Un viaggio del cuore

STORIE DI PATAGONIA E DINTORNI: "la tierra que se funde entre viento y soledad" Autunno. E' l'alba quando arrivo all'aeroporto. Ho un volo che mi aspetta con un carico di sogni e fantasie che faccio quasi fatica a sostenere. Uno in particolare: quel grande borsone blu con la mia mountain-bike, lucida come quando l'ho comprata un anno fa, in forma...
Scritto da: Antonio Marchioni
un viaggio del cuore
Partenza il: 01/11/1996
Ritorno il: 02/12/1996
Viaggiatori: da solo
Spesa: 3500 €
STORIE DI PATAGONIA E DINTORNI: “la tierra que se funde entre viento y soledad” Autunno. E’ l’alba quando arrivo all’aeroporto. Ho un volo che mi aspetta con un carico di sogni e fantasie che faccio quasi fatica a sostenere. Uno in particolare: quel grande borsone blu con la mia mountain-bike, lucida come quando l’ho comprata un anno fa, in forma come le mie gambe, che ho allenato tutta l’estate solo per questo momento. Ed ora è arrivato. Un volo che mi porterà a Madrid, e poi giù, fino a Santiago del Cile. Quel Cile “de los Indios”, di Sepùlveda e Neruda. Conosco già quella terra, conosco già quel mondo; anche io ho potuto innamorarmi della sua Patagonia, sempre così lontana da raggiungere, così vicina da sognare. Parto lasciando a terra la mia ragazza, ma in fondo so che la porterò con me durante tutto il viaggio. E via, la giornata passa in mezzo alle nuvole, per i miei occhi e per la mia mente. Arrivo a Santiago all’una di notte, con la stanchezza che quasi non mi sfiora, tanta la voglia della terra dei miei sogni, di quella gente che ormai sento quasi mia; e non vedo l’ora di poterla riabbracciare. Ed ecco Jorge e Carlos lì ad aspettarmi, con quella cordialità sincera che solo qui riesco a sentire. E’ tardi quando arriviamo a casa di Jorge, dopo aver passato la notte in compagnia al Mandibula in S.Ta Lucia, uno di quei luoghi dove quando sei straniero la gente te lo dice con gli occhi, scrutando ogni tua mossa. Si, sono straniero; sono Italiano. Domenica. Era più tiepida l’aria ieri sera, ma oggi vedo il cielo di Santiago, il profumo diverso e familiare allo stesso tempo. Oggi è una bella giornata. Oggi c’è il sole. Oggi telefono a Maia; vorrei dirle che mi sento forte di me stesso, del suo amore. Il mio programma sta cominciando a girare: due settimane in Patagonia in compagnia della bicicletta, dieci giorni in Terra del Fuoco in compagnia della canna da pesca. Tutto calcolato. Alle due ho il volo per Balmaceda e adesso tocca a me. Patagonia, finalmente! Arrivo a destinazione nel pomeriggio dove dovrebbe cominciare la mia lunga pedalata itinerante attraverso la Cordigliera. Questo non è proprio un bel posto per iniziare “l’avventura”: ha tutto il sapore di un luogo abbandonato e polveroso della pampa, battuto dal vento come nei vecchi film western. Seguo il consiglio di Jorge e prendo l’unico pullman che già sta partendo alla volta di Coihaique, che la mappa mi dice essere un po’ più interessante; e così è. Arrivo verso le sette di sera in una cittadina di 12 mila anime, trovo alloggio in una modesta pensioncina – qui tutto mi da la sensazione di modesto – e faccio subito amicizia con il proprietario, che mi consiglia su dove andare a mangiare. In Cile tutti i nomi sono azzeccati: le pensioni loro le chiamano “casa familiar”, ed in effetti sembra sempre di entrare in una famiglia più che in un alloggio per turisti. Amo profondamente questa sensazione, il contatto così vicino e spontaneo con la gente che mi circonda. Più tardi esco a mangiare e torno presto a dormire. Mi addormento con la giornata che mi suda ancora fra le mani. Lunedì mattina, compito numero uno: montare la bicicletta. Oggi le nuvole sono basse, la pioggia regolare, come a dire che non ha nessuna intenzione di lasciarti. Potrei anche aspettare e vedere come si mette, ma la giornata non cambia, così decido di farmi un giro fino ad Aisen: ho letto qualcosa su questo piccolo paese; perfino Darwin aveva scritto intorno a questi posti. Torno nel pomeriggio a Coihaique cercando un posto telefonico. Devo chiamare Carlos, dirgli che va tutto bene. Devo chiamare Maia. Ne ho bisogno. La mia serata passa attraverso le vie di questo piccolo paese, cercando un posto dove infilarmi per bere una birra in compagnia. Mi ritrovo sul tardi a chiacchierare con due bolognesi che incontro al “Casinò de los Bomberos”, che a dispetto del nome non è altro che un ristorante bar di proprietà dei vigili del fuoco del posto, che così finanziano la loro attività. Martedì. Oggi il tempo è migliore, mi alzo di prima mattina con tutte le buone intenzioni addosso. Decido che è ora di partire, preparo le