Turchia 2010

La magica Istanbul e la sorprendente Bursa, cronaca di un viaggio volutamente poco organizzato
Scritto da: Simone_Luchessa
turchia 2010
Partenza il: 07/08/2010
Ritorno il: 15/08/2010
Viaggiatori: 2
Spesa: 1000 €

ARRIVO A ISTANBUL

Si parte. Lasciamo alle spalle crisi umanitarie – il mio amico Giorgio – e dilemmi della green-economy – il sottoscritto – e si va in Turchia, una decina di giorni soltanto ma confidiamo bastino per divertirci e ricaricarci. Memori della bellissima vacanza portoghese di un anno fa, abbiamo prenotato solo le prime due notti in un ostello di Istanbul, zona Sultanahmet con vista sulla Moschea Blu. Poi si vedrà, difficile arrivare sulle coste del sud, decideremo al momento. L’importante è partire.

Decolliamo da Fiumicino con la Pegasus Airlines, compagnia low-cost turca, speriamo bene. Si viaggia di notte, atterriamo al secondo aeroporto di Istanbul che incredibilmente non è dedicato ad Ataturk, ma solo perché a lui è intitolato il principale e comunque, tanto per non smentirsi, quello dove arriviamo noi è dedicato alla figlia adottiva del “Padre dei Turchi”, una delle prime aviatrici donne della storia. Atterriamo all’alba nella parte asiatica della Turchia e prendiamo un bus per percorrere i quaranta chilometri che ci separano dal centro città. Abbiamo un gran sonno, ma la curiosità di vedere un primo scorcio di Turchia ci tiene svegli. Ammettiamolo: la periferia dell’antica Bisanzio è proprio brutta, oltre che immensa. Ingenui noi ad aspettarci altro del resto, visto che stiamo andando in una città con dodici milioni di abitanti. Chilometri e chilometri di un agglomerato urbano disordinato, traffico caotico già alle sei del mattino, ci mettiamo un’ora e mezza ad arrivare in piazza Taksim, dove il bus ci molla e noi cerchiamo un posto per fare colazione. Sarà la stanchezza, sarà che non capiamo subito il cambio Euro-Lira Turca, facciamo una pessima colazione “tipica” e la paghiamo tantissimo. In sostanza ci fregano, pazienza, non è un buon inizio ma ci rifaremo. Passeggiamo per Istiklal Caddesi e iniziamo a intuire la bellezza di Istanbul, poi compriamo un biglietto ricaricabile per i mezzi pubblici, con l’impiegato che si stupisce che dei turisti sappiano della sua esistenza, e ci dirigiamo verso Sultanahmet attraversando il Ponte di Galata. L’ostello è carino ed è veramente a due passi dai principali luoghi da visitare secondo tutte le guide consultate, ma il quartiere è molto turistico, direi troppo, con locande finto – ottomane e molti locali e negozi che trovi ovunque; non è per questo che siamo venuti in Turchia, e decidiamo subito di fare nei primi due giorni le visite “obbligatorie” e poi di buttarci in quartieri meno conosciuti. La scelta si rivelerà ottima perché, malgrado Topkapi, Moschea Blu e Ayia Sofya siano luoghi splendidi e assolutamente imperdibili, il caos provocato dalle migliaia di turisti che si affollano nei dintorni rendono molto faticose le ore trascorse al loro interno. Non sono in grado di descrivere le bellezze architettoniche e le atmosfere che si possono godere all’interno dei luoghi citati e nemmeno mi interessa. La cosa più bella della vacanza in Turchia sono stati gli incontri casuali con gente varia, incontri che, come avviene quasi sempre, ci sono capitati in periferia, lontano dai luoghi più celebrati. Se in questo qualcuno ci legge una metafora a mio avviso ha ragione. Dal terzo giorno abbiamo preso una stanza in un piccolo albergo a Beyoğlu , contrattando il prezzo alla reception, intorno ai 20 € a notte, con un tizio che poi scapperà con la cassa dell’albergo, lasciando nei casini il proprietario e in parte noi, poiché abbiamo anticipato i soldi anche dell’ultima notte prima del ritorno in Italia, ma alla fine ci intenderemo e non avremo problemi. Una volta risolta la questione alloggio, iniziamo le nostre incursioni nei quartieri meno celebrati di Istanbul, alternandole a delle serate più turistiche, passate a fare la crociera sul Bosforo, da cui al tramonto possiamo godere dello splendido profilo di Sultanahmet celebrato da tanti scrittori e pittori, e a cenare mangiando benissimo e pagando veramente poco in vari ristoranti di Beyoğlu o nella zona dell’Università. A dieci minuti a piedi da luoghi traboccanti di gente scoviamo mercati coloratissimi con in vendita di tutto, molto più interessanti del celebrato Gran Bazar, ormai una sorta di centro commerciale con l’unico pregio di essere magnifico architettonicamente, mangiamo in posti dove non vedono mai turisti, sembra impossibile ma è veramente così, ed entriamo in moschee grandi e piccole, alcune nemmeno segnate sulle guide. Conosciamo un “kebabbaro” che vuole darci una lettera da consegnare a Berlusconi, beviamo un succo d’uva e una particolare bevanda, la “Boza”, in una locanda bellissima, trovata alla fine per caso dopo averla cercata tre ore con le indicazioni della guida, in cui il proprietario ci mostra con orgoglio un bicchiere in cui ha bevuto Ataturk e si fa fotografare solo dopo essersi messo un copricapo tradizionale. Poco dopo ci sediamo per prendere uno dei tanti cay (thè in turco) bevuti nella nostra vacanza in un piccolo bar di una stradina da dove osserviamo il via vai dei venditori di noci, il lento lavoro di uno degli innumerevoli barbieri di Istanbul e le sensuali movenze di una ragazza intenta a stendere i panni cantando. In realtà ci accorgiamo subito che in questa via le attrazioni siamo noi, tutti ci guardano, i bambini curiosi e sorridenti e qualcuno pronuncia il nome di un paese a caso per capire da dove veniamo. Appena intuito che siamo italiani, esclamano subito “Roma!” e non ce la sentiamo di contraddirli, anche perché “Ossola” e “Bergamo” non credo siano luoghi notissimi a queste latitudini. Dopo aver ricambiato i sorrisi di varie persone, cerchiamo il proprietario per pagare, ma ci fa degli strani gesti che sembrano dire che non vuole soldi da noi. Temendo qualche incomprensione proviamo a insistere, apriamo i portafogli per lasciare il denaro ma il tizio esce a chiamare un ragazzo. Al suo arrivo, con qualche parola d’inglese, ci spiega che “il thè è offerto perché qua non viene mai nessun turista ed è un modo per dirvi grazie”. Rimaniamo abbastanza stupiti, ringraziamo e proseguiamo il nostro giro, sempre più convinti di cercare lontano dal centro gli aspetti più interessanti di questa città. Una sera ceniamo nel quartiere universitario e dopo decidiamo di fare un giro nelle vie adiacenti a una bellissima moschea visitata nel pomeriggio, la Süleymaniye Camii, vie che poche ore prima pullulavano di gente e che, immaginiamo, la sera ospiteranno vari locali dove potremo fumare un narghilè, bere qualcosa (probabilmente l’ennesimo cay…) e magari fare due chiacchiere con qualcuno. Niente di più sbagliato, la sera questo quartiere è deserto, non c’è veramente un’anima. Ci troviamo a vagare completamente soli in una atmosfera surreale, sembra una città abbandonata, eppure poche ora fa c’erano migliaia di persone e ce ne saranno altrettante domattina. Evidentemente qua i commercianti ci vengono solo a lavorare ma vivono altrove. Trovarsi in una città di dodici milioni di abitanti, in un quartiere abbastanza centrale, alle undici di sera e non incontrare nessuno per almeno mezz’ora, e forse di più, non pensavo potesse capitare. Non sembra nemmeno un luogo pericoloso, semplicemente è deserto, quindi dopo un po’ riattraversiamo il Ponte di Galata per rituffarci in mezzo alla gente.

