenze acuminate ed accessori di offesa. Quando termina la macchia di pini ci si ritrova su di un’arida distesa cosparsa dalle suddette piante che digrada verso la scogliera e quindi a picco verso il mare. La spiaggia è un piccolo gioiello, ovviamente deserto, rinchiuso tra le rocce, mentre da lontano il monte del Profeta Elia, o chi per lui, mostra la sua vetta avvolta dalle nubi come una sorta d’Olimpo. Il ritorno implica un errore di percorso e conduce verso un sentiero periglioso assai che transita sotto le scogliere per itinerari scoscesi e balze vertiginose su un mare blu spavento. La cattiva strada viene abbandonata dopo non poche ansie per ricercare la retta via che rifugge di nuovo nella macchia fattasi ombrosa nei pressi dell’imbrunire.
1 Giugno Partendo a mezzo mattino da Kyra Panagia e proseguendo verso Spoa si ha da affrontare di nuovo la strada polverosa e serpeggiante che si alza sul fianco della montagna ed offre senza riparo né remore vista sull’abisso che termina blu dopo repentini precipizi e balze dantesche. Gli indigeni transitano su questa pista con i loro pickups degli anni cinquanta ad andature vertiginose. A circa metà percorso una deviazione propone la spiaggia di Apella che sarà successivamente luogo di soggiorno. Giunti a Spoa si rompono gli indugi e si segue il cartello che indica Olympos, il paese sito nell’estremo nord dell’isola, talmente isolato che gli abitanti parlano, pare, un’altra lingua. Siamo gli unici, probabilmente, ad andarci in macchina, visto che è molto più comodo prendere la barca e vista la condizione della strada che offre, come al solito, discreti burroni senza riparo. Il percorso, circa 20 chilometri di precarietà in olio d’oliva, è così articolato: una prima parte con ordinario dirupo a destra ed ampie anse boscose ed una seconda con dirupo da ambo i lati e scenari aridi e ventosi, a tratti alpini, con nuvole basse. Auto incrociate: 1. Superato con deferenza il monte del Profeta Elia, incappucciato come al solito, compare Olympos in un contorno da cartolina. Il paese è assai curioso, forse tetro data la quasi totale assenza di abitanti (Karpathos è terra d’emigranti). I pochi presenti tentano tutti di vendere qualcosa; noi si compra, un po’ per cortesia ed un po’ per effettiva necessità, mezzo chilo di miele da unire allo yogurt bianco, cannella, preparato misto d’erbe e spezie per carne alla griglia e mandìla bianca (copricapo tradizionale tipo foulard) che mia moglie cercherà successivamente per tutto il giorno invano di indossare correttamente. Olympos è tutta qua, un curioso e polveroso alveare bianco e terroso appeso ad un monte attorno a cui continuano a volteggiare nuvole. Il paese un tempo era sul mare, poi è stato trasferito qui perché gli abitanti si sono rotti le balle di farsi depredare dai pirati saraceni; le facciate delle case verso il mare infatti non sono bianche, ma colore della terra per non essere individuate. Si riprende l’auto e si scende a Diafani per strada finalmente asfaltata. Il paese si presenta come un grazioso porticciolo azzurro e bianco immerso nella pentola delle due pomeridiane. Non ci si ferma molto, non si approfondisce, sia perché c’è poco da approfondire, sia perché ho premura di lasciarmi alle spalle la stradaccia di Olympos. Macchine incrociate al ritorno: 2. Il paesaggio è in effetti un curioso quanto perfetto amalgama tra le Alpi ed il Mediterraneo, con le sue montagne bianche ed aride a tratti coperte di pini e, sottostante, il mare più blu del mondo. Usciti finalmente dall’osceno budello e ritornati a Spoa si scende verso Agios Nikolaos onde prendere quartiere. Il posto è un villaggio di pescatori: in Grecia il 90% dei villaggi di pescatori e delle barche da pesca di chiamano Agios Nikolaos perché San Nicola è il protettore dei pescatori. Il “paese” è in fondo ad un’altra mulattiera immonda ed è l’immagine della tranquillità, se si eccettua una betoniera presto partita: una piccola baia con pochissime case e due spiaggette distinte. In mezzo alla baia è ormeggiato un peschereccio ed i proprietari, come da copione, sono a riva a rammendare le reti. Il resto del paese è deserto. Il silenzio è pressoché totale. Dall’unico ristoratore/affittacamere regna l’apatia più totale assieme ad una leggera mestizia. Il sole splende, le cicale cantano, il mare scialacqua e tutti cazzeggiano, fingendo in modo più o meno riuscito di essere impegnati nell’esercizio di svariate mansioni. Il luogo è certamente più fuori dal mondo di ogni altro visto in precedenza e, preso in dosi massicce, potrebbe indurre ad atti di autolesionismo. Verso sera arriva un fuoristrada targato Ravenna (!); il proprietario, effettivamente di Ravenna, possiede o affitta una casetta in questo luogo e viene a fare immersioni. E’ il primo (e l’ultimo) turista italiano incontrato.
