la mia prima africa

Da tanto avevo sognato l’Africa, quella vera, dei parchi naturali, dei grandi spazi, dei colori, della gente. Il sogno si avvera l’8 Febbraio quando un mio amico (Alessio) ed io partiamo per il Kenya, meta africana tra le più tradizionali ma non per questo meno interessanti. Lo scopo di questo racconto è di trasmettere le sensazioni che ho...
Scritto da: Paul Paul
la mia prima africa
Partenza il: 08/02/2010
Ritorno il: 16/02/2010
Da tanto avevo sognato l’Africa, quella vera, dei parchi naturali, dei grandi spazi, dei colori, della gente. Il sogno si avvera l’8 Febbraio quando un mio amico (Alessio) ed io partiamo per il Kenya, meta africana tra le più tradizionali ma non per questo meno interessanti. Lo scopo di questo racconto è di trasmettere le sensazioni che ho provato in quei 9 giorni, premettendo alcune considerazioni pratiche: PERIODO: Febbraio, la stagione secca a cavallo tra le grandi piogge e le piccole piogge. CLIMA: caldo secco attorno ai 28 – 30°C, sole splendente tutti i giorni (qualche nuvola a Masai Mara che risente le influenze della stagione umida tanzana). VACCINAZIONI: l’asl ci ha consigliato l’epatite A e B, tifo, febbre gialla e antimalarica. Noi le abbiamo fatte tutte anche se febbre gialla e antimalarica non si sono rivelate utili (2 sole zanzare in tutto il viaggio); la profilassi antimalarica non copre al 100% il rischio di essere affetti da malaria ma è comunque una protezione in più e noi abbiamo utilizzato il Malarone (farmaco non mutuabile e costoso ma senza alcun effetto collaterale); scopriremo in Kenya che le zone “temibili” per la malaria sono la costa e le zone umide del Lago Vittoria, non toccate dall’itinerario. TRASPORTI: abbiamo volato con KLM via Amsterdam, aerei confortevoli, hostess gentilissime e simpatiche, aeroporto Schipol comodissimo per lo scalo e molto funzionale e intuitivo; in Kenya ci siamo spostati con jeep 4×4. TIPO DI VIAGGIO: abbiamo deciso di affidarci a un tour operator (Il Diamante) e di fare un viaggio organizzato. La scelta si è rivelata azzeccata avendo eliminato ogni problema di movimento (la segnaletica è spesso inesistenze, le strade sono in cattivo stato e i guasti sono all’ordine del giorno) e avendo anche trovato un gruppo (8 persone in tutto) affiatato e simpatico con cui fare amicizia e rendere ancora più piacevole la vacanza. Anche la guida/autista (Kennedy) è stato impeccabile, una simpatia e una disponibilità rare. ITINERARIO: partenza da Nairobi, riserva di Samburu (non molto toccata dai classici itinerari ma stupenda), parco nazionale di Aberdares, parco nazionale del Lago Nakuru, Masai Mara e rientro a Nairobi. Il primo contatto con l’Africa (l’Africa vera, precedentemente ero già stato in Marocco) avviene la sera dell’8 Febbraio, una volta atterrati a Nairobi e dopo aver goduto di un tramonto arancione e ocra dai finestrini dell’aereo. Per essere la principale città dell’Africa orientale, l’aeroporto è piccolo e poco affollato e questo ci permette di ottenere il visto (costo: 25$) in breve tempo, rilasciato dalla polizia aeroportuale al momento del controllo passaporti senza code ulteriori e con una gentilezza e cordialità tipica dei kenioti e che ritroveremo in tutto il viaggio. Dopo una notte al Nairobi Safari Park Hotel si parte di buon mattino per il nostro viaggio in terra d’Africa. La curiosità e l’emozione è tanta, difficile credere di trovarsi in AFRICA. Dai finestrini della nostra jeep la vita di tutti i giorni, gente indaffarata, mercati caotici, ammassati, affollatissimi e gente che cammina. E’ proprio vero: l’Africa è il continente che cammina e ciò rende questi luoghi magici. La jeep ha un primo guasto (un problema allo sterzo che si pensava dovuto a un pneumatico) e dobbiamo farla riparare in una area di sosta “attrezzata”; hacuna matata, non c’è problema, tutto si affronta con serenità, con il sorriso sulle labbra e questa è la caratteristica che più mi ha colpito dei kenioti. La gente è così: serena, tranquilla, semplice. Mi sento subito il benvenuto e la frase di una canzone shwaili che Kennedy ci insegnerà