Tour del Cile
27/11: Santiago
Arriviamo la mattina a Santiago con volo Iberia con scalo a Madrid, e nonostante abbiamo dormito molto poco siamo abbastanza in forma. In aeroporto troviamo la fotografia di Federico, un amico di Kathy che era presente al matrimonio, fa l’ingegnere e il modello. Prendiamo un taxi non autorizzato (assolutamente sconsigliato da Anthony) che in meno di mezz’ora arriva in città costeggiando il fiume Mapocho, dall’acqua marrone e in periferia dalle sponde coperte di spazzatura.
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Abbiamo prenotato due appartamenti al 21° e 23° piano di un grattacielo con bellissima vista su Santiago e le montagne che la circondano. Dopo aver lasciato le valigie ed esserci un po’ ripuliti, con la metropolitana andiamo al Mercado Central, una struttura in vetro e ferro di inizio novecento con banchi di pesce e ristoranti. Ci mangiamo le famose machas a la parmesana, dei molluschi così sugosi che sembrano prosciuttini, ricoperti di parmigiano gratinato, seguiti da stupendi piatti di pesce. L’antica stazione Mapocho dopo i danneggiamenti dovuti a svariati terremoti è stata trasformata in uno spazio espositivo attualmente piuttosto disadorno. Una guardia ci fa entrare all’interno, in una vastissima sala dal pavimento di marmo su cui si riflette la luce proveniente dalle grandi vetrate. La giornata è soleggiata, secca, con una leggera brezza e bianche nuvole vaganti nel cielo.
In Plaza de Armas, circondata da eleganti edifici neoclassici con un giardino al centro, due predicatori ai capi opposti della piazza inneggiano alla gloria del signore e si scagliano contro la cattiveria degli uomini, mentre un numero consistente di persone sta seduto sulle panchine ad ascoltarli con aria imbambolata e dei bambini fanno allegramente il bagno nella fontana al centro della piazza. L’atmosfera delle ramblas chiuse al traffico, delle larghe avenidas bordeggiate da alberi di jacaranda, degli edifici neoclassici, è caratteristica delle città di impronta spagnola. L’offerta sulle bancarelle è invece piuttosto sudamericana, comprese le mutande color carne imbottite per aumentare il volume e la rotondità dei glutei. C’è una grande quantità di gente sovrappeso.
La Casa della Moneda è il palazzo presidenziale, color crema, semplice ma imponente. Sul suo lato destro c’è la statua di Salvador Allende, il presidente socialista ucciso dai golpisti nel 1973. Una grande bandiera cilena danza nel vento davanti al palazzo.
La nostra cena è a base di ciliegie corazon de paloma e di platanos, le banane, che abbiamo comprato nelle bancarelle vicino al Mercado Central. Sul tetto del grattacielo c’è una piscina, ma le sdraio agibili sono tutte occupate, inoltre c’è un vento pazzesco. Al tramonto le Ande innevate emergono dalla foschia tingendosi di rosa.
C’è un momento di terrore quando scopriamo che io e Mike non abbiamo più il PDI (Policía de Investigaciones), un foglietto apparentemente stupido, tipo scontrino del supermercato, che ti piazzano nel passaporto all’arrivo in Cile. Alla fine li troviamo nella pattumiera della stanza, dove Mike li aveva buttati in un eccesso di ordine di quelli che gli prendono ogni tanto.
29/11 – 2/12: Isola di Pasqua
La mattina del 29/11 con un volo di 3700 km della durata di quattro ore e mezzo voliamo da Santiago a Hanga Roa. Sull’aereo Silvana incontra una sua paziente che per colmo di coincidenza è seduta proprio vicino a lei.
L’isola di Pasqua è una piccolissima isola, grande circa come la metà dell’isola d’Elba, spersa nel mezzo del Pacifico, la terra più lontano da qualsiasi altra zona popolata. Politicamente è cilena, appartenente alla regione di Valparaíso, ma geograficamente fa parte della Polinesia, un immenso triangolo di isole sparse nel Pacifico, i cui vertici sono a sud ovest la Nuova Zelanda, a sudest l’isola di Pasqua, a nord le Hawaii. Tutta questa zona venne colonizzata in epoche successive dai polinesiani, esperti navigatori sempre in cerca di nuove terre, che si spostavano con animali, piante e semi sulle loro canoe a bilanciere. La loro conoscenza dei venti, delle stelle e delle correnti, unita al coraggio, allo spirito d’avventura e di sopravvivenza, superava i pericoli dell’oceano, delle grandi distanze e la bassissima tecnologia delle imbarcazioni. Il nome polinesiano dell’isola è Rapa Nui, grande roccia. Nelle epoche successive alla colonizzazione da parte di un re leggendario i suoi abitanti si consideravano unici al mondo, soli nel profondo blu.