2 Giugno L’alba è arrivata seguendo il solito iter consolidato, costituito da fosforescenze, bagliori e rossori che sfumano tra loro. Ondate di cupe nubi fanno ipotizzare stormi di temporali in arrivo, ma non se ne farà nulla. Si parte, dunque, rimontando la carraia finché, quasi a Spoa, una vecchia armata di bastone ci ingiunge con oscure minacce di darle un passaggio. E’ vestita completamente di nero, come da copione, solo che mi sforna un paio di scarpe da footing ultra-torsion-hi-tech (bianche). Da Spoa si torna alla taverna Anemòmilos per la colazione e si saggia con estremo timore la forza del vento che spazza la sella dei mulini e minaccia addirittura l’equilibrio. Optiamo quindi per un’ariosa variante stradale che transita sul fianco occidentale del sassone: scendendo verso Mesochori si sperimenta una Grecia vagamente gotica con nuvole nere, fitte pinete e brughiere quasi scozzesi. A Mesochori si fa transito e si prosegue oltrepassando anche Lefkos. Ad Arkassa ci illudiamo di poter visitare il sito archeologico di Paleokastro, situato su una penisola-promontorio, ma l’acropoli non è raggiungibile, mentre più in basso ci sono alcuni pavimenti a mosaico meritevoli di maggio causa a fare da moquette per le pecore. Saliamo pertanto verso Menetes, solito paese-grappolo che si attraversa come un imbuto. Oltre Menetes si trova quello che sembra quello che sembra un monumento ai caduti sui generis o alla resistenza contro l’italiano invasore, ovvero una statuona di bronzo recante le rozze fattezze di giovine armato che offre intrepido il petto al nemico; tale scultura è situata sopra una piattaforma sopraelevata raggiungibile mediante scalinata tipo ziggurat. Qui in alto il vento più forte che abbia mai visto mi ha letteralmente spostato pericolosamente verso la balaustra e mi ha fatto temere di non riuscire più a scendere (cosa che ho poi fatto praticamente carponi dal momento che era impossibile mantenere la posizione eretta). Via! Via! Ovunque il Meltèmi, il sinistro vento del nord, imperversa. Pigadia, comunque, brulica di tedeschi che girano imperterriti in costume (fa effettivamente un po’ freddo, meno comunque che ad Amburgo). Ricomincia il giro dell’oca: si risale verso Aperi/Kyra provando stavolta la discesa verso la spiaggia di Achata: la strada è il solito macello, il mare è cobalto e turchino ma non esiste in loco ricovero alcuno che possa garantirci la permanenza per cui siamo costretti a tornare sulla abietta costiera Kyra/Spoa tentando la carta Apella. La si raggiunge al termine di un viottolo rosso e polveroso lungo qualche chilometro mentre banchi di nuvole si inseguono a velocità supersonica. Il luogo è qualcosa di incredibile; la baia sassosa e ghiaiosa è circondata da una cintura di conifere ed oleandri fioriti, mentre le montagne color cenere che fanno da quinta sono un continuo alternarsi di ombre e luce prima di terminare appena sotto al turbinio bianco, nero e azzurro del cielo di Karpathos. C’è un solo edificio in tutta la baia che ospita cucina al pianterreno e quattro