Nei giorni seguenti visitiamo la Torre di Galata, costruita dai genovesi, il quartiere di Fener, l’acquedotto di Valente e continuiamo le nostre esplorazioni in quartieri meno noti, alcuni poverissimi, altri molto belli, allegri e colorati. Andiamo a Fatih, dove queste caratteristiche stanno tutte insieme e scendiamo poi verso i quartieri più interni che si affacciano sul Corno d’Oro. Visitiamo la moschea di Rüstem Pascia Camii, andiamo in un bagno turco storico a rilassarci (bellissima esperienza) e iniziamo a pensare a dove proseguire la nostra vacanza turca, ma prima di lasciare Istanbul decidiamo che dobbiamo vedere assolutamente due cose: i quartieri della sponda asiatica, Uskudur in particolare, e il Museo del Fumetto e dell’Umorismo Turco. Giorgio si è fissato che vuole vederlo, e anch’io sono incuriosito: dopotutto, non si possono visitare solo i monumenti storici! Andare ad Uskudur è facile, basta attraversare il Bosforo con il traghetto. Sulle guide segnalano la parte asiatica come quella dove è presente un Islam più radicale, e dove è quindi più facile vederne alcune manifestazioni, come le donne velate, che in altri quartieri abbiamo visto raramente, o uomini con vestiti tradizionali. Scendiamo dal traghetto e ci troviamo di fronte a qualcosa di molto diverso: siamo “assaliti” da un gruppo di sette-otto ragazzine, età media credo quindici anni, facenti parte del “Fans Club Tokio Hotel – Turkey” che protestano perché il loro gruppo non è ancora venuto a fare un concerto da loro. Queste teen-ager sono truccatissime e un paio hanno minigonne cortissime e tatuaggi all’ombelico, alla faccia dei vestiti tradizionali… Fanno delle foto con i turisti, noi compresi, da mettere sul loro sito e su Facebook e allegarle alla loro lettera di protesta. Speriamo nessuno ci riconosca… In effetti, questo contrasto tra atteggiamenti “occidentali” e altri “tradizionali” (da non confondersi però con aspetti che richiamano il fondamentalismo), per quanto vaghi siano questi aggettivi, è presente spesso a Istanbul, ma sembra vissuto con una certa tranquillità, tanto che nella stessa compagnia di amici si vedono entrambi questi “look”. Per quanto riguarda Uskudur, ci limitiamo a gironzolare nella zona del porto, visitiamo la principale Moschea e le vie più caratteristiche e poi torniamo verso la zona europea, pensando che ci darà più soddisfazione la visita al Museo del Fumetto e dell’Umorismo Turco. Abbiamo l’indirizzo, quindi dovrebbe essere una formalità arrivare alla nostra meta, peccato che a Istanbul sembra che nessuno conosca le vie; a un taxista abbiamo dovuto spiegare in che zona era il nostro albergo descrivendogli cosa c’era nei dintorni, perché l’indirizzo non gli diceva nulla. Iniziamo quindi a dirigerci verso la zona dove dovremmo trovare il nostro museo, ma non lo visiteremo mai e non sappiamo nemmeno se esiste veramente. Chiediamo indicazioni a molte persone, tutte prendono in mano la nostra mappa e ci mandano in direzioni opposte rispetto alla persona precedente. E tutti ridono. Quattro ore a girovagare per Istanbul, abbiamo il sospetto che questo Museo in realtà non esista e sia solo un modo per farsi quattro risate alle spalle di turisti come noi. Alla fine troviamo la via e il numero civico indicato sulle guide, ma non c’è nulla, solo un portone anonimo senza citofono. Può sembrare incredibile, ma in realtà le quattro ore passate sotto il sole a cercare il museo sono state, nonostante tutto, tra le più divertenti della vacanza. Abbiamo visitato angoli di questa città che non avremmo mai visto, attraversato un parco nemmeno segnato sulla cartina, pranzato in una piazza piena di gente che vendeva prodotti provenienti dall’interno della Turchia, quasi sicuramente unici turisti in mezzo alla calca, o perlomeno altri non ne abbiamo visti. Non abbiamo capito cosa abbiamo mangiato, a dire il vero, ma quella specie di ragù con verdure di contorno (o almeno noi abbiamo immaginato e sperato fossero verdure) era veramente buona, un po’ meno quel brodo che hanno insistito per propinarci. Abbiamo pagato, in due, l’equivalente di 7 euro, bevande comprese, ovviamente thè. Insomma, grazie al probabilmente inesistente Museo del Fumetto e dell’Umorismo Turco abbiamo scoperto qualcosa di inaspettato che bene si accompagna a tutto il resto. Ora abbiamo però voglia di vedere un’altra città e si decide per Bursa, un po’ a caso, più che altro perché ci vogliono “solo” tre ore per raggiungerla.

