Un tram chiamato desiderio
19 e 12 dicembre – LA PARTENZA Come ormai da tradizione, si parte con la prospettiva di un viaggio niente affatto semplice. E le aspettative non vengono deluse! Partiamo dalla stazione di Rimini verso le dieci di sera ora in cui, secondo mio babbo, la gente normale va a dormire. Per tutto il viaggio, un uomo con la faccia da psicopatico, è molto attento alle nostre conversazioni e a Bologna, una volta scese dal treno, ci cerca con lo sguardo e ci sorride. Ci fiondiamo nella sala d’attesa, il luogo più caldo e sicuro dove stare sino alla partenza della coincidenza per Roma.
Sembra di essere al casting delle comparse di un film di Fellini per quanto bizzarri e stralunati sono i personaggi che la popolano. Seduta sotto una finestra c’è una ragazza, né grassa né magra, con i capelli raccolti in una lunga treccia. Ogni tanto si alza e si lamenta piegandosi e portandosi le mani sulla pancia. Dice di stare male. La scena si ripete all’infinito, si alza, si piega, si lamenta, fino a quando un uomo, completamente pelato, stretto nel suo cappotto nero, in compagnia di una donna che pare un travestito, chiama dal cellulare l’ambulanza. Come in una scena di E.R., poco dopo arrivano quattro infermieri del pronto soccorso, guardano la ragazza come se fosse una conoscenza già nota, e se la portano via. Attorno a me un gruppetto di zingare, di fronte un barbone. Intanto l’altoparlante annuncia che il nostro treno è in ritardo, come del resto lo sono tutti gli altri treni. Con comodo arriva. E’ pieno di gente, com’è tanta la gente che pari a noi è sul binario in attesa di salire. Non so come, ma riusciamo a trovare due seggiolini lungo il corridoio in mezzo ad un milione di persone. Sembra di essere su un carro animali e tra gente e valigie c’è il carrettino dei panini e delle bevande che cerca di farsi spazio.
Nel cuore della notte tra due viaggiatori scoppia un alterco, uno dei due tira fuori un coltello a serramanico l’altro una sorta di manganello molto flessibile. Lo vedo bene visto che lo sta agitando sotto il mio naso. Ho paura, mi guardo attorno e mi rendo conto che siamo le uniche due donne in mezzo a facce da galera.
Senza dormire (e chi avrebbe potuto farlo!) arriviamo all’alba a Roma Tiburtina. Da lì a poco parte la navetta per l’aeroporto, già pronta sul binario. C’è spazio. Crollo dal sonno e mi riposo un po’ mentre un gruppetto di ragazzi e ragazze spagnoli brindano con spumante, cioccolata e panettone. Il nostro aereo parte alle 8.00 per Madrid, poi Miami, poi San Josè. A Miami, nonostante la nostra sia una sola sosta di transito, il controllo è molto severo. Per un motivo o per l’altro nessuno ha compilato correttamente la carta d’immigrazione consegnataci sull’aereo e l’impiegato, forte della sua posizione di potere, rimanda tutti in fondo alla coda. Per fortuna, altro personale aeroportuale, mosso a compassione, ci viene in aiuto e alla fine tutti abbiamo un compito da dieci e lode e possiamo raggiungere l’imbuto del controllo del bagaglio a mano. Qui mi fanno togliere gli anfibi, ma nessuno si accorge dello spray anti-aggressioni! Tanto è il tempo che il controllo ci porta via che a Miami non riusciamo neanche a fare una sosta idraulica. Il volo per San Josè è tranquillo. A bordo solo personale maschile. L’atterraggio ci fa invece un po’ sospirare. Probabilmente c’è traffico in pista e quindi il pilota inizia a sorvolare la città facendoci ballare non poco. Finalmente tocchiamo terra.
L’aeroporto di San Josè ci si presenta come una struttura nuova e ben fatta e ci offre l’immagine di una città moderna ed efficiente. I nostri bagagli sono già pronti sul rullo.
Prima della porta d’uscita, sulla destra, vedo un piccolo banco con scritto Information. Chiedo alla ragazza che sbuca con la testa dal bancone se per cortesia può chiamare il nostro B&B e verificare la prenotazione fatta dall’Italia. Tutto a posto, ci stanno aspettando! Usciamo. Miranda è in astinenza da fumo e poi, pensando che in aeroporto il cambio sia più favorevole, acquistiamo dei colones, la moneta della Costa Rica.
Sappiamo che il taxi ci deve costare massimo dodici dollari perché queste sono le indicazioni forniteci dal B&B e, nonostante le prime proteste, il taxista accetta di portarci in città alle nostre condizioni. Il tragitto dall’aeroporto Juan Santa Maria al centro città è breve, circa una mezz’ora. La città è illuminata con le luci del Natale e non c’è traffico. Dopo una svolta sbagliata, il taxista ci dice “ecco, siamo arrivati” indicando con la mano un edificio fatiscente di colore fucsia. Bene, siamo arrivate al B&B “La Cuesta” che deve avere un gran bravo fotografo visto che su Internet l’edificio e le camere sembravano così accoglienti. Ma, tanto per fare qualche citazione, domani è un altro giorno e alla luce del sole tutto sarà più bello. 21 dicembre Ci sveglia un tiepido sole mattutino che timidamente filtra dalla tenda della finestra ovviamente senza tapparella. Il clima è più primaverile che estivo ed io, notoriamente freddolosa, tiro fuori dalla valigia il maglione. Il B&B è sull’Avenida 1 e, dritto per dritto, arriviamo al Mercado Central, forse l’attrattiva principale di San Josè. E’ un immenso mercato coperto che offre di tutto e di più, in una moltitudine di odori e colori: frutta secca e scarpe, amache e caffè, vestiti, caciotte di formaggio preparate sul momento da mani esperte di vecchine che non amano farsi fotografare. All’interno del mercato ci sono anche tantissime soda, la versione costaricana del fast food, punti di ristoro che per pochi colones ti offrono il piatto nazionale: il casado, riso e fagioli neri, con l’aggiunta o di pesce, o pollo o altra carne. Le soda sono fatte a mo’ di stand rettangolari, un bancone ne delimita il perimetro, tutto attorno i commensali su sgabelli e al centro cinque o sei persone a servire il casado la cui preparazione non necessita di maestria culinaria. Nel nostro perderci in questo mondo colorato e animato, ci rapisce il profumo di caffè che proviene dallo uno stand di un giovane costaricano che lo vende a etti e che, per qualche colones in più, lo confeziona in un pacco regalo. Impariamo che esistono due qualità di caffè, quella forte e quella normale e, per soddisfare la nostra curiosità, Pedro ci prepara due tazzone di caffè. C’è però qualcosa che non va’. No, non nel caffè, ma in me. Avverto una sensazione di nausea, la vista è meno nitida e l’udito non riconosce i rumori. Senza dare alcun comando al mio cervello, le gambe mi si piegano e scivolo verso il basso con la schiena appoggiata alla parete rimanendo accovacciata su me stessa. In basso si sta molto meglio. Faccio passare qualche minuto e provo a rialzarmi. La Miri ultima l’acquisto del caffè mentre io raggiungo lo sgabello di una soda e mi ci siedo. Dì lì a poco la sensazione di perdita dei sensi diviene molto più forte. Ho freddo e nello stesso tempo sono in un mare di sudore, non sento, non vedo … “sono fuori dal tunnel-el-el-el-el del divertimento”. Mentalmente continuo a ripetermi “voglio stare bene, voglio stare bene”, mentre qualcuno mi allontana i capelli dal viso e qualcun altro mi sente il polso. Poi, all’improvviso capto le parole “la portiamo all’ospedale”. “All’ospedale?!?”, in men che non si dica, divento un leone “no, all’ospedale no”. Per circa dieci minuti non ho proferito parola, passando dal beige al bianco lenzuolo ed è bastata la semplice minaccia dell’ospedale per farmi riprendere. Da lì in poi ho rischiato una crisi diabetica per tutti gli zuccheri ingurgitati nel corso della giornata. San Josè non offre molto a parte il Palazzo delle Poste della fine dell’800 ed il Teatro. La città è facile da visitare. Così come a New York, ci sono lunghe strade parallele, tagliate da strade laterali.