All’aeroporto ci vengono a prendere Leo Pakarati e sua moglie Paula per portarci all’Aukara B&B, stanze spaziose immerse in un lussureggiante giardino tropicale, e nella migliore tradizione polinesiana ci mettono al collo ghirlande di fiori freschi.
Leo Pakarati è uno dei discendenti dei soli 110 abitanti originali di Rapa Nui sopravvissuti alle guerre civili, le carestie, la schiavizzazione, le malattie portate dagli occidentali. La capitale, Hanga Roa, è stata creata come un ghetto dagli inglesi che avevano trasformato l’isola in un allevamento di pecore. Prima dell’arrivo degli occidentali gli abitanti erano divisi in clan sparsi su tutta l’isola, si calcola che nel periodo di maggiore prosperità ci fossero fino a 15.000 abitanti. Solo nel 1966 gli abitanti di Rapa Nui hanno ottenuto i diritti civili, da allora l’isola al di fuori di Hanga Roa è stata trasformata in un parco nazionale, e solo i discendenti diretti dei 110 superstiti possono avere diritto di proprietà su costruzioni e terreni. Hanga Roa è una cittadina con case basse, in stile tradizionale, poche strade di cui molte in terra battuta, supermercatini, negozietti, ristoranti, ben tenuta ma non troppo, con fiori e giardinetti, il suo pittoresco cimitero dai doppi nomi spagnoli e polinesiani, e tanti cani randagi di tutte le razza che si fanno i fatti loro.
La nostra prima avventura sull’isola è la salita a piedi al Rano Kau, uno dei quattro vulcani inattivi dell’isola. Le pianure erbose meno esposte ai venti sono state parzialmente riforestate creando boschi di eucalipti. C’è caldo umido, grandi nubi grigie viaggiano nel cielo, la strada si inerpica sulla collina costeggiando la costa frastagliata e dirigendosi verso l’estremità sud, sotto Hanga Roa. E’ una camminata di più di un’ora, piuttosto più lunga di quanto ci aspettassimo guardando la cartina! Il cratere del Rano Kau ha una forma circolare quasi perfetta, un po’ smangiata solo dal lato verso il mare, per metà pieno d’acqua sulla quale galleggiano isole d’erba gialla e ruvida. Un tempo, quando l’acqua piovana raccolta in grandi bacili di pietra scarseggiava, i crateri erano la riserva d’acqua di quest’isola priva di fiumi e sorgenti. Costeggiando verso sud ovest il vulcano arriviamo a Orongo, un piattaforma erbosa sospesa come una terrazza su una ripida scogliera. A qualche centinaio di metri spunta dalla spuma delle onde l’isolotto roccioso di Motu Nui preceduto dallo spuntone di Motu Iti. Sento una grandissima emozione nell’essere davanti a questo scenario dopo aver visto il film “Rapa Nui”, imperniato sulla cerimonia-competizione del Tangata Manu, l’uomo uccello. I più coraggiosi e dotati giovani dei vari clan partivano da Orongo, si calavano lungo la scogliera a picco sul mare, con l’aiuto di una sorta di body surf di erbe intrecciate nuotavano fino a Motu Nui, e qui per giorni, senza mangiare nè bere, attendevano l’arrivo delle sterne migratrici a deporre le uova. Chi non era ancora morto si impadroniva di un uovo riponendolo in una specie di borsino di paglia sistemato sulla fronte, scendeva dall’isolotto, tornava a nuoto a Rapanui e risaliva la scogliera cercando di proteggersi dagli altri contendenti che tentavano di eliminarlo o di rompergli l’uovo. Il primo ad arrivare con l’uovo intatto era proclamato vincitore e il suo clan per un anno comandava sull’isola (non senza abusi). La competizione è stata tenuta fino alla metà dell’800, quando i missionari cristiani la vietarono. Allorchè gli europei arrivarono qui tutto cambiò, l’isola non era più l’ombelico del mondo, unica terra emersa nel profondo blu, ma un remoto e banale pezzo di terra vulcanica sperso nel mare tra giganteschi continenti, dove si conoscevano le navi a tre alberi, i metalli, le armi. Nè l’uomo uccello e nè l’ariki avevano una minima idea di questa spaventosa realtà, quindi la loro saggezza, la loro potenza, non valevano più nulla. Fu la fine di un mondo.
