Vedi Napoli e poi ci torni
De Crescenzo scrisse: “Napoli per me non è la città di Napoli ma solo una componente dell’animo umano che so di poter trovare in tutte le persone, siano esse napoletane o no. A volte penso addirittura che Napoli possa essere ancora l’ultima speranza che resta alla razza umana.” Guardando la sua più celebre pellicola, “Così parlò Bellavista”, si può ben comprendere l’arrivo del nordico dottor Cazzaniga. La sua ferma e ostinata volontà di capire e di addentrarsi nei meccanismi che regolano la città; la sua RESA finale, panettone in bocca, rinchiuso con O’professore in un vetusto ascensore. Napoli non si capisce, si accetta. Napoli non può ferirti, è tutta scena. Un teatro giornaliero nei quartieri degradati, come per le strade del centro storico più grande d’Europa. Qui non si vive, si mette in scena. Non si discute, si recita. Tutto è portato all’esasperazione, per il divertimento di chi sta di fronte ad un palcoscenico calcato ogni giorno da oltre tre milioni di comparse, stipate in zone tra le più densamente popolata d’Italia e d’Europa.
La stazione di piazza Garibaldi è un ottimo punto di arrivo. Di fronte si estende la città, coricata sul golfo come la bella sirena Partenope, la testa poggiata sulle pendici del Vesuvio e i piedi verso Mergellina. Uscendo dai binari, il suono di un pianoforte richiama l’attenzione. Posto all’ingresso, i passanti possono esibirsi in sessioni improvvisate. Lo sguardo si posa da subito sull’antistante piazza Garibaldi, semicoperta pochi anni fa dal disegno dell’architetto francese Dominique Perrault. Evitare i taxi, farsela a piedi verso il centro, passare in mezzo a quanta e più varia umanità possibile. Tenendo il vertice destro della piazza, è d’obbligo un primo stop da Attanasio, tra le più celebri sfogliatelle della città, ora presidio Slowfood. Arrivati a Napoli da nemmeno mezz’ora, già ci si imbatte nelle quattro eterne costanti: l’estro musicale improvvisato, il frastuono e lo smog delle auto bloccate nel traffico, le mille etnie di venditori ambulanti che si accalcano ai bordi delle strade, veri e propri mercati a cielo aperto, il profumo e l’aspetto del cibo che ti prende per la gola e crea da subito dipendenza.
Alloggiare in pieno centro storico, dà la possibilità di avere tutto ad un passo. La scelta cade sull’ottimo Airb&b da Nunzia, accogliente loft nelle adiacenze di San Gregorio Armeno. Capitandoci poco prima di Natale, ci si trova ostaggi delle più accese compravendite di presepi. Qui, sono concentrate le botteghe artigiane che producono statuette, capanne, oggettistica. Tutto ancora a livello famigliare, si intende. La confusione delle strade è arginata magnificamente dal pesante portone in ferro che delimita la corte in cui decidiamo di alloggiare.
A due passi vi è la tanto decantata Cappella Sansevero, cappella funeraria dei principi di Sansevero, ove a metà del ‘700 un gruppo di artisti, tra cui Giuseppe Sanmartino, scolpirono il celebre Cristo velato. Anche “La pudicizia”, raffigurazione di una donna velata, e ancor più “Il disinganno”, meritano interminabili minuti di contemplazione: sono tessuti ricamati dalla roccia, è grata marmorizzata. Si esce senza fiato, il colpo di grazia lo danno i due corpi scarnificati posti al piano inferiore. Antico studio anatomico, ad oggi si è affacciata l’ipotesi che non si tratti di reali sistemi circolatori, ma di ammassi di materiale d’altro tipo.
Per riprendere aria, la Chiesa di Santa Chiara è molto vicina. Basta percorrere via Benedetto Croce – l’intellettuale risiedette proprio in questa via – verso piazza del Gesù Nuovo, slargo in cui spiccano l’obelisco dell’immacolata e la facciata bugnata della chiesa del Gesù Nuovo. Poco prima, sulla sinistra, si aprirà il cortile di Santa Chiara, una delle chiese più interessanti ed armoniose della città. Meno barocca, in quanto di stile gotico provenzale risalente al periodo dei d’Angiò, è stata in gran parte ricostruita dopo la guerra e presenta linee pulite ed eleganti e alternanze cromatiche davvero stupende.