L’Avenida Central è isola pedonale e nonostante sia l’ora di pranzo e piova, è un fermento di persone che vengono e vanno. Ci fermiamo a mangiare qualcosa in un asettico locale di una catena di cui non ricordo il nome e la Miri mi costringe a mangiare un ovetto. Visto che continua a piovere, facciamo sosta in un Internet Caffè. Mi collego ma la mia mail a Ciccio torna indietro mentre, noncurante, un topino zampetta tranquillamente per il locale. Sulla strada del ritorno ci fermiamo alla Casona, un edificio su due piani stracolmo di souvenir. Ci sono tanti oggetti carini ma stranamente non acquistiamo niente. Siamo solo all’inizio del viaggio ed appesantire il bagaglio da subito non ci sembra una grande idea.
Alla sera rientriamo nel nostro lussuosissimo B&B e dividiamo la frutta acquistata al mercato con quella di una ragazza canadese che è appena stata a Manuel Antonio, sulla costa pacifica. Ci dice che è un posto splendido e ci consiglia caldamente di vederlo. Era già nei nostri programmi e le sue parole ci confermano di avere fatto la scelta giusta. 22 dicembre E’ il 22 dicembre, forse. Il cellulare non funziona e sapere che giorno è non è semplice. Siamo alla stazione dei bus “Cola-Cola” in attesa che parta il nostro autobus per Manuel Antonio. E’ da molto che siamo qui. Ci avevano detto che l’autobus sarebbe partito alle 10,00, la guida della Lonely lo dava alle 9,30 ed invece parte alle 12,30. In ogni caso è dalle 8,30 che siamo alla stazione e, visto che siamo luggage munite, a turno ci diamo il cambio alla guardia.
Sono circondata da gruppi di mamme con bambini di tutte le età. Sono bambini bellissimi come lo sono i bambini di tutto il mondo. Hanno la carnagione leggermente ambrata, occhi scuri e profondi, capelli neri, lunghissimi e sottilissimi. Una giovane mamma sta facendo le trecce alla figlioletta di sei, sette anni. Guardo la bambina, le sorrido e lei mi risponde con un altro sorriso. Di fronte a me un’altra giovane mamma si sta facendo fare la treccia da un’altra giovane donna … Finalmente sono riuscita a parlare con Ciccio. Mi risponde “Pronto” con quella sua voce sensuale che mi emoziona sempre molto … “Tutto bene”… Di regola detesto aspettare, ma ho la sensazione che queste ore passate alla stazione Coca-Cola siano tutt’altro che una perdita di tempo. E’ un pieno di umanità, di spontaneità, il primo approccio con un mondo diverso dal mio. Mi diverto ad osservare la gente. C’è la vecchia con collant e scarpe da tennis che vende cioccolata, giochi elettronici ed agende, il predicatore itinerante che legge la parola di Dio, turisti con i loro zaini. Di tanto in tanto passa qualche “vespone” della Piaggio che vende biglietti per chissà quale lotteria. All’angolo l’Hotel Valeria che reclamizza “very clean room”… Come se fosse chissà quale rarità. E’ l’attesa, uno dei tanti momenti di attesa che caratterizzano la nostra vita. Alcuni bambini affondano le dita delle loro manine nella pasta morbida di una fettona di torta, nell’altra mano il brick con il succo di frutta… La maggior parte delle ragazze indossa jeans a vita bassissima e maglietta attillata che lascia scoperto l’ombelico. E non importa se c’è un po’ di pancia ed il fisico non è proprio da modella.
In questo palcoscenico dove tutti si è attori e spettatori, tiro fuori dallo zaino la lima per le unghie … E magari qualcun altro starà scrivendo: c’è la vecchina che vende cioccolata, un gruppetto di bambini ed una turista che, noncurante delle apparenze, si sta facendo il manicure! (il pedicure, sarebbe stato peggio!) La strada che da San Josè porta a Manuel Antonio è paesaggisticamente molto bella anche se piena di curve visto che attraversa la Cordigliera Centrale. Sono 186 chilometri che il directo percorre in quasi quatto ore alla modica cifra di quattro dollari.
Arriviamo a Manuel Antonio nel primo pomeriggio ed è imperativo trovare da dormire. Ci organizziamo. Miri va a cercare l’albergo ed io, secondo lei ancora debole, rimango a fare compagnia alle valigie. Nell’attesa mi si avvicina un ragazzo che mi porge una piccola noce di cocco alla cui sommità è infilata una cannuccia. “E’una pepa – mi dice – bevi, il suo latte è molto buono”. Nel frattempo sento urlare “Patti, Patti”. E’ la Miri che, seduta su un pick-up, non solo ha trovato da dormire ma anche l’autista. “Cabinas Ramirez”… Un posto davvero senza pretese dove poter dormire, del resto una doppia con bagno ci costa solo dieci dollari a testa.
La camera da sul versante della strada, ma è solo per una notte visto che domani è riservata ad altri ospiti. Singolarissima è la doccia, una sorta di cipollotto di plastica dove un groviglio di fili elettrici, azionati da una leva, per magia trasformano l’acqua fredda in calda.