camere al primo piano. Di fronte alla cucina la terrazza-ristorante con vista mare. La struttura è gestita da una famiglia di Spoa: il vecchio tra il ’40 e il ’45 è stato balilla e ha studiato l’italiano. Dice che tutti i bambini del Dodecaneso allora venivano portati a fare il giro turistico delle principali città italiane. Dopo la guerra è stato emigrante a New York ed in Pennsylvania e poi è tornato a casa. Oggi è stato impegnato tutto il giorno a scannare e scuoiare un capretto. Il vento rende proibitivo un qualsiasi soggiorno balneare; è un peccato perché la spiaggia, lunga almeno un chilometro è totalmente deserta, mentre il Meltèmi fa risaltare tutte le trasparenze e le sfumature d’azzurro dell’acqua. La spiaggia si raggiunge attraverso una scalinata in pietra ottimamente sistemata. E’ ad ogni modo questo un luogo estremo che offre cose esagerate: vento fortissimo, montagne ripidissime, mare bluissimo e solitudini da ritiro monastico. Tenterò di fare belle foto. Anche qui due gatti adulti e quattro cuccioli, segno indiscusso di civiltà. Non arriva qui corrente elettrica e tutta la baracca è servita da un generatore che però viene spento alle 21 perché altrimenti fa troppo casino; per quell’ora saremo tutti con la candela in mano.
3 Giugno La nottata è stata furiosa di Meltèmi, ma il mattino, libero da nubi, consente un’esemplare esplorazione mediterranea, mentre la luminosa spiaggia di Apella si apre come una gigantesca ostrica colmandoci di perle. Il greto in secca del torrente che sfocia al centro della baia è colonizzato da innumerevoli oleandri rosa che prosperano in gran numero e copia. La corona della spiaggia è come al solito prodiga di pini e timi ed essenze volanti di origano. Il mare produce abbondanti cavalloni di cristallo turchese che terminano bianchi sulla ghiaia fine della costa. Visto dall’alto lo spettacolo sembra una sfera di vetro con dentro tutte le cose ed i colori scelti per la bisogna ed accordati in composizioni esagerate per intensità dei toni eppure eleganti sia nell’accostamento che nella sovrapposizione. Tutti i colori brillano spaventosamente per noi, abituati alle tinte slavate della pianura padana. La tela è costituita dal grigio-bruno delle montagne, mentre le pennellate violente sono di verde e dei toni dell’azzurro. Si può dire ancora qualcosa intorno alla macchia che lambisce la riva: nel pomeriggio il sole, ruotando, penetra il sottobosco d’aghi e cicale generando effetti di trasparenze e zenitali controluce, poi comincia a scendere dietro il Kalo Limni e la poca gente comincia a sfollare alla spicciolata. Verso le 19 rimangono avanzi masticati di Meltèmi, un traghetto che transita sullo sfondo diretto presumibilmente a Rodi ed una luce gialla sulle cose. Restiamo anche noi, con l’anziano albergatore, la moglie e gli altri due pensionanti tedeschi, in questo volontario esilio in attesa che si spengano le luci artificiali e quelle naturali 4 Giugno Come un qualsiasi anacoreta protocristiano me ne sto seduto sotto una protogrotta in riva a lo mare.
