Magie polinesiane

Soggiorno tra Thaiti e Bora Bora dopo un tour del Giappone, tra conchiglie giganti, squali, razze e bungalow overwater
Scritto da: FraRove
magie polinesiane
Partenza il: 27/06/2010
Ritorno il: 07/07/2010
Viaggiatori: 2
Spesa: 3000 €
La prima cosa che viene in mente quando si pensa alla Polinesia sono senza dubbio la miriade di tonalità di blu del suo mare, le foto-cartoline di spiagge mozzafiato, palme inclinate dal vento, pesci colorati.

Ancora sull’aereo, guardando Bora Bora, Moorea, Rangiroa, Taha, dal finestrino, sono rimasta a bocca aperta: sembravano isole paradisiache, quasi un altro pianeta. Più tardi, atterrati a Papeete, l’atmosfera Polinesiana ci ha investiti già al gate: tre suonatori, vestiti con camicione floreali gialle e bianche, ci hanno dato il benvenuto a suon di ukulele, piccole chitarre a quattro corde. I tour operators, che ci attendevano sorridenti agli arrivi, ci hanno regalato una collana di Tiarè, fiori polinesiani variopinti e profumatissimi. Mi sentivo euforica.

Certo ero anche un po’ stordita (otto ore di volo sull’oceano pacifico – arrivavo da Kyoto, ma questa è un’altra storia -, il caldo, il jet leg) e la collana di fiori mi causava un fastidioso prurito sul collo. Forse queste sono solo tutte scusanti, per giustificare il fatto che la prima impressione su questa meravigliosa terra è stata, incredibilmente, nonostante la mia euforia, non del tutto positiva. Avevamo deciso di andare al leggendario mercato di Papeete prima di ripartire con il volo del pomeriggio per Bora Bora, così abbiamo lasciato i bagagli nel deposito appena fuori dall’aeroporto e abbiamo preso un autobus verso il centro. Il conducente è stato scorbutico e maleducato, le persone attorno ci squadravano da testa ai piedi. Mi sentivo osservata, giudicata. Arrivati al mercato, le tonalità accese dei pareo e le collane di conchiglie non potevano mascherare il puzzo di pesce, uomini e donne che, a piedi scalzi, si aggiravano per i banconi del mercato. Un ricordo però è nitido: il sorriso di una donna tahitiana, immortalato in uno scatto dentro la mia macchina fotografica, con una corona di fiori bianchi sulla testa e due occhi sinceri. Che terra misteriosa e contraddittoria, ho pensato.

La stessa sera, sulla spiaggia di Marara Beach, mi ascoltavo. Nessuna luce, nessun rumore. Per noi occidentali, europei, è davvero surreale il buio, il silenzio. Viviamo in città, siamo immersi nella civiltà. Laggiù, solitaria tra l’Oceano Pacifico, a parecchie ore di volo da qualsiasi continente, mi sono sentita incredibilmente piccola e fragile. Il suono potente ed incessante dell’oceano che si infrangeva sulla barriera corallina, mi dava un senso di inquietudine, disagio. Forse non è così immediato capire un luogo tanto lontano, forse non è semplice comprendere le persone, specialmente se hanno una cultura ed un modo di vivere così diverso dal nostro. Di fatto ho impiegato parecchi giorni, tra i fondali sabbiosi ed i sentieri fangosi di quell’incredibile isola per capire. Abbiamo affittato una panda 4X4 per fare tutto il giro dell’isola, per arrivare in angoli solitari e selvaggi. Ogni tanto, sul calar del sole, raggiungevamo il paesino di Vaitape con la chiesetta rosa e il suo campanile che svetta sovrapposto ai monti Paihia e Otemanu. Una mattinata piovosa, a zonzo per Vaitape, ci siamo imbattuti nella gara con le piroghe. Decine di queste tipiche imbarcazioni bianche e rosse gareggiavano tra di loro, i vogatori allegri remavano con una corona di foglie sulla fronte ad asciugare il sudore. Di fianco a noi, sulla terrazza di una casa, un uomo osservava la gara sotto un tetto di foglie, al riparo dalla pioggia.

La mattina uscivamo in barca, per nuotare tra gli squali e le razze, raggiungere i motu di sabbia bianca che circondano l’isola, fare il bagno dove il mare è più blu. Ed è così che, piano piano, ho capito che quella prima impressione di trasandatezza, di sporco, altro non era che semplicità, contatto con la terra, con la natura. Quella apparente superficialità è un modo di vivere, è allegria e spensieratezza. La gentilezza e l’attenzione che i polinesiani hanno nei confronti dei loro turisti, la si comprende a poco a poco, vivendo in mezzo a loro, sorprendendosi dei loro gesti, delle loro parole, dei loro balli. Il suono di una conchiglia gigante, quando al tramonto una barca salpava verso l’aeroporto, sanciva la fine di un altro giorno. E quando alla sera, le musiche tacciono e le persone dormono, come per magia, l’infrangersi sordo e sonoro delle onde nella barriera, diventa niente altro che il tuo rifugio, la tua protezione dall’immensità dell’oceano. In quel bungalow di legno e foglie, finalmente, mi sono sentita protetta. “Na na polinesia, e maruru”.



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