Sarà solo un caso, ma più la guardo e più la leva da azionare mi ricorda quella delle sedie elettriche dei film americani. Questa roulette russa che gioca con corrente elettrica ed acqua, non mi convince affatto e quindi, dando un calcio alla modernità, lascio scorrere sulla mia pelle la rassicurante, raggelante, rassodante acqua freddaaaaaaaaaaaaa!!!! 23 dicembre Questa parte della Costa Rica oltre ad essere meta ambita di tatuati surfisti americani è soprattutto regno della foresta pluviale. E si sa, dove ci sono tante piante ci sono tanti animali, piccoli o grandi che siano, pronti a rivendicare il loro diritto di territorialità. Tra l’altro la Costa Rica è il paese al mondo con la più ricca varietà animale (più dell’Africa, fanno numero anche gli insetti) grazie alla sua diversità di habitat naturali. Cabinas Raminez ed il ristorante sottostante Mar y Sombra non si sottraggono certo a questo primato pronto a fare mostra di se quando meno te lo aspetti.
Stiamo gustando la nostra colazione ricca di frutta fresca, immerse in una splendida natura, quando, improvvisamente, udiamo, proprio sopra le nostre teste, uno sfruscio accompagnato dalla caduta di foglie. Tutti gli occhi sono puntati verso di noi. Tranquilli, niente di allarmante. E’ solo la mascotte del locale, un’iguana con piccolo a seguito, nella sua passeggiata quotidiana. La giornata passa oziosamente al mare in una sorta di inattività totale, sfidando la sorte sorseggiando batida, il drink nazionale, preparato con la polpa di qualsiasi frutto (cocco, ananas, papaia, cocomero) un po’ di latte o acqua ed il proibito ghiaccio. Si passa tutto nel frullatore e lo si versa in un bicchiere alto.
Nel tardo pomeriggio, decidiamo di prendere l’autobus ed andare alla vicina Quepos, cittadina portuale, divisa da Manuel Antonio da una collina. Ed eccolo arrivare, alla guida del suo grande e grosso autobus ostentato quale simbolo di mascolinità e di virilità, oggetto di forza e di potere. E’ lui, il re di tutti i conducenti, in jeans e maglietta rigorosamente nera, rigorosamente attillata ed inevitabilmente soccombiamo al suo fascino. Ci sgrida non appena mettiamo piede sul suo autobus. Pensiamo forse di confonderlo con quella manciata di monete? La corsa vale 100 colones a testa e qui mancano 10 colones! Scusi, scusi, non succederà mai più! La strada che da Manuel Antonio porta a Quepos è una ripida salita seguita da una ripida discesa ed è ricca di locali di un tenore decisamente più elevato delle Cabinas Ramirez. Tra tutti, El Parador che annovera tra la sua clientela presidenti e leader politici di dozzine di paesi e vanta una collezione d’arte europea degna d’un museo. A Quepos troviamo alcuni negozi di souvenir, con oggetti di bell’artigianato anche se dai prezzi un po’ cari, ed il mercatino serale sul lungo porto dove acquistiamo, da una famiglia Amish, alcuni dolcetti fatti in casa al cioccolato e all’ananas, veramente ottimi.
Ci dirigiamo alla stazione dell’autobus ed eccolo di nuovo, il re dei conducenti che come un divo si fa attendere noncurante della fila di persone davanti alla porta del suo autobus. Ma chi è il capo? Dimenticavo. Abbiamo cambiato camera e anche questa riserva delle sorprese. La doccia arrostisci -cristiani ha lasciato il posto ad un tubo da cui esce un unico getto d’acqua fredda azionata da un rubinetto a vite posto a quasi due metri d’altezza. Nel bagno non c’è lo specchio ma, in compenso, c’è la porta, mancante nella camera precedente. E poi, o perché avevano finito il cartongesso o semplicemente per problemi di aerazione, le pareti del bagno non arrivano al soffitto ed, in barba alle leggi sulla privacy, sono poco più alte di una persona. Ciliegina sulla torta, la copertura è un ondulato in eternit che, per quanto ne so, è cancerogeno! Paghiamo la camera sera per sera ed è impossibile sgarrare visto che il ragazzo con la visiera ce lo ricorda con biglietti appiccicati alla porta oppure con l’inequivocabile gesto di strofinare l’indice con il pollice ogni volta che ci si para davanti. 24 dicembre Altra giornata di ozio in spiaggia sorseggiando batida visto che quelle di ieri non hanno sortito effetti del tipo devo-correre-urgentemente-in-bagno.
Salta la luce in tutto il paese per parecchio tempo. La minuscola ragazza dell’Internet Point si scusa, ma non è certo colpa sua se non sono riuscita a dare l’invio alla mia mail. A tentoni, per una strada che non conosco, con la paura di essere aggredita da un animale o da un umano, mi dirigo verso “casa”. Gocciola pure! 25 dicembre Terremoto. Una prima violentissima scossa (che poi apprendiamo essere stata del sesto grado) ci sbalza dal letto e le nostre facce addormentate, di colpo sveglissime, si trovano l’una di fronte l’altra. Un attimo di calma ed una seconda scossa di minore intensità. Confidiamo nella elasticità della struttura e ci rimettiamo a dormire.
Oggi è in programma la visita al Parco Nazionale Manuel Antonio. L’ingresso al parco, situato in fondo all’unica via del paese, al di là di un percorso d’acqua, costa sette dollari e li vale tutti. Attraverso sentieri più o meno scomodi raggiungiamo spiagge incantevoli con scenari da cartolina.
Il parco è ricco di animali, ma spesso è difficile avvistarli, un po’ per la lussureggiante vegetazione un po’ perché stanno alla larga dai sentieri più battuti. Così, a parte, qualche lontanissimo bradipo, qualche scimmia cappuccino, farfalle ed una colonna di formiche tagliafoglie, gli avvistamenti faunistici non ci emozionano più di tanto. Prese da un impellente bisogno di una sosta idraulica, imbocchiamo un cancello di uscita dal parco senza possibilità di ritorno. Poco male, sta tuonando ed iniziando a piovere. Piove a rotta di collo per tutto il pomeriggio ed è uno spettacolo anche vedere piovere, ma quando è troppo è troppo! Il guardiano dell’albergo, un uomo sulla cinquantina che con un soffio cade a terra, ci spiega che il “movimiento de tierra” (tradotto, per i non udenti, con un gesto delle mani da sinistra verso destra e ritorno) ha “cambiado el tiempo” (sempre per i non udenti, semicerchio con la sola mano destra da sinistra verso destra). Pioggia o non pioggia, si va a cena a Quepos, i quattro muri della nostra stanza e la tettoia antistante la porta d’ingresso ci hanno proprio stancato.
Ed eccolo, ancora lui, più mucho che mai, il nostro autista preferito, che ci accompagna in città.
Ma è Natale anche a Quepos e tutti i negozi, ieri aperti, oggi hanno il cartello cerrado, così come parecchie soda. Gira che ti rigira, finiamo nel ristorante della Best Western che, ai principi religiosi, antepone quelli del profitto.