Il secondo giorno sull’isola ci facciamo portare in giro da Leo, discendente della famiglia dell’ariki, il re dell’isola. Ha i tratti somatici tipici del polinesiano, naso largo, bocca tumida, carnagione scura, robusto e panciuto, con lunghi capelli neri che si avvolge in un nodo instabile in cima alla testa. E’ un cineasta specializzato in documentari sulla sua isola e cultura, e ha partecipato come cameraman alla realizzazione del film Rapa Nui, con una quantità di bellissimi giovani polinesiani e polinesiane seminudi, tra i quali spiccava il protagonista, Jason Scott Lee, che interpretò anche il film su Bruce Lee. Il nome di Leo in lingua Rapa Nui è lunghissimo e racconta tutta la storia della famiglia. Anche i tatuaggi degli abitanti, ai polsi e alle caviglie, hanno significati ben precisi, un bar code unico che racconta la storia e la posizione nella società di chi li porta.
Il sistema di governo del Tangata Matu si instaurò dopo una sorta di guerra civile, che tolse il potere al re e alle caste sacerdotali, i moai vennero buttati giù e non se ne costruirono più. Il re, l’ariki, continuava a vivere nel suo splendido isolamento sulla spiaggia di Anakena ma aveva solo una funzione rappresentativa. Non si sa quanto sia durata l’epoca di costruzione dei moai, probabilmente dal 1000 al 1500, poi non vennero più costruiti, o molto meno, verosimilmente per una crisi del sistema politico-religioso causata da sovrappopolazione e depauperamento delle risorse. Quando l’isola di Pasqua venne scoperta dal navigatore olandese Roggeveen nel giorno di Pasqua del 1722 egli descrisse per primo le misteriose statue in posizione eretta, ma allorchè sull’isola dopo 50 anni sbarcò il Capitano Cook le statue giacevano a terra: guerra civile, rivoluzione o terremoto?
I moai sono statue monolitiche di pietra alte dai 5 ai 10 metri, con enorme testa, grande naso all’insù, mento aguzzo e sporgente, orecchie lunghe, un busto schematico sul quale sono intagliate le mani dalle lunghe dita appoggiate sulla pancia, a volte un accenno di genitali o di gambe, a volte elaborati disegni sul torso o sulla schiena.
Ahu Tongariki nella parte sud è una delle zone più suggestive dell’isola: i grandi moai, molti con il pukau, un cappello di lava rossastra, sono allineati davanti al mare, guardando verso la terra dove sorgeva il villaggio di basse case di pietra. Non molto diverso dalle case per gli umani era il pollaio: i polli e delle specie di grossi topi erano gli unici animali portati dai colonizzatori polinesiani, e l’unica fonte di proteine animali oltre al pesce. Altro alimento basilare era il taro, una specie di patata importata dal sud America negli incessanti viaggi dei navigatori polinesiani molto prima che questo continente venisse scoperto dai Vichinghi o da Cristoforo Colombo.
Tutti i moai provengono dal cratere di Rano Raraku, nella parte sudest di RapaNui, dove si estrae una lava facilmente lavorabile. I moai venivano estratti dalla roccia, sollevati e trasportati nelle varie parti dell’isola. A Rapa Nui ci sono quasi 1000 moai, di cui 400 sono rimasti in varie stadi di costruzione e in varie posizioni, eretta, obliqua o sdraiata, lungo la pendice sud del cratere. Sdraiato e ancora parzialmente imprigionato nella roccia c’è il moai più alto, 22 metri. Qui sono stati trovati gli unici moai ancora in piedi, fa parte del mistero perchè così tanti moai siano qui anzichè nei luoghi di destinazione: a causa di un’ improvvisa guerra, di un cambio di stile, della caduta accidentale durante il trasporto?
Gli antichi abitanti di Rapa Nui non conoscevano i metalli, la lava morbida veniva lavorata con una lava più dura, il basalto, gli intagli fini venivano fatti con una lava vetrosa dura e tagliente, l’ossidiana. Gli occhi di corallo bianco e ossidiana venivano applicati solo alle statue già innalzate (o poco prima che si innalzassero) perciò tutti i moai tranne uno hanno le orbite cave, perchè gli occhi non erano ancora stati applicati oppure sono andati distrutti o persi quando sono caduti. Secondo Leo costruire un moai e trasportarlo fino al luogo desiderato, lontano anche 10 chilometri dalla cava, non è così difficile, sembra che un team di loro uomini l’abbia fatto in circa tre mesi, utilizzando gli strumenti esistenti all’epoca: basalto, corde, legname, forza di braccia. Non c’è quindi da invocare l’intervento degli extraterrestri o degli spiriti come hanno fatto in molti. L’interno del cratere di Rano Raraku è un paradiso terrestre, sulle pendici erbose verde smeraldo brucano i cavalli bradi, gli uccelli gorgheggiano sugli alberi dai fiori scarlatti, l’acqua immobile come uno specchio riempie a metà la conca.