BURSA E DINTORNI

Dopo quattro giorni nella bellissima ma caotica Istanbul abbiamo proprio voglia di vedere qualche altra città turca, più piccola e tranquilla, con meno turisti. Si parte quindi diretti a Bursa, un’ora e mezza di nave per attraversare il Mar di Marmara e poi un’altra ora abbondante di pullman. Nel tragitto “chiacchieriamo” con nonni e nipoti di Kars, città turca dell’interno, verso il confine con l’Armenia, che a gesti ci invitano ad andarli a trovare, o almeno così pare. Giunti all’otogar di Bursa, una decina di chilometri fuori dalla città, cerchiamo il bus per il centro. Nell’enorme piazzale di cemento il termometro segna 44°, io grondo di sudore e Giorgio non è certo messo meglio. Dopo i soliti problemi nell’avere informazioni sia dall’omino dei biglietti sia da altri tizi che incrociamo, saliamo su un bus giallo che in mezz’ora ci dovrebbe portare in centro. Appoggiamo gli zaini e iniziamo a guardarci intorno: Bursa non si presenta certo al meglio, chilometri e chilometri di capannoni industriali, stabilimento Fiat, punto vendita Ikea e una squallida periferia che potrebbe stare ovunque. A ricordarci che siamo in Turchia ci pensano le innumerevoli bandiere rosse con la mezzaluna e gli immancabili vessilli con il volto di Ataturk. Insieme a questi riferimenti ne spunta però un altro, una bandiera a strisce verdi e bianche che, in numero, superano addirittura le icone nazionali appena citate. Giorgio prova a buttarla lì: “Sarà la festa della città”. In effetti, nelle nostre guide notiamo che la città è chiamata “Bursa la verde”, ma le bandiere sono esposte per un motivo più terra-terra: il Bursaspor, squadra cittadina, nel mese di giugno ha vinto per la prima volta il campionato turco di calcio e l’impressione è che qua siano due mesi che festeggiano. Il mio cappellino dell’Inter sarà un buon modo per attaccare discorso con i locali, sempre che si possa definire “discorso” lo scambio di battute tra gente che non parla una lingua comune, nemmeno vagamente. Appena scendiamo dal bus, andiamo all’ufficio turistico e ci “accoglie” un impiegato che probabilmente stava dormendo, non conosce nemmeno una parola diversa dal turco, ha un’unica mappa della città vecchia di anni e riesce a indicarci la zona degli alberghi a gesti. Capiremo solo poi che questa indicazione è pure errata. Salutiamo il nostro amico impiegato con l’unico desiderio di mollare gli zaini in un hotel, andiamo nella direzione da lui indicata e il primo che troviamo è l’“Otel Lal”, costa solo dodici € a notte, ne proviamo un altro che costa “ben il doppio” e torniamo dal vecchietto dell’“Otel Lal”, che ci accoglie con una fragorosa risata seduto sotto, ovviamente, ad un enorme ritratto di Ataturk. Sembra un posto spartano ma presentabile, evidentemente troppo provati dal caldo e dalla stanchezza ci dimentichiamo di controllare se c’è l’aria condizionata e un bagno decente, che, infatti, non ci sono, ma per 12 € a notte cosa potevamo pretendere? La nostra stanza da un su terrazzo dove ci sono dei lavori, la finestra non si chiude, oltre a noi nell’albergo ci sono solo due tedeschi perplessi e alcune donne completamente velate, che scappano quando mi vedono uscire solo con l’asciugamano in vita per fare la doccia…. Per provare a fare la doccia, perché di acqua ne scende poca e fredda, c’è una puzza pazzesca, dalla finestrella del bagno si vede un allevamento di piccioni e c’è un boiler con dei fili a vista che non danno molta sicurezza… sarà una notte d’inferno, con un caldo incredibile e il muezzin che alle quattro e mezza ammazza le nostre ultime speranze di chiudere occhio. Non ci sono nemmeno tutte le lenzuola all’Otel Lal, in compenso ci sono delle pesantissime coperte lerce, coperte che probabilmente hanno visto l’acqua l’ultima volta quando erano ancora la pelliccia di qualche montone del Kurdistan turco. Pazienza, a parte il Lal, Bursa è una piacevole sorpresa. I