Il risveglio ad Apella si è rivelato tempista per vedere l’alba che, detto per inciso, avviene veramente in un secondo. Dopo aver salutato Anna e Louis, tenutari del luogo, ci s’arrampica sull’erta tornando, non volendo, a Pigadia: contrariamente alla prima zingaresca settimana, nella seconda abbiamo una prenotazione in un albergo del capoluogo, vincolo previsto dal pacchetto volo più soggiorno. Pigadia. Che dire, questa cittadina ha il dono di deprimere ad oltranza, specialmente chi, come noi, è reduce da due giorni ad Apella. E non è finita: l’hotel Seven Stars è la ciliegina sulla torta. Un albergatore filinesco (nel senso del fantozziano Filini) ci introduce alla nostra camera, posta al termine di un oscuro corridoio cieco. Il balcone ha vista mare solo voltandosi a sinistra di 90°, di fronte c’è quello che sembra una sorta di capannoncino artigianale precario, che dopo verremo a sapere essere stato una discoteca-night-bordello di bassa lega, il “Memories Club”, aperto a suo tempo da maneggioni russi con manovalanza del sesso albanese ed ucraina e fatto chiudere su pressione delle mogli cornute dell’isola. I greci sono comunque artisti del precario, professionisti di una tendenza al non-finito che si direbbe quasi intenzionale vista la perseveranza impiegata. Ogni realizzazione ha come un alone di indefinito, di “finisco domani”, di “per ora basta”, che infastidisce e contagia. Dietro ai ferri torti e sporgenti delle strutture in cemento armato non finite sparpagliate per ogni dove c’è tutta la poesia e l’amore per il calcestruzzo di questo popolo, già erede dell’architettura classica, che ha elevato la betoniera al rango di divinità pagana. Però c’è iniziativa, voglia di fare (“cultura del fare” direbbe Berlusconi), pure troppa in quest’incessante lavorio di costruzione che dissemina inoltre l’isola di centinaia di minuscole e bianchissime cappelle nei luoghi più assurdi ed impervi. Si va ad esplorare Pigadia e subito assale un tedio domenicale che s’aggiunge alla precedente disposizione d’animo verso il basso. L’orario meridiano e lo scarso afflusso turistico dipingono uno scenario di inerzia apocalittica sui volti dei bottegai. La mercanzia dei negozi di souvenir è la solita di tutta la Grecia, a partire dai libri sulla vita sessuale degli antichi greci fino alle cassette di sirtaki ed alle foto con i muli. I ristoranti sono vuoti (del resto i turisti sono solo tedeschi, che, per partito preso, non pranzano) ed i camerieri non hanno nemmeno voglia di invitarti dentro. Per le vie col sole a picco c’è sapore di polvere, mentre gli attempati tedeschi sentono tutti un impellente bisogno di abbigliarsi in modo clownesco. I rarissimi italiani si riconoscono per: 1) marsupio (ce l’hanno solo loro), 2) vestiti comunque e dovunque di marca, 3) cappellino stile baseball o bandana, 4) assenza di calze. Una depressione labirintica traditrice coglie alle spalle ed accoltella al fianco. Facciamo shopping: compriamo mollette per panni (tre quarti d’ora per spiegare al negoziante cosa si cercava) per un totale di dracme 336. Il paese sembra la Puglia o il Messico visti da uno in acido; non ho visto nè la Puglia nè il Messico, ma sono comunque un po’ in acido. L’unica è prendere la Saxo e fuggire finché si è in tempo. Si va a mangiare a Finiki da Marina tra tedeschi che arrivano a pullmanate. Dopo pranzo, una volta giunti ad Arkassa, si piglia per spirito di diporto una sterrata che dovrebbe condurre ad Agios Theodoros, all’estremo sud dell’isola. Persi di nuovo per polverose carraie ritorna piano piano il sentimento della vita; allontanandosi dalla civiltà si scopre un paesaggio quasi alieno, punteggiato come al solito dalle solite grottesche costruzioni che spesso hanno le dimensioni di un box auto o di una tomba a mausoleo e che non si sa se interpretare come abbozzi di seconde case od ovili di lusso. Il luogo, realmente arido e decisamente desolato (un enorme incendio anni fa ha spazzato via ogni traccia d’albero) è una sorta di altipiano naturalmente coltivato a timo che inquadra come quinta azzurrina l’isola di Kassos lì ad un palmo di naso. Il tappeto uniforme dei cespugli di timo è in fiore ed è tutto punteggiato del rosa-violetto delle infiorescenze; la vegetazione non supera in ogni caso i 10 cm di altezza. Il luogo intitolato a San Teodoro è la punta dell’iceberg del suddetto deserto, una sorta di penisola polverosa protesa nel nulla. C’è una spiaggia erosa dal mare e protetta dal vento che si presta alla compilazione del presente documento. Tra una suggestione protocristiana ed una tipo Zabriskie Point, s’esercita l’arte dell’amnesia.
