Dall’Antilibano all’Eufrate. Viaggio in Siria

Da Aleppo a Damasco, passando per Ebla, Apamea, Hamah, Palmyra, l'Eufrate e le cittadine cristiane a Nord di Damasco.
Scritto da: steber
dall'antilibano all'eufrate. viaggio in siria
Partenza il: 07/04/2010
Ritorno il: 14/04/2010
Viaggiatori: 6
Spesa: 2000 €
DALL’ANTILIBANO ALL’EUFRATE. VIAGGIO IN SIRIA

7-14APRILE 2010

7 APRILE. BOLOGNA – ALEPPO

Partiamo in sei: Teresa e Maria Grazia, Laura e Franco, Giovanni ed io.

Il viaggio è senza problemi: sorvoliamo il mar Ionio, l’isola di Zante, il Peloponneso (montagne ancora innevate!), Cipro; compare, infine, la costa siriana, evanescente tra la foschia. Ci abbassiamo sulla zona di Aleppo, guardando i rettangoli dei campi, rossi di terra arata e verdi di grano. All’orizzonte il sole sta tramontando. All’aeroporto, all’uscita del tunnel ci aspetta Said, che ci farà da guida e da angelo custode per tutti i giorni successivi; mentre cambiamo un po’ di euro, sbriga lui le pratiche relative ai controlli dei passaporti e ai visti. L’aeroporto è pieno di guardie armate. Recuperati i bagagli, usciamo infine nell’atrio, ornato da una bella fontana. Intorno, signori siriani con lunghe vesti color caffelatte e kefìà bianche e bianche e rosse. Dignità e silenzio. L’aeroporto è lontano dal centro, dove si trova il nostro albergo; il trasbordo è abbastanza lungo. Il sole è ormai tramontato (con circa un’ora di anticipo rispetto all’Italia), ma i negozi e le officine sono ancora aperti. Abbiamo la prima impressione di una città tutta di pietra bianca, molto vivace, con botteghe e laboratori come sopravvivevano ancora da noi negli anni ‘50. Mi ha ricordato anche certe cittadine del Portogallo. Noto le inferriate sporgenti alle finestre dei piani alti, come a Gerusalemme. Il pulmino si infila nelle strette stradine del centro, passando ad un pelo dalle macchine parcheggiate. Ammiriamo l’abilità dell’autista, che, non potendo andare oltre, ci lascia nei pressi di una piazza con palme ed una statua al centro.

Siamo nel quartiere cristiano-armeno, tranquillo e silenzioso, se confrontato con il resto della città. Proseguiamo a piedi, passando sotto un voltone, costeggiando negozi di artigianato locale ancora aperti. Entriamo infine, passando sotto un arco, in uno stretto passaggio tra gli alti muri delle case, ornato da un alberello, e ci troviamo davanti alla porta dell’albergo, il Martin Dar Zamaria Hotel. È un “boutique hotel”, come i tour operator chiamano le vecchie case dei mercanti, restaurate e adibite ad albergo, in questa zona della città. L’atmosfera è pittoresca: vetri colorati e fontane, mobili e poltrone di legno scuro riccamente intarsiati di madreperla. Pagheremo il “pittoresco” con un po’ di male alle ginocchia: non c’è, infatti, spazio per un ascensore, bisogna quindi raggiungere le camere al primo piano inerpicandosi per scalette dagli scalini alti e poco profondi, fornite di corrimani molto bassi e ornati qua e là di “pezze” di stucco che coprono le buche. Scendendo, poi, bisogna stare molto attenti agli ultimi gradini, che sono molto più stretti degli altri e quasi semicircolari. Anche la nostra camera è ricca di atmosfera: è molto lunga ed alta, tanto che in fondo hanno ricavato il bagno e, sopra, un soppalco con il letto. Alle pareti sportelli scolpiti: sono le imposte di finestre che danno sul cortile centrale o sulla strada, oppure ante di armadietti a muro. Al di sopra, pannelli dipinti di blu e rosso.

Questa sera ceniamo in albergo: la camera da pranzo è ricavata nel cortile centrale, su cui si affacciano numerose finestre dagli architravi ornati con bassorilievi o stucchi. Alle pareti oggetti vari: scudi, lanterne, campanelli ecc. La sala da pranzo è affollata, sentiamo parlare francese, ma ci sono anche dei siriani. Noi mangiamo in una saletta a parte, decorata con pannelli dipinti di blu, con rose rosse. Nel salone centrale un paio di musicanti (oud e tamburelli) intrattengono i commensali. Ceniamo bene: tantissimi antipasti che poi si ripeteranno tutte le sere (hummus, verdure cotte e crude, olive piccanti…), riso pìlaf accompagnato da una grande ciotola di salsa piccante al pomodoro, in cui nuotano alcuni pezzi (pochi) di pollo e verdure, frutta e un dolcetto a base di pistacchi. Le mezze sono accompagnate da un pane dalla consistenza un poco insolita: è pane non lievitato, simile come forma e dimensione ad una piadina, ma molto più sottile, morbido ed elastico. Anche se in Siria non mancano pani e panini lievitati, in tutti i ristoranti in cui abbiamo mangiato ci hanno dato esclusivamente di questo pane; siccome è un pane tipico, evidentemente preferiscono darlo ai turisti al posto di pani più “internazionali”. Decidiamo di andare a fare due passi, per avere un primo contatto con la città.

Le dieci sono già passate, ma alcuni negozi, soprattutto di alimentari, sono ancora aperti. Andando a caso, raggiungiamo la piazza in cui il pulmino ci ha lasciati e scendiamo per una stradina di fronte a noi. Notiamo le eleganti verande di legno che sporgono all’ultimo piano delle case e le “gabbie” di ferro lavorato che chiudono le finestre, anche quelle dei piani alti. Fra le case sono tesi dei fili cui sono appesi dei foglietti di carta colorata, rettangolari o triangolari. Ipotizziamo che possa trattarsi di pubblicità dei negozi ormai chiusi; l’indomani Said ci informerà che sono invece addobbi per una festa inerente la nascita del Profeta, già passata: qualcosa di simile ai nostri addobbi natalizi. Li ritroveremo in tutte le altre città in cui ci fermeremo. Sbuchiamo in una piazzetta su cui si affaccia la cattedrale maronita; davanti è parcheggiata una lussuosa macchina d’epoca, tirata perfettamente a lucido. È una De Soto degli anni ’30. Gironzoliamo ancora un po’, ma le strade vanno facendosi più deserte e buie, abbiamo dormito tutti poco la notte precedente, per cui invertiamo la rotta e torniamo in albergo. Sarebbe bello dormire, ma, ahimè, i musici vanno avanti a suonare e cantare nel cortile su cui si affaccia la nostra camera fin dopo mezzanotte e mezza. Hai voglia a metterti i tappi nelle orecchie. ..

8 APRILE. ALEPPO – SAN SIMEONE – ALEPPO

Al risveglio guardo fuori dalla finestra: un alto muro di pietra bianca, cinguettii di passeri e garrire di rondini. Il pezzetto di cielo che riesco a vedere è azzurro, per cui sembra che la giornata si presenti bene. Dopo una ricca colazione a buffet (forse la migliore fatta in Siria, in particolare per i dolcetti alla frutta), seguiamo Said per strade e stradine per raggiungere il pulmino. Anche se sono già le nove passate, i negozi sono ancora quasi tutti chiusi. Davanti ad una botteghina notiamo una lunga fila di persone, incuriositi chiediamo informazioni a Said: si tratta di persone che stanno aspettando di comprare il pane. Stamane siamo diretti a nord di Aleppo, alla basilica di san Simeone. Said ci dice che c’è ancora poco traffico in città, perché i siriani vanno a letto tardi e si alzano tardi. Al ritorno ci accorgeremo di quanto ha ragione. Attraversiamo una vastissima periferia di quartieri residenziali borghesi: è un lungo succedersi di palazzine condominiali di pietra bianco-dorata. Alcune ripropongono una versione aggiornata di motivi tradizionali: trafori di pietra, inferriate riccamente lavorate. Qua e là fiori multicolori. Said ci informa che le case sono fatte con una pietra bianca locale – la pietra di Aleppo – molto tenera e facile da lavorare, che si trova quasi in superficie, Lungo il tragitto noteremo numerose cave. Alla fine le palazzine lasciano il posto ad una periferia povera: campi sassosi e bassi parallelepipedi di case ad un piano, tralicci della luce ed officine che si affacciano sulla strada. Gli abiti degli abitanti appaiono più trasandati. Sulle terrazze dei tetti, però, anche qui, si aprono le paraboliche satellitari.

Raggiungiamo l’aperta campagna: basse colline ondulate, in cui fra il verde dell’erba affiorano rocce bianche e sassi: muretti di pietre ed olivi; campi di grano e di lenticchie. E greggi di pecore, tante pecore: lungo la strada, nei campi e tra le case. Qui in Siria le pecore sono spesso multicolori: hanno di frequente la testa e il collo scuri, bruno-rossicci, ma a volte sono addirittura a strisce o a chiazze bianche e marrone. Al centro del gregge c’è spesso un asinello, bardato a colori vivaci, fra cui predomina il rosso. I pastori sono spesso bambini. Talora, sui pascoli, si vedono anche mucche pezzate, bianche e nere. Vicino alle case, qualche gallina. Qua e là compaiono le tende dei beduini: qui in Siria – anche nel deserto – le abbiamo quasi sempre viste bianche, del colore della lana naturale, non tinte di nero come in Palestina. All’orizzonte, infine, compaiono montagne aride, di roccia bianca: è lì che siamo diretti. Lasciato il pulmino all’ingresso del complesso archeologico, saliamo per un sentiero fra i pini, fino a raggiungere una lunga spianata erbosa che collega la basilica (o meglio, le 4 basiliche) al battistero. Tra l’erba, papaveri e anemoni rossi, fiori gialli simili a quelli della senape e spighe di fiori blu. I pini, naturalmente, sono pini d’Aleppo. Le rovine di questo complesso del V secolo offrono uno spettacolo affascinante: nitide architetture di pietra rosata, finemente decorate negli archi, nei fregi e nei capitelli. Insolite le foglie di acanto di alcuni capitelli, orientate tutte da un lato, come se fossero piegate dal vento. Le basiliche erano a tre navate. Si capisce come il romanico europeo abbia qui le sue radici. Al centro delle 4 basiliche che formano il complesso, c’è un ottagono in cui si trova un piedistallo che sostiene un masso informe, avanzo dell’ultima delle colonne su cui Simeone lo stilita è vissuto per 40 anni. Gli amanti di reliquie sono riusciti a portarsi via più di quindici metri d’altezza di roccia! L’insieme è grandioso. A sinistra un terrapieno ventoso si affaccia sul territorio sottostante; il panorama è vastissimo: campi e rocce, rovine alberi e case. Said ci fa notare i resti sparsi di caravanserragli e chiese, tutti collegati alla basilica: diruti testimoni della passata importanza di questo luogo di pellegrinaggio. A nord il paesaggio sfuma tra le foschie violacee che nascondono il confine con la Turchia.