a metà viaggio mi risuona nella mente e più ci ripenso più mi sembra perfettamente calzante con quella realtà: wageni mwakaribishwa Kenya yetu hacuna matata (ben venuto visitatore in Kenya nostro senza problemi). Voglio parlare per prima cosa della popolazione perché spesso viene tralasciata a favore dei safari e della natura ma nella mia testa, metà dei ricordi sono occupati dalle persone. La parola “mwakaribishwa” (ben venuto) è forse quella che esprime al meglio la sensazione vissuta là: tanti i saluti, i “welcome in Kenya” e l’immagine dei bambini che vanno a scuola nella loro uniformi colorate (verde, blu, rosa, rossa a seconda della scuola) alzando al mano per salutarci e ridendo mi strappa un sorriso anche ora che sono tornato in Italia. I bambini sono i veri protagonisti del Paese e la cartolina di un’Africa migliore, ottimista e che infonde speranza, fotografa proprio questi bimbi che vanno a scuola, camminando per chilometri, che ridono e che giocano. Dai finestrini della jeep infatti si vedono moltissime scuole, elementari, superiori, università e uno dei ricordi più piacevoli sono proprio questi: scuole isolate, in strutture solide rispetto alle case che si vedono, con grandi cortili punteggiati dai colori delle divise degli studenti. Due le parole d’ordine: dignità e curiosità, queste forse le caratteristiche che prevalgono nei kenioti. Un popolo fiero che pur nella povertà (non dimentichiamo che i problemi del Paese sono tanti e l’immagine turistica non è certo una visione pienamente realistica) non cede all’elemosina e non si adagia su se stesso, se qualcuno si avvicina per chiedere soldi lo fa volendo dare in cambio qualcosa, mai per niente. Questo mi ha colpito perché in viaggi in altri Paesi altrettanto poveri l’elemosina è invece quasi una forma di sostentamento, ma non in Kenya! Mi è capitato, dopo aver acquistato dei souvenir, che il “commesso” del negozio mi abbia chiesto le scarpe in cambio di una statuina in legno di un elefante; aneddoto simpatico che mi ha fatto intuire qualcosa del loro animo fin dal primo giorno. Il contatto con la popolazione locale è abbastanza facile e in breve tempo il ghiaccio si rompe, lasciando alle spalle i 6000 km circa che separano il nostro mondo dal loro, le differenze di colore, le diversità culturali. Tanta la gente che vuole sapere e conoscere, che vuole relazionarsi con noi stranieri e la stessa parola “straniero”qui pare perdere significato. I kenioti sono desiderosi di imparare e dei gran chiacchieroni, vogliono conoscere la lingua del visitatore e come funzionano le cose da noi. In questo senso la nostra guida è stata il simbolo del popolo keniota: tante le lezioni di italiano sulla jeep, ormai diventata la nostra seconda casa, tra un safari e l’altro, concluse con un dizionarietto con le parole italiane nuove che aveva imparato durante il nostro itinerario. Ovunque il saluto è seguito da 3 parole che possono fare la differenza, cioè “how are you?” (come stai?); e la risposta è scontata, come si può star male in questo meraviglioso Paese?!? Durante il viaggio abbiamo avuto occasione di visitare un villaggio Samburu e uno Masai. L’ingresso ai villaggi è a pagamento (circa 20$) e può dar l’impressione che sia una cosa molto turistica nel senso meno autentico del termine; in parte è così certo ma è un buon modo di conoscere una parte importante del Kenya, cioè la sua parte tribale e quindi, con l’opportuna consapevolezza dell’evento, sono state due esperienze interessanti. Oltre tutto non sono ricostruzioni turistiche di villaggi con gente in costume che fa un teatrino: il paesaggio è costellato da questi villaggi, colorati dai costumi sgargianti e dai copricapo tipici…l’Africa è abbagliante e ricchissima. In entrambi i villaggi, il capo ci ha spiegato, in inglese, come si svolge la vita, dove vivono, la scuola, i ruoli nella società ecc e ovviamente ci hanno coinvolto nelle loro danze. Abbiamo ballato con i Samburu la danza del benvenuto, mano nella mano con un membro del villaggio, a muovere le spalle in un movimento che a loro riesce naturale e molto