A sera si rientra di botto nei canali della civiltà: gente, souvenir, cartoline, ristoranti e Gazzetta dello Sport (di tre giorni prima). Pigadia a sera cambia completamente volto e, complici l’oscurità e le luci, diventa un grazioso porticciolo pieno di movimento ma con garbo, con un’atmosfera quasi da sagra. Lo scintillio di luci del porto nasconde tutte le pecche di questo posto dietro un vestito di composta allegria. Un duo composto da suonatore di lauto (?) ed anziano suonatore di bouzouki fanno ulteriormente lievitare le quotazioni di questa tanto bistrattata cittadina.
5 Giugno Ormai appare chiaro che il resto della vacanza sarà indubbiamente all’insegna dell’opulenza e dell’edonismo più sfrenato, in particolare per quanto riguarda l’aspetto gastronomico. La mattinata è trascorsa in maniera interlocutoria: per ovviare al fatto che la nostra camera era sprovvista di letto matrimoniale, dopo reiterate proteste siamo stati trasferiti dalla numero 7 (rivolta al mezzogiorno e con vista sulle baracche) alla ben più umbratile numero 125 (vista swimming pool). Un deciso salto di qualità. Dopo trasferimento in paese con visita alla banca (tràpeza) si va all’ufficio Columbus, agenzia spacciatrice di viaggi, dove si conosce Simona, addetta al comfort del nostro soggiorno. Essendo uomo sposato dovrei astenermi dal fare pubblicamente apprezzamenti sulla menzionata Simona, eppure li faccio. Ci dà più d’una dritta per un piacevole soggiorno sull’isola, in particolare su spiagge e ristoranti. Seguendo una di queste dritte ci si reca ad una spiaggia frequentata da surfisti (windsurfisti) ad un orario improbabile per fare un veloce bagno. Sulla spiaggia però invece dei surfisti troviamo i nudisti, nella forma e dimensione di sei tedeschi d’ambedue i sessi. Uno di costoro, gran budellone sessantenne, volto distinto da dirigente Bundesbank, ustioni di terzo grado, copre le ridotte vergogne con gli innumerevoli rotoli del proprio ventre. Tutti e sei comunque si presentano spiacevoli a vedersi. Allora via verso Amopi (o Ammopi, o Ammoopi o Amoopi o come cavolo si scrive), la Rimini in miniatura di Karpathos, per un appagante pasto da Michalis sotto una confortevole ed enorme veranda, accompagnati dalle onnipresenti e lisergiche melodie popolari elleniche. Niente vento, temperatura ideale.
Dopo pranzo si prosegue verso l’aerodromio a cercare un’altra spiaggia suggerita da Simona. Dopo un lungo e tortuoso percorso che costeggia per svariati chilometri la recinzione aeroportuale si arriva alla baia di Elearis; una stretta lingua di terra che termina con un piccolo promontorio offre una piccola spiaggia che ci è stata promessa “di tipo caraibico” ed infatti è proprio di tipo caraibico, interamente sabbiosa, bianca e fornita delle adeguate e dovute trasparenze, nonché dalla prevista ed ufficiale gamma di colori richiesta a questo tipo di spiagge. Elearis è stata classificata unanimemente al primo posto tra le spiagge dell’isola. Anche qui una coppia di nordici nudi (olandesi?) stanno per ore a dormire sotto una tenda di fortuna. Sono gli unici esseri viventi nel raggio di dieci chilometri. Luogo comunque troppo ventoso.