L Koza Han, il caravanserraglio della città, è forse il posto più piacevole in cui prendere un cay tra tutti quelli visitati in Turchia (e di the noi ne abbiamo bevuto tantissimo e ovunque), e offre un’atmosfera magica, quasi ti aspetti che da un momento all’altro arrivi ancora un mercante di seta a cavallo. A Bursa e dintorni abbiamo anche modo di incontrare un sacco di gente. Non so bene perché, ma io e Giorgio siamo risultati simpatici a molti… o forse siamo risultati buffi? Mah, noi ci siamo divertiti e tanto basta. La prima sera, dopo aver lasciato le nostre cose al Lal, salutiamo il vecchietto, che continua imperterrito a ridere facendo aumentare le nostre preoccupazioni per la notte a venire, e ci inoltriamo verso il centro città, approfittando per prenotare subito una camera per la notte successiva in un albergo decisamente migliore. Anche qua, appena entrati, le ragazze della reception iniziano ridere…. Non abbiamo capito perché, però ogni volta che le abbiamo incrociate io e Giorgio abbiamo sorriso e loro non si trattengono, ridono fragorosamente. Strano umorismo anatolico! A Istanbul dovrebbe anche esserci un museo dell’umorismo turco, ma noi come scritto non siamo riusciti a trovarlo Il centro di Bursa, come detto, è molto carino: oltre al caravanserraglio ci sono due moschee molto famose e una è proprio la moschea “verde” che contraddistingue la città e che ha ospitato le gesta di Karagoz, che è poi diventato l’icona del teatro delle marionette turco.

Girovagando nei vari quartieri, curiosando tra antichi edifici e particolari moschee, siamo poi invitati a bere un cay e a mangiare uva da un moderno commerciante di tappeti che ci sente parlare italiano. Lui sta alcuni mesi dell’anno a Genova, dove ha un negozio di import-export. Dopo aver teatralmente pregato per circa venti secondi, ci ha raccontato di come si è trasformato il suo mestiere e, oltre al racconto, il mercante ci regala la visita alla sua splendida casa: su tre piani, ovviamente piena di tessuti bellissimi e dai mille colori, con un ingresso dominato da un pergolato di vite dove un po’ gente si gode una relativa frescura. Abituati ai tempi di Istanbul, dove si mangia a qualunque ora, la prima sera a Bursa ci attardiamo a gironzolare nel quartiere intorno al fiume, tutti i ristoranti chiudono e cerchiamo di mangiare un kebap in un posto che pare caratteristico. Due clienti, noi, e ben undici dipendenti, tra cuochi, camerieri e uno che comanda, sembra abbastanza a caso. Nel portarci le bibite uno dei camerieri inciampa, fa cadere le lattine dal balcone, rischia di ammazzare i tizi che chiacchierano in strada (siamo al secondo piano), ma tutti si mettono a ridere: l’impressione è che sia una cosa normale. Mah?

Dopo la difficilissima notte all’Otel Lal, già descritta, andiamo subito a depositare gli zaini nel secondo albergo e lì ci facciamo una doccia, senza puzza e piccioni intorno. Due gli obiettivi della giornata: visitare l’antico villaggio ottomano di Cumalikizik e poi andare a Cekirge, quartiere termale a pochi chilometri dal centro di Bursa, a vedere il Museo delle marionette turche. Per Giorgio, attore e mimo quando non deve aver a che fare con giornalisti o altre disgrazie, è diventato un luogo imperdibile, ancor di più dopo aver mancato il Museo del Fumetto e dell’Umorismo turco. Con qualche difficoltà riusciamo a capire quale pullman porta a Cumalikizik, lo perdiamo e dobbiamo aspettare tre quarti d’ora. Siamo anche un po’ preoccupati: sulle guide c’è scritto che il paesino che dobbiamo visitare sta diventando una meta di turismo di massa. Ci diciamo che se c’è troppa gente torniamo subito indietro oppure andiamo a fare un giro a piedi verso l’Uludag, la montagna che sovrasta Bursa e una delle principali stazioni sciistiche turche. Potremmo essere gli unici turisti che vanno in Turchia ad agosto e invece che al mare vanno in montagna. Anche il solo pensarlo fa di me e Giorgio due tipi originali, ma non avremo problemi con il turismo di massa quindi niente scalata dell’Uludag. Nell’attesa del bus facciamo amicizia con un simpatico vecchietto, un tipo piccolino con la maglietta del Bursaspor, che vende proprio gadget della squadra della città. Indicando il mio cappellino dell’Inter, cerca di farci capire che tra pochi mesi giocheranno anche loro la Champions League. Vuole anche una foto con noi e, se capiamo correttamente i suoi gesti, dice che ci rivedremo a San Siro e che vinceranno loro. Mi viene da ridere, ma i tifosi turchi sono noti per essere abbastanza violenti e abbozzo solo un sorriso. Arriva il bus, saliamo, non ci sono altri turisti, solo un paio di donne che scendono in periferia e un signore dall’aria burbera che ci guarda in modo torvo. Dopo una ventina di minuti il bus lascia la strada principale e inizia a salire verso la montagna; dopo un altro quarto d’ora il conducente, da noi subito riconosciuto come un tipico abitante di Bursa, ma che in realtà scopriremo essere un bulgaro immigrato, ci fa segno di scendere. Nel paesino evidentemente non è arrivato il turismo di massa; diciamo pure che non è arrivato il turismo. In giro ci siamo solo noi e 3-4 tizi dell’est europa, abbastanza perplessi. Al nostro arrivo il paesino si attiva e vengono allestite in strada ben quattro bancarelle di frutta e marmellata e “gestite” o da bambini o da signore di età all’apparenza tendente al secolo. Potrebbero essere coetanee di Ataturk, ecco. Superiamo l’attimo di smarrimento e iniziamo a girare nel villaggio: niente di trascendentale ma qualche angolo caratteristico c’è. Io e Giorgio comunque pensiamo subito a come dare una svolta alla giornata: cerchiamo una locanda dove assaggiare le specialità gastronomiche ottomane. Dopo la difficile scelta tra le numerose possibilità (leggi: due) che ci riserva questa località di turismo di massa, optiamo per una sorta di trattoria all’interno di un giardino. Una novantina di coperti pronti, una dozzina tra camerieri e quant’altro, clienti solo noi. La prima cosa che ci fanno notare i camerieri sono le foto alle pareti, che ritraggono i personaggi della notissima, o perlomeno così affermano loro, soap-opera turca “Neve rossa” (o qualcosa di simile) che è stata girata proprio nel loro villaggio. Una sorta di “Un posto al sole” in salsa ottomana-montanara. I camerieri sono molto disponibili, per lavarci le mani a fine pasto ci spruzzano anche addosso dell’acqua, colpendo più le nostre magliette che le mani, ma pazienza. Passiamo al menù, che offre pietanze tipicamente “estive” come le köfte, polpette cotte al forno ricoperte di formaggio fuso. Ci sono 40 ° all’ombra, mangiarle è una follia, noi le mangiamo. Ottime, niente da dire, certo che ci arriva un pauroso abbiocco che per poco ci fa perdere il pullman del ritorno. Sul pullman ad un certo punto salgano una trentina di donne e ragazze che devono aver finito il turno in una fabbrica. Tutte con il velo che le ricopre i capelli, sembrano imbarazzate dalla nostra presenza, ma le più giovani sono anche incuriosite e abbozzano un sorriso, mentre le più adulte evitano di guardarci.