bello, a noi turisti una cosa imbarazzante. Con i Masai abbiamo ballato la danza del leone, fatta per celebrare l’uccisione di un leone da parte di un giovane come “iniziazione” per potersi sposare; è la famosa danza saltante, con i Masai che saltano a piedi uniti con una grazia sorprendente e noi turisti come sempre inferiori. L’incontro con le tribù locali, a parte il fattore turistico, è stata una parte per me importante del viaggio, un riconoscere come si possa vivere senza gli agi che ci circondano, senza sentire il bisogno di andare a vivere in città, senza acqua, senza energia elettrica, senza tutto ciò per noi è essenziale. Ho nella mente il ricordo della terra Masai (questo è il significato di masai mara), costellata di pastori avvolti nei loro abiti rossi che sorvegliano le vacche (per loro sinonimo di ricchezza e quindi non utilizzate come cibo), il ricordo delle donne che al fiume lavano i loro abiti e accendono di rosso, giallo, verde, azzurro, viola l’ambiente circostante, il ricordo di questa gente sfilare nei loro vestiti coloratissimi lungo la strada, portando ogni cosa (sacchi, carbone, neonati, ecc ecc) con un portamento che farebbe invidia alle top model. Il colore e la solarità dei kenioti li ho ritrovati anche nei poveri edifici delle cittadine, tutti coloratissimi soprattutto di verde e fucsia, brulicanti di persone e di merci ma anche lungo le strade e nei sorrisi della gente. Ho già anticipato che l’Africa è un continente che cammina. Lungo le strade del Kenya, in qualsiasi parte del Paese toccata dal viaggio, gente a piedi in direzioni a noi ignote danno vita e movimento al paesaggio che scorre e danno l’impressione di un Paese dinamico, in movimento, vivo e pulsante pronto a coinvolgere e a farsi scoprire. Un caleidoscopio di umanità che troppo spesso nel nostro mondo è andato perso; forse proprio per questo l’esperienza africana è così affascinante e intrigante. Un viaggio in Africa non può esistere senza safari (in shwaili significa viaggio). Noi li abbiamo fatti con la stessa jeep e autista che ci ha scorrazzati per il Kenya ma è possibile anche acquistarli presso i vari lodge. Consiglio il safari in jeep 4×4 e non con i pulmini 4×4 che quasi sempre vengono usati, perché la jeep permette di inoltrarsi di più al di fuori dei sentieri principali e di godersi meglio la tranquillità della savana. Per chi pensi che i vari parchi siano tutti uguali e quindi il tutto diventa molto ripetitivo si sbaglia di grosso: ognuno dei quattro parchi che abbiamo visitato è completamente diverso dall’altro e ha un animale caratterizzante. Il primo parco che abbiamo visitato è Samburu, 360 km a nord est di Nairobi, poco frequentato ma magnifico. L’ambiente è tipicamente savana, per lo meno la savana semi arida che mi sono sempre immaginato e come primo incontro con la natura africana è stato eccezionale. Alberi di acacia nel bush sono il primo piano per un paesaggio circondato da rilievi e irrigato da un fiume (di cui non ricordo il nome) attorno a cui la vegetazione si fa decisamente più verde e più fitta creando un contrasto con il giallo arido attorno in una tavolozza di colori sorprendente. L’ingresso al parco è stato baciato dall’incontro con una zebra, un’antilope e una giraffa che hanno attraversato la pista…emozione e stupore indescrivibili!!! Nel parco si trova l’orice, simile ad un’antilope ma con un manto grigio-beige e una linea nera che lo decora, visibile solo in questo parco. Un’eleganza che rispecchia quella della popolazione e che tanto mi ha colpito. Samburu ci ha regalato anche l’incontro con il più raro dei big five (leone, leopardo, bufalo, rinoceronte, elefante): il leopardo. Un grosso micione maculato addormentato sul ramo di un’acacia con un’aria sorniona che cela una potenza incredibile. I safari in questo parco sono stati magnifici e abbiamo avvicinato animali che si erano sempre visti solo allo zoo o sui libri: elefanti, giraffe, dik dik, babbuini in un ambiente magico dove l’uomo appare di troppo, qualcuno che altera la bellezza e l’equilibrio della natura. Non c’è bisogno dell’intervento