Sabbia, polvere e mirra di Yemen 2004 2005
In Yemen con Avventure nel Mondo (e siamo a tre viaggi consecutivi organizzati: non mi starò imborghesendo troppo?), in un gruppo di 20 (!) persone: una settimana nella parte continentale e una sull’isola di Socotra, da dove spero di tornare abbronzato come si deve.
Partiti da Roma con il volo Yemenia delle 14,30, siamo arrivati a Sana’a alle 21,45 ora locale.
La prima sorpresa è stata quella del clima: ci attendevamo che facesse molto più freddo, mentre all’arrivo c’erano ben 17°C.
Il corrispondente locale di ANM ha preso i passaporti di tutto il gruppo e ha provveduto (per 50 euro a testa) ai visti e a farci passare senza subire praticamente alcun controllo da parte delle Autorità locali, dopodiché ci ha caricato su di un pulmino e ci ha portato in albergo.
In ogni caso, il visto si può fare all’apposito sportello dell’aeroporto, prima di passare la dogana.
Alloggiamo all’Hotel Gumdam (Al Meethaq St., gumdam_palace@hotmail.Com, www.Ghamdan.Jeeran.Com), nella parte nuova di Sana’a, di recente costruzione, tanto da non essere citato sulla Lonely Planet (che però risale al 2000, ultima edizione disponibile al momento della partenza).
Sono nella stanza 124, al quarto piano senza ascensore, con Luca di roma e Giancarlo di Cremona: la stanza appare pulita ed il bagno decente, anche se le lenzuola sono di puro finto acrilico e temo che stanotte sentirò molto caldo.
Ho cambiato 50 euro dal direttore dell’albergo, ricevendo 11.500 ryal (1 euro=230 ryal), e poi sono andato, con quelli del gruppo che hanno deciso di cenare nonostante l’ora tarda, in un ristorante che non saprei mai ritrovare (vi siamo stati accompagnati in pulmino da una delle guide dell’albergo), e dove abbiamo mangiato un kebab di carne macinata con cipolle (buono, ma pesantino), patate fritte e purea di ceci per la bellezza di 458 ryal per uno (ovvero 1 euro e mezzo).
Sana’a, 22 dicembre Notte quasi insonne per il gran caldo, come previsto.
Dopo la colazione (di mio gusto, solo pane e marmellata, oltre al tè) siamo partiti con il pulmino (bollino “turista” stampato in fronte) per Wadi Dharh, una valle a 15 km da Sana’a.
La Planet la definisce “molto bella”, ma in realtà si distingue dall’arido e brullo territorio circostante solo per innumerevoli piantagioni di qat e per qualche fico d’india.
La cosa più notevole da visitare è la famosa casa sulla roccia, ovvero la Dar al-Hajar.
Questa è una costruzione che, come dice il nome, è eretta su di uno spuntone roccioso: bella ed interessante, anche se non proprio antica (risale agli anni ’30).
Da lì siamo poi andati a vedere un villaggio semi abbandonato, Bayt Baws, ove sono rimaste ad abitare solo quattro famiglie.
Fatte le visite e le foto di rito, siamo tornati per una breve sosta in albergo, per poi ripartire alla volta del centro storico di Sana’a.
Giunti alla porta principale, la Bab al-Yaman, ho lasciato il gruppo per addentrarmi e perdermi, come amo fare, nei vicoli cittadini.
Ho gironzolato a lungo, osservando il rito della masticazione del qat che inizia subito dopo pranzo e prosegue fino a tardo pomeriggio.
Anche nelle poche botteghe aperte il negoziante sta sdraiato, da solo o con amici, a masticare foglie e riporle nella guancia, che a fine pomeriggio assume in alcuni casi le dimensioni di una palla da tennis.
Il bello è che è un’abitudine di tutti, nessuno escluso.
Sono anche finito nella strada dove si vende il qat, facendo amicizia con uno dei venditori, il simpatico Alì, che mi ha ospitato per una mezz’ora nel suo negozietto (quasi un buco, con un’asse ove lui si siede con il sacco di iuta bagnata che tiene in fresco le foglie, vendute poi in quei sacchetti di plastica che alla fine si ritrovano sparsi in tutto il Paese).
Mi ha tenuto una lezione teorico-pratica sul qat, ma alla fine l’ho dovuto salutare perché non vedevo l’ora di sputare la poltiglia verde che mi si era formata in bocca (sarà la mancanza di pratica, ma non riuscivo a formare la “palla” nella guancia).
Continuando a girare per il suq ho ritrovato qualche elemento del gruppo, che ho poi lasciato per posizionarmi in una piazzetta a scrivere questi appunti sotto lo sguardo incuriosito e divertito dei bambini locali, uno dei quali ha appena emesso un sonoro rutto.
Il centro storico di Sana’a è caratterizzato da abitazioni alte circa cinque piani, costruite con mattoni di fango e decorate con stucchi biancastri, mole sormontate da parabole satellitari.
Le moschee, purtroppo, non si possono visitare, essendo riservate ai musulmani.
Ho incrociato un’altra parte del gruppo (Marco, Roberta, Claudia ed Andrea), e con loro mi sono incamminato per le vie oramai in penombra.
Passati tra dei ragazzini che giocavano a pallone per strada, la palla è finita sui piedi di Marco, e da lì sui miei, e poi di nuovo su quelli dei ragazzi, finché non è cominciata una specie di partita tra le auto che passavano, due contro due.
Ci siamo difesi abbastanza bene, ma la scarsa abitudine (anni che non toccavo palla) e i 2260 metri di altitudine mi hanno lasciato un bel fiatone.
Scesa l’oscurità e raggiunto il resto del gruppo, siamo andati a cenare al Al-Shaibani Modern Restaurant (in Hadda Street, di fronte al concessionario Ford, nella Sana’a nuova), dove abbiamo mangiato molto bene, anche se abbiamo sprecato molto cibo non avendo calcolato che le porzioni sono più che abbondanti.