Passiamo un attimo in albergo a rinfrescarci e poi andiamo al Koza Han a prendere un the e a chiedere informazioni su come arrivare al Museo di Karagoz. Malgrado la cartina che mostriamo a chi chiediamo informazioni, si scatena un dibattito che coinvolge nell’ordine: tre baristi, due clienti, un barbiere, un religioso non meglio precisato e un paio di altri soggetti. Tutti parlano tra di loro ma nessuno riesce a dirci cosa dobbiamo fare. Passa almeno un quarto d’ora, noi iniziamo a ridere, io rispondo anche con due parole di dialetto tanto non ci si capisce comunque e alla fine in nostro soccorso arriva una ragazza seduta al tavolino di fianco al nostro, ragazza bellissima da noi subito battezzata “Miss Bursa”. Grazie alla sua intercessione capiamo che dobbiamo prendere un Dolmus per Cekirge (ci dicono trenta volta “taxicekirgecekirgetaxidolmuscekirgeok?”) e chiedere all’autista di lasciarci davanti al museo. Con ancora negli occhi l’immagine di “Miss Bursa” e con il dubbio di non aver capito un cazzo di quello che ci è stato detto, ci dirigiamo nella via dove passano i taxi collettivi, ennesimo mezzo di trasporto di questa trasferta turca. Dopo diversi tentativi falliti riusciamo a fermare un dolmus; “fermare” è però un termine errato, in pratica rallenta un poco e mentre siamo ancora mezzi fuori parte all’impazzata. Riusciamo a dire la destinazione, lui capisce che siamo italiani e inizia a urlare “Italiiia? Amicci Amicci, Fiat, Fiat!” e continua ad accelerare. Tocca e supera i 100 Km/h nel caotico traffico di Bursa e, mentre noi sbianchiamo terrorizzati, tira fuori il cellulare e chiama qualcuno. Guida con una sola mano sorpassando all’impazzata, il terrore aumenta e ad un certo punto ci passa pure il telefono da cui, sorpresa, esce la voce di un tipo che parla un discreto italiano. Scopriamo che si tratta di un amico del taxista che lavora allo stabilimento della Fiat a Bursa. In questo momento è in ufficio (Marchionne, ma sei sicuro che andando all’estero aumenti la produttività? Costerà anche meno il lavoro, ma questo è stato al telefono con noi mentre tu lo paghi…) e ci racconta di come ogni tanto venga in Italia per lavoro e che è felice che qualche italiano visiti Bursa, è una cosa molto rara. Noi chiediamo il suo aiuto per convincere il taxista a rallentare, ma lui ci assicura che il suo amico è “molto esperto” e poi “non ha quasi mai fatto incidenti”. Salutiamo il tipo della Fiat, poco rincuorati dal suo “quasi” e aspettiamo di arrivare. Il “nuvolari turco” compie ancora un paio di manovre azzardate ma, va detto, almeno ci lascia effettivamente dove avevamo chiesto, cosa che non capiterà sempre in questa vacanza. Visitiamo il Museo di Karagoz, unici turisti della settimana, Giorgio è felice e devo dire che piace anche a me. Si torna verso il centro di Bursa, stavolta il viaggio non riserva sorprese e quasi ne siamo delusi. La sera gironzoliamo nel parco della “torre dell’orologio” ed esploriamo le vecchie mura, pensando già che l’indomani ci dispiacerà salutare “Bursa la verde”, città che non dovevamo vedere e che invece ci ha riservato parecchie sorprese. Ci aspettano però le “Isole dei Principi” e anche li troveremo il modo di incontrare tipi molto particolari.