Nonostante la proprietà americana, il menù parte e chiude con l’onnipresente casado con pescado, con pollo, con carne anche se … Una novità c’è: il guacamole. Ignare di cosa sia il guacamole, chiediamo spiegazioni al cameriere. Con faccia e tono meravigliato, ci gira la domanda: “No tienen, en Italia, guacamole?”, “Really, no tienen” e da lì si prodiga in una descrizione interminabile con tanto di corsa in cucina per mostrarci, dal vivo, questo vegetale che assomiglia tanto ad un mango. Ci convince, vada per il piatto con il guacamole. “No!”. “Come, no?”. “Terminado, mañana guacamole”. Vodafone, Vodafanculo! 26 dicembre Il tempo è bello anche se il cielo non è limpidissimo. Lascio alla reception la chiave della stanza e mi danno la notizia che per questa notte l’albergo è pieno quindi ce ne dobbiamo andare. Tira e molla, è solo una questione di prezzo. Da oggi parte l’alta stagione e la camera passa da dieci a dodici dollari a persona. Rimaniamo, ma per la terza volta dobbiamo cambiare stanza.
27 dicembre Alle cinque suona la sveglia. Il pulmino della Gray Line è puntuale e per fortuna, visto che dalla foresta che fiancheggia la strada, giungono versi che paiono ruggiti di leone. Tra uno starnuto e l’altro, siamo dirette a nord, a Playa Tamarindo, nella Penisola di Nicoya, sempre sul versante Pacifico, più secco in questa stagione di quello Atlantico. Miri è out per il raffreddore.
Il pulmino Gray Line è privato e ci costa venticinque dollari a persona. E’ comunque una valida alternativa agli autobus pubblici. Playa Tamarindo dista da Manuel Antonio circa 300 chilometri che percorriamo impiegando circa sei ore e mezza, complici le numerose soste raccatta turisti.
Contrariante a quanto mi aspettavo, non ci dirigiamo a Puntanares, ma imbocchiamo la Strada 1 e poi la 18 con direzione Liberia e, poco prima del bivio per Santa Cruz, veniamo trasbordate su un autobus.
Si attraversa un paesaggio stupendo dove la foresta tropicale lascia il posto ad alberi molto grandi (forse acacie) distanziati l’uno dall’altro in quanto la zona è adibita a pascolo. Incontriamo mucche con una strana gobba che sulla strada hanno sempre la precedenza. Un grande ponte attraversa il Rio Tempisque e poi ponti più piccoli, corsi d’acqua di minore portata. Verso le 12,30 arriviamo a Playa Tamarindo. Questa volta la ricerca della sistemazione notturna tocca a me e lascio la Miri seduta in un ristorante dove suonano i Manà ed il ricordo salta ad un viaggio Rimini-Bologna durato un attimo. Siamo in alta stagione e trovare da dormire non risulta facile. Alla fine trovo una camera alle cabinas “Dolly”. Una camera a pianoterra, piccola e senza luce perché una surfista se l’è portata via con una mossa della tavola. E’ comunque pulita. Bagno in comune. “Mañana” avremo comunque una camera al piano superiore, vista mare e con bagno. La doppia costa venti dollari. La sera rovescio sul mio letto gran parte di una bottiglia d’acqua da litro … C’è un limite alla “sfiga”? Anche in questa parte della Costa Rica, le docce sono meritevoli di nota. Sono due in tutto. Nella prima manca la linguetta che consente lo scorrimento del chiavistello della porta con l’alta probabilità di non riuscire ad uscire una volta entrati. Nella seconda, la serratura è perfetta ma manca l’acqua. Andiamo a cenare in una soda. E come puoi sbagliare: casado con pescado con riso in bianco, fagioli neri, pesce fritto ed insalata.
28 dicembre E’ “mañana” … Vado dalla Dolly per sapere a che ora si libera la camera con il bagno che ci ha promesso ieri. La Dolly, una squilibrata mentale, mi ripropone un nuovo “mañana”. Sembra infatti che la ragazza che occupava la camera a noi destinata, abbia deciso di stare un’altra notte e quindi … “mañana”. La cosa mi fa arrabbiare non poco e soprattutto mi preoccupa che il mañana di oggi diventi un altro mañana domani. Pensiamo di lasciare la stanza e facciamo un giro per vedere se ci sono alternative. Niente. Tutto pieno fino alla fine dell’anno. Non ci rimane che restare ed affrontare un’altra notte senza luce, senza bagno, senza chiavistello funzionante! La spiaggia di Tamarindo è molto grande. La sabbia ha un colore marroncino e le maree sono piuttosto evidenti. Sulla spiaggia hanno libero accesso: cavalli, biciclette, motorini, pedoni, venditori di granite, venditrici di collanine.
Playa Tamarindo è divisa da Playa Grande, la spiaggia dove di notte nidificano le tartarughe, da un estuario che è possibile guadare quando c’è la bassa marea.
Mi appresto al guado e viene in mio soccorso Manuel, un ragazzo di Santa Cruz, a Tamarindo per il week-end. Troviamo argomenti in comune: il calcio e la musica. Conosce l’arbitro Collina e quell’infame dell’arbitro Moreno, mi fa presente che Roberto Baggio gioca nel Brescia con un giocatore costaricano. Il calcio è molto diffuso anche in Costa Rica e si gioca un campionato simile a quello italiano. Manuel è un fan di Eros Ramazzotti ed una settimana fa è stato ad Alajuela a sentire un suo concerto … “se bastasse una sola canzone …”.
Parliamo del terremoto del giorno di Natale. L’epicentro è stato a Panama, ma in Costa Rica non ci sono stati danni visto che le abitazioni sono basse.
La Caracola è un locale easy ma “aggiustato” con gusto. Ceniamo molto bene: pesce spada e tonno, ma spendiamo quasi il doppio rispetto alla media di 3000/3500 colones per cena. La Miri mi presenta Martin di Los Angeles. Che sia ricco? Per il momento sappiamo solo che è biondo, riccio, basso, dai modi educati e gentili. Hanno appuntamento domani in spiaggia. “O per soldi o per amore, altre non ce n’è”.
Ladri di galline anzi di ciabattine infradito, (le mie!), si sono impossessati del mio unico paio di scarpe estive. Lo so, ho le prove, non c’è un limite alla sfiga! 29 dicembre Non faccio in tempo ad uscire dalla doccia che la Dolly mi aggredisce: “il dinero, la llave (chiave)”. Ci trasferisce dalla camera senza bagno “a bajo” a quella con bagno “arriba” ma vuole essere pagata in anticipo. Anche se non siamo d’accordo, vuole subito un acconto di settantacinque dollari ed il saldo entro sera. Diversamente da via la camera. Vista la penuria di stanze, c’è poco da scherzare.
Problema: non abbiamo dollari di piccolo taglio ed i colones stanno finendo. Urge andare in banca. Avevo letto sulla guida che l’operazione cambio poteva impiegare ore e ore, ma pensavo che esagerasse. Invece no, tutto vero. Come nel reparto drogheria di un supermercato, nella unica banca di Tamarindo, prendiamo i tickets: 46 e 47. Stanno servendo il 60! Se c’è una cosa che detesto è aspettare in coda. Ci sarà pure qualche ristorante o negozio disposto a cambiarmi il dollarone! Purtroppo no, è troppo presto e nessuno ha in cassa dollari di piccolo taglio sufficienti al cambio. Ottengo però un interessante ticket numero 9. Ritorno in banca e stanno servendo il 97. Ora vale la pena restare.