I moai raffigurano gli antenati, che con il loro mana, il loro spirito, proteggono i discendenti. Erano allineati sopra piattaforme di pietra, gli ahu, dentro le quali erano sepolti i morti. Per questo adesso gli abitati di Rapa Nui chiedono ai vari musei del mondo la restituzione dei moai, che non sono solo impressionanti statue di pietra ma simboli impregnati dello spirito della loro gente. Il primo a restaurare e rimettere in piedi i moai fu l’esploratore navigatore norvegese Thor Heierdhal, arrivato a Rapa Nui sul Kon-Tiki, la zattera di balsa. I moai restaurati sono stati rimessi nella loro posizione originale, rivolti verso terra, verso il villaggio, gli è stato rimesso il capello rosso, ad uno solo vicino ad Hanga Roa è stato possibile ritrovare e riapplicare gli occhi.
Sono state ritrovate delle tavole di legno con una misteriosa scrittura ancora indecifrata, il rongorongo, poche e sparse nei vari musei del mondo. Alcuni sostengono che si tratti di segni senza senso, ma se effettivamente fosse una scrittura sarebbe veramente incredibile che una società così isolata dal mondo sia riuscita a sviluppare, oltre a opere uniche e straordinarie come i moai, anche una scrittura propria. La bandiera dell’isola, adottata nel 2006, rossa in campo bianco, raffigura il rei miro, il pettorale di legno usato dai re e dagli alti dignitari per 700 anni, in forma di canoa polinesiana, con due teste umane alle estremità. L’unica spiaggia dell’isola è a nord, Anakena, duecento metri di sabbia bianco rosata e mare turchese, palme portate da Tahiti nel 1970 sul tappeto erboso alle spalle, e una fila di moai tra i più belli dell’isola. La temperatura dell’acqua varia tra 24 gradi in inverno e 27 gradi in estate, ci si scotta anche se è nuvolo, ne sa qualcosa il coppino di David. Credo sia uno dei luoghi più suggestivi al mondo, ci siamo andati al mattino in taxi da Hanga Roa in circa mezz’ora, c’era ancora pochissima gente. E nei baretti dal tetto di paglia fanno dei centrifugati da fine del mondo.
Che cielo stellato abbiamo visto uscendo sulla veranda, al buio e lontano più di 3000 chilometri da qualsiasi luce! Sembrava di essere immersi in un mare di stelle. Un’altra meraviglia dell’isola è il pesce e come lo cucinano. Il ristorante Te Moana è a destra del porto, a pochi metri dal mare. Si vedono tramonti splendidi, pieni di fuoco, acqua e nuvole, mentre i surfisti danzano sulle onde.
E una sera che ha fatto uno scroscio di pioggia verso il paese c’era un doppio arcobaleno.
Purtroppo tutto finisce, è il giorno della partenza: ultimi souvenir, invio delle cartoline all’ufficio postale. Al porto due pescatori stanno squartando un grosso pesce e buttano i resti alle due tartarughe che vivono qui sotto, l’attrazione del porto
All’arrivo ci avevano messo al collo ghirlande di fiori, adesso ci danno una collana di conchiglie. In gennaio Leo andrà in Finlandia a un festival di documentari, potrá filmare anche l’aurora boreale che quest’inverno si vede con straordinario chiarezza. Il documentario vincitore sarà proiettato sopra la parete di un iceberg. Se non è vita questa…
Alla sera nell’hotel di Santiago ci chiedono il PDI, chiedo al ragazzo della reception cosa succederebbe se lo perdessimo: “No sale del pays” (non esce dal paese) mi dice ridendo.
3/12 – 7/12: Deserto di Atacama
Il giorno dopo all’alba voliamo per 1500 km verso nord atterrando a Calama, nella regione di Antofagasta. Questa regione e quelle più a nord sono state conquistate dal Cile al Perù e alla Bolivia durante la guerra del Pacifico, dal 1879 al 1884, impadronendosi delle terre più ricche del paese, con giacimenti minerari di rame, nitrato, argento, litio.
Con un viaggio in autobus di circa 100 km verso sud est arriviamo a San Pedro de Atacama, un’allegra cittadina di quasi 5000 abitanti con le strade in terra battuta rossastra, le case di adobe, una miscela di argilla, paglia e sabbia, nugoli di cani randagi di stazza ragguardevole, colorati negozietti di artigianato locale, una bella piazza alberata, una suggestiva chiesa del 1600 con ingenue statue della vergine addobbate come bambole in crinolina, tanti baretti e ristorantini, innumerevoli agenzie per i tour nel deserto.