A questo punto una considerazione di carattere storico è doverosa. Il segreto della quieta convivenza ancor oggi a Napoli di culture molto diverse fra loro, è probabilmente insito nella storia della città stessa. Sebbene dominata dapprima da normanni e svevi, poi da francesi, spagnoli e austriaci, Napoli è però sempre rimasta libera in termini di sbeffeggio al potere di turno; come a dire: vi obbediamo sì, perché dobbiamo, ma non saremo mai schiavi di alcun tiranno. Una sorta di carnevale perenne si respira mentre si torna verso Piazza San Domenico Maggiore per assaggiare una delle migliori pizze della città: Palazzo Petrucci ha un’aria aristocratica e la pizza è condita da ingredienti ottimi. La passeggiata post cena servirà a perdersi oltre via Toledo, verso i quartieri spagnoli. Il tutto è un continuo mercato all’aperto, complice anche le compere prenatalizie in corso. Anche il concetto dei decumani, risalente all’epoca romana, all’inizio è di difficile comprensione, persino per chi come noi risiede in Via San Nicola a Nilo, vicolo che collega il decumano maggiore con quello inferiore.
Si potrebbe parlare a lungo di quanti luoghi d’enorme interesse si possano incontrare lungo il tragitto che da via Toledo scende verso il mare. Oltre al Teatro San Carlo e alla Galleria Umberto I posta di fronte, lustro della città sin dalla fine dell’800, ci si imbatte nell’enorme piazza Plebiscito, dal colonnato ispirato a San Pietro e dall’eterno Caffé letterario Gambrinus, luogo della resistenza antifascista. Oltre, al di là dell’arteria stradale, vi è il Maschio Angioino, magnifica roccaforte rinascimentale voluta dagli Angioini nel ‘200, per spostare la capitale del Regno delle due Sicilie da Palermo a Napoli. Sul lungo mare, con una perfetta visione del golfo, affacciano i più lussuosi hotel della città, mentre proseguendo l’ideale passeggiata verso Mergellina, si scorge ben presto l’antichissimo e misterioso Castel Dell’Ovo. Edificato su un isolotto di tufo, a quanto si dice per mano cumana, il latino Virgilio avrebbe nei suoi sotterranei nascosto un uovo su cui poggerebbe secondo la leggenda non solo la fortificazione, ma tutta la città.
Il giorno successivo si riprende da dove avevamo lasciato. In mattinata la visita interna al Chiostro di Santa Chiara, aperto solo in orario diurno. Le maioliche delle Clarisse, che abbelliscono il complesso valgono ampliamente il prezzo del biglietto. Settecentesche, create dall’estro di Giuseppe e Donato Massa, rappresentano veri e propri affreschi di Santi ed Allegorie bibliche. Alla fine della visita è anche possibile degustare e acquistare liquori creati da monaci dei diversi conventi limitrofi.
In tarda mattinata si sale sulla circumvesuviana e passando per San Giorgio a Cremano, città natale del grande Massimo Troisi, si raggiunge Torre del Greco. Fino a qualche decennio fa terzo centro della Campania per abitanti, il suo enorme comprensorio si estende fino alle pendici del Vesuvio, accanto ad Ercolano. Percorrendo per le sue strade, l’atmosfera è molto più distesa che in città. I vicoli centrali, in cui nella metropoli per quanto qualcuno si ostini a stendere lenzuola non entra mai il sole, qui sono più ariosi, e molti caseggiati godono di una vista davvero da sogno, che spazia tra il vulcano ed il golfo.
Al tramonto non è difficile scorgere le lontane luci di Sorrento, oltre che quelle delle isole: Ischia ad oriente e Capri proprio di fronte. Si pranza a base di pesce in una delle tante case rosse della zona, si fa merenda con rococò, babà e mustaccioli. Al ritorno, in auto, scorriamo a passo d’uomo nel traffico che si snoda da Ercolano verso Portici, fino a raggiungere di nuovo Piazza Garibaldi. Quest’ultimo tratto, storicamente, coincide col primo tratto di ferrovia del nostro paese. A testimonianza di ciò resta un museo ferroviario a Pietrarsa.