borse, un po’ di biscotti e succo d’arancia. Verso le nove parto in direzione sud. E’ una classica giornata da dopo diluvio universale, con il cielo terso, pulito come lo è un cielo azzurro della Patagonia e l’aria è fresca; la brezza, se così si può definire, mi sfiora i capelli con la delicatezza della Bora di Trieste. La Patagonia è anche questo. Percorro quelli che saranno gli unici km d’asfalto del mio viaggio, sulla strada che ho fatto l’altro ieri con il pullman. Prendo in direzione sud-ovest la Panamericana, passando a destra della grande vallata di Balmaceda e capisco perché esiste quel luogo; guardando da lontano si intuisce che quello è l’unico posto dove infilarci un aeroporto. La valle è un po’ più larga, ed il vento un po’ più forte. Guardando oltre vedo la terra argentina immaginando quella linea di confine, che sembra non avere logica, in quella continuità geografica che scende dalle vette innevate della cordigliera cilena fino alla pampa arida e stepposa delle pianure argentine. La giornata passa in fretta pedalando; arrivo nel tardo pomeriggio a Cerro Castillo, cerco alloggio e un posto per mangiare. Forse oggi per la prima volta comincio a sentirmi un po’ meno turista, un po’ più viaggiatore. Comincio a stare un po’ più con me stesso e la cosa mi coinvolge molto. Questo è quello che cercavo. Le giornate successive le passo pedalando solitario attraverso la Panamericana. Parlo spesso a voce alta, quasi a volerla imporre su quella del vento. Sono io che vorrei parlare, che vorrei ascoltarmi. Mi rendo conto che non dimenticherò. Sono giorni che volano in un momento e nello stesso tempo sembrano durare il doppio, tante le sensazioni che sto mettendo via nel cuore. Vorrei conservare tutto. Ogni attimo, ogni pedalata, ogni parola, ogni lamento del vento, ogni riflesso del sole, ogni persona che incontro. Vorrei conservare tutto. Fare colazione dentro un cucinino il cui soffitto non va oltre il metro e ottanta e sentire come certi ambienti odorino i loro anni di vecchiaia. Conoscere il sapore della polvere, che mi disegna le rughe delle mani e della faccia stanca. Mangiare senza sapere nemmeno cosa sia, ma è così buono… Sentire la tua gente più vicina, quando sai di non poterla vedere o toccare. Vedere le persone oltre i tuoi occhi, vederla con il cuore: e ti sembra migliore. Qui sembra che ogni cosa per arrivare al cervello passi sempre per il cuore. Mi sento ogni giorno più stanco, ogni giorno più grande. La sera, quando arrivo a destinazione, ho sempre molta fame, ho sempre voglia di dormire. Avrei voglia di dividere i miei giorni con Maia, e guardare il suo cuore che cresce come sta facendo il mio. Sarà quel lago che mi sta facendo compagnia dal primo giorno, ma mi porto sempre addosso una sensazione di gradevole tranquillità. I giorni passano. E’ domenica, e dopo aver percorso in buona solitudine tutta la sponda occidentale e meridionale del Lago General Carrera, il secondo più grande di tutta l’America latina, mi ritrovo finalmente a Chile Chico. Gli ultimi due giorni non ho incontrato quasi nessuno. Ho sofferto un po’ il caldo, un po’ la fame, perché non ho trovato molti posti per mangiare. Mi fermerò un paio di giorni a riposare; il sole allunga gradevolmente le giornate in questo luogo. Martedì mi avvio sulla strada del ritorno, prima con il traghetto, fino a Ibañez, e poi in bici, direzione Coihaique. Ci arrivo mercoledì. Non ho iltempo nemmeno di riflettere perché giovedì sto già volando sopra il “Campo de Hielo”, alla volta di Punta Arenas, la città continentale più a sud del mondo. Sto arrivando nella terra di Hernandez de Magallanes, con qualche secolo di ritardo su di lui. Sto arrivando nel mondo alla fine del mondo. All’aeroporto c’è Alejandro che mi aspetta. E’ un abbraccio intenso, fra di noi. E’ contento di vedermi, lo leggo nei suoi occhi. Anch’io lo sono. Ci aspetta la Terra del Fuoco. Ancora una volta insieme, ancora una volta “en la tierra que se funde entre viento y soledad”. La sera festeggiamo tutti insieme il mio arrivo, con la sua numerosa famiglia. Conosco Pablo, che verrà con noi domani. Più tardi torno in hotel a piedi, sento il rumore dello Stretto di Magellano, l’odore dell’isola che ci aspetta domattina, al di là di quelle acque; Karukinkà, come la chiamavano gli Indios della regione, quando ancora potevano parlare. Quando ancora potevano vivere. Mi addormento sognando, quella notte. Venerdì mattina arrivano a prendermi all’hotel, dove ho appena consumato una colazione da primato: la giornata sarà lunga, e non ci sederemo attorno a un tavolo prima di sera. Dopo rigorosi preparativi – staremo