Ci sono alcuni gruppetti di turisti, ma sono pochi e discreti, dispersi nella vastità dell’area. Facciamo il giro esterno del complesso, notando la decorazione che corre lungo le finestre, e le colonne che ornano le tre absidi della basilica in cui si trovava l’unico altare del complesso. Poco più in là, all’interno di un piccolo edificio addossato ad una breve parete rocciosa, si trovano delle tombe scavate nella roccia. Proseguiamo il giro sotto alti alberi, tra cui Said individua dei pistacchi: pistacchi selvatici e pistacchi coltivati, dalle foglie più chiare e molto più grandi di quelli selvatici. Fra le fronde i mazzi violetti dei fiori. Raggiungiamo poi il battistero, passando accanto ai resti del vasto monastero. Notiamo la vasca battesimale rettangolare, costruita con mattoni sotto il livello del pavimento. Due brevi scalinate poste sui lati corti consentivano la discesa e la risalita dei battezzandi. Anche da qui il panorama è splendido, sotto di noi si riconoscono resti delle mura che delimitavano l’area sacra. Dopo una sosta sotto i pini, per un caffè e una fumata di sigaretta o di pipa, ritorniamo ad Aleppo. Lungo la strada notiamo gruppi di bambini in grembiulino azzurro, che ritornano da scuola. Scendiamo di fronte alla Grande moschea, del periodo omayadde. Said ci fa notare il minareto a pianta quadrata, derivato, se ho ben capito, da quello di Damasco, a sua volta riutilizzo del campanile della preesistente cattedrale cristiana. Prima di entrare noi donne dobbiamo ricoprirci con un mantello provvisto di cappuccio. La cosa ci imbarazza ed impaccia, reagiamo mettendoci a ridere. Solo dopo ci viene il dubbio che la nostra ilarità possa essere sembrata offensiva ai musulmani che ci hanno visto. Speriamo di non aver offeso nessuno, non era certo nostra intenzione. All’interno colpisce la grandezza del cortile, proporzionalmente notevole, se confrontata con quella di tante moschee di Istanbul, ben più imponenti. È lastricato di marmo color avorio, con strisce di marmo nero e giallo. Il colore chiaro della pavimentazione e le linee colorate contribuiscono a sottolineare la vastità dell’area. L’interno è molto largo e relativamente poco profondo. Sta ormai iniziando la preghiera del mezzogiorno, per cui usciamo rapidamente. Nel cortile avanza un corteo che accompagna una cassa ricoperta da una fodera verde; Said ci spiega che si tratta di un funerale. Ci immergiamo ora nel famoso suq di Aleppo. Che dire? È un intero mondo di colori e forme, voci, ed odori. C’è di tutto: tartufi del deserto e carretti di pane, cordame e cesti, passamanerie ed elastici, montagne di spezie multicolori, di semi e di legumi, sciarpe di seta e pashmìne, biancheria intima coloratissima e provocante e stoffe sontuose, intessute di fili d’oro e d’argento e ricamate di perle di vetro scintillante. Questi ultimi oggetti femminili sono riservati esclusivamente ad un uso domestico, perché “la bellezza della donna appartiene al marito” (citazione da Said). Il suq è molto affollato e ci sono numerose donne, tutte rigorosamente con il capo coperto, vestite prevalentemente di nero. Alcune coprono solo il capo, altre anche il viso, a varie “altezze”, c’è chi si copre la bocca, altre anche il naso, lasciando scoperti solo gli occhi; poche poi coprono tutto, portando sul capo un ampio fitto velo nero rettangolare, che scende fino al petto. Alcune ricoprono anche le mani con lunghi guanti neri. All’uscita di una delle stradine del suq notiamo un gruppo di donne vestite a colori molto vivaci; Said ci dice che sono zingare. Sembra che qui gli zingari si siano integrati, facendo lavori stagionali nei campi. Anche gli uomini vestono spesso abiti tradizionali: lunghe vesti color sabbia, bianche o nere. Anche coloro che indossano pantaloni di foggia occidentale o blue jeans si coprono spesso il capo con la kefìà: bianca e rossa, bianca o bianca e nera. Il colore dipende dalle regioni della Siria: da queste parti domina quella bianca e rossa. Ne ho viste anche di completamente nere. Alcuni uomini, invece della kefià, indossano uno zucchetto di cotone bianco, che appare fatto all’uncinetto. Mi ha colpito che, con una certa frequenza, si vedano uomini che tengono in mano la corona di grani per la preghiera, anche se sono impegnati nella loro attività profana, come i negozianti. Noi donne del gruppo resistiamo eroicamente alle tentazioni e ci limitiamo a fare provvista del famoso sapone di Aleppo (all’olio di oliva, di alloro, di mandorle, di menta, di camomilla…) e di ambra per profumare la biancheria. In alcune zone del suq si sente l’odore di olio dei saponi, nel suq delle spezie l’aria è impregnata dell’odore forte del cumino. Ogni tanto bisogna scostarsi per lasciar passare un asino addetto al trasposto merci, biciclette, carriole e carrozzini vari. Visitiamo un antico caravanserraglio, adibito al commercio all’ingrosso dei tessuti. All’interno pezze di stoffa colorata si muovono al vento come stendardi. Improvvisamente ci si apre davanti la vista della Cittadella, bianca e turrita sul suo piedistallo di roccia erbosa. La vista è davvero bella, ma ci infiliamo in un negozietto dove vendono splendide tovaglie e gioielli beduini d’argento, ambra, coralli e pietre dure. Resisto ancora eroicamente alle tentazioni.

Rifocillandoci seduti ai tavolini di un bar, ci godiamo il passeggio; poi Said ci guida a visitare l’ospedale medievale destinato ai malati di mente. Lasciato libero da poco da una scuola di danza derviscia, è stato trasformato in museo. Passiamo sotto un elegante portale decorato di stalattiti e, superato l’atrio, entriamo in un cortile con gli archi a strisce alterne bianche e nere. Nel mezzo una grande fontana dagli alti zampilli, su un lato due pozzi gemelli. Intorno piante di fiori e un giallo, profumato gelsomino. Pace e mormorio della fontana. Negli stanzini che si aprono sul cortile principale alcuni manichini ripropongono le figure di illustri medici del passato. Su un piccolo cortile interno si affacciano le celle, munite di inferriate, dei malati ritenuti pericolosi. Guardano tutte verso la fontana centrale, il cui dolce canto avrebbe dovuto avere potere calmante. Non è facile capire come realmente venissero curati i malati; questo monumento resta in ogni caso una bella testimonianza di una civiltà che già più di sette secoli fa considerava la malattia mentale come una vera malattia, da curare con competenza e rispetto.

Stasera ceneremo fuori. Said ci fa percorrere alcune vie strette fra alti muri, dove si trovano case antiche, trasformate in alberghi e ristoranti. Sulla via, portoni di legno scuro ornati di borchie e di batacchi di bronzo a forma di pugno chiuso. Sono case ricche ed eleganti, ma la loro bellezza si vede solo all’interno, dove si svolgeva la vita della famiglia. Fuori sembrano piccole fortezze. Un po’ come il nostro albergo. Durante la cena Said ed io abbiamo una conversazione di tema culinario: ricetta dell’hummus contro la ricetta delle lasagne. Forse ci guadagna lui. Poi, a nanna. Doversi lavare i denti con l’acqua minerale è una seccatura.

9 APRILE. ALEPPO – EBLA – APAMEA – HAMAH – HOMS.

Oggi ci attende un percorso abbastanza lungo, con diverse tappe. Said ci viene a prendere alle 8.30 e percorriamo vie ancora addormentate. Attraversando la piazza con le palme notiamo con incredula sorpresa un paio di ragazzini che, di fronte alla botteghina del fornaio, stendono i dischi del pane ad asciugare sugli schienali delle panchine!! Ci chiediamo se anche il pane che abbiamo mangiato noi abbia subito lo stesso trattamento… Ma occhio non vede, cuore non duole. Il sole ancora basso tinge di luce dorata il legno scuro delle verande sporgenti delle case. Saliti sul pulmino, attraversiamo il centro ancora relativamente deserto, se si pensa al traffico delle ore centrali della giornata. Teresa nota un ciclista che regge con una mano un “mazzo” di galline. Ci vengono in mente i capponi di Renzo. Ci rendiamo conto di quanto siano onnipresenti le gigantografie di Assad. In certi posti c’è anche quella del padre, morto ormai da anni. Per noi che non ci siamo abituati, sentirci alla presenza dello sguardo sorridente, bonario e rassicurante del Capo risulta asfissiante. Facciamo la prima tappa alla Cittadella di Aleppo, in cui ieri non siamo potuti entrare. La vasta piazza antistante è quasi deserta e ci godiamo come prima cosa la vista d’insieme, scattando fotografie e filmando a tutto spiano. Iniziamo poi la salita passando sotto il primo elegante torrione, risaliamo la scalinata del lungo ponte di pietra che scavalca il fossato, sotto passiamo il secondo torrione e ci troviamo di fronte alla porta vera e propria della fortezza. Sotto di noi comincia ad aprirsi il panorama sulla città. Come in tante fortezze medioevali, la porta si apre di lato, per impedire la corsa degli arieti, costringendo chi vuole entrare a compiere un percorso ad L. Su in alto, una finestra munita di inferriate consentiva di lanciare frecce ed altro sugli assalitori. Dopo un breve buio tunnel a più svolte, sbuchiamo davanti alla bianca cupola della moschea che si eleva alta sul colle, sopra di noi. Raggiungiamo la sommità della Cittadella, passando accanto a saggi di scavi negli strati inferiori, fino a quelli preromani: mura, spianate piene di ruderi. Vastissima la vista su Aleppo: a perdita d’occhio edifici bianchi, qualche macchia di vegetazione, cupole e minareti. È straordinaria l’unitarietà che dà a questa grande città l’utilizzo pressoché esclusivo della pietra locale. Scendiamo poi verso quello che fu il palazzo reale. Vediamo qualche bel portale con le classiche decorazioni di pietre alternate bianche e nere, l’hammam con ancora qualche vasca ed un elegante cupola con i fori che disegnano una stella di luce ed, infine, entriamo nella Sala del trono. Vastissima, reca ancora decorazioni originali alle pareti. Il resto dei pochi arredi e dei cassettoni del soffitto viene da dimore private. Niente di paragonabile allo splendore sontuoso di Granada o di Siviglia. La cosa mi stupisce un poco e chiedo spiegazioni a Said. Mi risponde che i terremoti hanno distrutto gli edifici più antichi, costruiti quando Aleppo era una ricca capitale. Ritorniamo alla porta della fortezza scendendo una lunga ripida scalinata e torniamo al pulmino, diretti a sud.

Ci vuole parecchio tempo per uscire da Aleppo, che è una città di 3 milioni di abitanti. La periferia che attraversiamo oggi è formata da quartieri più popolari rispetto a quelli che abbiamo visto ieri: alti condomini e basse casette ad un solo piano, simili a parallelepipedi posti sul terreno. Imbocchiamo infine l’autostrada che unisce Aleppo a Damasco. È a tre corsie, ma non è recintata. Guardo con un po’ di apprensione i numerosi greggi di pecore che a volte arrivano fino al limite dell’asfalto: e se ci troviamo una pecora davanti? Said ci rassicura dicendo che se uno mette sotto una pecora in una strada normale, è colpa sua e deve risarcire il pastore, ma se avviene in autostrada la colpa è del pastore e non bisogna pagare nulla. Molto bene… Ma… E le ossa rotte dei passeggeri, o peggio, chi le paga? Ma chiodo scaccia chiodo: poco dopo per ben due volte vediamo un veicolo venirci incontro contromano (in autostrada!!!). Mohammed (l’autista) non fa una piega. A questo punto mi preoccupo meno delle pecore. Di fianco a noi la campagna è intensamente coltivata: campi di grano, di lenticchie e di ceci, distese di ulivi. Verso Ebla compaiono coltivazioni di pistacchi. In alcune zone sono in azione gli irrigatori a pioggia. Nel cielo ogni tanto passa un rapace. Attraversando queste zone in cui sono concentrate tutte le fasi della storia della civiltà umana, a volte mi emoziona la vista all’orizzonte di un tell che si alza sulla pianura. Sono facilmente riconoscibili per la loro forma estranea all’ambiente naturale. Said ci dice che solo in alcuni di essi sono stati fatti dei sondaggi. In questi casi è stato dato loro un nome (in genere quello di un villaggio vicino) e sono identificati da una torretta di metallo nero posta in cima. Molti però non sono stati minimamente scavati e non hanno nome. Mi risuscitano emozioni delle estati della mia infanzia, quando sognavo, leggendo le avventure dei pionieri dell’archeologia, di poter anch’io riconoscere e scavare un tell pieno di storia e di tesori. Adesso i tell che vedo, ricoperti di campi di grano, hanno un aspetto un po’ domestico. Rimane, tuttavia, l’eco del fascino e del mistero. Lasciamo l’autostrada e pieghiamo ad ovest, per raggiungere Ebla.