In banca non applicano commissioni, il cambio è $ 1 = 417,7 colones ed è più favorevole di quello fattoci all’aeroporto di San Josè. Nel peregrinare della mattinata da un negozio all’altro, conosciamo un milanese trapiantato a Tamarindo da diversi anni. Gestisce uno dei tre supermercati della città dove, oltre ad avere baguette francesi e pane alle banane, è possibile cambiare soldi ad un tasso logicamente più caro rispetto quello bancario (410 colones).
Finita l’odissea cambio, raggiungiamo Playa Langosta con una camminata di circa un quarto d’ora. Playa Langosta è molto bella. La sabbia ha una grana diversa da quella di Playa Tamarindo, è più grossa, a tratti è rosata e a tratti è bianca. C’è roccia e con la bassa marea si sono formate tante piscine naturali. Un raffinato e curato B&B, proprio sul mare, per 300 dollari a notte ti offre una camera per la luna di miele con tanto di letto a baldacchino. Da tener presente, non si sa mai nella vita! Siamo qui sulla spiaggia, rapite, come tante altre persone, dalla magia del tramonto. Il cielo è striato di nuvoloni bianchi intimoriti dalla palla infuocata del sole contro cui si stagliano le vele di un catamarano. La magia dura circa mezz’ora perché è questo il tempo che impiega il sole per cadere in mare dopo una dura giornata di lavoro. Decidiamo di andare a cenare da Pedro, un pescatore che nella sua abitazione cucina pesce di giornata. Una garanzia di freschezza ma anche di saltare il pasto se non si arriva per tempo. Il posto è molto, ma proprio molto spartano. La cosa comunque non ci preoccupa visto che il nostro abbigliamento è perfettamente in sintonia con il locale. Purtroppo, da questa sera è chiuso per ferie. Azident, quando si dice il tempismo! 30 dicembre Sto passeggiando sulla spiaggia per andare a fare colazione. E’ una mattinata di garbino, come si direbbe dalle mie parti (la Romagna), e si sa, il garbino rende nervosi. Solo i pellicani sembrano apprezzare questo fastidioso vento caldo, alternando voli a basso consumo di energie ad improvvise picchiate in mare, con scarsa soddisfazione dei pesci. Un’altra giornata di pratiche amministrative: è tempo di confermare il volo di ritorno; operazione semplicissima se ci fosse una agenzia di viaggi, ma a Tamarindo non ce ne sono e la più vicina è a un’ora d’autobus. Esclusa questa possibilità, cerchiamo di contattare telefonicamente l’Iberia di San Josè. Ma come ieri, nessuno risponde. Ci proviamo una, due, cento volte, ma sempre senza successo. Spiegando l’accaduto, scrivo una mail alla nostra agenzia italiana, pregandola di venire in nostro aiuto. Nel contempo verifico la mia casella postale e mi fa molto piacere leggere posta di Ciccio.
Il violento vento che alza improvvise folate di sabbia non ha nessuna intenzione di placarsi ed in spiaggia si sta proprio male. Che fare? Sono le 11,30. Sappiamo che a mezzogiorno c’è un bus che va a Santa Cruz, cittadina a 36 chilometri ad est di Tamarindo. Ci è stato detto che a Santa Cruz è possibile acquistare souvenir a prezzi molto economici tra cui la ceramica bianca e nigra. Ci mettiamo alla fermata dell’autobus ed aspettiamo. Alle 12,00 niente, alle 12,30 niente, alle 13,00 niente, alle 13,30 niente. Non passa un autobus a pagarlo a peso d’oro. Passano invece tanti taxi e alla fine cediamo alla tentazione. Diecimila colones e si è a Santa Cruz. Siamo rimasti solo in quattro alla fermata dell’autobus, noi due ed una coppia di fidanzati con il loro surf. Un sorriso di intesa, vada per i diecimila colones, ma il surf, dove lo mettiamo? No problem. Il taxista è uomo dalle mille risorse e dal bagagliaio della macchina tira fuori due parallelepipedi di gomma piuma che posiziona sul tettuccio dell’auto e con due cinghie, voilà, sistemato il surf. Seduta a fianco dell’autista, su un seggiolino inclinato come la poltrona di un dentista, con la cintura di sicurezza che mi sega la gola, partiamo. Imbocchiamo una scorciatoia, una strada sterrata polverosissima, quando improvvisamente, senza dare alcun preavviso, l’autista blocca la macchina. Siamo in mezzo alla campagna, no anima viva. Ognuno di noi, mentalmente, da la sua risposta alla brusca fermata: è finita la benzina, si è rotta la macchina, è una rapina. Un attimo di assoluto silenzio, rotto dalle parole del taxista: “Para orinar!”. Scoppiamo in una risata liberatoria.
Santa Cruz, come segnala la guida, è un luogo dove si può venire a contatto con la realtà contadina della Costa Rica. Niente di più azzeccato. Non c’è nulla che possa interessare un turista e tanto meno due in cerca della tipica ceramica bianca e nigra della Costa Rica che però nessuno sembra conoscere. Una signora ci consiglia di prendere un taxi e raggiungere Guatil a circa una quindicina di chilometri, paese dove si produce la ceramica chorotega. Rinunciamo e ci fiondiamo alla fermata dell’autobus. Pronto al capolinea c’è un mezzo con il motore già acceso. Salgo di corsa i due gradini del bus e, soffoco una risata. L’autista avrà cent’anni e al posto del santino “Pensa a tuoi cari” c’è la sua dentiera. Fortunatamente, questo non è il nostro autobus! Il viaggio di ritorno è fatto di continue shakerate visto che la strada, scorciatoia o diretta che sia, è sempre sterrata. Alberi di una bellezza monumentale, animali al pascolo e proprietà delimitate da recinti in cactus si parano lungo il tragitto. Di colpo un’immagine cattura i miei occhi. E’ l’immagine di tutte le persone sedute davanti a me dall’altra parte del corridoio. Sono mezze figure, gambe vestite di jeans, scarponi neri e braccia scoperte illuminate dalla luce dorata che precede il tramonto e che filtra dal parabrezza dell’autobus. Mi colpisce questa fila ordinata di mezze persone che aspettano tutte di arrivare nello stesso identico posto! Di nuovo l’attesa! Arriviamo a Playa Tamarindo giusto in tempo per il calar del sole. C’è una luce tersa che esalta e distingue i colori in modo netto.