Sana’a, 23 dicembre Stavolta ho dormito di sasso, fiaccato dalla camminata di ieri e dalla precedente notte insonne.
Oggi con le jeep siamo andati prima a Thula, grazioso paesino che però si sta troppo abituando al turismo, tanto che i ragazzini locali parlano anche sette lingue.
Siamo poi saliti (è il caso di dirlo, visto che si trova in cima ad un costone roccioso) a Kawkaban, paesino insulso che però consente una splendida vista sulla vallata sottostante della regione dell’Al Mahwhit.
Da lì siamo scesi a piedi (ci vuole circa un’ora) per quella che anticamente era l’unica via d’accesso al paese, e lo collegava alla sottostante Shibam (altro posto inutile, nulla a che vedere – pare – con la più famosa Shibam che si trova nel Wadi Hadramout).
Anche oggi ho fatto in modo da effettuare le mie visite lontano dal gruppo, il più delle volte in compagnia di Marco, simpatico sardo con il quale condivido l’insofferenza per i viaggi turistici organizzati (quale è questo, in fin dei conti).
Abbiamo cenato in un ristorante libanese nella parte nuova di Sana’a, ristorante che – anche stavolta – non saprei rintracciare.
Purtroppo, questo è un altro degli inconvenienti del viaggiare “organizzati”, ovvero di fare il turista: vieni preso e portato qua e la, senza poterti rendere conto di dove sei, dove vai, e per dove passi.
Dalla Sana’a nuova ho avuto un’idea molto confusa: da un lato negozietti semplici, tipici di tutti i Paesi meno industrializzati e consumistici, con beni in vendita di non eccezionale qualità, e dall’altro addirittura un’enorme concessionaria Porsche.
Ma a tutt’oggi non ho ancora la benché minima idea di dove il nostro albergo sia situato sulla pianta della città.
L’altitudine non sembra farsi sentire troppo: di giorno fa caldo, e avverto solo una leggera fatica nel salire fino alla nostra stanza al quarto piano dell’albergo.
Qui rientrati, ho coinvolto parte del gruppo in un’accanita partita ad UNO: credo che anche stavolta contagerò qualcuno con la passione per questo gioco disimpegnato.
Shabwah, 24 dicembre Siamo arrivati nel deserto.
Partiti di buon’ora con le jeep, abbiamo preso la strada per Marib, non senza esserci forniti, lungo la via, dell’obbligatoria (ma assolutamente non necessaria, solo che è a pagamento e qualcuno deve pur guadagnare qualcosa dal passaggio dei danarosi turisti) scorta militare, costituita da una “tecnica” (pickup con mitragliatrice russa di grosso calibro) con cinque soldati agli ordini di un graduato caratterizzato da barba e capelli biondastri: un vero personaggio! Marib era la capitale del Regno di Saba, con una civiltà risalente a prima che la parola venisse messa per iscritto; rimangono poche rovine, che però danno l’impressione che quello che ancora è nascosto sotto la sabbia (carenza di fondi per gli scavi) debba essere di notevole interesse storico-archeologico.
Abbiamo visto il tempio di Mahram Bilqis, con sette pilastri quadrati che emergono dalla sabbia, con alcuni accenni di scavi intorno, che rivelano alte mura in profondità; il luogo è circondato da una rete metallica, e si può accedere solo a parte del sito.
Completamente chiuso è invece il tempio di ‘Arsh Bilqis, con cinque pilastri visibili dall’inferriata che lo cinge.
Siamo poi passati a dare un’occhiata ai resti della vecchia diga che, anticamente, assicurava l’irrigazione ai campi della zona.
Nel frattempo, sono riuscito a passare dalla jeep che condividevo con compagni di viaggio taciturni e che stavano con i finestrini completamente chiusi alla “tecnica”, che mi ha concesso di stare un po’ all’aria e al sole.
Tutti si sono fermati alla nuova Marib (della vecchia rimangono poche ma spettacolari rovine della cittadina distrutta dai bombardamenti della passata guerra civile, l’accesso alle quali – come pure per quanto riguarda Baraquish – è purtroppo proibito: ci hanno fatto solo avvicinare a circa ottocento metri) per pranzare, mentre io, ligio ai miei princìpi, mi sono concesso solo una Coca gelata.
Salutati i militari, che sarebbero tornati indietro, sono rientrato nella jeep “a tenuta stagna” e, seguendo una guida beduina con il suo pickup, siamo arrivati dopo circa quattro ore in pieno deserto, a Shabwah, dove ho inaugurato la nuova tenda igloo acquistata per l’occasione di questo viaggio: considerati gli stercorari che affollavano le tende beduine dove hanno dormito gli altri del gruppo, un affarone! I picchetti non sono sufficienti per tendere tutto come occorrerebbe, dato il vento che tira, e non sono neppure di quelli lunghi da sabbia, ma spero bene.
Cenone a base di insalata messicana col tonno (mia fedele compagna di viaggio a partire dal 1989), seguita da riunione in una delle tende messe a disposizione dall’organizzazione beduina, con una serie di conversazioni nonsense che, alla fine, mi hanno fatto venir voglia di tornare in tenda ad aggiornare il diario di viaggio (cosa che ho ovviamente fatto).
Seiyun, 25 dicembre La tenda ha retto, per fortuna, anche se ripiegarla con il vento che tirava è stata un’impresa.
Oggi tre ore di traversata del deserto in jeep, una lunga corsa in mezzo al nulla, con una puntata verso una duna che abbiamo scalato a piedi.
Alla fine, dopo una sosta in un ristorante lungo la via dove in via del tutto eccezionale ho fatto uno spuntino a base di cammello, siamo giunti alla Shibam che si trova nell’Wadi Hadramout.
Questa è famosa per i suoi “grattacieli”, palazzine alte fino a sette piani, ma si distingue principalmente per le strade polverose e ridotte, di fatto, ad un ovile, vista la quantità di capre liberamente in giro.