6 Giugno Si torna a Kyra, per nostalgia, ad esercitare l’incoscienza appoggiati al muretto della chiesa guardando il mare. In mattinata, su consiglio della signora Anna degli studios Akropolis di Kyra, si parte decisi a raggiungere la spiaggia di Makris Gialos. Abbandoniamo la Saxo a circa due terzi della discesa infame, piantandola su una curva ad U dopo averle fatto sbattere i denti su di un sassone sommerso dall’unica pozzanghera esistente sull’isola. Occorre precisare a questo punto che, a furia di fare sterrati, la macchina, pur integra, è divenuta un ricettacolo di tutte le polveri e le sabbie raccattate per Karpathos; da blu scuro è ora di un colore grigio fumo di Atene, mentre l’interno è rivestito da una omogenea patina. Per inciso: come estremo lusso la Saxo è fornita di autoradio, peccato che si riceva solo, e male, una stazione che trasmette solo notiziari (mi pare fossero notiziari) e musica pop greca; fortunatamente abbiamo con noi una cassetta di Frank Black che diviene, volente o nolente, la colonna sonora del viaggio. Dicevamo, lasciata l’auto, scendiamo a piedi verso Makris Gialos, che, ovviamente, è una fantastica spiaggia solitaria, ma ormai il fatto non ci stupisce più. Mi rintano nel primo entroterra per sfuggire al sole meridiano e mi corico su soffice eppur pungente giaciglio d’aghi di pino. Passano nuvole che dopo le 13 si diradano del tutto. L’assenza di vento (evento) rende affannosa e sudata la risalita verso l’auto; il rifugio è, come sempre, davanti ad una greek salad all’ombra della santissima Panagia.
7 Giugno Ieri sera, preda di un delirio di onnipotenza gastrica, di una smania da competizione alimentare, ho deciso di cenare due volte e, di conseguenza, dopo ho avuto grossa crisi. Da Ideal, sul porto, forniscono uno dei migliori souvlaki del Mar Egeo, mentre da Kelari, John, ex marinero, mi ha appioppato una porzione di pastizio grossa come un forato del dodici. Aggiungendo due Amstel (preferita all’Heineken e all’insipida birra autoctona Mithos) si ottiene come risultato un vagare incerto, brasato, lungo le vie di Pigadia popolate da crucconi come i sobborghi di Francoforte. I greci uomini sono tutto sommato bruttini, mostrano talvolta affinità somatiche con le genti d’Albania (basta non dirglielo) e provano un contenuto ma inequivocabile desiderio ad apparire tamarri, anche e soprattutto in macchina; qui c’è ancora chi, d’amblè, gira privo di targa e comunque è assodato che nessuno sa guidare, forse perché, come ipotizzato crudelmente dalle memorie di un turista italiano vergate sul librone dell’hotel, troppo inclini a condurre asini ed altri animali affini con lunghe orecchie. Tutt’altro discorso per le giovani greche, fisico impeccabile, portamento naturalmente altero e profilo greco. Stamane abbiamo reso visita all’altra nostra tour operator, Belinda, probabilmente un nome d’arte, che è fuori come un balcone, ed abbiamo appurato definitivamente che sarà impossibile recarsi sull’isola di Kassos (Caso) e su quella di Sarià essendo carenti i collegamenti. La mattinata, abolita la spiaggia, è passata condividendo un po’ di tempo con i tedeschi che, in stato di coma vigile, popolano fino a sera i bordi della piscina. Aspetto più umano di loro ha Mamma Gatta, che popola la piscina con i suoi tre gattini, Souvlaki, Saganaki e Musaka. Nel pomeriggio si parte verso il golfo di Afiartis e ci si cala verso innumerevoli mari. Il sole a perpendicolo rende l’acqua ancora più trasparente e si riconosce la geografia dei primi fondali, con le macchie nere dei banchi di alghe ed il bianco delle distese sabbiose. La strada che collega l’aeroporto ad Arkassa è un distributore