Yemen, il colore ed il calore della terra
Ci voglio comunque provare, voglio tentare di esprimere almeno un po’ le sensazioni, le emozioni, le impressioni che più mi sono rimaste dentro, durante e dopo quest’esperienza.
Non farò la cronaca del viaggio, un lungo e sterile elenco di posti visitati, tanto lo sappiamo che quelli sono i luoghi, sempre gli stessi si visitano e così non voglio annoiare nessuno.
Da un anno circa mi stuzzicava l’idea balzana di questo viaggio, ma non ero riuscita a trovare nessuna anima pia disposta a dividere come me l’esperienza. Ovviamente quello stupido e infondato pensiero comune che faceva dello Yemen un paese estremamente pericoloso, influenzava la scelta di tutti gli invitati al viaggio. Inoltre, come non bastasse la paura del certissimo rapimento, ci mancava pure l’attentato terroristico ai turisti spagnoli per rendere l’impresa ancor più ardua.
Finché la proposta cade su Sylvie, che accetta con entusiasmo offrendosi volontaria per il “sacrificio”. Peccato che la sua eccitazione iniziale andava esaurendosi man mano acquisiva informazioni negative circa la pericolosità del posto. Anche lei, in seguito, si è dovuta ricredere.
In ogni caso la partenza era decisa per il 26 dicembre. E così è stato.
Innanzi tutto il clima. Non è affatto vero che in Yemen fa freddo e questo detto da me che sono maledettamente freddolosa. Anzi, nel periodo a cavallo dell’anno nuovo si stava decisamente bene, anzi non capisco come si possa andare in piena estate: deve fare un caldo del diavolo! (o forse è solo che siamo state tanto fortunate…) Sana’a, la capitale, è bellissima e da sola vale l’intero viaggio. Affermare che può far concorrenza a Venezia sembra un’esagerazione ma il paragone è quanto mai reale. Vista dall’alto quasi non ne scorgi i confini tanto si confonde con il paesaggio color ocra circostante. Alti ed eleganti palazzi color biscotto, ben tenuti, ampie finestre contornate da trine e merletti di panna montata, coloratissimi sopraluce come bon bon: ma dove sono finita, nella favola di Hansel e Gretel? Anche se queste architetture fantasiose calamitano molto la mia attenzione, abbasso lo sguardo e incontro quello delle persone, varia umanità che affolla il suk e le viuzze della città vecchia. Merci strane e spezie profumate fanno bella mostra di se fuori dei minuscoli negozietti artigiani.
Uomini fieri ed annoiati che masticano il qat, anzi ruminano incessantemente, seduti a terra o indaffarati dietro il banco dello loro bottegucce, con la faccia deformata da buffi ascessi e la pastella verde pistacchio che filtra dai denti e dalle labbra. Mostrano orgogliosamente la loro fedele jambia stretta in vita, simbolo di virilità, offrendosi per la foto di rito. Ci guardano questi uomini, noi bionde occidentali emancipate anche se forse troppo secche per il loro gusti, ma non con malizia, piuttosto con curiosità, sembrano divertiti da tanta nostra scostumatezza. E poi i colori accesi di ridicoli vestiti, tutti decorazioni in pailettes, lustini, ampi tulle che riempiono alcuni negozi e donne tutte nere che scelgono con cura il tessuto più adatto. Pare che se li mettano solo in casa ‘sti vestiti, al riparo da sguardi indiscreti, invisibili dietro oscurate finestre, solo per la gioia dei legittimi mariti. Questi uomini arabi, gelosi anche del vento, dice Abdul, la nostra preparatissima guida. E’ stato bravissimo lui, sempre pronto ad ogni nostra esigenza, con competenza, professionalità, critico e simpatico.
Le donne, un capitolo a parte lo meritano. Loro non mostrano mai la faccia, sono presenze inquietanti, figure stregonesche senza davanti né dietro, si aggirano veloci per le viuzze, quasi sempre in gruppo, pascolano capre ed asini, portano carichi assurdi sulla testa, fascine di legna, botti d’acqua e bombole di gas. Lavorano molto qui le donne e fanno un sacco di figli qui le donne. Donne-mulo, vogliono quegli uomini sfaccendati, dice Abdul. Quel terribile velo nero, la burdah, che le mortifica (ma solo dal mio forse superfluo punto di vista), e lascia scoperti solo gli occhi furbetti che mi scrutano curiosi, spesso truccati, che rivelano sorrisi nascosti e a volte lasciano trasparire l’età. Anche le mani sono a volte coperte da lunghi guanti neri, ma se non lo sono spesso sono decorate con eleganti disegni fatti con l’henne.