La visita della città non richiede molto tempo (un’ora e mezzo al massimo), e così siamo ripartiti per Seiyun, dove ci attendeva il Trade & Housing Tower Hotel, con la sua piscina nella quale mi sono scaraventato immediatamente: dopo tutto quel deserto, quella sabbia e quella polvere che mi era entrata in ogni più recondito anfratto del corpo, mi sembra il minimo! Un piccolo giro serale per Seiyun non ha rivelato una città interessante, anzi.
Su tutto spicca il bianco palazzo del sultano, costruito tra il 1920 e il 1930; ci sono inoltre alcune moschee con i minareti illuminati da luci verdi (bellino l’effetto con il cielo notturno), ed un piccolo ma suggestivo (almeno di notte) cimitero.
Cena al Park Cafè and Restaurant, proprio a margine del centrale giardino pubblico, ove ho apprezzato del tonnetto alla brace (di dimensioni lillipuziane, tanto che ho dovuto chiederne una seconda porzione).
Oggi sono passato dalla jeep che – scherzosamente – chiamiamo “la presidenziale”, in quanto nera, lussuosa, condotta dal capo carovana Alì, e che ospita la capogruppo, ad un’altra più scalcinata guidata da Saleh, e che vede nel suo equipaggio il compagno di stanza Giancarlo ed una coppia di Conegliano Veneto: nella prima c’era sempre un silenzio imbarazzato ed imbarazzante, non era possibile aprire finestrini per mitigare il caldo e, alla fine, è stata perfino accesa l’aria condizionata, mia annosa nemica in tutti i viaggi.
Al Mukalla, 26 dicembre Sveglia alle 6, e si parte per la vicina città di Tarim, dove dapprima abbiamo visitato il palazzo del sultano, l’Husn ar-Ranad, ben poca cosa se si eccettuano due stanze con vetrate colorate.
Da lì abbiamo fatto un giro a piedi per le polverosissime vie cittadine e siamo ripartiti per Seiyun, dove alcuni sono andati a vedere l’interno del palazzo del sultano (dove hanno trovato però solo una mostra fotografica di scarso interesse), altri sono andati a zonzo, e io mi sono piazzato a scrivere seduto ad un tavolino nel fresco parco al centro della città, tra le consuete occhiate incuriosite dei locali.
Oggi ci trasferiremo ad Al Mukalla, da dove dovremo prendere l’aereo per Socotra.
Il viaggio da Seiyun è durato sette ore, grazie anche alla sosta per vedere il “villaggio montano” (così descritto nel nostro programma di viaggio) di Al Hajjarayn: è questa una città tanto bella vista da fuori, con i suoi palazzi svettanti dal costone roccioso verso il cielo azzurrissimo, quanto brutta, sporca e – naturalmente – polverosa all’interno.
Ne siamo fuggiti immediatamente: la truppa si è rifocillata presso il locale ristorante (per fortuna sufficientemente lontano dalla città, ma non per questo più pulito), e poi abbiamo ripreso la via per Al Mukalla, attraverso lo spettacolare Wadi Hadramout, scavato nei secoli dalle acque e dai venti a formare un largo e lunghissimo canyon nell’altopiano, e poi giù per i tornanti fino al mare.
Il buon Saleh, il nostro autista, ha cominciato il suo quotidiano rito del qat, in ossequio all’abitudine che coinvolge l’intero popolo yemenita dall’ora di pranzo al tardo pomeriggio, ed ha reputato opportuno condividere con me parte della sua scorta, passandomi foglie e rametti per tutti i 263 km del percorso.
Alla fine avevo anch’io la mia guancia ricolma, ed effettivamente la sensazione di sonno ce solitamente mi coglie (mi stende?) nel primo pomeriggio è sparita completamente, nonostante l’alzataccia mattutina.
Ho potuto sputare il bolo solamente una volta giunto all’Hotel Al-Ahgaf, un poco discosto dal centro ma con stanze grandi, frigo e televisione.
Cena, dopo una passeggiata possibile solo grazie all’utilizzo delle jeep per recarvisi, in un ristorante di una piazzetta del centro, indicatoci dal capo guida/autista.
Attendendo di essere serviti, è giunta la telefonata del nostro corrispondente yemenita, il quale ci informava che, a causa del maremoto verificatosi nell’Oceano Indiano e che avrebbe provocato un disastro tra India, Sri Lanka e Maldive, i voli per Socotra erano sospesi.
Dejà vu. Ancora. Dopo l’Iran lo scorso inverno, un’altra volta.
Mangio le aragoste quasi senza assaporarle, dopo essere passato con la capogruppo agli uffici della Yemenita, per sincerarci della situazione: la risposta, come temevo, è “inshallah”, vedremo domattina.
Quanto ad Al Mukalla, è una città in continuo movimento, con operai al lavoro soprattutto nella periferia, e traffico automobilistico dappertutto.
Vicino al centro, sul lungomare e di poco all’interno, bancarelle con in vendita chincaglieria e cianfrusaglie moderne, in pratica quello che da noi vendono nei mercatini i cinesi.
Bir’Ali, 27 dicembre Sveglia prima dell’alba, colazione alle 5,30 e poi via, verso l’aeroporto di Al Mukalla, con la speranza che il volo per Socotra decolli regolarmente.
La sfiga, però, ha avuto il sopravvento anche questa volta: dopo più di un’ora trascorsa nel piazzale davanti all’aeroporto giocando a pallone (Marco il sardo s’è portato un Super Tele dall’Italia: mitico!), dopo uno scazzo tra alcuni del gruppo e la capogruppo (che facciamo, dove andiamo, io dico così, lei cosà, etc. Etc.), dopo essere stati altre due ore buone davanti agli uffici della Yemenita in città, dove ci hanno confermato che l’aeroporto di Socotra è chiuso fino a nuovo ordine e che – se tutto va bene – il prossimo volo sarà tra quattro giorni perché loro volano solo il lunedì ed il venerdì, abbiamo deciso per l’alternativa Bir’Ali, una spiaggia a quasi 200 km da Al Mukalla, dove talvolta sono andati altri gruppi di Avventure nel Mondo.