Il terreno va facendosi più collinoso, aumentano i frutteti. Poco dopo vediamo il tell di Ebla: verde, vastissimo, complesso. Ci fermiamo all’ingresso: non è facile distinguere la struttura del tell. Intorno a noi ci sono basse colline, su cui si alternano le strisce rosse e verdi di terra incolta e di campi di grano. Qua e là si aprono le voragini degli scavi. Lasciando alla nostra sinistra la città bassa del III millennio, risaliamo lungo le mura dell’Ebla del II millennio, di cui sono rimaste le basi di pietra. Segue poi un locale in cui sono allineate a terra delle primitive macine per i cereali. Sono di basalto nero: le basi hanno forma rettangolare concava; sopra sono posati i rulli di pietra, che frantumavano i grani per rotolamento. Non era un’abitazione privata, ma si trattava di un vero e proprio mulino che produceva farina. Il pensiero mi va alla fatica di coloro (probabilmente donne) che passavano le giornate inginocchiati a terra, a fare andare il rullo avanti e indietro, avanti e indietro… Saliamo verso l’acropoli, dove si trovava il palazzo reale, di cui sono stati scavati resti abbastanza riconoscibili. Vediamo una scala, alcuni locali che gli archeologi hanno rivestito di intonaco dipinto di bianco, come era in origine. Di fianco, altri muri non ricoperti mostrano i mattoni di argilla cruda, con gli angoli allineati quasi a spina di pesce. Fra questi locali Said individua quello dell’archivio reale, sede del ritrovamento delle 20mila tavolette che hanno rivoluzionato la storia del Medio Oriente antico. Gloria italiana. Oggi però gli scavi sono deserti e non vediamo nessun lavoro in corso. Evidentemente la missione italiana è in un periodo di pausa. Scendiamo poi attraverso un magro pascolo cosparso di cocci, verso quello che oggi appare come uno stretto varco tra due basse colline: è la sede dei resti della porta cittadina in direzione di Damasco. Impressionanti gli enormi massi squadrati di roccia che in questo punto formavano la base delle mura e gli stipiti della porta. Saliamo ora verso la collina che delimita l’orizzonte dietro e a destra dell’acropoli. Ripassiamo accanto ad un gregge di pecore e capre, con il solito asinello al centro. Il pastore dorme disteso a terra. Tra le basse erbe alcuni fiori, che assomigliano a piccole achillee bianche e gialle. A un certo punto Said si ferma, per osservare meglio un animale che sta passando dietro la fossa degli scavi cui siamo diretti. È un lupo. Ci fermiamo un po’ ad osservarlo, finché scompare dietro il fianco della collina. Giungiamo agli scavi del tempio, di cui è riconoscibile la piattaforma dell’altare, poi proseguiamo risalendo il tell dell’acropoli. Il terreno è ricoperto di cocci; individuo un pezzo di terracotta che sembra l’imboccatura di un piccolo orcio. Said dice che posso tenerlo e si mette a cercare altri “ricordi” per noi. Dalla cima si vedono con chiarezza tutti gli scavi. Il panorama sulle colline è molto ampio. Non c’è ancora quasi nessuno; solo quando stiamo partendo arrivano autobus di turisti. Di Ebla mi rimarrà anche il ricordo della vastità del cielo e dei campi multicolori allineati sulle colline; nessun albero interrompe il mantello della terra. Pace e silenzio e la voce del vento.

Ripartiamo. Tra colline, campi e frutteti ci dirigiamo verso Apamea. Da lontano vediamo apparire le mura della cittadella, poco più in là colonne ed architravi ritagliano rettangoli di cielo. Il pulmino ci lascia subito fuori le mura della città romana, per cui solo dopo un po’ abbiamo la vista straordinaria dell’allineamento di colonne del cardo, che sembra perdersi all’orizzonte. Guardiamo l’arco della porta di Antiochia (l’arco sembra stare in sede per scommessa) e i tubi di terracotta per l’approvvigionamento idrico della città, affioranti dal terreno erboso. Ci immettiamo poi nel cardo, che percorriamo per i quasi due chilometri della sua lunghezza. Colonne lisce, scanalate, con scanalatura tortile; capitelli corinzi, facciate di botteghe a due piani si susseguono sembra senza fine. Davanti a noi le colonne sfumano nel verde della campagna, dietro, si stagliano contro lo sfondo rosso delle colline. C’è pochissima gente (alcuni giapponesi, non possono certo mancare!), per cui siamo perseguitati da alcuni uomini che saltano fuori da dietro le colonne e vogliono venderci monete e bronzetti “assolutamente autentici”. Sono una seccatura, ma d’altra parte, devono vivere anche loro, anche se da noi non hanno nessuna soddisfazione. Ad un certo punto compaiono alcuni bimbetti che stanno insieme a un gregge sui prati di fianco agli scavi. Diamo loro caramelle e cioccolatini, guadagnandoci i ringraziamenti di un adulto che è con loro (padre? fratello maggiore?). Ci fa segno ospitale di andare da loro, ma noi dobbiamo proseguire. Avvicinandosi all’agorà le colonne si fanno più ornate (presentano scanalature dritte o tortili) ed emergono dagli alti ciuffi delle foglie degli asfodeli, ormai sfioriti. Ad un certo punto ci affacciamo a guardare le colonne dell’agorà, le cui basi scolpite con motivi di calici d’acanto ricordano a Giovanni e a me quelle del tempio di Apollo milesio. La pavimentazione dell’agorà è ancora sollevata e sconvolta dal terremoto che distrusse la città. Non è impressionante come a Bet Shean, dove si vedono ciclopiche colonne abbattute le une sulle altre e spezzate, ma fa effetto ugualmente. Nella parte finale del cardo le colonne sono ancora mozze o abbattute o sotto un breve strato di terra erbosa, come si vede in alcuni tratti in cui il terreno è stato tagliato. Said si rammarica del fatto che ormai da molti anni i lavori di restauro sono interrotti. Incrociamo il decumano principale, ora asfaltato, dove ci attende il pulmino. Dall’altra parte si vedono alcune colonne della basilica cristiana bizantina; il terreno sembra invaso da vegetazione. Non proseguiamo oltre la visita, ma entriamo in un piccolo edificio dove beviamo caffè e tè. Dalle finestre si vedono fughe di colonne stagliarsi contro il cielo azzurro.

Said ci invita ad uscire per vedere come qui fanno il pane. Attraversiamo una piccola aia, con un alberello al centro, gallo e galline, e ci avviciniamo al forno all’aperto. È ricoperto da una cupola di mattoni, in cui si apre, di fronte, un’apertura circolare. Qui guardiamo, osserviamo, fotografiamo, filmiamo e … Mangiamo, in barba a tutti i consigli ricevuti prima di partire e alle nostre “ferree” norme di prudenza alimentare. Ma confidiamo nel potere purificatore del fuoco. Due donne, indifferenti ad ogni regola di igiene, alimentano il fuoco con stecchi presi da un mucchio e poi si dedicano a preparare il pane. Allargano con le mani (naturalmente non lavate) e stendono con piccoli matterelli dei panini di pasta, fino ad avere dei dischi molto sottili. Li mettono poi, uno alla volta, su uno spesso cuscino rotondo, ricoperto, mi sembra, di cuoio nero, e, con un colpo sicuro della mano, li appiccicano all’interno della volta rovente del forno. In un attimo si cuociono, gonfiandosi di bolle. Sono buoni. Possono essere arricchiti anche con semi di sesamo e formaggio, ma preferiamo andare sul liscio. Dietro di noi una bimbetta di circa due anni gioca con una pecora legata ad un alberello. Con fare materno si piega verso di lei, porgendole il cuccio che si leva di bocca. Per fortuna la pecora non gradisce. Noi donne rimaniamo intenerite e perplesse. Quando ci allontaniamo, ci raggiunge Franco che è rimasto indietro per finire di filmare. Ci dice che ci siamo persi il seguito; la scodella di riso della bambina, deposta sul prato ampiamente concimato dalle pecore, si è rovesciata sull’erba; la bimba, senza scomporsi, ha rimestato ben bene il riso sull’erba, con un bastoncino, poi ha ricominciato a mangiare con le mani. Saggezza della sapienza antica! È proprio vero che quel che non ammazza ingrassa!

Rinunciamo, vista l’ora, a passare per una delle città morte e ci dirigiamo verso Hamah, scendendo lungo la valle dell’Oronte. Qui il terreno è collinare e montagnoso, molto vario. Campi, frutteti, villaggi e cittadine appollaiati sulle creste delle colline. Mi sembra uno dei paesaggi più belli che abbiamo visto in Siria. Stiamo facendo un percorso seguito per millenni da coloro che, dalle steppe dell’Eufrate o dagli altopiani dell’Anatolia, volevano raggiungere queste terre fertili, giù fino all’Egitto: nomadi, come Abramo, mercanti, pellegrini, Ed eserciti, feroci eserciti che si sono affrontati lungo questa valle. Giungiamo infine in Hamah, la città delle norie. Purtroppo sono ferme, perché non sono ancora finiti i lavori di pulizia del fiume. Delle 17 norie superstiti, ne vediamo cinque o sei. Spettacolare è la più alta di tutte, risalente al XIV secolo, che solleva le acque fino ad un acquedotto posto 25 metri più in alto. Il letto del fiume, infatti, si trova un bel po’ più in basso rispetto alla città e ai campi circostanti. Giovanni è affascinato da quest’opera di esperta ingegneria medievale, e si studia con cura tutti i congegni. Della città abbiamo una visione fugace; verdi giardini lungo il fiume, gelsomini bianchi e gialli che straripano dai muri bianchi che recingono i giardini privati, mura, case arrampicate sulla collina. Cupole e minareti. Raggiungiamo infine velocemente Homs, l’antica Emesa – la terza città della Siria per numero di abitanti – dove ceniamo e passiamo la notte. L’albergo, l’Homs Grand Hotel, si trova in una zona residenziale e, dal punto di vista del comfort alberghiero, resterà il migliore in cui abbiamo dormito in Siria. Veniamo accolti con l’offerta di bevande rinfrescanti, poi siamo accompagnati nelle nostre stanze, dove ci raggiungono i bagagli. Anche se non siamo gli unici ospiti dell’albergo, ceniamo da soli, serviti da camerieri tutti per noi. Anche troppo. Di particolare ci servono una specie di mini tortino di carne trita, bicolore. Buono, ma tutto terribilmente piccante. Nell’atrio incontriamo più volte un gruppo di giovani di altezza molto superiore al normale. Ci chiediamo se appartengono a qualche squadra di pallacanestro locale. Dopo cena andiamo a passeggiare lungo una via molto vivace, piena di negozi aperti fino a tardi. Adesso capiamo perché Said ci ha detto che le donne di Homs hanno la fama di essere le più belle della Siria: si vedono!! Incontriamo infatti pochissime donne con il capo coperto dal foulard: quasi tutte mostrano tranquillamente i capelli (anche molto belli e lunghi), molte ragazze vestono in pantaloni e magliette attillate. Anche le vetrine dei negozi di abbigliamento, molto frequenti, mostrano capi di vestiario di foggia occidentale. A distanza di meno di duecento chilometri, che differenza rispetto ad Aleppo! Sembrano due mondi diversi! Quando stiamo invertendo la rotta per tornare in albergo, comincia a passare un corteo di macchine che suonano il clacson a tutto spiano. La squadra locale ha vinto un’importante partita di calcio. Tutto il mondo è paese.

