L’Africa in taxi brousse

Andare da soli in Africa non è stato assolutamente difficile come tutti ci avevano pronosticato, cercando di spaventarci in ogni modo possibile; il difficile è stato solo tornare. Ritornare alla vita di tutti i giorni nelle nostre città fredde e vuote…che fine hanno fatto i bambini? E il calore avvolgente delle famiglie riunite nei...
Scritto da: fedy75
l'africa in taxi brousse
Partenza il: 01/02/2002
Ritorno il: 10/04/2002
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 1000 €
Andare da soli in Africa non è stato assolutamente difficile come tutti ci avevano pronosticato, cercando di spaventarci in ogni modo possibile; il difficile è stato solo tornare. Ritornare alla vita di tutti i giorni nelle nostre città fredde e vuote…che fine hanno fatto i bambini? E il calore avvolgente delle famiglie riunite nei cortili, e gli odori dei mercati, e la magia sacra dei riti quotidiani? Tutte queste cose ci sono entrate dentro, giorno dopo giorno, insieme alla solidarietà della gente e ai loro sorrisi fiduciosi. Alla fine anche noi, stupidi toubab (bianchi), ci sentivamo in perfetta sintonia con quel mondo, come se non ne potesse esistere uno diverso, come se niente di male potesse succederci, là… Siamo partiti il 1° febbraio da Nizza, destinazione Dakar. Non avevamo programmi, né indirizzi, né contatti, solo una vecchia guida Lonely Planet, due zaini che non pesavano insieme più di 13 kg…e due mesi e mezzo davanti a noi. Non avevamo idea di quello che ci aspettava in Senegal, né tanto meno in Mali o in Burkina Faso…erano stati i racconti degli immigrati a convincerci a partire, e quello che dell’Africa si può immaginare dopo aver vissuto per 3 anni nel diciottesimo, a Parigi… Appena scesi dall’aereo, alle 4 di notte, come una doccia ghiacciata l’Africa ci ha tolto il respiro, ci ha lasciati senza parole e senza fiato e abbiamo capito immediatamente che niente di quello che avevamo imparato fino a quel giorno ci sarebbe servito. Chi doveva venire a prenderci non c’era, e tutte le nostre certezze diventavano di colpo inutili e assurde in quel mondo tanto diverso dal nostro, dove parole semplicissime come vicino e lontano, pieno e vuoto, freddo e caldo, non hanno alcun significato, dove neanche la luna ha lo stesso aspetto, dove il tempo è un concetto talmente inutile che nessuno ricorda neanche la propria età. Ma un rude tassista ci ha portati a Yoff senza troppe parole, senza neanche cercare di fregarci (e, vista la situazione, avrebbe potuto fare di noi qualunque cosa!). Siamo rimasti 4 giorni in quel tranquillo paesino di pescatori, il tempo di imparare a muovere i primi incerti passi in quel mondo. Lunghe passeggiate sull’oceano, timide escursioni nel caos di Dakar, giornate intere passate per strada a spiare la vita dei silenziosi pescatori e delle loro famiglie. Appena ottenuti i visti per il Mali e il Burkina siamo partiti verso il sud del Senegal, la Casamance: verdissimo paradiso tropicale di mangrovie e paludi; inferno di ribellioni indipendentiste…

Abbiamo passato una settimana sull’isoletta di Karabane, in mezzo alle palme e ai resti di un’epoca coloniale ormai lontanissima, tra i coccodrilli, i delfini e gli strani e spaventosi spiriti delle foreste… La sera, quando il generatore era spento (o guasto), e l’oscurità era rotta solo dalla luminescenza delle onde, e intorno non c’era nessuno e non si sentiva altro che il rumore dell’oceano, la vecchia Lily, bellissima djola dalla pelle chiara, cominciava a raccontare storie inquietanti e fantastiche, di spiriti dispettosi o crudelissimi, di terribili vendette e misteriose feste nel cuore della foresta… Dopo una settimana trascorsa in quel posto, eravamo come rinati, in perfetta sintonia con quel mondo e con tutti i suoi abitanti, visibili e invisibili…Abbiamo saputo solo molto più tardi che poco lontano dalla nostra isola, in quegli stessi giorni, 5 toubab erano stati uccisi per strada dai ribelli indipendentisti…la Casamance, purtroppo, è anche questo.

Ci addentriamo verso il Mali, e cominciamo a capire cosa significhi davvero “spostarsi” in Africa…è incredibile, all’inizio credevamo di impazzire ogni volta che salivamo su uno di quei mezzi macilenti e vecchissimi, pieni all’inverosimile di ogni genere di passeggeri e mercanzia, lanciati a velocità folli su “strade” assolutamente impercorribili, in mano (per lo più) a bambini o a pazzi furiosi. Quanto abbiamo sofferto, e quante volte ho pregato San Cristoforo (protettore dei viaggiatori), Allah e chiunque altro mi venisse in mente perché, nonostante tutto, ci aiutassero ad arrivare illesi a destinazione! Poi, piano piano, qualcosa è cambiato, forse la filosofia dell’Inch’Allah ci è entrata dentro, o, semplicemente, abbiamo capito che era molto meglio così…e ci siamo ritrovati a canticchiare su quegli stessi furgoni, mentre la polvere e il caldo ci soffocavano e le vibrazioni sembravano volerci spaccare il cervello…E abbiamo imparato anche noi a coricarci sul bordo della strada e a dormire aspettando che l’ennesimo guasto fosse riparato…A fidarci ciecamente dei rimedi più insensati (una ditata di pomata gialla sui copertoni prima di partire per non forare??), e, soprattutto, a non fare più domande stupide su tempi, distanze, condizioni stradali…