La strada per arrivarvi offre dei panorami stupendi.
La zona è vulcanica, ed alterna sabbia gialla e pietra lavica nera, con effetti cromatici degni di foto; ci fermiamo a scattare in uno dei punti più suggestivi, che però è anche un campo minato e, all’ora di pranzo, ci fermiamo al villaggio di Qana.
Qui assistiamo all’arrivo delle barche dei pescatori: in un’acqua rossa di sangue, centinaia di tonni vengono trascinati a riva dalle imbarcazioni, privati di branchie, gola e stomaco (che vengono lasciati sulla battigia per la gioia dei gabbiani e di qualche gatto), e subito caricati su dei pickup che prendono immediatamente la via dello stabilimento di lavorazione.
Il tutto in una folla di pescatori, bambini, curiosi, vedove che mendicano del pesce per i loro figli, gabbiani che si rimpinzano, e noi, che scattiamo foto a valanga.
Gruppo, autisti, e scorta (da Al Mukalla a Qana siamo stati costretti a pagare un altro balzello: forse inutile, ma il campo minato all’inizio non era affatto segnalato e qualcuno sicuramente si sarebbe fatto una passeggiata sulle gialle – ed ovviamente intatte – dune sabbiose) hanno pranzato in un ristorantino locale, con pochi tavoli sotto una tettoia, tra le capre che mangiavano nei piatti dei clienti, gli escrementi delle stesse, una cucina dal tasso igienico nullo, ed il deposito del pesce proprio davanti al gabinetto.
Io ho passato la mano, accontentandomi della consueta bibita fresca.
Dopo il pranzo e la solita scorta di qat degli autisti al locale luogo di spaccio, siamo alfine arrivati a Bir’Ali, dove alloggiamo (si fa per dire: alcuni hanno trovato posto su materassini bassi per terra in stanze da 4/5 persone, mentre io ho piantato la tenda in riva al mare, come pure i pochissimi altri dotati di tenda propria) al Qana Tourist Complex, che si trova in una baia sabbiosa, circondata da vulcani spenti, con un edificio in muratura ove sono le stanze, alcuni bagni e la cucina (frequentata da topi e bagarozzi), alcune capanne in paglia, e qualche bagno/doccia in muratura vicino alla spiaggia.
Il posto, comunque, è bello, il mare pulito e pieno di pesci, con una barriera corallina e – soprattutto – privo di turisti.
A dire il vero, di turisti qui nello Yemen ne abbiamo visti pochissimi, il che come al solito non mi dispiace affatto.
Per la cena, dopo un’accesa partita a pallone sulla riva, due sardi del gruppo hanno organizzato un falò professionale, sulla cui brace sono stati cotti pesci e tonno acquistati a Qana (considerate le condizioni igieniche del ristorante di Qana e della cucina del Tourist Complex, abbiamo ritenuto cosa più opportuna fare da noi).
Curiosi e divertenti i dialoghi tra i due “fuochisti”, in un totalmente incomprensibile dialetto sardo.
Bir‘Ali, 28 dicembre Ho dormito poco, per via del vento che si è alzato nottetempo e che si è fatto sentire sbattendo i teli della tenda, che comunque ha retto.
Ho fatto del footing di buon’ora sulla spiaggia, mentre decine di delfini venivano a compiere i loro salti vicino alla riva, dopodiché sono tornato a dormire dopo colazione: in fin dei conti, oggi in Italia è giornata lavorativa… Al risveglio, ho cominciato a dare un’occhiata più approfondita ai fondali della baia, che ospitano varie e multicolori specie ittiche.
Finalmente un po’ di relax, dopo tutti i giri per città, paesini, monti e valli.
Dormitina pomeridiana in una delle capanne di paglia sulla spiaggia, sicuramente più fresche della mia tenda, partita a UNO, altro giro di snorkeling, altra partita a pallone, doccia, preparazione della cena (altra grigliata di pesce: due bestioni dall’identità sconosciuta acquistati in paese ma cucinati come si deve per la gioia di tutti).
La fatica oggi si è però fatta sentire a causa di tutta l’attività fisica svolta, ed infilarsi nel sacco a pelo è stato un atto dovuto prima di fare le ore piccole.
Bir’Ali, 29 dicembre Stamattina gita su uno dei vulcani che circondano la zona, che ospita un lago all’interno del suo cratere.
Siamo saliti ed abbiamo fatto il giro del cratere nella parte alta: in basso c’era il lago, con sabbia e vegetazione intorno, ma non siamo scesi per vedere come fosse l’acqua, dato che già l’ascesa ed il giro che stavamo facendo ci sono sembrati abbastanza faticosi.
Il panorama da lassù è splendido, con le spiagge, gli altri vulcani, ed il paese di Qana: abbiamo visto anche un branco di delfini a pochissimi metri dalla riva sotto il vulcano.
Tornati al Qana Tourist Complex, abbiamo ripreso la vita di spiaggia; a volte evito di fare il bagno, nonostante le bellezze sottomarine, solo perché tira un vento forte, e mi congelerei nell’uscire dall’acqua.
A pranzo, mega spaghettata aglio , olio e peperoncino: non ci stiamo facendo mancare proprio nulla! Anche oggi pomeriggio, verso il tramonto, consueta partita a calcio sulla battigia lasciata libera dalla bassa marea.
Per cena, altra grigliata con due pesci tipo cernia e una grossa seppia.
Sono arrivati pure alcuni altri turisti, che alloggiano nelle capanne di paglia (il nostro gruppo ha occupato tutte le stanze disponibili) e che staranno sicuramente invidiando il mostro banchetto intorno al fuoco, mentre loro mangeranno scatolame vario.
Al Mukalla, 30 dicembre Altra giornata di mare, trascorsa stavolta in solitudine per non dover per forza condividere con gli altri il medesimo tratto della lunga spiaggia a disposizione.
