La viticoltura eroica dei terrazzamenti liguri
Ci sono terreni che, più di altri, rappresentano una sfida per la loro valorizzazione in campo agroalimentare. Non fanno eccezione i vitigni che, in questo senso, riescono ad adattarsi anche a situazioni climatiche e geografiche ardite.
La viticoltura eroica (definizione coniata soltanto da alcuni anni) è una perfetta rappresentazione di questo dualismo tra sfida della natura e volontà di valorizzare prodotti spesso di alta o altissima qualità. Il miglior esempio di eroismo del grappolo lo troviamo nella Liguria, terra di terrazzamenti che paiono quasi sfidare le più elementari leggi della fisica.
Questi elementi cardine in molte zone della regione, particolarmente delle Cinque Terre, si ottengono tramite un difficile scavo dei crinali collinari, che vengono poi delimitati da muretti a secco (ovvero realizzati per incastro delle pietre, senza l’ausilio di malta cementizia e affini) bassi ed estesi.
Abbandonati all’inizio dell’età contemporanea – poiché ritenuti eccessivamente dispendiosi dal punto di vista lavorativo rispetto alla produzione ottenibile – sono oggetto negli ultimi anni di un significativo recupero, che ha coinvolto anche l’ambito legislativo. La legge 238/2016 (Testo unico della vite e del vino), licenziata dopo un lungo lavoro delle commissioni parlamentari, ha istituito percorsi e fondi per la valorizzazione delle coltivazioni di “pregio paesaggistico, storico e ambientale”.
Come si riconosce un vigneto eroico? Deve appartenere ad almeno uno dei quattro criteri definiti dal Centro di Ricerca per la Viticoltura Montana e che riguardano: pendenza del terreno (sopra il 30 per mille), altitudine (oltre i 500 m.s.l.m.), la presenza di terrazze e gradoni e il collocamento in piccole isole.
Nel caso ligure sono proprio le terrazze e i gradoni che concorrono al riconoscimento di viticoltura eroica e, pur nell’eventuale assenza di questo, non si potrebbe definirla altrimenti. Basta guardare infatti i territori coltivati a vite, veri e propri muri verticali sul Mar Ligure che appaiono quasi impossibili da valicare, figuriamoci renderli utili per la produzione del vino. Quello che in molti chiamano “miracolo ligure” è invece il frutto di tenacia e passione di vignaioli che, nel corso dei secoli, hanno conservato capacità incredibili, integrandole poi con tecnologie più avanzate.
Se il trasporto – a titolo puramente esemplificativo – avveniva in passato caricando grosse casse ricolme di grappoli sulle spalle oggi si fa ricorso a piccole ferrovie e funicolari sulle quali si inerpica la materia prima fino a zone più facilmente accessibili.
Tra i vini che si producono nella Riviera di Levante troviamo il Cinque Terre DOC e il Cinque Terre Sciacchetrà DOC. Se le loro origini possono farsi risalire all’epoca ellenica – furono i Greci a trapiantare le loro uve in Liguria – lo sviluppo vero e proprio è invece molto più recente. Fu infatti solo nel Settecento che, escludendo tutte le altre coltivazioni (particolarmente quelle dell’olio) si fece maggior spazio alle viti. Dopo la quasi totale scomparsa delle viti a causa dell’attecchimento della filossera negli anni Venti, la maggiore consapevolezza botanico-industriale portò a un rinnovato interesse per questa produzione, tutelata dal 1999 con l’istituzione del Parco nazionale delle Cinque Terre.
Le uve impiegate (Bosco, Albarola e Vermentino) concorrono a realizzare un vino bianco dal titolo alcolometrico mediamente basso (10,5 – 11%) tranne che nel caso dello Sciacchetrà, che raggiunge invece i 13,5%. Quest’ultimo è un passito, particolarmente conosciuto a livello internazionale, il cui nome si deve al verbo dialettale “sciacàa” (schiacciare).
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