Rientriamo in camera e mi accorgo che manca un mio oggetto personale: un piccolo asciugamani. Non mi è dato ancora di capire il perché, ma per l’esperienza avuta, asciugamani e teli da bagno sono in Costa Rica quanto di più prezioso si possa desiderare. Per averne uno è quasi necessario fare domanda in carta bollata e poi, una volta ottenuto, è delle dimensioni di un fazzoletto, spesso rotto e sdrucito. Uno per tutto. “Non ci posso credere” dico ad alta voce “la Dolly mi ha rubato l’asciugamanino!”. E di lì a poco, ritrovo la refurtiva stesa al sole nascosta tra altri asciugamani. Cinque e tre otto, recuperato! Alla sera conosciamo una coppia di italiani anche loro ospiti della Dolly e ci divertiamo a condividere e scambiare stranezze sulla Dolly. Ci diamo la buona notte ripromettendoci di fargliela pagare prima di partire. Propongo di rubarle il Gesù bambino del presepe, visto che in giardino non ci sono nani di Biancaneve, ma la mia idea viene bocciata perché troppo blasfema! 31 dicembre Che questa sia una vacanza fantozziana mi sembra inutile dirlo, lo si capisce da sé, ma se comunque qualcuno avesse ancora dei dubbi, oggi la conferma. Puntiamo la sveglia al cantar del gallo per prendere l’autobus delle 7,00. Destinazione: Playa Conchal. Si ripete un film già visto: alle 7,00 niente, alle 7,30 niente, alle 8,00 niente. All’ufficio informazioni di Tamarindo ci dicono: “Sì, c’era un autobus alle 7,00, ma forse l’hanno anticipato o forse … Per stare sul sicuro, prendete quello delle 9,00 per Liberia, scendete a Huacas e da lì prendete l’autobus per Conchal”. Il tutto per percorrere 10 chilometri! Playa Conchal vale comunque il sacrificio della levataccia per il suo mare rubato ai caraibi e per la sua sabbia color rosa. Sull’autobus per Playa Conchal ci colpisce una persona dai tratti del viso eleganti e dal portamento fiero. I suoi capelli sono raccolti in una lunga coda nera. Strano a dirsi, ma non riusciamo a capire se sia un uomo o una donna. Per fortuna, la sua voce, ci viene in aiuto. E’ Sergio, di Città del Messico, un artista che si guadagna da vivere vendendo, in ogni angolo del mondo, bijoux in cuoio. I tratti eleganti gli vengono dal padre, Azteco. Sergio è un ragazzo molto interessante, non ha frequentato scuole se non quella della vita, ma ci stupisce per la profondità delle sue parole e del suo pensiero. E sì, ogni viaggio offre sempre l’opportunità di conoscere persone nuove, di culture e mondi diversi che, spesso, nella loro semplicità, hanno ricchezze infinite da regalarti! Troviamo una soda che per otto dollari serve due aragoste con tanto di contorno di patate fritte, riso, bevande comprese. E così, alle 17,00, ora locale, le 24,00 ora italiana, ci uniamo spiritualmente ai festeggiamenti dei nostri cari mangiando aragosta (asiatic size) e brindando con Coca Cola. Playa Conchal è una spiaggia di Brasilito, paese piccolo ma carino che da molto più l’idea di paese che non Tamarindo. L’autobus del ritorno parte verso le diciannove con il solito margine di tolleranza che, nella migliore delle ipotesi, va dalla mezz’ora ai trequarti d’ora. Una coppia di Costaricani di San Josè battezza lo chauffeur con il nomignolo di tortuga. Scendiamo a Huacas per prendere la coincidenza per Tamarindo e qui si aprono le scommesse. A che ora passerà il nostro autobus? Probabile alle “siete y cuarenta” oppure alle ventuno. Speranzose ci mettiamo ad aspettare. Si sente della musica venire da poco lontano, di fronte a noi una “pasticceria” dove acquistiamo due fette di torta al cioccolato tanto per addolcire l’attesa mentre qualche stupido, già ubriaco, passa facendoci gestacci offensivi. Finalmente arriva il nostro autobus e alle 9,30 siamo a casa.
Una doccia, un riposo prima di uscire e poi … Botti e suoni di clacson rompono il mio sonno. E’ mezzanotte e fuori stanno festeggiando l’arrivo del nuovo anno! 1. Gennaio Tamarindo sta ancora dormendo. E’ nuvolo e continua a soffiare il vento, sempre più fastidioso. Nonostante il giorno di festa, è aperta la biglietteria dell’agenzia di autobus Alfaro. Ne approfittiamo per prenotare il rientro a San Josè per il 5 gennaio.
Passiamo la giornata in spiaggia in compagnia di Michela ed Ivan. Sono stati bidonati dall’agenzia dove avevano prenotato il tour delle tartarughe. Peccato, avevano pensato di passare un ultimo dell’anno ricco di emozioni ed invece, anche per loro, una solenne dormita.
Nel corso della giornata elaboriamo strategie su come fare pagare a Dolly la sua scortesia che, molto probabilmente, le è valsa il depennamento dalla Lonely Planet. Nell’edizione precedente alla mia era infatti segnalato il Dolly Hotel, successivamente scomparso. 2 gennaio La piccola imbarcazione, al costo di 200 colones a testa, in un attimo ci porta sull’altra sponda dell’estuario che divide Playa Tamarindo da Playa Grande. Siamo ufficialmente nella riserva marina ed è davvero splendido gustarsi la natura, a poca distanza dalle orde barbariche di Playa Tamarindo! La battigia fa da sfondo ad una miriade di bianche conchiglie turritelle che la risacca del mare dondola in mille direzioni. Non cedere alla tentazione di raccoglierle è impossibile. Sono già chinata quando incontro due surfisti venire di corsa dalla parte opposta alla mia con la tavola sotto il braccio. Uno di loro mi urla: “Chica, la concha, en la playa”. E’ un monito a non raccogliere le conchiglie della spiaggia o l’invito, come sostenne poi Ivan, a far cadere sulla spiaggia un’altra “conchiglia”, la mia!? Accidenti, non capire la lingua! Il mare è limpidissimo ed il cielo d’un azzurro intenso. Camminando a riva, mi accorgo di due solchi paralleli che dal mare si dirigono verso l’interno. Sembrano le tracce di un trattore ed invece sono quelle di una tartaruga gigante, uscita e rientrata in acqua dopo avere deposto le uova. Per strada vedo poi un cartello di pericolo che raccomanda attenzione alle tartarughe.