10 APRILE. HOMS – KRAK DEI CAVALIERI – PALMYRA

La giornata si presenta nuvolosa e freddina. Gentilmente, Said ci fa fermare di fronte alla moschea di al-Walid, di cui ieri gli ho chiesto informazioni. E un’ottocentesca moschea turca, che conserva la tomba del conquistatore della Siria, morto alla metà del VII secolo circa. Scendiamo dal pulmino qualche minuto per un’intensa occhiata e qualche foto. È una lunga costruzione nera e bianca, con diverse cupole e due alti minareti a matita. Imbocchiamo poi un’ampia strada che, tra file di pini e campi, si inoltra in mezzo alle montagne. Notiamo numerosi alberi fioriti, simili a mimose. Said ci spiega che le strisce di alberi (soprattutto i pini) che fiancheggiano le strade sono frutto di una politica di rimboschimento del governo, affidata agli scout. Ogni anno dedicano una settimana a piantare nuovi alberi, che hanno anche la funzione di proteggere le strade dalle raffiche che vengono dal mare. Nei punti più ventosi gli alberi sono cresciuti piegati dal vento. Lungo la carreggiata, su entrambi i lati, sono esposte in vendita cassettine di fragole. Più in là la strada comincia a salire sulla montagne e, a sud, compaiono cime bianche di neve. Siamo molto vicini al confine con il Libano. Saliamo per ripidi tornanti tra verdi prati su cui pascolano mucche pezzate ed in breve giungiamo sul piazzale antistante il Krak dei Cavalieri. È la meglio conservata fortezza crociata del Medio Oriente, e non solo. Di castelli ne ho visto tanti, ma questo mi ha impressionato perché, cosi intatto e non ingentilito da successive aggiunte residenziali, dà davvero l’impressione di un’immane macchina da guerra, piantata su queste montagne per resistere in mezzo ad un territorio ostile. Penso alle fortezze più grandi che abbiamo visto: l’esempio più vicino che mi viene in mente è il castello di Nimrod, costruito dalla setta degli Assassini (poi in possesso dei crociati e infine dei signori di Damasco) su una cresta del monte Hermon, nel Golan. Ma anche, in Europa, la fortezza della Wartburg in Turingia, o Castel Beseno nel Trentino. Ma niente di paragonabile a questo. Impressionante la potenza delle fortificazioni che si affacciano sul fossato interno. Addossati alle mura esterne si notano i bagni. Entriamo in una lunghissima sala (60 m!) coperta da un’unica volta: probabilmente le stalle. Sul muro notiamo delle pietre traforate a cui legavano i cavalli. All’uscita, saliamo una ripida scaletta che ci porta sul cammino di ronda delle mura esterne. Ne percorriamo un tratto: soffia un violento vento gelido che ci fa affrettare il passo. Maria Grazia e Teresa fanno il nostro stesso percorso ai piedi delle mura, scortate da un vecchietto che fin dall’ingresso ci ha offerto i suoi servigi: regge il gomito alle signore nei passaggi più difficili e illumina con la pila i punti oscuri. Sul prato fiorito che separa le mura esterne dalle fortificazioni interne raccoglie dei profumatissimi mazzetti di mentuccia e finocchietto selvatico, che regala a noi signore. All’interno della chiesa trasformata in moschea, ci dà una dimostrazione delle proprietà di amplificazione acustica del mihrab, collocandosi al suo interno e intonando con voce chiara e sicura una preghiera. Ci ha colpito la dignità di tanti poveri che abbiamo incontrato, che non chiedono l’elemosina, ma si inventano dei servigi che meritano di essere ricompensati. Cosa che, sia pur modestamente, faremo. Notevole, dall’alto delle mura, la vista dell’acquedotto che conduceva l’acqua all’interno della fortezza. Visitiamo alcuni locali interni di stoccaggio dell’olio e di altre provviste, oppure di raccolta delle acque ecc. Dopotutto la fortezza era fatta per resistere ad assedi di anni. Ma la storia va per la sua strada: ormai soli in un territorio in mano mamelucca, i cavalieri Ospitalieri che tenevano il castello trattarono la resa dopo solo due mesi d’assedio, avendo in cambio la vita e il diritto di imbarcarsi incolumi sulla costa, diretti a Cipro. Eleganti il porticato e la sala gotica, un pezzetto di Europa trapiantato a migliaia di chilometri di distanza. Said ha voglia di scherzare e ci chiede se qualcuno desidera andare in bagno, prima di ripartire. Io abbocco e rispondo di sì. Siccome non siamo ancora riusciti a cambiare i grossi tagli di denaro che abbiamo e siamo privi di monete, mi preoccupo per il pagamento. Lui mi rassicura dicendomi che qui è gratis; poi con un gesto teatrale della mano ci mostra la batteria di latrine del castello. Beh, è certo gratis, ma. . .non molto intimo!! Dopo essere saliti su un’alta spianata su cui si vedono ancora gli appoggi del tavolo delle riunioni, riscendiamo fino all’uscita e ci rechiamo con il pulmino in un punto più in alto, dove c’è un bar in cui ci rifocilleremo. Da qui il castello si vede un po’ più in basso, in tutta la sua imponente interezza, sullo sfondo verdazzurro del territorio circostante. Bello. Di fronte al bar, in mezzo al prato spuntano le stele di alcune tombe.

Ripercorriamo ora la strada dell’andata, fino ad aggirare Homs. Ci rendiamo conto di quanto la città sia grande. Man mano che proseguiamo verso est gli alberi si fanno più bassi e radi, i prati più magri e pietrosi. Gradatamente il territorio si fa sempre più stepposo e infine desertico. Vediamo diverse case ad alveare che, più che i trulli pugliesi, mi fanno venire in mente le fotografie che ho visto di capanne dell’Africa centrale. La strada prosegue diritta e quasi deserta, accompagnata dalla fuga infinita dei pali della luce. A nord e a sud l’orizzonte è interrotto da basse catene di montagne. Proseguiamo così per 150 km, più o meno. Ogni tanto vediamo le torri e i tubi di impianti di estrazione del metano, postazioni militari, qualche oasi segnalata dai pini, con casette che paiono cubi o parallelepipedi di un gioco per bambini, posti sul terreno. Tende di beduini. Qualche uomo solitario: soldati e beduini. Ad un certo punto Teresa ed io vediamo un animale bianco, con una macchia nera ai lati della testa; da come è fatta, mi sembra un orice. Alcuni piccoli stormi di uccelli si levano ogni tanto dal terreno sassoso. In alto i falchi pattugliano il terreno. Sono spesso grandi falchi bianchi. Ad un certo punto uno di essi vola per un po’ di fianco a noi: si vede chiaramente che tra gli artigli tiene una preda. Il deserto siriano è molto diverso dall’unico altro pezzo di deserto che Giovanni ed io abbiamo visto: quello di Giuda. Qui non ci sono rocce erose dal vento in mille forme e colori. È una distesa più o mena ondulata di sassi e sabbia, modulata da basse catene montagnose, a perdita d’occhio. Alterna tratti in cui la vegetazione è completamente assente ad altri in cui la primavera consente ancora di riconoscere la steppa. Qua e là spuntano improvvise brevi strisce di oasi. Said dice che il programma corretto di recupero del deserto prevede una prima fase in cui si piantano solo alberi, che trattengono l’umidità e non impoveriscono il terreno. Ci sono anche alcuni campi di grano, che Said giudica un errore, perché il grano impoverisce ancor più il terreno. Certo attraversare questo tipo di deserto, standosene comodamente seduti in un pulmino, risulta assai monotono; vedo che gli occhi di alcuni dei miei compagni di viaggio tendono a chiudersi. Ma la piatta e ripetitiva vastità di questo territorio desolato è grandiosa e affascinante. Immensità e solitudine. E pur tuttavia, vita.

Ci avviciniamo ad una catena di rosse montagne; sopra una di esse si profila una grande fortezza, del colore della roccia di cui sembra una prosecuzione. Al termine della salita del piccolo passo, quando stiamo passando sotto la fortezza, aggirandola, vedo comparire delle torri che si levano dalla sabbia; ho allora il sospetto che siamo già giunti a Palmyra, molto in anticipo rispetto al previsto. Said e i colonnati che immediatamente dopo compaiano tolgono ogni dubbio. Da tutti noi si levano esclamazioni di stupore e meraviglia: man mano che scendiamo nella valle di Palmyra, vediamo aprirsi davanti a noi la valle delle tombe e le rovine della città antica. Colonnati e torri hanno il colore della sabbia e della roccia su cui sorgono; nella luce velata di questa giornata nuvolosa appaiono rosati e d’oro pallido. Sono avvolti da una strana luce soffusa, che crea misteriosi riflessi e un’atmosfera magica. Laura osserva che Palmyra vale da sola il viaggio. Concordo. Percorriamo un breve viale sassoso, fiancheggiato da basse, misere palme, che dà accesso all’area archeologica. Scendiamo davanti al tempio di Bel (Baal), dove un paio di dromedari sta aspettando i turisti per portarli a spasso. Il tempio è straordinariamente ben conservato. Le mura racchiudono una vasta area sacra, al centro della quale si leva, ancora praticamente intatta, la cella. Davanti alle mura sono ancora in piedi parti considerevoli delle colonne dei portici. Ogni tanto le nuvole si aprono; la luce del sole incendia le montagne, la sabbia, le colonne e le pareti che assumono sfumature arancio. È affascinante vedere come cambiano i colori secondo la luce: bianco, avorio, giallo dorato, rosa, arancione, rosso cupo, violetto… Sopra le mura del tempio spuntano le montagne che delimitano ad ovest l’oasi; inconfondibile l’alto, massiccio profilo della fortezza, rosso bruna contro il cielo. Said ci fa notare i buchi che ci sono nei muri e sulle colonne, alle giunzioni delle pietre. Sono stati fatti dai francesi, durante il periodo della loro occupazione, per recuperare il piombo con cui erano “cementate” mura e colonne. Uno sconcio indecente. D’altra parte, visto che nel primissimo ’800 i francesi sono stati capaci di bruciare nelle fornaci per fare la calce splendide chiese medievali di casa loro, compresa nientemeno che Cluny, ci si può meravigliare? Forse no, ma indignare sì. Anche i lumi della ragione hanno i loro buchi neri. Mi guardo intorno emozionata: questo tempio, anche se ha un solo cortile, ha una struttura simile a quello quasi coevo di Gerusalemme, ricostruito da Erode. È simile a quello in cui ha pregato Gesù. Qui però non sto guardando un plastico in un museo: ci sto camminando in mezzo!! Notiamo le fortificazioni del muro perimetrale di epoca araba, fatte sovrapponendo rocchi di colonne, e le sezioni di colonne angolari, fatte a forma di cuore (mai viste altrove), saliamo poi sulla piattaforma sopraelevata dove sorgeva l’altare. Said precisa che a Palmyra venivano sacrificati solo animali, e non essere umani, come nei templi fenici. Ci avviciniamo alla cella, dal portale splendidamente ornato con bassorilievi a motivi floreali. Di fianco sono allineati parti del fregio, anch’esse ornate con splendidi bassorilievi. Notiamo alberi e tralci di vite, frutti ed elementi stilizzati alternati a formare un unico fregio, che Said individua come “uovo e pugnale”, simboli di vita e di morte. Mi colpisce che siano uguali a quelli che decorano i portali di tante chiese romaniche e gotiche, sparse per l’Europa. Ci sono poi i fregi più grandi: un corteo di guerrieri, una donna che regge dei frutti, un donna su un dromedario… Said ci dice che questi pezzi sono scolpiti anche nella parte inferiore; mi sdraio anch’io per terra e vedo cortei di cavalli, molto ben conservati. Qui si vede bene il piombo colato nelle giunture. Entriamo nella cella: ai due lati corti ci sono due camere, il cui soffitto è formato da un’unica immensa lastra di pietra scolpita. In una di esse, ancora riconoscibili, i segni dello zodiaco. Appaiono annerite; non sono tracce di pittura, ma nerofumo: i francesi avevano messo qui le cucine. Giriamo intorno alla cella e noto con un po’ di stupore la decorazione superiore dell’edificio. Termina in alto con una fila di “merli” triangolari seghettati. Quello che mi stupisce è che sono identici a quelli delle mura intorno alla porta di Damasco a Gerusalemme. Proseguendo il viaggio in Siria, li ritroveremo a Damasco, intorno al muro perimetrale della Grande Moschea e nel Museo, sulle torri ricostruite del castello omayyade, all’ingresso. Evidentemente è un elemento ornamentale che ha avuto grande successo, se si è mantenuto per tanti secoli. Ad un angolo del cortile saliamo sopra una scaletta che ci consente di vedere oltre le mura. Sotto di noi c’è l’oasi, verde di olivi e di palme. Le palme, però, hanno molte foglie secche e sono verdi solo nella parte centrale della chioma. Mi viene in mente che non abbiamo visto molte palme in Siria, nemmeno nel deserto. Anche quelle che abbiamo visto hanno in cima solo uno scarno pennacchio di foglie verticali. Nulla di paragonabile al lussureggiante, sontuoso splendore dei palmizi intorno al lago di Tiberiade. Ma qui, d’inverno, le temperature possono arrivare a molti gradi sotto zero. Ci trasferiamo ora all’inizio del Grande colonnato, passando sotto l’arco ornamentale. Le colonne hanno tutte, a mezz’altezza, una mensola che reggeva una statua. In certe sezioni ne hanno due, sui due lati. Anche ad Apamea alcune colonne avevano una mensola, ma qui è la regola. Camminiamo tra i riflessi dorati delle colonne, in vista del profilo inconfondibile della fortezza che domina la città, e della valle delle tombe con le sue torri funebri. La vista è un po’ turbata dall’alta torre metallica di un ripetitore, eretta proprio sulla cima accanto a quella della fortezza. Con tante montagne che ci sono intorno, proprio lì dovevano metterla? Ma qui è tutto così bello che si riesce a dimenticarla.