ISOLE DEI PRINCIPI

Lasciamo Bursa diretti alle Isole dei Principi. Abbiamo studiato tutte le possibilità, ma non c’è alternativa: per arrivarci occorre passare da Istanbul e tornare indietro con il traghetto, quindi il viaggio sarà abbastanza lungo. Pazienza, l’importante è che Giorgio ieri sera sia riuscito a trovare su internet una stanza in un bed and breakfast: è il 14 di agosto e le isole sono molto visitate in questo periodo, almeno non rischiamo di dover dormire all’aperto. Si riprende il pullman per Yalova, traghetto per Istanbul, tram per andare a Kabatas per salire sul traghetto per le Isole, che dopo una ventina di minuti iniziamo a intravedere. Alla fine non abbiamo mai fatto mare in questa vacanza ma abbiamo solcato il Bosforo, il Corno d’Oro e il Mar di Marmara parecchie volte. Le Isole sono quattro, noi siamo diretti alla più grande e più lontana, Büyükada, le prime tre le vediamo solo dal traghetto, incuriositi soprattutto dalla prima, Kinali, molto piccola e senza strutture turistiche. E’ l’”Isola degli Armeni”, poiché abitata da questa comunità fin dai tempi in cui l’Impero Ottomano era un esempio di tolleranza e integrazione. Nel tragitto incontriamo proprio un ragazzo ortodosso di rito armeno (che riconosciamo per via della croce che porta al collo) che ci da qualche informazione sulle isole e su cosa vedere. Bene, il primo impatto sembra positivo, addirittura uno che ci da informazioni chiare! Arriviamo a Büyükada e siamo abbastanza stanchi, da Bursa il viaggio è durato circa cinque ore e mezza. Sull’Isola non ci sono automobili, il bed and brekfast non è vicinissimo e quindi scegliamo di provare un altro mezzo di trasporto: la carrozza a cavalli. C’è un servizio che parte proprio dall’imbarcadero e sul cartello c’è scritto che ti porta ovunque sull’Isola. Notiamo subito che i prezzi sono più alti che nel resto della Turchia ma tant’è, questo è veramente il turismo di massa. Facciamo la fila per le carrozze, diamo l’indirizzo ad una sorta di responsabile che va a chiamare gli “autisti”, strani personaggi che sembrano messi piuttosto male. Non capiamo il perché, ma alcuni rifiutano di prenderci a bordo. Dopo alcune discussioni con il loro capo, saliamo sulla carrozza guidata da un tipo molto grosso che proviamo a salutare con un sorriso e che in risposta grugnisce incazzato. Va bè, non tutti i turchi possono essere simpatici. Lasciamo subito il “paesino” situato vicino all’imbarcadero e prendiamo una stradina che ci porta in un bosco e dopo qualche minuto la carrozza sterza a sinistra e imbocca una ripidissima salita. I cavalli, poveracci, fanno molta fatica. Dopo qualche metro, davanti ad una casetta, il conducente ci dice di scendere, sempre con un grugnito. Un po’ perplessi, perché la casetta sembra disabitata e comunque non ha proprio l’aria di essere una struttura ricettiva, scendiamo dalla carrozza e subito il conducente da una violenta frustata ai cavalli che partono velocissimi sulla salita mentre noi, terrorizzati dall’idea che ci stia rubando gli zaini, tentiamo di corrergli dietro. Sotto il sole, con almeno 40°, dopo venti metri rischiamo l’infarto e ci fermiamo. Si ferma anche la carrozza, in cima alla salita: ci aveva fatto scendere per alleggerirla e percorrere comodamente quel tratto, noi non avevamo capito. Facciamo la figura dei malfidenti, ma il seguito della giornata ci farà capire che non avevamo tutti i torti. Risaliamo sulla carrozza, siamo distrutti dai venti metri di corsa e dal caldo, ci facciamo cullare dall’andatura dei cavalli per riprenderci e non guardiamo nemmeno dove stiamo andando. Si rivelerà un tragico errore. Ad un certo punto, dopo almeno un altro quarto d’ora, il conducente ci fa segno di scendere, siamo in un tratto pianeggiante quindi stavolta non si tratta di un problema di peso. Davanti a noi c’è un lussuoso bed and brekfast e nessun’ altra casa intorno per parecchie centinaia di metri, paghiamo il tipo che ringrazia con il solito grugnito, scarichiamo gli zaini, salutiamo e ci fermiamo davanti all’ingresso, da cui intravediamo addirittura una piscina. Giorgio mi guarda e fa “hai visto dove sono riuscito a prenotare, eh?” io penso “su internet sembrava diverso”, ma non dico nulla anche perché se non era per lui non trovavamo certo un posto per dormire. Entriamo, ci salutano degli ospiti, tra cui due biondine dall’aria nordica in costume, e incontriamo il padrone di casa, un inglese sulla cinquantina. La villa è stupenda, pensiamo che per 30 € a notte è una favola, una dimora veramente da Principi, ci immaginiamo già sul bordo della piscina con un bicchiere di vino in mano e con le biondine al nostro fianco intente ad agitare dei ventagli per combattere per noi la battaglia contro il caldo. Abbiamo subito conferma che le favole non esistono: il conducente della carrozza ci ha scaricato in un posto a caso, molto lontano tra l’altro dal nostro alloggio. L’inglese, molto gentile, ci indica la strada, che dovremo fare a piedi: il tragitto sarà di almeno mezz’ora, con gli zaini e sotto il sole. Ci informiamo su quanto costa dormire lì, saputo il prezzo prendiamo gli zaini e ci incamminiamo. Le favole non esistono o comunque sono estremamente care. All’inizio ridiamo di questa ennesima disavventura, ma appena ci perdiamo in un bosco pieno di cartelli minacciosi scritti solo in turco (li riteniamo minacciosi per il gran numero di punti esclamativi presenti), non ridiamo più. Ci mettiamo più di un’ora e mezza ad arrivare nel nostro Bed & Brekfast e ci presentiamo alla famigliola che lo gestisce (nonna, mamma, nipote, gestione tutta al femminile) in condizioni pietose, intrisi di sudore e probabilmente puzzando. La signora si scusa per il comportamento dell’“autista” e ci dice che fanno spesso così. Buono a sapersi. Ci sono tre camere, ma nessun altro ospite oltre a noi, meno male che al telefono ci avevano minacciato che se non arrivavamo presto davano via i nostri posti. Scegliamo la camera al primo piano, la più bella ma anche la più calda, confermando che sul finale della vacanza siamo meno lucidi, ci facciamo la doccia e torniamo verso il paesino per una cena di pesce in riva al Mare di Marmara. Come in molti luoghi turistici, i camerieri sembrano affabili, in realtà