Dopo un parco pranzo con la mia insalata messicana con tonno e due fili di pasta preparata dal resto del gruppo, siamo ripartiti (non senza un filo di rimpianto) alla volta di Al Mukalla.
Sembra che l’aereo di domani per Socotra sia confermato, e così, preso possesso della stessa camera (la 116) nello stesso albergo dove abbiamo alloggiato la volta scorsa, siamo andati a cenare nello stesso ristorante, l’Al Khiam.
Le notizie sul maremoto che ha colpito l’Oceano Indiano provocano discussioni nel gruppo: chi ha paura di non riuscire a raggiungere Socotra, chi ha paura di non tornare in tempo in Italia, chi ha paura e basta, sta di fatto che nonostante riesca talvolta anche a divertirmi con i miei attuali compagni di viaggio, sono sempre più convinto che la cosa migliore sia partire in due e girare spesso da soli per poi ricongiungersi e confrontare le rispettive esperienze.
Anche domattina, sveglia presto per arrivare in tempo all’aeroporto.
Socotra (Homhil), 31 dicembre Siamo riusciti, nonostante l’overbooking, a prendere il volo della Yemenita per Socotra; il tempo è brutto: nuvole e vento forte.
I ragazzi del SES (Socotra Ecotourist Society, cui Avventure nel Mondo si affida per l’organizzazione delle escursioni in loco) sono venuti a prenderci all’aeroporto con i fuoristrada e ci hanno portato all’interno dell’isola, nella parte nord-orientale, fino al villaggio di Homhil.
Per arrivarci, siamo passati per vie sterrate, peggio di mulattiere, inerpicandosi con le jeep, attraversando corsi d’acqua (il tutto in mezzo al verde, dopo tante rocce, deserto e polvere).
L’itinerario programmato prima del viaggio, che avrebbe comportato la permanenza di una settimana a Socotra, è ovviamente saltato per le conseguenze del maremoto dal’altra parte dell’Oceano Indiano, sicché vedremo solo poche cose.
Da una parte, per me è addirittura meglio, visto che non ho mai amato le escursioni naturalistiche: io viaggio per vedere ciò che la mano dell’uomo ha costruito in giro per il mondo (più le spiagge, naturalmente!).
In ogni caso, durante il tragitto, abbiamo avuto già occasione di vedere la natura incontaminata dell’isola, gli le palme “sangue di drago” e gli “alberi bottiglia”: pare che a Socotra esistano circa 900 specie tra animali e piante, delle quali 300 endemiche.
Oggi abbiamo piantato le tende (assai faticosamente, dato il forte vento che sembra tiri ovunque, e non solo qui a quota 500 metri) a Homhil, abbiamo cenato presto (capra, riso e ottimo sugo piccante nel quale tutti hanno fatto scarpetta con il pane), e me ne sono andato a dormire alle 21,00: come capodanno non c’è male… Socotra (Hadibou), 1 gennaio 2005 Tra vento e naso chiuso per allergia alla polvere non ho praticamente chiuso occhio.
Mi hanno fatto alzare alle 6 per partire – senza colazione! – a piedi lungo il corso di un torrente che si snoda a ridosso del costone di una montagna; tutto molto noioso, eccettuato il punto di arrivo, dove il torrente forma una vasca naturale sul ciglio di uno strapiombo con vista sul mare: eccezionale, se non fosse per il maledettissimo vento freddo che impedisce una balneazione altrimenti memorabile.
Tra l’altro, simili luoghi andrebbero goduti in completa solitudine ed in silenzio, e non in compagnia di altri 19 più guide e curiosi locali: per fare una foto più o meno degna (peccato per la scarsa luminosità dovuta al brutto tempo) ho dovuto attendere che si allontanassero tutti e ripartire per ultimo, godendomi almeno per pochi attimi il panorama in santa pace.
Di ritorno all’accampamento di Homhil ci hanno servito la colazione: tè, pane, gli immancabili formaggini visti in tutto lo Yemen (e sempre evitati dal sottoscritto), e del miele che fanno da queste parti, molto ma molto buono.
Smontata la tenda con le solite difficoltà per il vento, siamo passati in jeep alla spiaggia di Dihamri, altra area protetta gestita dal SES.
Vento forte anche qui, dove alcuni si sono fatti il bagno (ma non io, che sarei morto di freddo appena uscito dall’acqua).
Il pranzo a Dihamri è stato a base di riso e tonno semi-carbonizzato: quanta nostalgia per le nostre grigliate di Bir’Ali! Di nuovo in jeep verso Hadibou, passata la quale il programma prevedeva la visita ad un’Wadi; io, però, con due notti insonni alle spalle e mal sopportando un’ulteriore visita a sfondo naturalistico, mi sono fatto scaricare in albergo, approfittando per fare una doccia e mettere ordine nello zaino, che dopo questi giorni di viaggio sempre in giro oramai contiene una sorta di brodo primordiale all’interno del quale è impossibile trovare alcunché.
Alloggiamo al Summerland Hotel, non male: stanze grandi con TV satellitare, ma bagno in comune (ma pulito).
La doccia è fredda, ma mi rimette in sesto per una necessaria pennica da recupero ore di sonno perdute.
Ceniamo (?) nel ristorante del Summerland, dove – orrore! – ci viene servito un piatto unico con dentro spaghetti scotti e collosi con un cucchiaino di salsina di vegetali sopra, delle patate, ed un pezzo di pollo arrosto.
Lascio tutto lì (nessuno, comunque, ha toccato gli spaghetti), come pure la gelatina di fragole che ci viene servita come dessert.
A farla breve, a letto senza cena.
Socotra (Hadibou), 2 gennaio Quasi tre ore di fuoristrada sul solito sterrato socotrino per arrivare in una spiaggia stupenda, quella di Qualansiya.