San Pedro de Atacama è situato in un altipiano a circa 2500 metri di altezza, siamo alloggiati nell’Hotel Casa Don Tomas, circa 10 minuti a piedi dalla piazza principale. Fa un gran caldo, anche se l’atmosfera secca lo rende un po’ più sopportabile e appena ci si sposta all’ombra si sta già bene. San Pedro è il punto di partenza per le escursioni nel deserto di Atacama, il deserto più arido del pianeta, protetto dall’umidità verso est dalla cordigliera delle Ande e verso ovest dalla cordigliera della costa. Tra inenarrabili difficoltà questo deserto fu attraversato nel 1540 dalla spedizione del conquistador Pedro de Valdivia, che nel 1541 fondò Santiago.
La Valle della Luna, pochi chilometri a ovest da San Pedro, è una grandiosa formazione di rocce e vallate modellate dal vento come un territorio lunare. Con una faticosa camminata a piedi sotto un sole cocente, affondando prima nella sabbia e poi inerpicandoci su una cresta rocciosa, passiamo a fianco di una vallata di sabbia grigiorosata così liscia da sembrare un lago.
Verso est nella catena delle Ande si erge il vulcano Licancabur (familiarmente da noi chiamato Licantropo), dalla forma perfettamente conica, alto quasi 6000 metri.
Circa 40 chilometri a sud di San Pedro c’è il tranquillo villaggio di Toconao, con la sua bella chiesetta bianca e il campanile separato, dove una suorina zelante si mette a suonare le campane. Un lama sbuca fuori da una casa e la padrona corre a riprenderselo, chiamandolo : “Llama, llama”. La chiesetta ha il soffitto di legno di cactus, con piccoli incavi naturali molto decorativi dove crescevano le spine. Molte specie di piante si sono evolute per resistere al clima arido e alla salinità del deserto, come il tamarugo, un albero fiorito che vive solo nel nord del Cile, e delle erbe gialle e ispide che gli indios usano per fare i tetti di paglia delle loro casette di adobe.
Il Salar de Atacama, 55 km a sud di San Pedro, è il maggior deposito salino del Cile, utilizzato un tempo per la raccolta del sale e il suo commercio con le popolazioni andine. Molto più importante è attualmente il litio, di cui il Salar possiede il 25% delle riserve mondiali, oltre al borace e ai sali di potassio. Il Salar è una depressione nella quale l’acqua piovana e rami senza uscita di piccoli corsi d’acqua provenienti dalle Ande evaporano rilasciando il loro contenuto di sali. In alcune zone, come nella laguna Chaxa, c’è acqua sufficiente a consentire la vita di piccoli crostacei di cui si cibano i fenicotteri, che con la loro grazia di ballerini si spostano pattinando sull’acqua, dispiegando le ali frangiate di nero per volare da una laguna all’altra, fino ai salar della Colombia e dell’Argentina. Il ballo del flamenco è stato ispirato proprio dalle movenze di questi uccelli.
Proseguendo il viaggio verso sud est saliamo sempre più in alto, fino a 4300 metri alle lagune Miscanti e Miniques. Il paesaggio è estremamente suggestivo, solitario, l’aria rarefatta. Siamo circondati da maestosi vulcani, i creatori di questo paesaggio di cenere indurita dal passare dei millenni.
Un maschio dominante di vigogna scruta il paesaggio per individuare potenziali nemici, in pratica altri maschi, a una certa distanza dal suo branco che bruca tranquillo.
Ci fermiamo a mangiare in un villaggetto quasi al confine con l’Argentina. In questa zona come in tutto il territorio del deserto, vivono gli indios atacameñi, bassi e di pelle scura. Ci danno delle buone pagnotte con il pebre, la salsina che ti portano sempre come antipasto in Cile, fatta di un miscuglio di pomodori e cipolle tritati, ají (un peperoncino verde che non sembra esistere in Italia), coriandolo, aglio, olio e un po’ di aceto. La zuppetta di verdure non è male, ma la carne di lama piace solo a David. Alla sera abbiamo cominciato a mangiare sempre al nostro albergo, dove cè un bell’ambiente, buona musica, buon cibo e prezzi bassi. Alle 4 bisogna svegliarsi per andare a veder sorgere il sole ai Geyser del Tatio, 80 km a nord quasi al confine con la Bolivia. Tatio significa “forno” in lingua quechua, la lingua dell’impero inca parlata ancora dagli indigeni boliviani che abitano in questa zona. Dopo quasi 2 ore di dormiveglia e di scossoni giungiamo a un pianoro a 4300 metri di altezza nel quale soffiano 80 geyser. La temperatura è di -10°, ma dai racconti apocalittici ce l’aspettavamo anche più bassa. A quest’altezza l’acqua bolle a 86 gradi, i getti si innalzano con una densa corona di vapore causata proprio dalla bassa temperatura, circondati dall’alone luminoso del sole che si sta innalzando.