di polvere desolato di macchia minimale, tra rovine sassose di supposti ovili ed altre incomprensibili costruzioni. Si transita a fianco delle cinque grandi eliche dei generatori eolici, mentre un falco, o un volatile ritenuto falco, volteggia virtuosamente nel vento riducendo al minimo il movimento delle ali e planando sulle correnti. Poi via verso nord, oltre gli assurdi campi di grano in miniatura di Finiki, risalendo in direzione di Pyles e Othos con la molto vaga idea di raggiungere un santuario montano nei paraggi. Poi, come accade spesso in questi frangenti, un colpo d’estro e via verso Stès: nel pieno del meriggio, davanti alla chiesetta del paese e sotto un grande albero si apprezzano il fresco ed il silenzio interrotto solo sporadicamente dal ragliare d’un asino. Stès è un paesino apparentemente agricolo completamente deserto ed assorto in una calma totale; data l’altitudine c’è una bella arietta e tutto è molto più verde di fichi, oleandri, pini ed altre varietà arboree. Giù, confuso nella cappa di umidità, si vede il mare. Alla sera si fa tappa al Cafè Karpathos, “angolo italiano” dell’isola, unico posto dove viene servito ‘o cafè fatto con la moka, anziché il sabbioso caffè locale, da una cameriera georgiana. Il locale è gestito da Elias Zerbudakis, memoria storica dell’isola dispiegata in buon italiano, il quale racconta come nel 1943 rimase a presidiare l’isola un plotone di 300 italiani che, minacciati dai greci, chiesero di essere affidati agli inglesi; così una piccola barca con sette uomini partì da Finiki verso l’Egitto per comunicare al comando inglese l’avvenuta liberazione dell’isola. A Finiki si può vedere il monumento con la barchetta ed i sette uomini a bordo. Gli italiani vennero prelevati tutti tranne uno, tale Gatullo o Catullo, che rimase e sposò una greca. Suo figlio, Gatoulis, ora renta le car ai turisti italiani in Pigadia. Elias dice che molti di quelli venuti qui in guerra dopo ritornarono: un marinaio inglese di 85 anni tornò in vacanza dopo aver cannoneggiato l’isola nel ’40 e nel ’41, così come il comandante della guarnigione tedesca ed il napoletano che era stato il maestro di italiano di Elias a scuola. Gli italiani qui rimasero dal 1912 al 1943, quando l’isola brulicava di tedeschi, esattamente come oggi. Elias mi dice ancora che d’inverno si raggiungono di minima i 10° e che la stagione migliore sull’isola è settembre; d’inverno dice che fa freddo perché le case non sono più quelle di una volta di sasso ma sottili gusci di cemento. Avevo notato. Gli scarpantini, gente assai poco di mare, molto più legata alla montagna ed al sasso, tornano da tutto il mondo ad agosto e la popolazione pertanto triplica, mentre d’inverno lo Stato eroga sovvenzioni a chi rimane sull’isola. Mi spiega anche le differenze climatiche anche forti che esistono tra le isole del Dodecaneso e di come, ad esempio, Rodi, Chios, Kalymnos e Lesvos siano umidissime. Ci introduce quindi ad un gruppo di altri abituali avventori del locale tra cui l’architetto che ha progettato l’edificio dove abbiamo soggiornato ad Apella ed una signora di Perugia sposata ad un veterinario greco, la quale dice che l’inverno a Karpathos è deprimente. E’ sempre Elias che ci racconta come stia aspettando gli italiani che gli chiederanno sostanzialmente due cose, dove mangiare bene e dove affittare motorini, e che comunque sono più simpatici dei tedeschi che, peraltro, non hanno del greco né fazza né razza. Quella con Elias è stata una serata veramente ricca, piena di input e di output, come dicono i managers, oppure di esa e di exo (dentro e fuori), come il sofisticato nome dell’unico night club di Karpathos.