Entriamo nel teatro, restaurato e quasi intatto nella scena e nelle gradinate. Molto bello. Purtroppo entra un gruppo nutrito di milanesi, che prendono chiassosamente possesso del territorio e addirittura propongono di intonare cori. Gli altri del nostro gruppo preferiscono cedere il campo ed escono; Giovanni ed io ci rifugiamo sulla sommità delle gradinate. Da quassù la vista sulla zona archeologica, sull’oasi e sulle montagne circostanti è davvero superba. Mi è impossibile dare con le parole un’idea della bellezza di Palmyra. C’è sì l’armonia delle prospettive di colonne ed edifici che si allungano e si intersecano, c’è la bellezza del paesaggio circostante, delle montagne e delle vallette dai colori che sfumano attraverso tutte le tonalità dell’ocra, ma forse, soprattutto, è la luce particolare di questo posto, morbida e mutevole, a crearne l’incanto. Rimaniamo un poco quassù ad ammirare il panorama, da cui emergono, prossime a noi, le colonne del tetrapilo, assunto ad immagine simbolo di Palmyra, poi raggiungiamo gli altri. Percorriamo l’area sabbiosa del foro e Giovanni si mette a leggere alcune iscrizioni greche, chiaramente leggibili. Said ci fa poi notare i locali della zecca e la sala dove si tenevano le feste pubbliche. Da una piccola altura, ci mostra il resto degli scavi verso sud. Qui le colonne sono ancora a terra e le rovine spuntano dalla sabbia. Individuiamo il tempio funebre e i resti cristiani della città bizantina. Non proseguiamo la visita di questa parte delle rovine, ma pieghiamo verso il tetrapilo, che segnava l’incrocio tra il cardo e il decumano principale. È sopraelevato rispetto al terreno circostante e le otto colonne svettano contro il cielo. Ritorniamo verso l’arco monumentale, passando accanto alle terme. Muhammad ci porta alla valle delle tombe, passando di fianco al più elegante albergo di Palmyra, il Cham Hotel. Said ci dice che hanno cercato di utilizzare le antiche vasche di raccolta delle acque termali, con il risultato di inaridire le sorgenti. La zona in cui adesso ci inoltriamo è molto suggestiva. Le pendici della collina e le vallette desertiche sono cosparse di torri funerarie; alcune sono ancora intatte, altre ridotte a mozziconi. Dello stesso colore della roccia e della sabbia sottostanti, sembrano quasi il risultato di millenarie erosioni. In alto, nell’ombra della valle che sale, riflessi argentei nell’aria. Visitiamo una tomba a torre a più piani (quella, se ricordo bene, di Elahbel). Sul fondo c’è il monumento funebre della famiglia principale, ai lati i loculi sovrapposti degli altri. Passiamo poi ad un sepolcro ipogeo, quello dei Tre fratelli. Uno dei due battenti di pietra della porta è ancora in piedi e gira sui suoi cardini di pietra. Molto simile a quelli della necropoli di Bet Shearin. All’interno della tomba mi colpisce la bellezza delle statue che riproducono le fattezze dei morti. Sono gruppi famigliari, composti dai coniugi e dai figli (in genere maschi), qualche volta c’è anche il nonno. L’uomo è raffigurato sdraiato sul triclinio e pesta con un piede quello della moglie, seduta su un sedile al suo fianco. È un segno di dominio. Straordinaria la precisione con cui vengono riprodotti i ricami delle vesti e degli stivali del capofamiglia.

Visto che siamo giunti a Palmyra molto prima del previsto, chiediamo a Said se è possibile fare un cambiamento di programma – eventualmente pagando un sovrapprezzo – e fare l’indomani un’escursione nel deserto a nord, fino alla città abbandonata di Rusafah e all’Eufrate. La cosa sembra possibile, in serata avremo la conferma definitiva. È ormai troppo tardi per entrare nel museo, ma si è fatto sereno, per cui veniamo accompagnati in albergo, dove potremo lasciare i bagagli e rinfrescarci, perché verranno a prenderci alle 18, per portarci alla Cittadella, dove si può ammirare il panorama dell’oasi e delle rovine alla luce del tramonto. Il pulmino si inoltra tra le stradine del suq e guardiamo le modeste casine con un po’ di apprensione. L’albergo in cui scendiamo, il Sands Hotel, è il più modesto fra quelli in cui siamo stati, ma è moderno e pulito. Dopotutto siamo in mezzo al deserto. Dopo la sosta, siamo accompagnati ai piedi della rocca, dove molti turisti attendono il tramonto. Il tempo però è dispettoso, e le nuvole sono tornate a coprire il sole. Non abbiamo potuto vedere il famoso tramonto di Palmyra in tutta la sua bellezza, ma qualcosa abbiamo visto. Man mano che scendono le ombre della sera, i colori si arrossano e incupiscono. Sotto di noi il paesaggio lunare della valle della tombe, soffuso di luce perlacea; davanti le rovine della città, sfumate di arancio e il grande, rosso anello dell’ippodromo; dietro il verde cupo dell’oasi e il deserto, fino all’orizzonte. A sinistra i tavolati violetti delle montagne e il piccolo valico, attraversato dal nastro d’asfalto della strada. Indimenticabile. Scendiamo e andiamo a cena. Dopo cena andiamo a fare quattro passi nel suq. Ci sono negozi che vendono armature e gioielli beduini, d’argento, corallo e pietre dure. Teresa e Maria Grazia, con l’aiuto di Said, contrattano a lungo e abilmente l’acquisto di un paio di braccialetti, molto graziosi. Giunti alla fine del suq, all’inizio del viale che conduce alle rovine, torniamo verso l’ albergo. Cominciano a cadere alcune grosse gocce di pioggia. Siamo riusciti a prendere la pioggia nel deserto! Said ci assicura che passerà tutta la notte sveglio a pregare perché domani ci sia il sole.

11 APRILE. PALMYRA – RUSAFAH – AL MANSUR – QASR AL-HEIR HASH- SARQI – PALMYRA.

Per fortuna, verso le quattro del mattino sono già sveglia perché ho mal di stomaco, così non mi spavento quando sento intonare un forte canto. Non è Said che prega per il bel tempo, ma il muezzin della vicina moschea. La preghiera dura una mezz’ora buona, e l’altoparlante la trasmette a tutto volume. Si sveglia perfino Giovanni. La mattina colazione in sala da pranzo, colazione molto spartana in verità. Di dolce ci sono solo delle brioche, e niente yogurt. Ma il panorama dalle finestre è superbo, perché la sala da pranzo è situata sulla terrazza del tetto. Nella luce bianca e soffusa del mattino, la valle delle tombe sembra un miraggio. Partiamo diretti a nord est, alla città abbandonata di Rusafah. Percorriamo una piatta vallata tra due basse catene di montagne. Raggiunto un abitato in mezzo al deserto, imbocchiamo una strada secondaria, di recente costruzione. Guardiamo stupiti la cittadina che stiamo attraversando: basse case, alcuni negozietti, gente per le strade. Passiamo accanto ad un gruppetto di persone che, accoccolate sul marciapiede, stanno scuoiando una pecora. Quando passiamo, il macellaio ci mostra il coltello con cui sta lavorando. Mi chiedo di cosa possano vivere gli abitanti di una città in mezzo al deserto. Said dice: del bestiame. Ma il bestiame, cosa mangia? La strada che abbiamo imboccato ora, pur essendo quasi nuova, è in rifacimento. Le piogge dell’inverno, non assorbite dal terreno sassoso, hanno dilavato via l’asfalto, riducendo la strada ad una pista semiasfaltata. Proseguiamo per chilometri e chilometri sobbalzando sul fondo pietroso, a bassissima velocità. In alcuni punti dobbiamo imboccare delle deviazioni che sono piste nel deserto, e un paio di volte sbagliamo e dobbiamo tornare indietro. Sui lati della strada notiamo dei letti di torrenti asciutti, scavati nella sabbia, che spesso sfociano in grandi buche ai fianchi dell’asfalto. Ci sono anche delle buche scavate apposta per fermare l’impeto delle acque. Il deserto che attraversiamo oggi appare un poco diverso rispetto a quello di ieri. È più abitato e le oasi sono più frequenti. È strano vedere l’effetto dell’acqua: ogni tanto, in mezzo a zone in cui non c’è un filo d’erba, appaiono rettangoli verdi di grano, dai bordi nettamente definiti. Il trapasso dalla coltivazione al deserto è netto. Said dice che nell’antichità tutta la zona tra Palmyra e l’Èufrate era coltivata. Vicino alle oasi si vedono delle abitazioni, ma anche in pieno deserto si scorgono talora delle casette e i parallelepipedi più grandi dei caravanserragli. Qua e là tende di beduini. Ora che sta per giungere l’estate, si spostano. Passiamo accanto a un camion su cui stanno caricando un gregge; più avanti sorpassiamo un altro camion carico di masserizie, che rimorchia la cisterna per l’acqua. Il traffico è pressoché nullo, ma incrociamo un motociclista. In pieno deserto! Con gli occhi seguiamo il volo dei falchi. Raggiungiamo una zona più stepposa ed abitata; sui crinali delle colline si scorgono profili di caravanserragli. Sorpassiamo un abitato e un cartello che indica Rusafah. Ed eccola lì, circondata da mura che, nel controluce, appaiono scure. Impressionante. Un quadrilatero di quasi mezzo chilometro per lato, in mezzo al vuoto del deserto. Scendiamo di fronte alla grande porta d’ingresso settentrionale, a tre fornici e cinque arcate. Rusafah è molto antica ed è stata una ricca città di frontiera. Ha subito le devastazioni di assiri, parti e mamelucchi, e fu abbandonata nel XIII secolo quando gli abitanti furono deportati tutti a Hamah. Dalle pietre del deserto alle frescure dell’Oronte. Chissà perché. I resti che vediamo sono della città bizantina ed araba. È tutta costruita in pietra, una selenite rosata che sotto i raggi del sole si infiamma e si accende di improvvisi bagliori. Mi stupisce la ricchezza della decorazione degli archi della porta, finemente scolpita a grappoli d’uva e motivi geometrici. Sembra un pizzo di pietra. Ci sembra che non ci sia nessuno, ma nel giro di pochi minuti si materializzano di fianco alla porta due o tre bambini cui diamo come al solito delle caramelle. Entrati in città colpisce la vastità e devastazione del luogo. Sopra di noi plana a bassa quota, stridendo, un falco che ha il nido sopra le rovine. Si odono le grida dei piccoli. In piedi ci sono poche cose, a parte la cerchia completa e porticata delle mura. Camminiamo sopra la sabbia compatta che nasconde un’intera città, qua e là una buca scavata dai cercatori di tesori o una frana permettono di vedere archi e colonne e piccole stanze. Said ci avverte di stare attenti a dove mettiamo i piedi, sia per il rischio di cadute, che per quello dei serpenti. Le sue preghiere sono state esaudite: il cielo è sereno e il sole picchia sulle teste. Visitiamo i resti di una prima basilica cristiana, poi guardiamo una grande cisterna, completamente vuota e risparmiata dalle sabbie, e poi il gioiello del luogo, la basilica di san Sergio. Il culto di questo martire dei tempi di Diocleziano si diffuse grandemente poco dopo la sua morte, attirando qui folle di pellegrini e determinando il cambiamento del nome della città in Sergiopolis. Solenni i resti della basilica del V secolo. Era a tre navate, sorrette da colonne con bei capitelli decorati con foglie. Non sono più, però, foglie d’acanto, o almeno così mi sembra. Al centro della navata centrale si leva la piattaforma che reggeva l’altare. Adesso è occupata da un gruppo di francesi. Dietro si incurva l’abside semicircolare; intorno alla sua base girano tre scalini, che formavano il coro. Le pietre sono così sconnesse da far temere crolli imminenti. Sopra si sentono stridere i falchi. Raccogliamo alcuni frammenti di vetro iridescente, di ceramica e di rame. Giambattista filma una lucertola maculata, dai colori mimetici. I suoi fianchi si alzano ed abbassano come mantici, ad ogni respiro. Dopo una sosta al bar del sito archeologico ci rimettiamo in moto.