Mentre tutti sono intenti a fotografare i geyser una vigogna passa solitaria e indisturbata tra uno sbuffo e l’altro.
La temperatura sale rapidamente, al punto da avere il coraggio di fare il bagno in una pozza calda dove sono già a mollo parecchi altri turisti. Mi cambio in uno spogliatoio zeppo di roba buttata alla rinfusa, con una puzza di piedi putridi pazzesca. Riesco a mettermi il mio costumino rosa con i lustrini e a piedi nudi mi immergo nella pozza, caldissima in alcuni punti, tiepida in altri. Alla fine mi rivesto e in albergo scopro di avere nello zaino un paio di mutande nere da uomo, qualcuno ha dovuto andarsene via senza l’intimo!
Una delle zone meno battute dai turisti, a meno di 100 km da San Pedro, è la Valle dell’Arcobaleno (Arcoiris), per raggiungerla si prende la strada per Calama, poi si piega a ovest verso il Rio Grande. Bisogna fare anche dei guadi di un fiumiciattolo, il Rio Salado, che proviene dai geyser. La valle si inoltra tra rocce e pinnacoli colorati di verde, bianco e rossastro, con passaggi stretti tra le guglie di pietra e grotte a forma di imbuto nelle quali filtra dall’alto la luce del sole.
Sulla strada del ritorno passiamo dal piccolo villaggio di Yerbas Buenas, dove gli indios vivono di pastorizia allevando i lama. Tra le rocce alle spalle del villaggio antiche popolazioni in un periodo imprecisato ma probabilmente alcuni millenni fa hanno inciso nella roccia petroglifi raffiguranti lama, sciamani, una volpe dai grossi dentacci e persino una scimmia, frutto dei loro viaggi per commercio verso la Bolivia. E’ bellissimo il petroglifo di una femmina di lama incinta, con il piccolo lama nella pancia con la testolina che le sbuca dal dorso. Con queste incisioni l’antico popolo ha voluto rendere omaggio al lama, la cui domesticazione avvenuta circa 5000 anni fa ne ha reso possibile la sopravvivenza in questa terra inospitale. In Cile vivono quattro camelidi: i lama e gli alpaca, domestici, i guanaco e le vigogne, selvatici. I lama sono i più grossi e meno belli, con gli occhi cisposi, il pelo ispido e arruffato, e il carattere da mulo testardo.
7/12 – 10/12 – Regione di Los Lagos: Chiloè, Lago Llanquihue
Anche oggi sveglia all’alba, andiamo in bus verso Calama, attraversando il deserto con installazioni di pale eoliche dell’Enel. Da Calama prendiamo l’aereo per Santiago e poi da Santiago a Puerto Mont. La giornata è serena, dall’aereo si vedono i laghi blu che occhieggiano tra la vegetazione a ridosso delle cime innevate dei vulcani andini. A Puerto Montt, con nostra grande sorpresa, ritiriamo un fiammeggiante ed enorme pickup Nissan 4×4, con la parte posteriore per mettere i bagagli chiusa da un telone di plastica con cerniere. Mike ne prende subito possesso come se non avesse mai guidato altro in vita sua, tenendo anche in mano l’iphone con la mappa della zona. Da Puerto Montt prendiamo verso sud per raggiungere l’isola di Chiloè, la seconda isola più grande del Sud America. Sul traghetto ci mettiamo a parlare con due donne di Chiloè molto cordiali che ci raccontano un sacco di cose su di loro e sull’isola, come la leggenda chilota del caleuche, la nave fantasma. Ho letto di quest’isola fantastica nel libro di Isabel Allende “I quaderni di Maya”, le chiedo allora della pincoya, la sirena, pensando che si metta a ridere, invece asserisce molto seria di averla vista varie volte. Ha dei lunghi capelli biondi e nei giorni di sole si pettina seduta sugli scogli, ma non bisogna cercarla, appare quando meno te l’aspetti. Ci consigliano di andare a Cucao al Muelle de las Almas sul Pacifico.