Il treno è rimasto comunque il nostro mezzo di trasporto preferito, è bellissimo lasciarsi cullare dal suo ritmo dolcissimo, per giorni e giorni in mezzo alla brousse, e lentamente (molto lentamente!) attraversare minuscoli villaggi, e lasciarsi viziare dall’interminabile carosello delle venditrici, che a ogni ora del giorno e della notte vengono a offrirti davanti al finestrino le mercanzie più impensabili… In treno siamo arrivati a Bamako, capitale del Mali. Di qui abbiamo proseguito in compagnia di un giovane mercante jugoslavo lungo il Niger, attraverso paesini fatti solo di fango, con casette minuscole, vicoletti intricati, orti verdissimi e donne che lavano i panni al fiume, e bambini che insaponano i loro montoni per la festa del Tabaski e grandi cortili pieni di vita e di odori. Djenné, città di altri tempi che ha il colore della sabbia e il fascino delle antiche fiabe, ci ha incantati e affascinati con le sue imponenti moschee fatte di fango, i suoi favolosi edifici signorili, le sue mille scuole arabe, dove i bambini imparano il Corano in silenziosi giardini ombreggiati. E, soprattutto, con il suo mercato: coloratissimo, rumoroso, affollato di donne bellissime, eleganti e fiere come regine… A Mopti, circondati dalle acque del Niger, ci siamo fermati un po’ di più per decidere quale strada prendere…Alla fine, dopo due giorni di estenuanti contrattazioni sotto il sole cocente, siamo riusciti a spuntare un prezzo più che ragionevole per la piroga (all’incirca un quarto di quello che ci avevano chiesto!), e ci siamo imbarcati alla volta di Timbuctù. La nostra piroga ci sembrava già talmente piena che, senza farci troppi problemi, ci siamo sistemati ai nostri posti, speranzosi: abbiamo dovuto aspettare più di 24 ore, fermi nel porto senza poter scendere dalla piroga, prima che il carico fosse davvero completo! Quando finalmente siamo partiti eravamo talmente pesanti (almeno 100 persone e non so quante tonnellate di riso) che ci incagliavamo in ogni banco di sabbia, e allora gli uomini scendevano a spingere, le donne venivano scaricate su piroghine di salvataggio, e si scaricava riso finché non eravamo abbastanza leggeri per passare. È stato un viaggio incredibile…la piroga scorreva lentissima in mezzo a villaggetti minuscoli, laghi popolati di ippopotami, intricati labirinti di canali, immense distese desertiche. La sera ci fermavamo e dormivamo sulla riva del fiume, tutti insieme. 5 giorni è durata la “crociera”(ci avevano giurato che sarebbero stati al massimo 2), e per 5 giorni abbiamo mangiato tutti insieme, con le mani, solo riso e pesce: a pranzo, cena e colazione! Timbictù è una città bellissima, magnetica, affascinante…Ti conquista poco per volta, ma non la puoi dimenticare…C’è sabbia ovunque, il deserto entra in ogni casa, nei letti, anche nel cibo che mangi. Abbiamo passato pomeriggi interi ad ascoltare, affascinati, le antiche e leggendarie storie di questa città, e gli incredibili racconti dei tuareg, su una vita e un mondo che noi non riusciamo nemmeno a immaginare… Gli americani dicono “Vedi Timbuctu e poi muori”…E io per sedici ore, sul fuoristrada che doveva riportarci nella civiltà, sono stata convinta che non fosse solo un modo di dire…È stato il momento peggiore di tutto il viaggio: aggrappati a una panchetta di legno nel cassone di un pick up, sbattacchiati, frullati, sbalzati da ogni parte, in mezzo al burro rancido che uno stupido tuareg aveva rovesciato dappertutto, e alle spine degli arbusti che, non si sa come, riuscivano a ferirti ovunque tu fossi…l’autista andava talmente veloce su quella pista assolutamente impraticabile che avremmo potuto essere tutti catapultati fuori, se solo ci fossimo distratti un istante…E la strada non finiva mai…E i tuareg dormivano!!! Ma come fanno a dormire? Il giorno dopo, quando l’incubo è finito, non potevo stare in nessuna posizione per più di mezzo minuto avevo lividi e lacerazioni assolutamente OVUNQUE…E una ben radicata fobia di qualunque mezzo su ruote…