umano, la natura ha dato il meglio e sembra esserne consapevole. Abbiamo pernottato nel Samburu Sopa Lodge, isolato nel mezzo del parco e l’alloggio più bello del viaggio: bungalow bassi col tetto di paglia che suona al rumore del vento notturno si affacciano sulla savana con al centro una piccola pozza d acqua dove si può avere la fortuna di vedere gli animali avvicinarsi (noi abbiamo solo visto le zebre e sentito il ruggito di un leone che al mattino dopo ci hanno detto che si stava avvicinando). Il lodge è alimentato con un generatore quindi la corrente c’è solo dalle 6 alle 10 e dalle 18 alle 22 e dopo tutto sprofonda nell’oscurità africana dove un cielo stellato limpidissimo permette di vedere la via lattea. Il parco successivo è Aberdares, nel centro del paese e decisamente diverso da Samburu: il parco è foresta equatoriale intricatissima infatti i safari vengono fatti semplicemente stando nei lodge. Il nostro è The Ark, che si affaccia su una pozza d’acqua dove si abbeverano bufali, iene, facoceri, waterback ed elefanti; una radura nella foresta magica. Nel lodge ci sono delle vetrate che permettono di vedere gli animali a distanza ravvicinata e a livello del terreno e stare a qualche metro da un bufalo che ti fissa…bè, è a dir poco incantevole. Di notte la vita del lodge e del parco si accende, il personale è costantemente all’erta per vedere l’arrivo degli animali e un sistema di altoparlanti sveglia i fortunati turisti dell’arrivo di un leopardo, rinoceronte, elefante. Noi siamo stati svegliati per l’arrivo di due rinoceronti ma una volta scesi nel punto panoramico, i rinoceronti avevano già abbandonato la scena. Il parco ci ha dato anche la fortuna di vedere un leopardo attraversare la pista sterrata, passare sotto i nostri piedi (noi eravamo su un ponticello in legno che porta al lodge) e sentire il temibile ruggito sotto di noi. Cosa c’è da aggiungere? In realtà due cose si potrebbero aggiungere.Un piccolo di elefante, spaccone perché protetto dalla mamma, che cerca di allontanare un bufalo agitando le orecchie. Una iena che uccide un piccolo di bufalo aprendo il banchetto alle sue compagne in uno stridulo di risate (questo il verso della iena) e di urla di dolore della vittima mangiata ancora viva. È la legge della natura. Sposandoci verso ovest si arriva al lago Nakuru, dopo aver oltrepassato la great rift valley africana (una fossa profondissima costellata di villaggi che separa la placca tettonica africana da quella asiatica). Il parco si trova attorno al lago, in un ambiente palustre dove i fenicotteri rosa interrompono l’azzurro dell’acqua e il rosa a sua volta è interrotto dal grigio. Il grigio del rinoceronte bianco, un animale imponente, ancestrale, primitivo e apparentemente innocuo. Un pachiderma imponente, simbolo del parco. Saliamo al Baboon’s cliff per godere di una visione dall’alto del lago in compagnia di vari babbuini che scorrazzano tranquilli. La luce del tramonto rende il panorama ancor più bello: il lago sotto, il bosco di acacie dietro il lago e ancora oltre le montagne che incorniciano il panorama tutto arricchito dai giochi di luce delle nuvole. Prima dei arrivare al Masai Mara, un piacevole fuori programma: un safari in barca al lago Naivasha (costo: 40€) che non è però parco nazionale. Il safari è fatto su basse barchette a motore e, bardati con giubbotti salvagente, ci addentriamo nel lago per ammirare l’aquila pescatrice, altri uccelli e gli ippopotami. Questo immenso animale che può restare in apnea per 7 min. Appare solo con gli occhi, metà muso e le orecchie, poi emerge con una schiena immensa che però lo rende abbastanza buffo. La goffaggine sparisce quando apre la bocca sfoderando due zanne enormi e quando inizia a mostrare segni di irritazione che costringono il nostro “barcarolo” ad allontanarci anticipando un’avventura simile che vivremo qualche giorno dopo. Arriviamo finalmente al Masai Mara, un parco enorme che prosegue in Tanzania, savana meno arida rispetto Samburu, rilievi verdi, erba abbastanza alta e un cielo sorprendente: nuvole nere e bianche piatte sopra