trattano tutti malissimo, esattamente il contrario di quello che c’è capitato in molti trattorie o kebap “ di periferia” che abbiamo visitato, dove sembrano tutti burberi ma in realtà si rivelano molto disponibili. Pazienza, il pesce è buono e poi siamo stanchissimi, riprendiamo una carrozza e andiamo a dormire, stavolta attenti alla strada che prendono i cavalli. La mattina ci svegliamo con un chiodo fisso: andiamo al mare, sarà pure sporco, siamo davanti all’immensa e inquinata Istanbul, ma cavolo, siamo venuti in Turchia ad agosto, un bagno lo dobbiamo fare! Camminiamo verso uno dei “bagni” indicati dai cartelli. Delusione: in realtà si tratta di una sorta di piazzale di cemento dove si fanno pure pagare gli ombrelloni!! Siamo abbastanza allibiti, scopriamo che in realtà sulle Isole non ci sono spiagge libere e pagare per stare in un posto che sembra il parcheggio di un Autogrill non ci va proprio, quindi cambiamo velocemente il programma: si fa un giro a piedi di Büyükada e magari arriviamo fino in cima alla collina che la domina, dove c’è il convento ortodosso dedicato a S. Giorgio. Si possono anche noleggiare dei cavalli, ma noi, che in fondo siamo gente di montagna, decidiamo che a piedi ci vorrà un attimo. Ovviamente disdegniamo le indicazioni del “Tour dell’Isola” e prendiamo una stradina secondaria che ci porta agli alloggi dei tizi che guidano le carrozze e che accudiscono i cavalli. Sembra una favelas sudamericana, e questo lo dice Giorgio, che in Sudamerica c’è stato, ed abbiamo la conferma di cosa spessa nasconde il “turismo di massa”. Proseguiamo il nostro giro imboccando sentieri a caso, camminiamo un paio d’ore vedendo sprazzi splendidi di una Istanbul in fondo non molto lontana e notiamo come, purtroppo, i boschi dell’Isola siano invasi da sporcizia di ogni tipo. Il giro comunque ci piace, l’Isola è veramente bella, e decidiamo, finalmente, di dirigerci decisamente verso la cima, verso il convento di San Giorgio. Il problema è che ormai siamo stanchi, l’ultimo pezzo è di salita molto ripida e quindi ci facciamo convincere da Suleiman, un ragazzino turco molto sveglio, ad affittare due asini che ci portano in cima. Dopo aver ammirato una splendida ragazza libanese (che sia libanese lo decidiamo sul momento io e Giorgio, non sappiamo perché) che cavalca veloce e che non possiamo seguire in groppa agli asinelli, partiamo decisi verso il convento. Le due povere bestie ci portano fino in cima, soprattutto il mio asinello è in difficoltà visto il peso, ma non molla. Suleiman, che ci accompagna, è pure simpatico e continua a scattarci foto: l’imprenditoria turca potrebbe aver trovato un leader, è molto più gamba di tanti adulti incontrati in questi giorni. Siamo finalmente al convento da cui si gode una vista bellissima su tutte le isole e verso Istanbul, che da qui manifesta tutta la sua immensità, oltre che delle periferie che paiono agghiaccianti. Il tempo di riprendere un po’ di forze e siamo di nuovo in cammino, andiamo a mangiare un boccone in paese, poi torniamo al nostro alloggio a prendere gli zaini, è ora di rimettersi in viaggio. Non ce la sentiamo di fare il tragitto dal nostro alloggio all’imbarcadero a piedi quindi riprendiamo una carrozza, sicuri che stavolta non ci saranno sorprese, ma non sarà così. Dopo pochi metri la carrozza si ferma e l’autista inizia a mercanteggiare con due tizi molto robusti, arabi, vestiti con delle tuniche, una bianca e una grigia, che sono seduti su una panchina fuori da una piccola moschea. Siamo perplessi dalla scena, soprattutto perché in quattro sulla carrozza staremmo stretti. Questo non preoccupa il conducente, che imbarca anche i due e, infatti, stiamo molto stretti. Qualche sorriso di cortesia, ci sistemiamo al meglio ed io inizio a sentire una puzza fortissima, tanto da dire a Giorgio “ma non li lavano mai sti cavalli, eppure gli altri non puzzavano mica” e il mio amico mi fa notare, con lo sguardo, che a puzzare non sono i cavalli bensì i nuovi arrivati. E’ proprio così e purtroppo non è l’unica “caratteristica” poco piacevole dei due: appena saliti, infatti, iniziano a massaggiarsi i coglioni prima, ovviamente, di stringerci la mano per presentarsi… Scopriamo, parlano qualche parola di inglese, che sono due iracheni di Mosul in vacanza in Turchia e che hanno fatto visita ad una moschea sull’Isola. Ad un certo punto uno dei due tira fuori da sotto la tunica un enorme mazzo di banconote stropicciate, un mix di lire turche, euro e dollari. E’ una sorta di palla di medie dimensioni composta solo da banconote, non riusciamo ad immaginare quanti soldi sono, ma sicuramente tanti. Saputo che siamo italiani, i due iniziano ad esclamare “Iraq-Italia freends” “bella italiia” e noi abbozziamo dei sorrisi. Iniziano prima a darci delle vigorose pacche sulle spalle, sempre ridendo felici, e poi iniziano a parlare in iracheno pretendendo pure delle risposte, che ovviamente non diamo non capendo un cazzo di quello che stanno dicendo. Ad un certo punto il più grosso dei due inizia a far vedere i muscoli, sempre ridendo, e sembra voler fare a braccio di ferro con Giorgio. Pur perplesso, il mio amico gli porge la mano, che l’iracheno stritola con una mossa velocissima. Giorgio sente subito un forte dolore ad un dito e temiamo che non gli passerà per un bel pezzo (nota dell’autore: scrivo queste pagine a dicembre e il dito a Giorgio fa ancora male…). Arriviamo all’imbarcadero, scendiamo dalla carrozza e i due iracheni ci salutano dicendoci di andarli a trovare (ma ci vedete a Mosul a chiedere di due tizi conosciuti ad Istanbul che giravano con una palla di banconote?) e urlando a tutti che noi siamo loro amici, due poliziotti ci guardano malissimo e noi preghiamo che non vengano a fare una perquisizione ai due nostri “amici”: abbiamo paura di come possano giustificare tutti quei soldi e poi noi dovremmo chiarire che non c’entriamo nulla… no, di visitare Öcalan in un carcere turco proprio non abbiamo voglia. Saliamo sul traghetto per Istanbul, cercando di evitare la vicinanza con i due iracheni. Ci sistemiamo a prua (o a poppa, non so la differenza, insomma in una estremità) e ci stendiamo per riposarci, vicino a noi ci sono tre ragazze, che noi individuiamo subito come turche.