Lungo la strada, due tappe per vedere degli strani segni nel terreno, che potrebbero essere stati fatti da ragazzini locali come da ufo di puffi, e poi una specie di piccolo cenote, con sul fondo delle vasche di pietra forse un tempo utilizzate per la tintura di stoffe, dato che conservano al loro interno colorazioni differenti: strano e pure suggestivo.
Qualansiya è lunghissima e larghissima, con sabbia bianca ed una laguna interna formata dalle acque marine che non si sono ritirate dopo l’alta marea; in quest’acqua si sono formate delle alghe che conferiscono un colore particolare.
L’acqua non è fredda, ma tanto per cambiare il vento che tira non mi convince a fare il bagno.
Una lunga passeggiata lungo la battigia mi ha consentito di vedere una torpedine a mezzo metro dalla riva e dei granchi che spolpavano un pesce spiaggiato.
Il pranzo, presso una casa vicina alla spiaggia, è consistito – tanto per cambiare – in riso e tonno alla griglia.
Altre ore di fuoristrada per tornare ad Hadibou, che è un posto abbastanza sfigato, dove non c’è assolutamente nulla da vedere.
La cena, vista la pessima prestazione del cuoco del Summerland la sera scorsa, è stata effettuata nel ristorante accanto all’Hotel Taj Hadibou, dove abbiamo mangiato bene.
Appena finito il mio cibo, però, ho abbandonato la tavolata, dato che mi sono sempre vergognato, girando per il mondo, degli schiamazzi che una comitiva di italiani può produrre, soprattutto a tavola e soprattutto in presenza di altri turisti.
Oramai siamo quasi alla fine del viaggio e domattina dovremmo prendere (inshallah!) l’aereo per il continente.
Sana’a, 3 gennaio Prendere un aereo nello Yemen può essere un’esperienza veramente curiosa.
Gli orari sono molto approssimativi (“il volo è previsto per le 10,40, ma potrebbe partire alle 8,30 per cui meglio se siete in aeroporto verso le 7”), le file inesistenti (nel senso che ci si fa largo a gomitate), i posti sull’aereo non sono assegnati (da qui la corsa sulla pista “a li mejo posti!”), il divieto di fumo nelle aerostazioni è assolutamente disatteso (con grande gioia, ovviamente, anche dei tabagismi di casa nostra) e, cosa ben più grave, durante il volo e soprattutto nella fase di atterraggio gli yemeniti se ne fottono alla grande del divieto di utilizzare telefoni cellulari (abbiamo in un paio di casi dovuto litigare ferocemente con dei passeggeri, e solo una volta lo steward è intervenuto sequestrando – dopo più avvertimenti a vuoto – il pericoloso apparecchietto).
Malgrado tutto ciò. Alla fine siamo riusciti ad arrivare a Sana’a, via Al Mukalla.
A Sana’a mi sono nuovamente dedicato a perdermi nei vicoli, scattando foto ed osservando le attività degli artigiani e dei commercianti: metallo, legno, stoffa, frutta secca, ogni settore merceologico ha una sua collocazione nella geografia cittadina, mentre i forni – sempre in attività – sono sparsi qua e la e vendono pane caldo ad ogni ora del giorno.
Potrei stare ore a girovagare per le strade di Sana’a, tra la gente indaffarata e gli oziosi, le donne velate e i bambini che chiedono in continuazione “sura, sura!”, ovvero “fammi una foto!”; curiosamente, e diversamente da molti altri posti dove sono stato, qui la gente nella maggior parte dei casi è orgogliosa di farsi fotografare e, a volte, ti lasciano il loro precario quanto improbabile indirizzo (“Alì, presso il mercato delle verdure”) per farsi spedire una copia.
Consumata un’ottima cena in un ristorantino proprio fuori della Bab Al-Yaman, sono tornato in taxi al Gundam Hotel, che ci ha dato qualche stanza per “appoggio” durante la giornata: da lì siamo ripartiti per l’aeroporto, destinazione Roma.
*** *** *** Confesso che i diari dei miei viaggi con Avventure nel Mondo non mi piacciono, perché con un gruppo organizzato non riesco a godermi appieno non solo i luoghi, ma pure lo stesso viaggiare: mi sento tanto turista…
E così finisco per scrivere più per abitudine che per piacere, e mi capita spesso di omettere la descrizione di quelle sensazioni, impressioni, luci, ombre e colori che caratterizzano la visita di Paesi tanto diversi.
Per ovviare, aggiungo qui le impressioni sullo Yemen scritte da una delle mie compagne di “avventura” (?).
Ad agosto avevo pubblicamente giurato che sarebbe passato del tempo prima che un paese musulmano avesse l’onere e l’onore di avermi con sé. Stufa di foulard, maniche lunghe, donne nascoste, caviglie coperte, niente alcool, moschee vietate.
Arriva dicembre, e mi prenoto per un tour dello Yemen, proprio il paese islamico per antonomasia! Eppure… eppure è stato bello. Ed interessante.
Eliminando il gruppo, il casino organizzativo, il capogruppo maestrina, le lamentele sul cibo, sul poco mare, sul troppo mare,… è stato bello.
Fisicamente. Spazio, aria, lo sguardo che vaga e non identifica una casa. Si focalizza e alla fine ne vede una piccoletta, un piano solo, di mattoni di fango o pietra tagliata faticosamente. Si mimetizza in modo impressionante.