Questa sera festa: si cena da Bruno’s, un ristorante italiano che prepara una gustosa pizza anche se un po’ caruccia, 2500 colones per una vegetariana. Anche Manuele, il gestore del supermercato, è qui e si unisce al nostro tavolo. Ci racconta che una decina di anni fa a Tamarindo non c’era nulla se non un ristorante. “Tamarindo è nata su impulso dei surfisti – ci dice Manuele – gente di poche pretese, con in testa solo la tavola da surf”. Impariamo che gli stranieri con residenza in Costa Rica posseggono una carta d’identità che va rinnovata di anno in anno; la Costa Rica è una repubblica ed il Capo dello Stato è anche capo dell’esecutivo (con grande invidia di Berlusconi). Ci sono solo due partiti politici ed ogni quattro anni vengono fatte le elezioni. Ma ciò che mi da più piacere, è sentire che questo stato è molto attento alla tutela del proprio patrimonio di bellezze naturali e le leggi ambientali sono molto restrittive e severe. 3 gennaio Ripetiamo l’esperienza Playa Conchal, ma questa mattina con Michela e Ivan. Conchal è sempre bella. Purtroppo oggi è sabato ed è invasa da tanti Costaricani venuti per il week-end. Del resto sono a casa loro.
Ci stendiamo sulla spiaggia e tra un bagno e l’altro, Michela ci racconta di quanto sia stato emozionante vedere la tartaruga depositare le uova. (Sì, alla fine ce l’hanno fatta!) Per non allertare la tartaruga, non è possibile vederla mentre esce dall’acqua ma solo quando depone le uova. Accovacciati dietro alla tartaruga, hanno seguito il momento dello scavo della buca e poi la deposizione. La
è grandissima, 1,47 cm di diametro: una cinquecento! Tra un’amenità e l’altra, viene fuori che parecchi hanno avuto problemi intestinali probabilmente legati al fatto che i ristoranti non utilizzano il detersivo e si limitano a sciacquare i piatti. Ma anche questo è parte del viaggiare! Restiamo in spiaggia fino al primo pomeriggio combattendo con un vento furioso che non ci da tregua e ci riempie la bocca, ed ogni cosa, di sabbia finissima e soffice come cipria.
A dispetto degli usi e costumi locali, l’autobus per Huacas non solo arriva puntuale come un orologio svizzero, ma parte anche in perfetto orario. Sono senza parole! Ma eccoci di nuovo al curvone che ci ha viste protagoniste l’ultima sera dell’anno e di nuovo siamo ad aspettare un autobus che non sappiamo se e quando passerà. Poi un pick-up con tre ragazzi a bordo ci chiede dove dobbiamo andare. “A Tamarindo”. “Bene, se volete vi diamo un passaggio”. E così, più divertiti che mai saliamo tutti e quattro nel vano retro del pick-up seduti per terra con le mani aggrappate alle sponde ed i capelli al vento. Il sole sta tramontando ed il cielo è striato di rosso. Arriviamo in brevissimo tempo e ci dirigiamo verso un piccolo stagno, rifugio di piccoli, ma proprio piccoli, coccodrilli. Nel frattempo siamo un lauto pasto per le zanzare.
Cena tutti assieme, con l’immancabile Gallo Pinto (o semplicemente Pinto) onnipresente in tutti i menù costaricani. Per strada, un ragazzo dai modi poco gentili, ci manda letteralmente a quel paese con un “Fuck you!”. “De nada” gli risponde Ivan. Tutte e tre lo guardiamo con sospetto. “Ci ha detto thank you ed io gli ho risposto, di niente”. Piegate in due dalle risate, arriviamo a casa.
Dolly’s news: ha rubato le mollette nuove di Michela con cui aveva steso il suo asciugamano italiano, la sera prima finito misteriosamente addosso ad un ospite austriaco. Davvero inspiegabile, quanto siano preziosi gli asciugamani in Costa Rica! 4 gennaio In fondo alla rotonda di Tamarindo, c’è il Nogui’s Bar, dove servono ottime colazioni a base di frutta fresca, yogurt e “granulate” (muesli). Ma questa mattina hanno finito lo yogurt ed il supermercato non è ancora aperto! Il concetto di scorta di magazzino è fuori dalla logica costaricana! Non preoccupato del fatto (lui no, io sì), un gatto gironzola tra i tavoli del locale.
Il meteo è dalla nostra: il sole brilla alto e non c’è niente di meglio che fare tuffi in questo mare piatto e limpido come una piscina, in compagnia di pesci e farfalle coloratissime. La giornata ci offre una tenera sorpresa: una scimmia urlatrice più piccoli in una esibizione di volo senza rete. Mamma scimmia danza con agile maestria da un ramo all’altro di un alto albero, dinnanzi agli occhi per nulla convinti dei suoi piccoli. Noi siamo lì a tifare per loro, ma niente da fare, i piccoli sembrano incollati al ramo! Molti turisti hanno lasciato Tamarindo e al ristorante Zullyman non hanno fatto la spesa. L’insalata mista è finita, i calamari sono finiti, il risotto di Ivan è vecchio. Risultato: una veloce corsa in bagno! 5 e 6 gennaio Alle 5,40 siamo alla fermata dell’autobus dell’impresa Alfaro di fronte alla casa di Dolly. Aspettiamo il directo che da Tamarindo ci porterà a San Josè, 290 chilometri in sei ore! Visto che c’è qualcosa che non ci convince nei numeri dei posti assegnatici al momento della prenotazione, Michela ed Ivan vanno al bus terminal mentre Miri ed io, con tutti i bagagli, aspettiamo alla fermata. Sono le 6, arriva Ivan, a piedi. Prima ancora di raggiungerci grida: “Il pullman … Non parte!”. “Come, non parte!”. “E’ rotto, l’autista ed il bigliettaio stanno cercando di metterlo in moto, ma niente”. Che fare? Valutiamo velocemente la situazione. L’autobus per Liberia, che ci consentirebbe di raggiungere la coincidenza per San Josè, è appena passato. Lo stesso dicasi per il pullman privato della Gray Line. Bene, siamo a cavallo! No, siamo a piedi! Non ci resta che andare al bus terminal e sentire cosa ci propongono. Nel frattempo, tra i taxisti di Tamarindo, si è sparsa la voce. Come avvoltoi e con aria di scherno ci girano attorno: “Broken, broken. Ten dollars a person to Liberia”. Il nostro autobus non da segni di vita. La compagnia di trasporti ci assicura che partiremo comunque, non più tardi delle 7,45, perché è in arrivo da Nicoya un autobus di soccorso. Sono molto preoccupata, il nostro aereo parte nel tardo pomeriggio e non mi fido affatto di questi costaricani che ti dicono sempre di sì. Se il pullman di salvataggio non arriva entro le 8,00, si prende un taxi. Ed invece, come detto, arriva il pullman promessoci e alle 7,45 l’autista ci fa salire di gran fretta. Ma, poco dopo, siamo di nuovo fermi, non si sa dove ad aspettare, non si sa cosa. State pensando che ci lascino qui? Sì, anche noi, ed invece no, uomini di poca fede! Tempo dieci minuti ed arriva un altro pullman pronto a portarci, si spera, a San Josè.