Amiamo la circumvesuviana, questo lento treno sfila tra i palazzi altissimi e giardini e fabbriche e cave abbandonate; ci racconta lungo il tragitto ogni modo di essere e di essere stati degli abitanti di ciò che nel tempo è diventato un vero e proprio hinterland. Dal capolinea di Porta Nolana, in un’ora circa si raggiunge Pompei. Qui, sono possibili due tipi di escursioni: quella a carattere archeologico e quella trekking-geologica. Al mattino è preferibile prendere l’autobus di linea che ferma davanti alla stazione e in una quarantina di minuti raggiungere la sommità del Vesuvio, o meglio il piazzale sottostante, ove è possibile acquistare i biglietti per avere accesso all’ultimo tratto sterrato percorribile solo a piedi. Inutile cercare di capire gli orari precisi del bus, meglio mettersi ad attendere pazienti, e prima di salire a piedi non scordarsi di chiedere all’autista l’orario della discesa. Giunti in cima però, dopo un’escursione fattibile da chiunque, si è ripagati d’ogni cosa. A quota 1100, è possibile curiosare all’interno del cratere da cui si alza costantemente un filo di fumo, visibile soprattutto in inverno. Il panorama è sterminato e abbraccia tutto il golfo, fino alle isole, nei giorni più limpidi. Il giro intorno alla semicirconferenza porta via un’ora circa, e durante la discesa, osservando il profilo del massiccio scomparire tra le fronde di una macchia mediterranea sporcata qua e là da querce e aceri, non si può non pensare all’ultima eruzione del 1944 che distrusse i territori adiacenti ed alzò una colonna di fumo visibile a diverse centinaia di chilometri. I tornanti si dipanano tra case abbandonate o scheletri di abitazioni mai terminate, frutto di una politica votata ad ostacolare per ragioni di sicurezza le costruzioni oltre una certa altitudine. Una volta terminati, ci si trova in prossimità degli scavi di Pompei. Per vedere gli effetti devastanti che l’eruzione del 79 d.c. ha avuto sul centro abitato, è bene passare tra le rovine almeno un paio di ore, anche solo percorrendo le sue vie lastricate di pietra, su cui ancora sono visibili i segni delle ruote dei carri. La passeggiata termina nell’anfiteatro: qui, nel ’71, le sue candide pietre vibrarono al suono dei brani psichedelici dei Pink Floyd. In alcuni spazi è possibile rinvenire collezioni di calchi in gesso, unica testimonianza rimasta degli abitanti che coperti da ceneri e lapilli, rimasero senza scampo; in altri sono stati riportati alla luce, durante decenni di scavi, locali ed infrastrutture dell’antico centro abitato: osterie, templi, edifici amministrativi, necropoli, terme, lupanare, palestre e persino una piscina. In alcune aree sono anche state reimpiantate viti autoctone, ove era presumibile fossero un tempo coltivate. Il paese moderno, da qualche anno passato al rango di città vera e propria, fu costruito solo alla fine dell’800, grazie a Dio non sulle ceneri di quello antico.
Sarebbe interessante capire come sarebbero cambiati, nel corso degli anni, centri turistici come Napoli, se non fossero divenuti importanti mete di pellegrinaggio per l’aristocrazia europea che dall’800 iniziò ad avventurarsi mediante il Gran Tour nell’estremo sud dell’Europa, in cerca delle proprie radici storico-culturali ed involontariamente anche delle proprie.
Rientrando tardi, si ritarda anche l’ora di pranzo. Gli avventori della storica Pizzeria da Michele, un’istituzione più che un ristorante, ad ogni ora fanno la fila per potersi sporcare il mento con le sue celebri pizze margherita e marinara. Narra la leggenda, trascritta all’ingresso, che un tempo le pizze erano solo di due tipi, e solo successivamente la gente ha iniziato ad “inguacchiare” la pasta con ogni genere di ingredienti, persino il pesce. Ma Michele non ci sta, e ribadisce la sua volontà di voler offrire a tutti la vera pizza, quella antica. Nulla da obbiettare, nemmeno quando è il momento di pagare e ci si accorge di aver mangiato probabilmente la miglior pizza del mondo con due soldi.