Le vedi solo di giorno, le donne, perché appena cala il sole spariscono, come animali diurni che temono le tenebre. Che tristezza però.
E i bambini, ma quanti ce ne sono? Un’infinità! Sempre sorridenti, colorati, allegri, socievoli e loquaci, a volte un po’ petulanti, ci chiedono una caramella, una penna, “calam-calam” urlano dal bordo della strada quando passiamo con le auto alzando nuvole di polvere. E’ una pena, a volte sono così sporchi che tutto di loro ha già il colore della terra. Vanno a scuola quasi tutti, con i libri tenuti dalla cinghia elastica oppure con lo zaino. E’ pazzesco: ho visto lo zaino della Barbie con il velo!! I più evoluti e moderni chiedono di essere fotografati per poi rivedersi sul piccolo monitor delle macchine digitali. Che sfrontati! La regione più affascinante e autentica è senza dubbio l’Hadramaut e la spettacolare e immensa valle dell’arido letto dello Wadi Doan. Altissimi canyon dalle mille sfumature della roccia rossa e della sabbia e moltissimi piccoli villaggi arrampicati sui pendii, fatti di case come costruzioni di sabbia, alcune già parzialmente crollate come se una dispettosa onda si fosse divertita a distruggere il castello costruito da un bambino in riva al mare. Queste case, dai bordi arrotondati e piccole finestre, fatte di fango e pietra, si mimetizzano in modo impressionante con lo sfondo, dello stesso identico colore.
Mi ricordo polvere, sabbia, caldo, stretti tornanti, panorami immensi e spettacolari e tanto stupore. Ma anche fastidio per tutta quell’immondizia che deturpa il paesaggio. Lo Yemen, occorre dirlo, è una discarica a cielo aperto! La strada è di tutti e di nessuno e qui non c’è alcun rispetto per la cosa pubblica, anche se detto da un’italiana suona quanto mai ridicolo, pertanto è lecito gettare a terra qualsiasi cosa non serva più. E più di ogni altro genere di rifiuto, i piccoli sacchetti di plastica colorati, che un tempo contenevano ogni cosa, le foglie di qat in particolare, svolazzano dappertutto e impigliandosi sui rami di spogli cespugli li trasformano in buffi alberi di natale.
Bir’Ali, un’estensione-sorpresa propostaci dal nostro fedele Abdul. E’ una bellissima spiaggia di sabbia candida, quasi caraibica, abbracciata da alte falesie scure, che si raggiunge dopo circa tre ore di macchina da Mukalla, attraverso panorami stupendi. Abbiamo pure un’inutile scorta armata, un ciccione dotato di kalashnicov risalente all’occupazione sovietica, che “se succede qualcosa è il primo a scappare”, commenta Abdul!. Andiamo bene! E’ una zona vulcanica (infatti saliamo fin sul cratere di un vulcano spento che racchiude un lago) e la pietra lavica nera contrasta fortemente sulla sabbia gialla, creando bellissimi effetti cromatici.
Qui organizziamo un pic-nic con del buon pesce arrosto acquistato il mattino al mercato del pesce di Mukalla e del riso bollito che ci viene recapitato dal vicino villaggio dentro ad una borsa di plastica. Lo ricordo come il pranzo meno igienico ma più divertente del viaggio.
Seyun, a parte il candido palazzo del sultano, è una cittadina che non offre molto, anzi mi appare un po’ insulsa, con quel caotico e strombazzante traffico ed il suo vivace a variopinto mercato.