Chiloè è un’isola collinare dalla natura rigogliosa, con strade ondulate, cespugli di ginestra lungo la strada, fattorie con case di legno colorate, steccati di rami intrecciati, mucche, cavalli e pecore al pascolo. Castro, la capitale, a circa metà dell’isola sulla costa est, guarda verso il mare interno davanti a isole e isolette. E’ costruita su due lembi di terra che abbracciano la baia come le chele di un granchio. Dalla bucolica quiete della campagna ci ritroviamo in un traffico caotico, in un dedalo di sensi unici e strade strette e molto pendenti. Finiamo in un hotel Palafito sbagliato, per poi scoprire che qui ci sono decine di hotel su palafitte! Infine grazie all’aiuto della cameriera capiamo che il nostro hotel Palafito è dall’altra parte della baia, bisogna attraversare un ponte. Le casette sono tutte costruite in legno, colorate, quelle fronte mare, come il nostro albergo, poggiano su palafitte, con giardinetti di rose, gerani e calle e i soliti cani sciolti per le strade.
L’hotel è bellissimo, tutto in legno, con una gran quantità di coperte e cuscini di lana ruvida, classiche della zona. A fianco dell’hotel una casa su palafitte ha una terrazza ricavata dalla prua di una barca dipinta in rosso e giallo, i vicini stanno prendendo l’aperitivo sul pontile.
Verso sera la marea scende, l’acqua si abbassa di parecchi metri lasciando quasi scoperto il tratto di mare che separa i due quartieri di Castro.
Anche in Cile l’8 dicembre è la festa dell’Immacolata, e nemmeno qui sanno bene che festa sia, il nostro receptionist parla addirittura di Assunzione della Vergine. Le chiese chilote, vanto e particolarità dell’isola, sono state costruite interamente in legno prima dai Gesuiti poi dai Francescani dalla metà del XVIII secolo sino agli inizi del XX, sviluppando uno stile particolare che combina i caratteri delle chiese europee con la tecnica dei carpentieri del luogo, abituati a costruire barche. Purtroppo sono quasi tutte chiuse, come la chiesa di Castro, nella piazza principale, di color giallo limone con due campanili. Non si può visitarla all’interno perchè stanno facendo un trattamento di fumigazione per eliminare i parassiti del legno che deve essere ripetuto ogni 5-8 anni. Per fortuna gli operai ci lasciano entrare dalla porta laterale, c’è un ponteggio mobile con il quale possono arrivare fino al soffitto. L’interno è tutto in legno, con l’aspetto di un parquet, molto pittoresco e architettonicamente sofisticato.
Spesso facciamo conoscenza e conversazione con abitanti del luogo o cileni in visita, che hanno una grande opinione dell’Italia e degli italiani. Un venditore in un negozietto dove Mike compra un elato dice che sente molto affetto per Raffaella Carrá! Ci spostiamo sull’isola di Quinchao, ancora più agreste si Chiloè. Anche la chiesa di Achao è chiusa, ci indicano di andare a quella di Villa Quinchao, dove c’è una festa. Il tragitto è bellissimo, la natura dolce e selvaggia, verso est oltre il mare sulla terraferma si vede la cima innevata di un vulcano andino, al confine con l’Argentina. A Quinchao si fa fatica ad entrare perchè c’è una festa paesana, la chiesa è carina, ricoperta fuori da piastrelle di legno color ardesia, un solo campanile, l’interno tutto in legno con la navata centrale dal tetto piatto dipinto in blu e tempestato di stelle. C’è persino una statua di Padre Pio. Comunque mi sa che viste tre chiese sia più che sufficiente per quanto riguarda l’itinerario chiese chilote, infatti anche la chiesa di Nercon è più o meno uguale.
Ritornati a Chiloè, costeggiando un lago lungo una stretta strada di montagna quasi deserta, attraversiamo l’isola arrivando a Cucao sull’Oceano Pacifico. Una strada sterrata di 12 chilometri dapprima costeggia il mare, si può andare in macchina sulla spiaggia dalla sabbia ben battuta. David impazzisce a guidare finalmente la Nissan 4×4 sgommando in curva e disegnando 8 sulla sabbia. Poi la strada si allontana dal mare passando per pendii erbosi, con cavalli al pascolo, puledrini, mucche e vitellini, ogni tanto una fattoria. Attraversiamo un ponticello di legno che secondo un cartello scolorito dalle intemperie non sopporta più di 2 tonnellate di peso, pensando che il muelle sia quello e le anime quelle dei probabili morti nel crollo.