Tutto è beige, nello Yemen continentale: montagne, sabbia, case, pecore e capre, pane. Si vede del verde, è vero, il verde del qat. Verde bosco, nelle coltivazioni recintate con filo spinato; verde tenero di germogli, per terra a bordo strada dalle undici in poi, su teli di plastica o sacchi di yuta per l’acquisto quotidiano; verde pistacchio – quello del gelato, per intenderci! – nelle bocche degli uomini e dei bambini sopra il metro e una spanna che dalle due alle sei masticano inesorabilmente come dei ruminanti, facendo aumentare di minuto in minuto la protuberanza della guancia. Destra o sinistra, sembra non ci sia preferenza. I costi sono differenti, in base allo stadio di crescita della foglia: 200ryal (1euro circa) se ci si accontenta di foglie medio grandi, un po’ coriacee, magari anche con qualche rametto; 1000/12000ryal per i germogli più teneri (il pensiero automaticamente si rivolge a koala e giraffe, che cercano disperatamente teneri germogli… maledetti documentari con i quali sono cresciuta, che ti inducono ad associare inesorabilmente teneri germogli a koala) e freschi, raccolti quella stessa mattina. Nelle zone di vendita sono riconoscibili perché custoditi preziosamente in una specie di tubo chiuso da spago, per mantenere l’umidità. Non sono riuscita a capire da quale pianta ricavassero il tubo – neppure me ne sono occupata, a dir la verità: canna da zucchero? Bambù? Non ne ho idea… Fatto sta che gli autisti verso le undici iniziavano a preoccuparsi del quat. E, cosa ben più grave – per noi ecologisti facili e grossolani: inquina di più un sacchetto di plastica o il riscaldamento a 23°C da mattina a sera, automobile sotto il culo, cibo sterilizzato e non contaminato in comode vaschette incellofanate, latte nel tetrapak che il vetro pesa, acqua in bottiglie che quella dell’acquedotto sa di cloro… – dicevo, il qat viene venduto in pacchettini di sottile plastica nera, o rosa, che poi vengono gettati fuori dal finestrino. Yemen, come il Senegal o il Mali; come qualsiasi paese dove i sacchetti di plastica li abbiamo portati noi e… e mi fermo, altrimenti divento polemica e non va bene! Correggo quindi l’affermazione di prima; lo Yemen è beige. Ma si aggiunge il nero e il rosa dei sacchetti, quasi ridicoli quando si impigliano nella sterpaglia e nei cespugli bassi, quando sembrano degli strani frutti esotici… E nero. Nero delle donne, dalla prima all’ultima: nera la veste lunga fino ai malleoli, nero il velo che si adagia sulla fronte, nero lo strascico che miracolosamente segue la linea del naso e copre guance e sorriso, neri i lunghi guanti che nascondono le mani, nere talvolta anche le calze che ricoprono i piedi… Rimangono visibili gli occhi, scuri anche quelli, occhi espressivi – come potrebbe essere altrimenti? Eppure chiacchierando con alcuni uomini yemeniti – perché le donne difficilmente parlano con gli stranieri – ti rendi conto che sono in grado di riconoscerla, una donna. Da come cammina, si muove, guarda, respira, odora. Riconoscono anche una prostituta, nonostante sia nera come le altre. Penso ai viali padovani, dove la cosa più coperta sono piedi e polpacci, avvolti in lunghi stivaloni luccicanti… il gioco degli opposti, giusto? E pensavo che alla fine ci si adatta all’ambiente in cui si vive: i sensi si affinano e si specializzano, imparando a decodificare quello che il velo nasconde. Per me, italiana e scostumata, l’idea di riconoscere una donna yemenita rasenta l’assurdo; per loro è una banalità! Le somale, invece, vestono altri colori, e talvolta hanno il viso scoperto. Henne sul palmo della mano e sulle unghie, sui piedi scuri. Sorridono di più. Che sciocca! Anche le velate sorridono, solo che lo vedi dalle pieghe dolci attorno agli occhi, e dal luccichio dello sguardo. Scendendo a piedi lungo il canyon di Kawkaban – rocce friabili dai mille colori – ho incontrato una donna che saliva faticosamente. Ci siamo fermate, e le ho fatto un cenno rispetto alla fatica di arrivare su in cima, fatica dei 300 metri di dislivello umido e cocente. Ha tirato su il velo, mostrando un viso maturo e segnato, imperlato di sudore. Ha preso con energia la mia mano, e l’ha appoggiata sul cuore, per farmi capire la fatica di quella salita: pulsava come il cuore di un neonato. Ho provato imbarazzo nel sentire sotto il mio palmo la forma del suo seno. Ma soprattutto per l’inaspettata intimità di tale gesto: mai nella mia vita ho avvicinato una mano estranea al mio seno per far sentire la fatica… Prima di riprendere le nostre strade diametralmente opposte, m’ha offerto del quat, aprendo con cautela il sacchettino di plastica rosa.
Poi ci sono i bambini. Un’infinità di bambini! Allegri, gioiosi, che chiedono una foto e si aspettano di vederla sul piccolo monitor delle digitali… maledetta globalizzazione, penso tra me e me con la mia reflex tra le mani! Quasi tutti vanno a scuola, con la loro divisa verde militare. Le bambine hanno un foulard bianco che copre la testa e scende lungo le spalle, di un’eleganza sorprendente. Hanno una cinghia che tiene uniti il libro e il quaderno, per lo più rosa, di quella carta grezza d’altri tempi che si usava da noi nel dopoguerra. Poi ci sono i mendicanti, non tantissimi, che allungano una mano verso di noi e fanno segno di volere del cibo. A San’a’ l’ultima sera, seduta con Ale nella piazza davanti alla porta Bab Al-Yaman ad osservare la gente, i colori, le finestrelle illuminate, il viavai incessante, s’è avvicinata una bambina e le ho dato un pane. L’ha preso ed ha iniziato a correre impazzita avanti e indietro, con il fratellino che la seguiva. Ridevano felici. Dopo cinque minuti, esausti, si sono seduti sui gradini di fronte a noi e hanno diviso il pane, assaporandolo con lentezza… San’a’ bellissima, finestrelle di panna montata e cinque, sei sette piani di cioccolato al latte. Lunette delle finestre fatte di canditi, e porte di cioccolato fondente. Cammini per le strade e saluti, ti fermi, contratti, annusi, tocchi un oggetto, alzi gli occhi verso l’alabastro che si illumina dall’interno e lascia intravedere ombre operose, sbirci nel retro del ristorante e vedi un padre che aiuta il figlio nel fare i compiti, entri dal fornaio e scatti una foto prendendo accordi per la spedizione: indirizzo scritto in arabo, ovviamente! Ascolti racconti dai commercianti, aspiri mirra ed incenso, fotografi spezie dai colori sgargianti – pensando a quali e quanti coloranti tossici sono presenti in una misura di quella polvere arcobaleno – ti scontri con una carriola impazzita che corre verso sud trasportando uvetta, ti siedi esausta e felice, assaporando la semplicità di una vita polverosa ma di una dignità inimmaginabile per noi.