Shibam, molto bella, soprattutto da lontano. Come un’antica Manhattan spunta dal deserto cinto da alte montagne color rosso e giallo ocra. Ci perdiamo nei bui e stretti vicoli, tra alti palazzi di un’ardita architettura tutta particolare e peculiare del posto. Sei, sette, otto piani in fango essiccato appaiono in equilibrio precario. Ad arricchire queste modesti materiali edili, mirabili porte in legno sbalzato con ingegnosi chiavistelli, anch’essi in legno e piccole finestre in pizzo di legno dalle quali filtra il sole. D’obbligo salire su una collina vicina ed assistere al tramonto che pian piano regala a questa curiosa opera dell’ingegno umano colori sempre più caldi, luci ed ombre che a poco poco si confondono. Tutto è così intensamente bello.
E poi il nord del paese, quello che in realtà per noi è ovest.
Paesaggio aspro e montuoso, molto montuoso, più di quel che mi aspettavo, fittamente segnato da terrazzamenti simili a gigantesche gradinate che si protendono verso il cielo. Cime bellissime, panorami e strapiombi mozzafiato.
Lo Wadi Dahar con il suo famoso Palazzo Dar el-Hajjar (bello ma niente di sorprendente). Thula, bella e caratteristica ma troppo turistica, con troppi bambini che parlano bene l’italiano (e immagino pure altre lngue). Kawkaban, nota come fortezza: si snoda lungo la cima della montagna a strapiombo sulla Shibam del nord, quando arrivi dalla strada quasi non la individui tant’è mimetizzata con la montagna.
Al Mahwit, con il suo vivacissimo mercato, ricco di colori e soprattutto odori, non sempre piacevoli.
Hodeida, orrenda. E’ la capitale della Tihama, la regione affacciata sulle coste del mar Rosso. Lo raggiungiamo il mar Rosso, dopo un estenuante percorso lungo un wadi, arido ed estremamente polveroso e c’è caldo, tanto caldo. Il terreno è ovviamente dissestato, irregolare ed a fatica ci facciamo strada con le nostre jeep tra i fitti palmeti. E ci insabbiamo pure, tra le risa degli abitanti del villaggio simil-africano.
In questa zona le donne non sono tutte nere. Indossano anch’esse il velo, che spesso lascia scoperto il viso, ma usano tessuti colorati che si abbinano con i colori del paesaggio.
E poi, Zabid, resa famosa (ma sono per cinefili convinti) da Pasolini che qui vi girò un film. Vento caldo che alza nuvole polverose, un labirinto di vicoletti tra abitazioni tutte simili tra loro, scarsamente decorate all’esterno ma molto pregiate nelle decorazioni interne. Il candido minareto che con il forte sole mi abbaglia.
Ed infine Taiz, bella, quasi moderna, e ancora Jiblah, Ibb, Dhamar, caratteristici villaggi incastonati sulle montagne. Attraversiamo incredibili paesaggi montani, e un lungo e tortuoso viaggio ci conduce a Manakha e di lì allo spettacolare villaggio di Al Hajjarah con le sue stupefacenti case torre e per ultimo ad Al-Hoteib, villaggio elegante e pulito, meta di pellegrinaggi dei musulmani indiani, gli ismaeliti, che venerano un santone qui seppellito in una bianca tomba simile ad un piccolo Taj Mahal.
Avevo detto che non avrei fatto l’elenco delle località visitate…Chiedo venia.
Pur con la consapevolezza di non essere riuscita descrivere a parole le sensazioni provate durante questo viaggio, spero almeno di aver reso una pallida idea di questo paese e delle sue attrattive.
Lo Yemen è un luogo complesso nella sua apparente semplicità, i suoi contrasti, le sue contraddizioni, le sue assurdità e i suoi paradossi fanno rabbia e tenerezza allo stesso tempo, nella stessa emozione.
Ma è un paese di una bellezza travolgente, quasi primitiva, che ti ruba l’anima, ti strazia il cuore e che spesso compiace gli occhi e la mente. Il sorriso delle persone, la loro estrema gentilezza e generosità, la maestosità delle sue città e la spettacolarità dei suoi paesaggi non possono che far innamorare chiunque abbia la curiosità e l’intelligenza di svincolarsi da superflui pregiudizi occidentali, avvicinarsi e confrontarsi con una realtà totalmente a noi estranea ma non per questo peggiore. E ancora una volta arricchirsi dentro.
P.S. Un grazie particolare a Sylvie che ha condiviso con me questa bellissima esperienza.