Il territorio che attraversiamo ora appare meno arido; compaiono gli alberi e, fra le fronde, intravediamo dell’azzurro. Sembra un lago, poi ci rendiamo conto che è l’Eufrate. Mohammad ci conduce fin sulla riva. Scendiamo, stupiti ed ammirati per la bellezza del fiume. È immenso, intensamente azzurro, e scorre placido tra rive erbose. Eccolo qui, l’Eufrate mitico dei libri di storia, il fiume le cui acque hanno irrigato i primi campi di grano coltivati dall’uomo. Eccolo qui, il fiume che Abramo ha attraversato ai guadi, con la sua tribù e i suoi armenti, obbedendo all’ordine del suo Dio. Eccolo qui, il fiume che Giacobbe ha guadato fuggendo e che, tanti secoli dopo, i suoi discendenti in pianto hanno passato, diretti all’esilio di Babilonia. Visto in questa primavera, gonfio dello scioglimento delle nevi del nord, in Armenia, sembra insuperabile. Eppure è stato guadato da milioni di uomini: nomadi delle steppe, mercanti e carovane sulla via della seta, ed eserciti in armi: guerrieri, cavalli, terrificanti carri da guerra ferrati ed armati… Accadi, amorriti, caldei, assiri, babilonesi, medi, persiani, parti, mongoli…E, dopo di loro, le file interminabili dei vinti sopravvissuti, deportati lontano, all’altro capo degli imperi, dal volere dei vincitori. Tanta storia, e tante guerre, devastazioni, sangue, dolore e lacrime. Ma in questo bel meriggio di primavera, intorno ci sono solo pace e silenzio, e il mormorio delle acque e del vento. Vicino, un paio di impianti di pompaggio consentono al fiume di svolgere in maniera tecnologica la funzione di irrigazione che compie da millenni. Scendiamo sul greto, e immergo simbolicamente un piede nel grande fiume. L’acqua è limpidissima; a riva, le onde sciaguattano lente sui sassi colorati del fondo, su cui stanno aggrappate piccole lumachine d’acqua dalla conchiglia molto scura, quasi nera. Un po’ a malincuore ci stacchiamo da questa splendida riva e rientriamo nel deserto.

Percorriamo un primo tratto della strada già percorsa, ma poi la abbandoniamo, seguendone un’altra, situata più ad est. Dopo molti chilometri si profila la visione di un castello rosato, quasi evanescente nell’aria polverosa del deserto. È l’ultima meta di oggi: il castello denominato Qasr al- Heir hash-Sarqi, cioè il Castello delle Mura orientali. È il più orientale e il meglio conservato di due castelli gemelli fatti costruire dai califfi omayyadi a est e a ovest di Palmyra, nell’VIII secolo. Sorge in mezzo al nulla, in un tratto di deserto piatto e nudo. Fino a pochi anni fa, secondo la guida della Lonely Planet, era raggiungibile solo attraverso una pista nel deserto. Non c’è comunque nessuno, a parte il custode e i suoi figli. Il complesso è costituito da due corpi di fabbrica quadrangolari, recintati da mura, quello più semplice e squadrato era destinato alla popolazione civile, l’altro era la residenza del sovrano. In mezzo, il minareto della scomparsa moschea. Le mura del castello reale sono ritmate da torri semi cilindriche, decorate nella parte terminale, sormontata da una specie di cappuccio arrotondato; la porta d’ingresso reca tracce della decorazione antica. Said dice che al museo di Damasco vedremo quelle del gemello Castello delle Mura occidentali. Nonostante la proibizione musulmana di rappresentare esseri viventi, qui nel deserto sono state fatte delle eccezioni, adottando raffigurazioni di animali ispirate allo stile bizantino. Il guardiano ci apre con la chiave il cancello di ferro che chiude l’entrata, poi ci chiude dentro. Speriamo bene. La controfacciata della porta conserva resti di affreschi con motivi geometrici dipinti in rosso. Dentro è tutto ricoperto dalla sabbia, da cui ogni tanto spuntano colonne, tratti di muro, pietre, cocci. Tornando verso l’uscita, passiamo accanto ad alti muri di sabbia solidificata, in mezzo alla quale si intravede di tutto. Anche ossa, molte ossa. Said vuole inquietarci, sostenendo che sono ossa umane. Ma questa volta non ci caschiamo. Uno dei ragazzini che non ci ha seguito all’interno, ma è rimasto fuori, va a chiamare il padre che ci libera dalla prigione. Girondoliamo ancora un poco fuori, affascinati da questo posto straordinario, poi riprendiamo la via per Palmyra, distante ancora un centinaio di chilometri. Mohammed accelera l’andatura, e non scorge in tempo una grossa buca. Noi passeggeri saltiamo per aria, aggrappandoci come possiamo al sedile davanti. Per un attimo ho l’impressione che il pulmino stia per rovesciarsi, anche perché vedo Giovanni rotolare a terra. Era seduto davanti, per filmare, e non aveva nulla cui aggrapparsi. Se la cava con una botta alle costole e una escoriazione ad uno stinco. Mohammed si scusa, ma non possiamo certo fargliene una colpa. È sempre molto prudente e previdente, ma le strade nel deserto sono quello che sono. Quando giungiamo a Palmyra il cielo si è annuvolato: anche oggi non vedremo il tramonto nel suo splendore. Said non ha pregato abbastanza.

12 APRILE. PALMYRA – BAGDAD CAFÈ’ – MONASTERO DI MAR MUSA – MA’ALULA – SEYDNAYA – DAMASCO

Partendo ripassiamo accanto alla zona archeologica e alla valle delle tombe: la mattina è nuvolosa, le colonne e le torri svettano pallide nella luce soffusa. Non ci sono parole per fissare il ricordo. Ci dirigiamo a sud ovest, per raggiungere la strada che collega Bagdad a Damasco. Man mano che avanziamo assistiamo ad un fenomeno per noi strano: di fianco alla strada c’è una fila di falchi, appollaiati ciascuno su un mucchietto di sassi. Ci sono falchi grandi e piccoli, bianchi e bruni. Se ne stanno lì ad attendere che la temperatura si alzi, per poter sfruttare le correnti ascensionali. Incredibile. Sulla destra vediamo una mandria di dromedari al pascolo, tra sassi e qualche ciuffo d’erba stentata. Qui il deserto è ondulato e appare più arido rispetto alle zone che abbiamo attraversato ieri. Non ci sono tende di beduini, ma a certo punto vediamo un uomo che cammina, insieme ad un bambino, sul fianco di una bassa collina. Tutt’intorno non c’è nulla. Said dice che forse stanno cercando i tartufi del deserto. Mah, forse saranno accampati sull’altro lato dell’altura. Più avanti passiamo di fianco a miniere di fosfati a cielo aperto. È una delle risorse del paese: viene utilizzato per fare concimi, ed è in gran parte esportato. Pochi chilometri dopo aver imboccato la strada che, in senso opposto al nostro, conduce in Iraq (siamo a 150 km dal confine), ci fermiamo al famoso Bagdad café, famoso perché chi percorre questa strada facilmente si ferma qui. Per i turisti, poi, è una tappa obbligata. È l’unico posto di ristoro su questa strada, tenuto da una famiglia di beduini che hanno costruito questa grande baracca in muratura, fornita di servizi. Dietro sorgono una versione moderna e un po’ fasulla di case ad alveare ed autentiche tende beduine. Un’alta ruota eolica per pompare l’acqua e un piccolo generatore. Qualche pianta di albicocco, un cipresso, qualche gallina e un cane zoppo che corre tra i sassi. Più oltre il terreno sale dolcemente verso una bassa cresta di colline, dalla parte opposta si leva una montagna con evidenti striature di roccia nera. È già il basalto, che forma il massiccio a sud di Damasco. La costruzione è preceduta da un porticato di legno, arredato, come l’interno, in maniera fantasiosa. C’è un bel bric à brac di oggetti appoggiati al suolo od appesi ai pali: una piccola macina rotonda con un piolo infilato in un buco su un lato della circonferenza, per farla girare, teschi di dromedari e di altri animali non identificati, un corno di ariete, minerali e fossili ecc. Le panche addossate alle pareti sono rivestite di tappeti e stuoie che fungono anche da schienali ed hanno come braccioli selle da dromedario. All’interno l’arredamento è simile, ma più ricco: bricchi e caffettiere e abiti beduini, colorati e ricamati, su grucce appese alle pareti. Naturalmente c’è un piccolo spaccio che vende cartoline e oggetti d’artigianato beduino (forse). Said fa il giro del piccolo, simbolico giardino, accompagnando un membro della famiglia che gli fa notare i guasti prodotti dal gelo invernale; noi ci rifocilliamo con tè alla menta e caffè al cardamomo, e facciamo qualche acquisto. Pago con un foglio da mille lire, il ragazzo che sta alla cassa (un gran bel ragazzo, a dire la verità, occhi ridenti e denti bianchi splendenti sotto la rossa kefìà) finge di non voler mollare il resto e devo tirare per prenderlo. Lui scoppia a ridere, divertendosi un mondo. Maria Grazia ha trovato un dromedario di legno molto particolare: ha una grande gobba traforata, che lascia intravedere al suo interno un piccolo cammello. È divertente ed insolito, per cui ne compero uno anch’io. Quando pago fingo di non voler mollare i soldi. Il ragazzo mi guarda assai perplesso, ma quando Said gli spiega (in arabo) che gli sto rifacendo lo scherzo che lui ha fatto a me, si mette a ridere. Sembra gente che sa divertirsi. O forse sono solo molto furbi, e sanno come far divertire i clienti, ma è vero che i siriani ci hanno fatto l’impressione di persone allegre, socievoli, cortesi ed ospitali. Non è cosi in tutti i paesi… Nel Café ci sono anche dei russi.

Riprendiamo la strada verso Damasco; poi, dopo qualche decina di chilometri deviamo verso nord, passando accanto ai ruderi di un grande caravanserraglio. La strada si dirige verso le montagne; man mano che saliamo vediamo meglio le nere rocce di basalto e il deserto cede il passo alla steppa. Con meraviglia vedo alcuni papaveri, qualche tarassaco e noto dei bassi cespugli di fiori rosa. Chiedo informazioni a Said, che non sa come si chiamano, ma ci chiede se vogliamo vederli. Dopo aver cercato un po’ un posto adatto per fermarci, scendiamo e facciamo due passi sul bordo della strada. La pianta che aveva attirato la nostra attenzione è un basso cespuglietto spinoso, tutto coperto di palloncini rosa antico, da cui spuntano piccoli petali bianchi. Ci sono anche dei piccoli fiori viola a forma di calice e delle piantine fiorite che sembrano proprio piccole primule. Siamo nei pressi di un zona in cui si sta realizzando un progetto del governo, per la trasformazione della steppa in uliveti. Vicino ci sono alcuni edifici, da cui arrivano alcuni uomini e ragazzi in bicicletta. Guardano noi che guardiamo i fiori e si mettono a parlare con Said, chiedendogli cosa stiamo facendo. Avranno pensato che siamo una compagnia di europei ben strani! Riprendiamo il viaggio tra due strisce di ulivi; il terreno è erboso, quasi imponenti sono i chilometri di neri tubi per l’irrigazione a goccia delle piante. Raggiungiamo il dosso della montagna, dove si trovano i pozzi, profondi 180 metri, che irrigano i due versanti, e scendiamo in un’ampia vallata, percorsa dalla ferrovia, che costeggiamo per un buon tratto. Qualche filare di alberi, qualche caravanserraglio. Deviamo ancora, salendo con ripidi tornanti verso brulle, rocciose montagne color ruggine. In basso, ordinati filari di giovani olivi, poi di nuovo rocce brulle e deserte. Una breve deviazione ci conduce al fondo di un piccolo anfiteatro di rocce, intorno a noi ripide pareti rossicce e rugginose. Guardando meglio ci si accorge che in alto, quasi sulla cima del costone, stanno abbarbicati alcuni edifici, sormontati dalla croce. Siamo giunti al convento di Mar Musa, un complesso costruito nel sec. VI da un membro della famiglia reale etiopica, almeno secondo la tradizione. Si tratta di uno dei pochi monasteri del deserto rimasti in Siria, ed è stato restaurato negli anni ’80 da un gesuita italiano, padre Paolo. Si vedono delle persone che stanno risalendo il ripido sentiero; Said ci chiede se vogliamo salire anche noi. Mi piacerebbe molto, ma la strada è abbastanza lunga e ripida, non abbiamo tempo, se vogliamo giungere a Damasco in orario. Ci limitiamo quindi ad osservare il convento da lontano, con il naso per aria. Scendiamo ora verso la valle percorsa dall’autostrada Aleppo-Damasco, che imbocchiamo ad An Nabk. La percorriamo per alcuni chilometri, poi deviamo per una strada secondaria che risale con ripidi tornanti le propaggini dell’Antilibano. Al di là dei monti, il Libano e la piana della Bekàa. Le montagne che vediamo sono belle: un tavolato roccioso con pareti verticali rosate sovrasta un alto, nudo ghiaione. Qua è là, qualche albero e un po’ di verde.