Siamo ripartiti subito per i paesi Dogon…Abbiamo affittato un motorino, sfuggendo alle guide e agli acchiappaturisti, per avventurarci da soli sulla falaise, alla scoperta di quei meravigliosi paesini…Naturalmente abbiamo subito sbagliato strada e, senza volerlo, siamo arrivati a Djguibombo, proprio in cima alla scarpata. Ci ha accolti una strana animazione, e prima che potessimo capire quello che stava succedendo ci siamo ritrovati nel pieno della celebrazione di un funerale tradizionale: quel giorno era morto uno dei vecchi del villaggio. Maschere di ogni tipo attraversavano il villaggio, seguite con apprensione ed eccitazione da tutta la gente del posto. Davanti alle case più importanti si fermavano per eseguire danze assurde, riti incomprensibili, canti misteriosi…uno spettacolo assolutamente impressionante. Tutto era talmente impregnato di sacralità che le maschere avevano perso ogni traccia di umanità e nei loro costumi colorati e voluminosi ci apparivano imponenti, sovrumane, spaventose.

La sera abbiamo dormito all’aperto, e per tutta la notte i canti delle maschere hanno continuato a risuonare nel silenzio assoluto della vallata, mentre un vecchio dogon ci raccontava le antiche leggende e le usanze del posto.

Poi il Burkina Faso, con il suo caldo logorante, la fuga verso il sud, verso i tropici, verso l’acqua.

Ci siamo innamorati di Bobo, una cittadina meravigliosa, dove la vita è una specie di festa continua…La domenica, se non ci sono feste nei dintorni, si va tutti al fiume a fare il bagno, e ogni giorno della settimana, a qualsiasi ora del giorno o della notte, tutte le strade sono invase dalla musica…

A Pala, un minuscolo paesino non lontano da Bobo, immerso tra le foreste di manghi, abbiamo assistito a una folle e meravigliosa “fete des masques”: le maschere ballavano e ballavano sotto il sole rovente, nei loro pesantissimi costumi di rafia, non smettevano mai, e riuscivano a compiere prodezze davvero miracolose, seguite dallo sguardo entusiasta di migliaia e migliaia di persone, arrivate lì a piedi chissà da dove… se avevamo ancora qualche dubbio sui supposti poteri magici delle maschere, quel giorno abbiamo dovuto ricrederci, in modo definitivo. (Per gli scettici: abbiamo le prove fotografiche!) Non avremmo lasciato mai quei posti, ma ci aspettava la lunga strada del ritorno: siamo ritornati in Mali e ci siamo concessi un’ultima sosta a Kangaba, un villaggetto minuscolo, vicino al fiume, dove le strade profumavano di miele. Qui siamo stati accolti da una grande famiglia mandinka, e senza fatica ci siamo adattati ai loro ritmi, alla loro vita, al respiro di quel posto dove non c’era luce elettrica, acqua in casa, né telefono…e neanche coca cola, nè automobili, e pochissime bici, quasi nessun carretto…Era come tornare indietro nel tempo, rivivere tempi per noi lontanissimi.

In pochi giorni di spostamenti veloci ci siamo ritrovati nel freddo di Dakar, ed è stato uno shock. Dakar, che appena arrivati ci era sembrata talmente Africana adesso è l’Europa, non ha niente a che vedere con il resto dell’Africa…Oltretutto fa davvero freddo, e il momento del ritorno è talmente vicino. Passiamo gli ultimi giorni tra le spiagge e i mercatini, con una cappa di nostalgia addosso che ci impedisce di parlare, di pensare, di fare cose…

Questo, in breve, quello che abbiamo fatto…Ma in mezzo ci sono così tante cose che non si possono raccontare…Tutta la gente che abbiamo conosciuto, i loro sorrisi, i loro volti, la pelle morbida dei bimbi che ho preso in braccio, le mani che abbiamo stretto, le impressioni che abbiamo provato…La sensazione di sentirsi a casa in un posto in cui sei arrivato da poche ore; il senso di angoscia cupa e impotente davanti a un ragazzino che ruba un pezzo di pane, a una bimba con la pancia gonfia che gioca nell’immondizia, a una ragazza che spala la merda davanti a casa per liberare la fogna intasata; ma anche la felicità esuberante dei bambini che giocano in strada con i loro giocattoli fatti di niente, i sorrisi timidi delle donne, l’imperturbabile profilo dei vecchi, persi nei loro pensieri…Gli scherzi infantili degli uomini, la loro curiosità ingenua e insaziabile, i loro occhi sgranati davanti alle nostre storie…Tutto, nel bene e nel male, è così intenso, così forte…così vivo… Un’ultima cosa…tutti ci chiedono se non ci siamo sentiti immensamente più fortunati di loro, degli africani. È una domanda che ci sconvolge: mai, neanche per un attimo, abbiamo pensato una cosa simile… a loro manca certamente tantissimo, ma non vivrebbero mai nella fredda e sterile solitudine delle nostre città, mai.

P.S.: dopo due mesi e mezzo vissuti al ritmo degli africani, siamo riusciti anche ad arrivare in aeroporto con un giorno di ritardo! Ma dopo una mezz’ora da panico che ci ha invecchiati di almeno dieci anni, abbiamo scoperto che anche l’aereo era in ritardo, di 24 ore…e ci siamo imbarcati come se niente fosse! …C’est ça l’Afrique, Allhamdoulillaï!



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