in Terra del Fuoco per diversi giorni – partiamo con una jeep dall’aspetto più vicino ai cartoni animati che alla realtà. Ci impieghiamo tutto il giorno, ma alla fine arriviamo a destinazione. Mi sento la polvere dappertutto, mi sento crudo ed aspro come questa terra. Mi sento alla fine del mondo. Una sensazione forte, che riscopro tutte le volte che ritorno qui. Siamo a Vicuña verso le otto, dove “Gargamel” ci sta aspettando già con il fuoco acceso nella stufa; il rifugio è già caldo. Dedichiamo la serata all’organizzazione dei giorni che ci aspettano, mentre io continuo ad inseguire con lo sguardo gli uccelli, le nuvole, il sole ormai arancione, che riempiono il cielo limpido della Terra del Fuoco. Le due bottiglie di whisky che abbiamo portato se ne vanno già la prima sera. L’indomani, di primissima mattina, ci prepariamo per passare tre giorni al Lago Deseado: il tempo promette bene, i cavalli sono già pronti e l’ultimo, come al solito, sono io. Partiamo tutti quattro: Alejandro, Pablo, Gargamel ed io. I tre giorni successivi li passiamo pescando lungo il Lago, facendo campo qua e là, di giorno in compagnia di qualche condor incuriosito, la sera ascoltando i lunghi lamenti delle volpi, che di tanto in tanto arrivano a rubarci qualche trota sotto il naso. Poco male, ce ne sono tante, qui. Il Deseado credo sia uno dei laghi più belli che abbia visto qui in Terra del Fuoco, silenzioso e tranquillo si nasconde in mezzo alla cordigliera di Darwin rubando tutto il suo colore dalle cime che lo circondano. Vorremmo proseguire fino al Fagnano, il lago più grande della Terra del Fuoco, ma la neve ancora abbondante ce lo sconsiglia. Ai cavalli sembra non piaccia molto la neve. Martedì, nel pomeriggio, siamo di ritorno a Vicuña. Abbiamo molto da fare, perché domani saremo al Lago Blanco. Mi sento un perfetto uomo di casa: mi lavo un po’ di vestiti, dò una mano a Pablo, che sta affumicando alcune trote, preparo il necessario per i quattro giorni che ci aspettano al Blanco. C’è molta sintonia fra di noi; conosco Pablo da pochi giorni e mi sembra un amico di sempre. La loro compagnia è piacevole, il tempo si consuma in fretta. Mi piace quando scopro di non avere più nessuna difficoltà a parlare con loro, a comprenderli, a capire le loro barzellette. Sempre sugli argentini; chissà perché tutto il mondo è paese, con i vicini di “casa”. Ed il tempo sta passando… Nei giorni successivi tornammo in luoghi che avevo già visto gli anni passati, visitammo laghi, fiumi e valli già conosciute. Non è vero che un posto già visto non ti da più le stesse sensazioni: mi resi conto una volta in più quanto questa gente vivesse la vita passo dopo passo, senza mai correre più veloce del suo tempo. Sentii la pigrizia andar via, il coraggio di parlare per quello che sentivo, la diversa misura delle parole, la vicinanza sempre più intima fra il mio cuore ed il mio cervello. In quei giorni pensai molto; seduto sulla riva di un lago, abbagliato dai riflessi del sole, in sella ad un cavallo che sudava la fatica di una giornata di marcia, in mezzo al fumo che regalava al vento i profumi dei nostri pasti quotidiani. In quei giorni pensai molto, attimi lunghi dedicati alla mia gente che stava dall’altra parte del mondo, e sempre più lunghi per Maia. Ero circondato da una vita piena di ricchezza; dentro e fuori. Finalmente tiravo il fiato con me stesso. Pensai lungamente ai miei Genitori, li pensai orgogliosi di ciò che potevo sentire per loro. Non dimenticherò. E’ lunedì, sono tornato a Santiago, ma per molto tempo sarò ancora in Patagonia. All’aeroporto ancora Jorge, Carlos, Cristian, Maria, Lory e Francisco: come si dice una bella accoglienza. Tutti curiosi, tutti che pendono dalle mie labbra, assetati di mille domande. Quella sera organizzo una cena per tutti, andiamo al San Fruttuoso, uno dei migliori ristoranti italiani della città. Ho voglia di pasta, sono settimane che non mangio un buon piatto di maccheroni. E passiamo una serata splendida. Al momento di lasciarci, mi accorgo di quanto sia profondo il legame di amicizia che ci unisce. So che ci vedremo ancora. Il mio viaggio ormai è finito, ma oltre alla mia bici, alla mia canna da pesca, tornerò a casa con un bagaglio in più. Un bagaglio troppo stretto per stare in mezzo a queste poche righe. Un bagaglio di vita preziosa. Vorrei dedicare questa esperienza a tutte le persone a cui ho pensato il tempo che ho passato in Cile, in particolare alla gente che mi ha dato una mano per regalarmi tutto questo, alla mia Famiglia, ai Miei Genitori, a Maia. Aspettami, Patagonia !


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