Il percorso, che segue la Strada 21, prevede una tappa a Philadelphia e, con nostro sconcerto, una trentina di persone sale sul nostro pullman, che pare molto più loro che nostro, visto che tutte sono munite di prenotazione. Scompiglio generale con tanto di scambi di posti a sedere e relativi bagagli e, come nel gioco della sedia, parecchi rimangono in piedi nel corridoio. Purtroppo succede anche a Michela e Ivan che avevano la prenotazione ma, per un errore del bigliettaio, per il giorno 4 gennaio anziché 5. Da Tamarindo a Liberia attraversiamo tanti piccoli paesi. Quasi tutti hanno una piazza rettangolare con copertura a prato. Le case che incontriamo sono ad un solo piano, alcune in muratura, altre costruite con assi di legno e tetto in lamiera. Sembrano rubate dai disegni di un bambino tanta è la loro semplicità architettonica: porta al centro e due finestre laterali. I loro colori sono accesi: turchese, verde smeraldo, rosa, viola. Sono semplici ma sempre decorose. In ognuna di esse c’è qualcosa che ricorda il Natale e fa strano vedere finte renne in questi giardini verdissimi. Vediamo scuole, mercatini di frutta ed un luna park con tanto di arena per la corrida; vediamo chiese coloniali con i due bassi campanili e l’ingresso in mezzo; vediamo favolosi alberi che dominano sovrani. Mi colpisce l’immensa chioma di un cenizero e per un attimo ho il desiderio di rifugiarmi sotto la sua frescura. Sì, fa caldo. In prossimità di Liberia il paesaggio cambia. Diviene più secco, più arido ma poco dopo tutto torna come prima. Attraversiamo piccoli fiumi e poi, come per incanto, compaiono degli alberi di una bellezza assoluta, ricoperti di fiori di un caldo colore arancio-rosso. Ce ne sono tanti ed offrono uno spettacolo da togliere il fiato.
In prossimità di San Josè, la strada si fa un po’ più tortuosa ed appaiono le prime piantagioni di caffè che a volte si alternano, a volte si mescolano, ai meravigliosi alberi con i fiori.
All’improvviso mi viene in mente Ciccio ed inizio a sognare ad occhi aperti … La mia testa sulla sua spalla, la sua testa che si inclina sulla mia … Le mie gambe sulle sue, le sue mani che le sistemano … Il desiderio che tutto intorno si cancelli … “Fra i rumori della folla ce ne stiamo noi due / felici di essere insieme, parlando / poco, forse nemmeno una parola” (W.Whitman”).
Alle 14,00 l’autobus dell’Alfaro ci lascia al capolinea di San Josè. E’ il momento dei saluti. Abbracciamo Michela ed Ivan con la promessa di risentirci una volta rientrati in Italia e dalla fermata dell’autobus ci trasferiamo al terminal del bus per l’aeroporto. Partono l’uno dopo l’altro ad intervalli di circa dieci minuti. La corsa costa 250 colones. A turno, Miri ed io, mangiamo qualcosa e ci sgranchiamo le gambe ma nessuna delle due ha energie per andare a fare qualche acquisto così come si era pensato. Alle 15,00 prendiamo quindi un altro autobus e ci dirigiamo all’aeroporto. La tassa d’uscita dalla Costa Rica è di 26 dollari ed una volta pagata ci uniamo alla coda del check-in per liberarci dei bagagli. Il controllo è piuttosto rigoroso. A tutti fanno aprire le valigie e alla Miri scoprono le conchiglie, ma l’addetto al controllo è compiacente, le strizza un occhio dicendole semplicemente che non si può e richiude la borsa. All’interno dell’aeroporto ci sono tre negozi di souvenir che vendono tutti le stesse cose allo stesso prezzo. Non resisto alla tentazione di acquistare una maglietta a fondo blu con l’immagine di una rana con il corpo rosso e le zampette blu per Giacomino (il nipotino di sei mesi). Mi viene da pensare: fa ganzo e tutte le bambine cadranno ai suoi piedi. Partiamo da San Josè e dopo circa due ore e mezza siamo a Miami dove c’è il solito controllo severissimo. Alle persone di colore prendono le impronte digitali: indice sinistro, indice destro, e tanto di foto ricordo scattata con una microcamera. In coda, davanti a noi, ne abbiamo cinque di persone di colore: un’intera famiglia costaricana diretta in vacanza a Disney World. Siamo tremendamente in ritardo e con le ali sotto i piedi, guidati da un’addetta dell’Iberia, di corsa percorriamo il labirinto di corridoi e scale mobili fino al trenino che ci porta all’aereo. Siamo le ultime a salire … Si decolla e questa volta per la tratta di volo più lunga, quella di otto ore. Prima di atterrare un’hostess elenca i cancelli d’imbarco dei diversi collegamenti da Madrid. Il nostro volo non viene però nominato perché, ci dicono, in ritardo. Nel frattempo l’orologio fa un balzo in avanti di sette ore. Per altri corridoi e scale senza fine arriviamo dinanzi all’autobus che porta al terminal D-E con la convinzione che il nostro volo sia stato posticipato a sera. Ma non è così visto che il video delle partenze lampeggia, “volo per Roma”, “ultima chiamata”. “Dai, Miri, sali sull’autobus altrimenti perdiamo l’aereo”. Con il cuore in gola, conquistiamo l’irraggiungibile Gate E78 (il penultimo, neanche a dirlo) e … Al volo, riusciamo a prendere il nostro volo.
A Roma il viaggio non è finito, ma siamo talmente cotte dalla stanchezza che abbiamo difficoltà a interpretare il cartellone della partenza dei treni. Come due ubriache ci pare impossibile (o forse mentalmente rifiutiamo solo l’idea) che un treno diretto a Francoforte possa fermarsi a Bologna e sentiamo molto più nostro un treno che parte ad un orario abbastanza simile a quello del nostro treno ma che arriva soltanto a Firenze.
Nello scompartimento le luci sono spente e stanno tutti dormendo, ma io non ho sonno. Guardo fuori dal finestrino. E’ buio. Il Natale è ancora presente con le sue luci, con quelle luci che mi sembravano così fuori luogo in Costa Rica e che ora mi mettono un po’ di tristezza per avere lasciato un paese che non ha tracce di storia ma che ti riempie il cuore con la bellezza dei suoi paesaggi. Il treno accumula un po’ di ritardo e nonostante sia un Euronotte fa tutte le fermate. La paura di perdere la coincidenza per Rimini è forte. Accidenti, che viaggio al cardiopalma! Invece no, ce la facciamo e, come due regine, ci troviamo a viaggiare in prima classe scortate da un controllore, curioso di sapere da dove viene tanta abbronzatura.
Dopo 46 ore di viaggio, il treno si ferma a Rimini con, ironia della sorte, un quarto d’ora d’anticipo. Sono le 2,55 (della notte), ma qualcuno verrà ugualmente a prenderci alla stazione e siamo lì ad aspettarlo.
Avviluppata nel mio piumino giallo limone, un brivido invernale mi percorre dalla testa ai piedi ed il pensiero si lega al ricordo delle scoraggianti, terrificanti, moccolanti, ma profumate di vacanza, docce fredde della Costa Rica!