Ieri, tornando da Kyra, abbiamo caricato una signora di Friburgo non più giovanissima e un po’ fricchettona che viene qui due mesi all’anno e si gira l’isola in autobus e a piedi. Abbiamo inoltre appurato che le nostre tour operators, Belinda e Simona, non fanno praticamente una beata fava: Simona sta qui quattro mesi (e la pagano pure) facendo le quattro tutte le mattine (non per lavoro); conosce ovviamente benissimo tutte le spiagge ed i ristoranti dell’isola ed attualmente noi siamo gli unici turisti Columbus sull’isola ma non diamo troppo da pensare. D’inverno mi dice che lavora in discoteca. Stroncati da queste esperienze di lavoro estremo ci chiediamo dove e quando abbiamo sbagliato. 8 Giugno Doveva accadere prima o poi. L’anima del pensionato e pensionante tedesco budellone si è impadronita di noi e ci ha condotto ad una giornata di onesta deriva. Una porzione della mattinata è trascorsa nella inevitabile ricerca dei presenti da portare a casa, con l’aggravante che i negozi di Pigadia hanno tutti le stesse cose e che tali cose sono, come sempre in questi casi, completamente inutili e spesso orribili a vedersi. Per non sbagliare ho omaggiato tutti con alcool in varie forme. A proposito: i supermarket greci sono le più assurde concentrazioni di vaccate del mondo. La maggior parte dei prodotti alimentari in scatola hanno un aspetto talmente tetro che viene spontaneo servirsene per qualsiasi scopo tranne quello nutritivo. Ho comunque acquistato, a scopo intimidatorio, una confezione di “spaggeti” imitazione Barilla. A sera, dopo un sommario e grottesco lavaggio alla Saxo, si viaggia verso Finiki con tramonto panavision per cenare da Nikos. Buona abitudine invece è diventata quella di passare il dopocena da Elias: tra un caffè ed una ciliegia si parla degli accenti degli abitanti delle diverse isole, della coltivazione del basilico, dei turchi e di come si produce l’olio ed il vino nei villaggi di Karpathos. Il viaggio sta per terminare e domani saranno spesi gli ultimi spiccioli di vacanza; lasciamo la Saxo esausta con 600 chilometri di strade sulla groppa (e l’isola è lunga solo 50 chilometri…) ed una sporcizia difficilmente rimuovibile all’interno. Un sentimento combattuto tra la malinconia di fine ferie ed il desiderio di casa si fa largo, alimentato da un leggero senso di noia dovuto ad overdose di spiagge e sterrati. Mi restano 17.000 dracme (circa centomila lire), un paio di foto dell’ultimo rullino, un pacchetto di sigarette greche Assos ed il verde smeraldo della piscina notturna sotto il balcone. 9 Giugno Con il solito sole a picco del mezzogiorno ci caliamo per gli stretti pertugi delle viuzze di Mesochori, dedalo quasi arabo con angoli rinchiusi ed ortivi di minuscole aiuole con zucchini e cetrioli. Passano per la stretta via solo gli asini con i proprietari, mentre dagli anfratti più prossimi arrivano brevi eco domestiche di desinare e di televisori accesi in recessi ombrosi fuori dalla portata del sole che rimbalza sul paese bianco. Fuori dal cafènion Omonia c’è quel tanto d’ombra che basta ed un quasi paradossale senso di mediterraneità rinserrato tra muri, gerani ed imposte azzurre. Nel paese a picco sul mare che sembra un gomitolo arrotolato il mare non si vede mai.
Si termina il soggiorno ove lo si era iniziato, ovvero a Lefkos, in quest’ampio e calmo golfo quasi da ultima stazione, diciamo da penultima stazione, del mondo, sotto la pergola del ristorante Three Dolphins ad osservare il mare. Nella mattinata si è andati a rendere l’ultimo omaggio alla spiaggia di Elearis che, come al solito, era orribilmente spazzata dal vento ed abitata dai soliti due olandesi (?) nudi. Abbiamo passato tutta la costa occidentale dell’isola in un sommario riepilogo ed ora un’abbondante razione di pastizio (praticamente la pasta al forno) mi ha ridotto ai minimi termini. Lasciata Lefkos torniamo a Pigadia per la strada di Menetes dopo aver visitato la cisterna romana, enigmatico sito archeologico praticamente abbandonato, immerso in una macchia mediterranea assai più esaltante delle poche rovine senza nome. La sera è il momento dei saluti alla rutilante e vorticosa Karpathos dal balcone delle sette stelle mentre il vento, finalmente benedetto, viene a ripagare di una giornata torrida. Serata di congedo da Simona, dal souvlaki, da Elias, dalla combriccola del caffè italiano. Torniamo in albergo per l’usuale percorso ormai memorizzato in questa cittadina che, nella serata calda ma ventilata, esprime nell’oscurità una certa idea di vacanza ed un fascino di paese d’estate con il suo corredo di sogni in simbiosi con la notte ed il mare. Accompagnati da questo pathos e da lievi ed acquose malinconie di commiato noi si va via.