la nostra testa e voluminose nella parte soprastante che sembra ci schiaccino a terra. Il vero protagonista sembra essere il cielo. È qui l’incontro più atteso: quello con i leoni che fino ad ora non eravamo riusciti a vedere in altri parchi. Il primo incontro è con due maschi, qualche leonessa e un piccolo. Il piccolo e la leonessa stavano mangiando una carcassa di bufalo da poco cacciata con un’avidità notevole tanto che il leoncino si era spinto per metà all’interno della carcassa per godersi meglio lo spuntino. Lasciamo questo primo gruppo di leoni con una scena familiare: le coccole della leonessa al suo cucciolo che terminano nell’allattamento. Quasi commovente. Il Masai Mara è il parco dei leoni e infatti riusciamo ad avvicinare due gruppi di leoni maschi, uno di questi raggiunto dopo aver attraversato una mandria di bufali che tappezzava di scuro la savana in maniera impressionante. Vedendo il leone ho capito subito chi comanda nella savana: lui. Un animale imponente, fiero, incoronato da una folta criniera arancione, tranquillo perché consapevole delle sue possibilità. Avvicinare questo animale a 2 metri è magnifico, gli si leggono gli occhi, si capisce la sua imponenza, si osservano le sue fauci e le sue zampe. A mio parere, l’emblema e riassunto della bellezza africana. Il parco ci ha regalato una piccola avventura: un elefante arrabbiato ha puntato la nostra jeep barrendo, alzando la proboscide e allargando le orecchie. Qualche tonnellata in corsa verso di noi e senza buone intenzioni. Kennedy accelera e scappiamo, non dimentichiamo che quella è casa loro, noi siamo gli ospiti e se non siamo graditi dobbiamo andarcene. Così facciamo, soddisfatto del fatto che per una volta l’uomo deve cedere. Alloggiamo al Keekorok lodge. Elegante, grande, meno intimo di quello di Samburu o di Aberdares ma dotato di una passerella che, attraversando la vegetazione, porta a una palafitta-bar a bordo di un laghetto che permette di contemplare una colonia di ippopotami mentre si sorseggia un drink. La cosa che mi ha colpito è il contenimento degli ospiti del bar: i protagonisti sono gli ippopotami e non gli uomini, l’uomo tende ad azzerarsi, a fare meno rumore possibile per contemplare le scene di vita quotidiana dei grandi mammiferi. Ancora una volta non c’è nulla da aggiungere allo spettacolo delle “discussioni” tra gli ippopotami, dell’andare e venire e dal brulicare di vita dello stagno. La natura del Kenya non è solo nei parchi ma è anche nei tragitti di strada tra un parco e l’altro. Nella parte centrale del Paese il paesaggio è sorprendente: in un colpo d’occhio a destra la savana, a sinistra dolci colline ricoperte da campi di grano che sembra di essere in toscana e in fondo il monte Kenya, alto più di 5000 m con i suoi ghiacciai e la sua roccia appuntita. Altrove la foresta equatoriale, poi savana, poi ambiente semi-arido. Insomma una varietà di paesaggi che rende il Kenya davvero coinvolgente. Questa è solo una parte di quello che il Kenya può trasmettere e mi ha trasmesso, una vacanza meravigliosa che mi ha fatto capire cosa voglia dire quella bellissima malattia che colpisce i viaggiatori capitati in questo Paese: il mal d’Africa esiste e colpisce, una nostalgia che fa vedere le cose della nostra vita quotidiana quasi banali e irrilevanti rispetto all’esplosione di umanità e natura che solo l’Africa sa dare in maniera tanto intensa. Con la promessa di tornare qui prima o poi, solo un arrivederci al Kenya e alla sua gente: khuaeri. Un ringraziamento a tutti coloro che hanno reso questo viaggio ancor più bello: Alessio, Kennedy, Benedetto, Silvia, Paolo, Patrizia, Fernanda, Giancarlo, Ben. P.S.: questo racconto è unicamente frutto delle mie sensazioni provate durante il viaggio, non vuole essere una rappresentazione completa ed esauriente del Paese. Accanto alla magia dei luoghi e della gente i problemi ci sono, sia di natura economica sia sanitaria ma (purtroppo o per fortuna) sono aspetti che un turista-viaggiatore può cogliere solo in maniera superficiale.


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