Improvvisamente compare Ma’alula. Davanti a noi un anfiteatro di rocce color ocra, incrostato di casette, bianche, gialle, azzurre. Viste dal basso, sembrano costruite le une sulle altre, in realtà sono in parte scavate nella roccia, a diverse altezze. Entriamo in città passando sotto un arco, Said ci fa notare alcune cavità, che erano luoghi di culto cristiano. Il pulmino ci lascia in una piazzetta da cui si accede al convento dei santi Sergio e Bacco. Entrando da una bassa porticina, che costringe chi entra ad inchinarsi in segno di reverenza, (architrave imbottito!), ci troviamo in una specie di chiostro, poi, per un’altra bassa porticina (architrave imbottito!), entriamo nella piccola chiesa, risalente in parte al IV secolo. Sono consapevole di essere in una delle più antiche chiese cristiane giunte a noi, e provo un poco di reverenza per questo luogo che ha visto la vita e la fede di comunità cristiane già fiorenti quando a casa nostra il cristianesimo stava ancora muovendo timidi passi. Dietro l’iconostasi, decorata con belle icone, si trova l’altare. Said ci fa notare l’eccezionalità di questo altare, per cui fu riutilizzata la pietra di un altare pagano. Ha forma semiellittica, è scolpito nella pietra ed è caratterizzato da un alto bordo e da un foro, posto nella parte anteriore, da cui scolava il sangue delle vittime sacrificali. La presenza di questa pietra testimonia dell’antichità dell’altare, perché la Chiesa proibì molto presto il riutilizzo di altari pagani per costruirne di cristiani. Ritornati nella navata, ci sediamo ad ascoltare una signora che, dando le spalle all’iconostasi, recita per i presenti il Padre nostro nel dialetto di Ma’alula. Gli abitanti di Ma’alula, infatti, insieme a quelli di un paio di altri villaggi dell’Antilibano siriano, usano ancora l’aramaico occidentale, parlato in Palestina ancora ai tempi di Gesù. Non è possibile che sia ancora la stessa identica forma di duemila anni fa, ma è quanto di più vicino possa esserci. Usciti nella piazzetta antistante il monastero, ci serviamo dei bagni. L’anziano signore che li custodisce ci si avvicina sorridendo e ci mostra un cartoncino su cui, in due colonne parallele, ha scritto alcune espressioni italiane e le corrispondenti espressioni in arabo (credo, ma forse era aramaico? E quale alfabeto? Mi è sembrato un po’ diverso da quello arabo, ma posso solo guardare i “disegni”!). In francese, ci chiede di controllare se le frasi italiane sono giuste e ne aggiunge un paio di nuove. Questa si che è professionalità! Ammirevole e commovente. Non visitiamo la tomba di s. Tecla, dove sembra che non ci sia molto da vedere, ma il pulmino ci porta in alto, dove ha inizio la discesa attraverso il sìq. Si tratta di uno strettissimo canyon scavato dalle acque che scendono dall’altopiano; secondo la leggenda la montagna si sarebbe aperta per consentire a s. Tecla di fuggire ai suoi persecutori. Scendiamo tra due sinuose pareti di rocce color ocra. In alto qualche alberello e qualche ciuffo di vegetazione. Sul fondo, a ridosso della parete, scorre un piccolo rio, il cui letto è, in certi punti, scavato nella roccia. Pare impossibile che cosi poca acqua abbia potuto, sia pur nel corso di millenni, praticare un taglio così profondo nella montagna. Verso la fine il canyon si allarga e l’acqua scorre tra i sassi. Ci sono diverse persone; una famiglia è seduta sulla riva a fare un picnic, con tanto di fornelletto appresso. Intorno, sulle pareti si vedono parecchie grotte, che in passato erano tombe. Usciamo dal siq, passando di fianco ad alcune case di cui sporge dalla roccia solo la facciata. Ci si fa incontro una scolaresca di scuola superiore, sorridenti e cordiali i ragazzi ci chiedono se parliamo inglese e da dove veniamo. Svegliamo Mohammed che sonnecchia su alcuni scalini (poveretto, fare l’autista deve essere una noia mortale!), e ci rimettiamo in viaggio, diretti a Saydnaya.

È un altro villaggio cristiano, in cui sorge il santuario mariano più famoso del Medio Oriente, risalente, secondo la tradizione, ai tempi di Giustiniano, al quale la Madonna sarebbe apparsa sotto forma di cerva. La straordinarietà di questo posto sta nel fatto che, fin dal Medioevo, è frequentato anche da pellegrini musulmani, che vengono a rendere onore alla Vergine Maria, madre del profeta Gesù. Attraversiamo una campagna abbastanza verde ed alberata e vediamo profilarsi da lontano Saydnaya, alta su uno sperone roccioso. Il monastero (femminile) e la chiesa sono molto vasti e sorgono su una specie di acropoli, che domina le case della cittadina. Saliamo in ascensore, evitando la lunga scalinata d’accesso. Per entrare dobbiamo levarci le scarpe perché “il luogo sul quale tu stai è terra santa”. Entriamo in un primo locale, in cui c’è un affresco di Maria con il Bambino; passiamo poi nella piccola cappella dove è conservata l’immagine (attribuita come molte altre a s. Luca). È un po’ una delusione: è molto buia; l’immagine è custodita dietro sportelli d’argento che non si aprono mai. Said ci dice che non viene esposta da anni, avevano intenzione di filmarla per un servizio televisivo, ma la superiora ha risposto con un rifiuto.

Riprendiamo l’autostrada e poco dopo giungiamo a Damasco. Il pulmino ci lascia alla Bab Tuma, la porta di s. Tommaso, un cubo di pietra con archi ogivali. Saliamo una scaletta e dopo alcuni giri per stradine tra alte mura giungiamo all’albergo, l’Old Damas Hotel. Come ad Aleppo, si tratta di un’antica casa restaurata, ma questa è molto più bella. Entriamo in un elegante cortile con aiuole fiorite e veniamo invitati, in attesa delle valige, a sederci in una spaziosa nicchia, arredata con divani, tavolini intarsiati, sportelli anch’essi intarsiati. In attesa del tè ci guardiamo intorno e ammiriamo gli architravi scolpiti delle finestre e delle porte e gli arredi: qualche mosaico alle pareti (un falco, un uomo su un cammello…), una gabbia per uccelli da Mille e una notte, un orologio, bricchi e caffettiere. In alto si vedono i pesanti drappi che di notte vengono tirati per coprire il cortile. Questa sera ceneremo fuori, in un locale dove si dà anche spettacolo, ma c’è quasi un’ora e mezza prima che Said passi a prenderci. Insieme ad Maria Grazia e a Teresa decidiamo allora di fare un’esplorazione privata dei dintorni. Giovanni prova a chiedere qualche indicazione all’albergo, per andare in centro, nei pressi della Grande Moschea, ma o non si fidano della mappa o non si fidano del nostro senso di orientamento, per cui ci affidano di nuovo al solito ragazzino, che ci scorterà nei pressi della Moschea, affidandoci poi a noi stessi per il ritorno. Il giovincello procede veloce, tallonato da Giovanni; noi tre donne seguiamo un po’ a distanza, ma non troppo, perché abbiamo paura di perderli di vista in mezzo alla folla. Cerchiamo di fissare dei punti di riferimento per il ritorno e contemporaneamente non rinunciamo a guardare le vetrine e le merci esposte: croissant e vestiti, carretti di mandorle verdi e salsicciotti, scatole intarsiate, pashmine, gioielli e raffinate suppellettili di ceramica dipinta. .. Giunti su un fianco della Grande Moschea la nostra guida ci lascia. Diamo un’occhiata all’alto muro perimetrale, risalente, se ho ben capito, al tempio di Giove che sorgeva qui prima della cattedrale cristiana, sulla cui area è stata poi costruita la moschea, dopo la conquista araba di Damasco. Ci facciamo però prendere dall’ansia del ritorno e invertiamo la rotta, soffermandoci a guardare le vetrine meno di quanto vorremmo. Finché rimaniamo in strade affollate di negozi non abbiamo molti problemi, perché riconosciamo facilmente alcune vetrine. Le cose si fanno più difficili nei pressi dell’albergo, perché i negozi spariscono e procediamo in vie strette, tra alti muri. “Siamo passati davanti a questo altarino con la Madonna?”. “Sì, l’ho notato, solo che prima non c’era l’incenso che brucia”. Si sta facendo buio e non c’è molta illuminazione. Dopo un altro po’ di svolte disorientanti, ci decidiamo a chiedere lumi a un passante. Se ne aggiunge un altro che sta portando a spasso il cane, e ci guida personalmente fin quasi all’albergo, poi si dilegua discretamente. Un veloce ripulita e poi di nuovo via, inseguendo tra la folla la schiena di Said. Ripercorriamo la strada che abbiamo fatto prima da soli, ora vivacemente illuminata, e proseguiamo oltre la Moschea. Mi appare una Damasco, in questo quartiere, meno elegante di Aleppo, case dalle facciate disadorne, senza gli sporti delle verande e delle inferriate. Ci fermiamo in una piccola piazza lastricata, dove sono in attesa alcuni uomini in costume, con in mano strumenti musicali. Per lo più hanno braghe e gilet neri, camicie bianche, uno scialle bianco arrotolato intorno al collo e uno zucchetto bianco. Stiamo aspettando tutti il nutrito gruppo di italiani cui siamo stati aggregati anche noi sei. Siccome sono in ritardo, diamo un’occhiata ad alcuni negozi del suq ancora aperti. Infine il gruppone arriva e la festa inizia. Il coro dà il via ad una canzone ritmata, accompagnata con il battito delle mani, piatti e tamburelli. Arretrando ci guidano per le stradine tortuose; bottegai e damasceni ci guardano dalla soglia dei negozi o seduti sulle seggiole fuori della porta di casa. Più tardi chiederò a Said se è tutta una messinscena per turisti. Mi risponde di no: è una canzone d’amore tradizionale di Damasco, che viene cantata ai matrimoni o quando si festeggia il ritorno di un pellegrino da la Mecca.