ANCORA ISTANBUL E RITORNO

Siamo veramente stanchi sul traghetto che ci riporta ad Istanbul, io faccio qualche foto alle Isole, ma dopo pochi minuti mi sdraio su una panchina, di fronte a quella in cui Giorgio ha già fatto la stessa cosa. Poco distanti chiacchierano le tre ragazze, subito classificate non solo come turche ma anche come sicuramente di Istanbul, e noi, visto che non abbiamo quasi mai trovato qualcuno che parlasse italiano, ad alta voce ci diciamo “potremmo anche chiedere a loro cosa fare in città questa sera, ma parleranno solo turco….” “ eh, già, lasciamo perdere”. Dopo un secondo una delle ragazze si avvicina a noi e, in perfetto italiano, ci chiede da dove veniamo… Scopriamo così che le tre non sono turche bensì azere e che una di esse parla benissimo la nostra lingua, così come parla correttamente il turco, il russo, l’inglese e un po’ di spagnolo, oltre ovviamente all’azero, simile ma non identico al turco. Facciamo conoscenza quindi di Aysel, che parla italiano, di Ayten e della terza ragazza di cui non ricordo il nome, che ci raccontano come per i paesi dell’Asia centrale che facevano parte dell’Impero Ottomano, Istanbul sia ancora oggi un punto di riferimento, tanto che molte di loro vanno lì a studiare, come ha fatto proprio Ayten, mentre le altre due hanno approfittato delle vacanze per venirla a trovare. Purtroppo la sera non possono accompagnarci a cena, ma ci scambiamo le mail e prima di salutarci ci elencano le innumerevoli bellezze dell’Azerbaijan e della sua capitale Baku, invitandoci ad andare a trovarle e specificando che “ci sono tantissimi turisti italiani da noi”. Noi proviamo ad immaginare quante persone che conosciamo sono state a Baku, non ce ne vengono in mente ma evidentemente non siamo abbastanza alla moda. Mentre aspetteremo l’imbarco per il ritorno, immagineremo che tutti gli italiani che incontriamo stiano facendo scalo di ritorno da Baku. Ad ogni modo tra famiglie di Kars, ragazze di Baku, irakeni di Mosul e mercanti di seta di Bursa abbiamo un sacco di gente che ci ha detto di passare a trovarli…. Ci rimane un’ultima sera nell’ex Costantinopoli e decidiamo che la nostra ultima cena la passeremo da “Abdullah Pascià”, ristorante già provato e ottimo, sicuramente il migliore tra quelli visitati, dove assaggiamo delle altre specialità turche a base di melanzane, manzo, agnello e innumerevoli spezie, spendendo ancora meno della prima volta, anche se è l’unico locale sfarzoso che frequentiamo nella nostra vacanza. Torniamo all’albergo, controlliamo che non sia scappato di nuovo qualcuno con la nostra prenotazione e il nostro anticipo, e ci riposiamo prima dell’ultimo giorno, da dedicare allo shopping. Andiamo al Bazar delle Spezie, che ha ancora una certa atmosfera “orientale” a differenza del Gran Bazar, e nei negozi vicino al Ponte di Galata, poi passiamo riprenderci gli zaini e ci concediamo un ultimo sfizio, un giro di Istiklal Caddesi con il tram d’epoca. E poi è finita veramente, ritorniamo in piazza Taksim a prendere il bus, andiamo all’aeroporto, aspettiamo molto perché il volo è in ritardo, vicino a noi aspettano dei ragazzi che rientrano a Teheran e ci vien voglia di andare anche noi, saliamo nuovamente su un velivolo della Pegasus, stavolta scomodissimo, e atterriamo a Fiumicino. Sono le tre di notte quando recuperiamo i bagagli, dobbiamo prendere un taxi e attraversiamo una Roma deserta sia per l’ora sia per il giorno, è il 16 di agosto. E’ un’immagine bellissima, degna conclusione di una splendida vacanza.

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