La sera è piacevole scoprire di avere a due passi da casa, in piazza Nilo, un interessante spazio espositivo, il “Museum shop Nilo” (http://www.museum-shop.it/Luciano-De-Crescenzo-fotografo). Qui, si inaugurano diverse mostre all’anno e in questo periodo espongono il De Crescenzo fotografo, con tanto di proiezione gratuita del film di Bellavista. Un sogno.
Il quarto e il quinto giorno sono dedicati in qualche modo alla parte occidentale della città.
Da piazza Dante, in cui si giunge dal conservatorio facendosi largo tra le bancarelle di libri usati di via Portalba, si può scendere nella nuova metropolitana oppure proseguire verso Montesanto, con la sua umanità assiepata all’entrata della funicolare e i colori variopinti di un commercio in cui la plastica ha preso il sopravvento su vimini e vetro. Il profumo dei negozi di dolciumi, la polvere delle rivendite di fumetti usati, gente ferma a fumare attendendo chissà quale evento, qualche paniere sceso dalle finestre aperte sui vicoli. La domenica, da quelle stesse finestre fuoriesce il profumo del ragù, il lento borbottio di migliaia di pentole in cui la carne mista scioglie il proprio grasso nel sugo di pomodoro. ‘O rraù è un’istituzione a Napoli, come testimonia il film “Sabato, domenica e lunedi” di Lina Wertmuller. Il locale Tandem di via Paladino propone la ricetta, sia associata alla pasta, che da gustare con la mitica scarpetta, concessione di una cucina popolare nata per sfamare rioni popolosi.
Il pomeriggio si torna oltre via Toledo a fare compere al mercato di Pignasecca. La leggenda legata a questa piazza risale al tempo in cui tutto era foresta, e una maledizione lanciata dal vescovo fedifrago ai danni delle gazze impiccione, causò la morte della pineta. Altro non restò che una pigna secca, ove ora brulica uno dei mercati alimentari più importanti della città. Qui è consigliato l’acquisto di limoni della riviera, caciocavallo, caffè, persino essenze per riproporre a casa propria le ricette dei dolci locali – sebbene sia piuttosto inarrivabile il babà di Scaturchio, in via Croce.
Tornando in tardo pomeriggio in zona Montesanto, basta prendere la funicolare per salire al Vomero, il quartiere “bene” della città, da cui si può godere di un bel panorama dai 250 metri d’altezza della Certosa di San Martino.
Ultimo giorno, gita a Pozzuoli. Sulle sue alture, ben oltre il bollore dei campi Flegrei, vi è un’azienda biologica che fa dell’olio di gomito il proprio valore aggiunto. L’azienda agricola si chiama Contrada Salandra, produce solo due tipi di vino, Piedirosso e Falanghina, ma di una qualità sopraffina. Dopo averli conosciuti al Vinitaly, non possiamo esimerci dal fare un salto al punto vendita Dolci Qualità a due passi dall’anfiteatro Flavio per acquistare qualche bottiglia. Rapido giro alla ex-Olivetti, ma dato che è praticamente impossibile visitarne gli interni sconsigliamo altamente la gita; meglio dedicarsi alla Solfatara. Poi si finisce un po’ per caso a pranzare in uno dei migliori ristoranti di pesce della zona, la Frasca. Qualità altissima e prezzo contenuto, dato che tutto il miglior pesce della città arriva da qui.
Dimenticato qualcosa, prima di lasciare la città? Mai scordarsi di fare un salto al Duomo di San Gennaro, ove tre volte l’anno – il sabato precedente la prima domenica di maggio, il 19 settembre ed il 16 dicembre – sin dalla fine del 1300 avviene la liquefazione del sangue del Santo. Solo in pochi casi, narra la leggenda, le polveri non si sarebbero disciolte all’interno dell’ampolla. In realtà il Cicap avrebbe molto da ridire a tal riguardo, ma per una volta non diamo adito alle ragioni della mente ma a quelle del cuore, che è poi la miglior predisposizione per vivere fino in fondo le mille e mille sfaccettature di questa magnifica città. Più che una città, un “componente dell’animo umano che so di poter trovare in tutte le persone, siano esse napoletane o no.”