A Bir’Ali. Tre donne dal viso scoperto che con una pietra rompono conchiglie in riva al mare. Una di loro ha l’henne sul viso. Pazientemente riempiono un contenitore di plastica bianco con flaccidi molluschi. Per fortuna non me ne offrono uno. In compenso mi danno le loro ciabatte per raggiungerle, in modo che non mi ferisca i piedi. A gesti mi fanno capire che vorrebbero un reggiseno, e io che mento: “bukara!” consapevole del fatto che nel mio zaino di reggiseno non ce ne sono e che domani non ci sarò. Sono giovani, dai tratti somali, belle. E il mare è una meraviglia! Nonostante la delusione di non poter partire subito per Socotra, assaporo i 200 chilometri di strada da Al Mukalla a questo angolo di paradiso. Pietra lavica e dune di sabbia, bandierine che avvertono della presenza di mine, la scorta armata che muove le braccia freneticamente per farci capire che su quella sabbia non dobbiamo mettere piede. E il pigolio di fondo del gruppo, che sostiene che la scorta è un trucco di Ali, una tangente non dichiarata per muoversi in questo paese sotto la sua protezione… Ali gentile, disponibile, che forse un po’ ci spilla soldi veramente, ma che comunque permette di capire qualcosa in più di questo paese. Ali che mi invita a vedere i comfort del suo letto dentro la 4X4 per la notte, e io che – un po’ ridendo e un po’ imbarazzata – lo ringrazio, ma preferisco la camerata con i miei 3 uomini e i topi locali! S’è offeso, ovviamente, e da quella sera ha evitato di parlarmi… Arrivati nel paese si ordina il pranzo in una specie di ristorante. Capre che vengono vicine al gruppetto seduto sulla stuoia e leccano i piatti. A me viene da ridere, gli altri sono inorriditi da una simile mancanza di igiene. Una passeggiata al mercato fino al mare, ed è mattanza! Centinaia di tonni dalla pinna gialla, fetore, camminare su polmoni e branchie, il rosso del sangue sulla spiaggia e nell’acqua. Nugoli di bambini e ragazzini che ti vengono appresso. Barche e moltissimi uomini. Un leggero senso di angoscia, quando mi rendo conto che gli altri se ne sono andati. Chiudo la macchina fotografica e cammino veloce verso il ristorante, cercando di non ascoltare lo scricchioli dei polmoni rosso sangue sotto i miei sandali… Dalla sera stessa si opta per grandi cene preparate in spiaggia dai sardi. Ottimo pesce, riso schifoso la prima sera, eccellente la seconda. Patate al cartoccio e birra fresca. Gli animi si chetano, finalmente.
Ci sono tantissimi granchi fantasma – che conoscevo come granchi violinisti nel Senegal. Scavano la tana nella sabbia, producendo bizzarri cucuzzoli. Daniele va in giro con il granchio a guinzaglio. Mi viene da ridere, immaginandolo in piazza duomo a Milano con il suo granchio addomesticato… Vediamo un sacco di pesci, i delfini, una tartaruga, conchiglie bellissime. Assaggio pure un’ostrica appena raccolta. Passiamo tre giorni di puro relax, isolati, sereni, scossi solo dal vento che soffia tranquillo. Belle stelle di notte, una canna sdraiata sulla sabbia di fianco ad un uomo che sembra un igloo, ma poco importa. E poi Socotra, finalmente! Il ricordo che mi porto a casa? Il verde – povero Ale che il verde lo odia e lo deprime! Mille varietà di verde. Da quello chiaro, quasi argenteo dei prati dell’altopiano, a quello scuro degli alberi bottiglia, al verde del tamarindo, dell’euforia, dell’acacia, del cucumber tree, degli alberelli bassi e storti dal vento con infinite foglioline lungo il tronco, come un nugolo di pidocchi. Verde che commuove, muove, mi lascia a bocca aperta e con il cuore in mano. Isola forte, ventosa, strana nel suo porsi sempre diversa, bastano pochi chilometri di pista ed inizia un’altra storia, altre rocce, altri colori. Cielo intenso di nuvole monsoniche, due ore per piantare una tenda con tutto che vola via, miliardi di stelle nella notte al villaggio, dove tutto è stato perfetto e bellissimo, anche il brodo di capra. Vento eccitante ed inebriante, mi sentivo una bambina nella notte di Natale. Cene e canti, dolci italiani che passano di mano in mano, il divieto di stappare lo spumante portato appositamente per l’ultimo dell’anno… ci son cose più gravi, nella vita! Sveglia all’alba sotto un sole insperato, un sentiero di sassi costellato dal dragoon’s blood tree, alla fine una vasca naturale di acqua dolce a strapiombo sul mare. Un mare blu intenso, gioioso, bianco spumeggiante di onde salate, uccelli che ti volano sopra la testa, e l’avvoltoio egizio che a terra sembra veramente un pennuto spelacchiato! E poi i cavalieri d’Italia in quella pozza con i cerchi colorati, e gli uccellini piccoli piccoli dalle zampe lunghe che girano intorno alle buche dei granchi. L’ultima alba, a Hadibou, dalla terrazza dell’albergo; un via vai di gente con il pane fresco, il muezzin che richiama i fedeli, i bambini che vanno a scuola. Un lampo m’attraversa la mente, ricordo di secoli addietro: mi piacerebbe fermarmi qui… Il diario di viaggio con le foto su: www.Alessandroscarano.Com!