Giungiamo infine al ristorante, l’Umayyad Palace Restaurant, posto in una grande sala sotterranea, sorretta da colonne. La guida dalla Lonely dice che è arredata come la grotta di Alì Babà, con fronzoli e gingilli vari, panche coperte di tappeti, mobili luccicanti di intarsi ecc. Fa un po’ sorridere, ma rende l’idea. La cena è a buffet e ci facciamo consigliare da Said per scegliere tra i tanti piatti esposti: verdure cucinate in tanti modi, insalate di farro ed altri ingredienti non facilmente individuabili, carni in umido e kebab. E tanti dolcetti. Tanto per star sul sicuro, assaggiamo un po’ quasi di tutto. Vicino al nostro tavolo, seduti su una panca contro il muro, gli orchestrali suonano e cantano: un oud, piatti e tamburello, e un qanun. Alle nove ha inizio lo spettacolo di danza derviscia. I due danzatori, un giovane uomo e un bambino (vestiti con alti cappelli a tronco di cono rossi ed una lunga gonna bianca a campana, terminante con un alto bordo rigido) iniziano a ruotare, accompagnati da un canto e dalla piccola orchestra. È la prima e unica volta che vedo una danza di dervisci. Si limitano a girare in tondo solo su se stessi, fermi sul posto. Non so come riescano a farlo, al termine ringraziano il pubblico con un inchino, perfettamente padroni del loro equilibrio. La danza non manifesta nulla del significato religioso e dell’afflato mistico che dovrebbero esserle propri. I danzatori, roteando su se stessi, non esprimono più la realtà divina e la realtà fenomenica, in un mondo in cui tutto, per sussistere, deve ruotare: come gli atomi, come i pianeti, come il pensiero. Sembrano piuttosto bamboline sopra un carillon. Ridotta a spettacolo, la danza è tuttavia un po’ affascinante e un po’ ipnotica. Rientra in scena il gruppo che ci ha accompagnato qui, due di loro si esibiscono in una danza con le spade, un finto duello che termina con un bacio scambievole sulle guance. Intonano poi di nuovo il canto con cui ci hanno accolti, iniziando una danza tipo “anaconda”, e cercano di coinvolgere gli astanti. Said si aggiunge al girotondo, noi ci rifiutiamo recisamente. Guardiamo un po’ perplessi alcuni nostri connazionali, non molto più giovani di noi e in sovrappeso, che si esibiscono saltellando e ballonzolando. Effetto disastroso sul piano estetico, e in certo casi perfino un tantino osceno. Mah, che scherzi può fare trovarsi migliaia di chilometri da casa! Ma la giornata non è finita. Mentre io faccio la doccia, Giovanni scosta le lenzuola e…si accorge che sono state inequivocabilmente già usate. E quasi mezzanotte, ma chiama il portiere e le fa cambiare. È il minimo. In un albergo a quattro stelle???!!!!

13 APRILE. DAMASCO

Siamo svegliati alle 6 dal suono delle campane. È un suono familiare, che ci riporta a casa, ma ci fa svegliare lo stesso! Scendiamo a fare colazione nel bel cortile, poi il giro inizia. Il traffico di Damasco è una cosa folle, la maggior parte dei veicoli è costituita da taxi. Sembra che ce ne siano a migliaia, tutti in giro. Il pulmino ci porta di fronte al Museo Archeologico Nazionale. Si trova in mezzo ad un bel giardino alberato. Ci avviciniamo all’ingresso immersi nel profumo degli aranci amari in fiore. Il portale viene dal Castello delle mura occidentali, il gemello di quello che abbiamo visto nel deserto. La ricostruzione e molto ben fatta e correttamente leggibile. Che dire delle mille cose viste all’interno? Il primo sigillo pervenutoci in alfabeto fonetico, da Ugarit, le lettere ufficiali, con al centro impresso il sigillo, sempre in ugaritico; le splendide statuette del secondo millennio a.C., provenienti da Mari, raffiguranti uomini e donne, in piedi o seduti, con le gonne di velli di pecora e i grandi occhi dipinti di nero, che fissano l’infinito; la statua di un sovrano, realizzata sempre nello stesso modo, ma con una lunga iscrizione sulla schiena; i gioielli; un leone con ali d’aquila, in oro e lapislazzuli simbolo di una dea; un piccolo bassorilievo uguale a quello che orna la stele di Hammurabi, ma più antico; gli splendidi affreschi della sinagoga di Dura Èuropos, con le storie della Bibbia, colorati ed ieratici; la ricostruzione di una tomba di Palmyra e i bassorilievi, con le fisionomie degli uomini e delle donne realisticamente riprodotti, nel pieno della gioventù. Volti pensosi, reclinati da un lato, appoggiati all’indice e al mignolo della mano. Un cavaliere mongolo in ceramica colorata, con un serpente avvinghiato alla zampa del cavallo, le granate arabe di ceramica, decorate all’esterno, la ricostruzione di una vastissima sala del palazzo Azem, che visiteremo nel pomeriggio. Said, figlio di un calligrafo, ci fa notare i vari stili di scrittura. Entriamo attraverso un voltone nel suq al-Hamidiyya, un lungo bazar coperto su cui si affacciano negozi di una certa eleganza. All’inizio, in mezzo alla via, notiamo un uomo che regge, assicurata ad una cintura, un’alta, cilindrica brocca di ottone: è un venditore di tè. Risaliamo la via centrale del suq, dove si affacciano botteghe prevalentemente di artigianato, di abbigliamento e di gioielli. Ci sono lussuosi vestiti da sposa e da sera, vivacemente colorati e luccicanti di ricami, biancheria intima riccamente ornata e dalle fogge incredibili (ma chi mai se la mette, della roba cosi poco pratica?!), vetrine ricolme di oro, di collane e braccialetti che, infilati su bastoni, formano compatti “tubi” d’oro. Vediamo anche due negozi che espongono collezioni di foulard per il capo. Sono rigidamente acconciati su manichini, ma sono colorati o a disegni. Devo dire di non aver visto molto di simile in giro; in genere, anche qui, come ad Aleppo, le donne vestono di nero. L’arco dell’uscita dal suq incornicia le superstiti colonne corinzie del tempio di Giove, bianche nel sole. Dietro, le mura della grande Moschea. Said ci fa entrare nel recinto e bardare come dovuto. Entriamo prima nella tomba di Saladino, ornata da belle ceramiche che ricordano quelle di Iznik. In mezzo, la tomba ricoperta da una fodera verde con iscrizioni in oro e un turbante; di fianco il cenotafio donato da Guglielmo II. Fa caldo e noi donne, ricoperte dai mantelli di stoffa sintetica e di foulard di seta, ci sentiamo un poco soffocare. Usciamo e, passando per un piccolissimo parco archeologico con resti di colonne del tempio di Giove, entriamo nel cortile della Moschea, una delle più antiche e venerande dell’Islam. È vastissimo, lastricato di marmo chiaro, con intarsi gialli e neri. La prima cosa che notiamo, entrando, è la Cupola del Tesoro, un piccolo edificio ottagonale retto da colonne e sormontato da una cupola; le pareti sono tutte ricoperte di splendidi mosaici, in cui predominano il verde e l’oro. Rappresentano grandi alberi frondosi, edifici e padiglioni, corsi d’acqua. Gli stessi motivi ritornano nella decorazione musiva del portico e della facciata del piccolo transetto. Sono mosaici splendidi, solo in parte sopravvissuti agli incendi che hanno ripetutamente danneggiato gli edifici. Sempre dal cortile si notano i tre minareti della moschea e la grande cupola delle abluzioni al centro del cortile, fiancheggiata da due colonne che reggono una sfera traforata e dorata, dette candelabri di Bayran. Camminando sui marmi del cortile sento il calore attraverso gli spessi calzini di spugna che indosso. Said mi dice che d’estate è impossibile camminare sulle parti esposte al sole, perché diventano roventi. Ci credo senz’altro. L’interno è vastissimo e luminoso, in gran parte ricostruito dopo l’incendio della fine dell’800. Al centro della lunghissima sala ci sono un accenno di transetto e una piattaforma sopraelevata, sormontata da una cupola su cui sono scritti i nomi di Dio, del Profeta e dei primi califfi dell’Islam. A sud il mihrab (è il primo esempio definito di mihrab). Alcuni uomini pregano a mani alzate. Proseguendo, alcune transenne non ci consentono di avvicinarci al padiglione dove è conservata la presunta testa di s. Giovanni Battista, ereditata dalla cattedrale cristiana, dedicata appunto a questo santo. Vediamo solo la intensa luce smeraldina che traspare dai vetri. Mi stupisce un po’ vedere uomini, donne e bambini bivaccare e dormire sui tappeti, a volte in maniera scomposta. Non ho mai visto niente del genere, né a Istanbul, né a Gerusalemme. Ma, dopotutto, la moschea non è un luogo sacro, ma una stanza di preghiera. Tornando verso l’uscita, noto che la navata più esterna è riservata alle donne e separata dal resto da transenne continue. Fa caldo e non c’è molta ventilazione. Ci sono solo 30 gradi, figurarsi come sarà in luglio!

Proseguiamo per il palazzo Azem, costruito nella seconda metà del ‘700 da un governatore di Damasco. Entriamo nel cortile dell’haramlik, lastricato di marmi variopinti. Fontane zampillanti , intarsiate di marmi, una grande vasca centrale, alberi frondosi e profumo di zagare. Sui quattro lati, i padiglioni porticati e un palazzo, tutti unificati dalle file parallele di marmi bianchi, gialli e neri che corrono lungo le facciate. Qualche buganvillea fiorita. E un luogo elegante e sereno. Oggi il palazzo è la sede del Museo delle Arti e Tradizioni popolari. Nei locali a pianterreno, con l’utilizzo di manichini, sono allestite delle ricostruzioni di una classe di scuola, di ambienti domestici e di attività artigianali. C’è anche un hammam, con i vari ambienti. Particolarmente interessante mi è sembrata una saletta in cui numerose foto e disegni illustrano la preparazione della carovana annuale del pellegrinaggio alla Mecca, organizzata sotto l’egida del Governatore di Damasco, per garantire la sicurezza dei pellegrini. Il viaggio durava circa due mesi ed il corteo, che si ingrossava lungo il cammino, era preceduto da un dromedario su cui era montata una grande cabina di legno e stoffa, seguito da un altro dromedario che portava un alto stendardo. Nella sala è conservata una di queste cabine. Faccio fatica ad immaginarla, grande com’è, sulla groppa di un dromedario. Continuiamo il giro, vagabondando nelle viuzze intorno alla Moschea, occupate in gran parte da suq o da khan trasformati in suq. Ogni tanto una cupola, un voltone a bande bianche e nere, stalattiti pendenti da importanti portali. Vogliamo comperare dell’incenso e Said ci accompagna in una botteghina che ha in mostra cose incredibili: dentro a vasi di vetro vedo delle sanguisughe vive nuotanti nell’acqua; un nero serpente vivo; lucertole del deserto essiccate e stivate come acciughe; mazzi di camaleonti (o qualcosa del genere) pendenti dal soffitto come mazzi di cipolle; una grande iguana, pure lei essiccata, pelli maculate e striate di animali imprecisati. Immagino che servano per preparare medicamenti tradizionali. Consumiamo in albergo la nostra ultima “cena”, poi usciamo e siamo condotti sulla montagna che domina la città, in una specie di belvedere. Davanti a noi si apre un mare di luci multicolori, che si estende a perdita d’occhio, in tutte le direzioni, e si perde nel deserto. Riconosciamo le luci della Grande Moschea, con i suoi tre minareti.

Damasco è immensa: sei milioni di abitanti, più due milioni di pendolari e un milione e mezzo di profughi iracheni. Rimaniamo un poco quassù, nel vento fresco della sera, a goderci lo spettacolo; poi scendiamo, diretti ad una via di sole pasticcerie. Anche se siamo in pulmino, le vetrine illuminate ed i pasticcini elegantemente in mostra sono uno spettacolo! Peccato non averlo visto prima! Entriamo in una pasticceria dove siamo accolti con l’offerta di assaggi di dolcetti deliziosi. Particolarissimi alcuni piccoli pasticcini a forma di nido d’uccello: al centro di una piccola coppa di fili di pasta, pistacchi, pinoli e mandorle simulano le uova. Raffinatissimi, oltre che buoni. E infine di nuovo in albergo, per finire le valige. Sarà la nostra ultima notte a Damasco. Peccato, ci sarebbero voluti due o tre giorni in più. Ma è andata così.

14 APRILE. DAMASCO – BOLOGNA

Said ci viene a prendere alle 7.30, portando un dono per ciascuno di noi, da parte dell’agenzia per ai cui lavora e che ci ha organizzato il viaggio in Sira, la Allied tours DMC, Kivan enterprise: una pscatola rettangolare di legno intarsiato, come usano qui. Ci conduce all’aeroporto, insieme con una coppia di costaricani, reduci da un giro in Siria e diretti a Roma, dove studia un loro figlio. Alla biglietteria aspettiamo un bel po’, perché non trovano la prenotazione dei nostri biglietti. Poveri noi! Per fortuna la cosa, dopo molte ricerche e l’intervento di un secondo impiegato, si risolve. Salutiamo Said, con la speranza di rivederci, per un prossimo viaggio in Giordania. Inizia la lunga attesa della chiamata del nostro volo. Le nostre compagne acquistano delle bottiglie di liquore locale che, ahimè, saranno sequestrate all’aeroporto di Roma. Infine ci imbarchiamo e l’aereo decolla con un po’ di ritardo.

Damasco svanisce sotto le nuvole bianche del mattino.



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