Invece la strada prosegue, contornata da cespugli di enormi foglie carnose, fino ad un grumo di auto in sosta. Per andare al Muelle de las Almas (molo delle anime) c’è un trekking di 45 minuti, tutto un saliscendi tra dolci pendii di erba bassa e carnosa color smeraldo e boschi di sempreverdi. Sono oltre le 6, il sole disegna ombre lunghe, incontriamo poca altra gente, pare di essere in un paesaggio del Signore degli Anelli. E infine si arriva al muelle, un ponte tagliato a metà proteso come un trampolino verso la scogliera. Gli indigeni mapuche dell’isola credevano che quando una persona moriva la sua anima dovesse viaggiare fino alla scogliera di Punta Pirulil, dove siamo adesso, e da lì essere trasportata dal barcaiolo dei morti, una sorta di Caronte, sulla sua barca di spuma bianca fino all’orizzonte e al cielo. Si sentono strani muggiti, probabilmente l’eco dei versi dei gabbiani tra le fenditure delle rocce, ma capiamo perchè quest’isola abbia le sue leggende e personaggi fantastici.
A Punhuil, sulla costa pacifica a sud di Ancud, andiamo a visitare la pinguinera. Con una barca ci portano verso le rocce vulcaniche che spuntano dal mare a poca distanza dalla costa, dove nidificano pinguini di Magellano e di Humboldt, pellicani, cormorani, anitre che non volano ma nuotano. Tutti questi uccelli formano coppie indissolubili che covano le uova a turno.
Un pallido sole trapela da dietro la nebbiolina, osserviamo un fenomeno fantastico, l’arcobaleno circolare, che circonda il sole disegnando un inquietante occhio. Significa che pioverà presto.
Poco prima di Ancud si passa dal Kuranton, un ristorante segnalato dalla guida (ma trovato per caso) dove non possiamo crederlo ma proprio quando arriviamo stanno scoprendo il curanto al oyo, la specialità di Chiloè, per una comitiva venuta apposta in pullman da Santiago. Il padrone del ristorante, Don Julio, con i suoi aiutanti, toglie prima zolle di terra, poi una tela poi le grandi foglie rigide e spinose che abbiamo visto sull’isola, rese molli dalla cottura. Si mettono così a nudo gli strati dei vari ingredienti cotti al vapore in un buco scavato per terra dove sulle braci sono state messe delle pietre e altre di quelle foglie, formando una specie di forno. Il curanto è fatto di molluschi simili a grosse cozze e vongole delle dimensioni di bistecchine, pollo, maiale, patate e degli strani pezzi di pane molle sormontati da patata grattugiata diventata scura per l’ossidazione. Tutto il gruppo di Santiago assiste col fiato sospeso allo scoperchiamento del curanto, ogni tanto ci lanciano occhiate incuriosite perchè non facciamo parte della comitiva e quando vengono a sapere che siamo italiani gridano in coro “Bella Italia!” e ci battono le mani. Ne mangiamo due piatti in quattro, una strana delizia che si rivelerà piuttosto pesante da digerire ma non per David, che comunque coinvolgiamo suo malgrado nel saltare la cena.
Verso le 5 del pomeriggio arriviamo all’hotel Casa Molino, a qualche chilometro da Puerto Varas sul lago Llanquihue, il secondo lago più grande del Cile, con una superficie di più del doppio del lago di Garda. È una sorta di magione, immersa in verdi prati all’inglese, tra un tripudio di cespugli in fiore, betulle e sempreverdi. Ci si avvicinano subito per giocare dei cani festosi, gli ibis (bandurrias) stanno a guardare sul bordo del prato poi volano sui comignoli facendo il loro verso sgraziato simile al raglio di un asino. Il prato finisce su un dirupo che sovrasta di una ventina di metri la riva del lago, sulla spiaggia e le rocce antistanti sono posati decine di gabbiani. Peccato che la nebbiolina non ci permetta di vedere il vulcano Osorno dalla cima innevata, proprio sull’altra sponda del lago.
Puerto Varas non è nulla di che, una bella cittadina moderna sul lago, ma la nostra impressione è probabilmente influenzata dal cattivo tempo. Andiamo allora a Frutillar, che invece è molto graziosa, con casette di legno dall’aria tirolese, un molo in stile liberty e e un bellissimo teatro moderno in legno proteso sul lago. In questa zona nella II metà dell’800 c’è stata un’intensa immigrazione tedesca, favorita dal governo per migliorare la qualità della popolazione con gente disciplinata e lavoratrice, ed è stata una buona idea perchè la regione è divenuta uno dei più importanti centri agricoli del paese.
Molto malvolentieri riportiamo il pickup rosso all’aeroporto di Puerto Montt, fine della nostra avventura fly and drive nella regione di Los Lagos.
10/12 – 13/12: Punta Arenas, Puerto Natales, Parque Nacional Torres del Paine
Da Puerto Montt voliamo a Punta Arenas, che è una delle città più a sud dell’emisfero australe, costruita sul lato nord dello stretto di Magellano. Per arrivare fin qui via terra da Puerto Montt sarebbe necessario fare una strada di 2000 km e 30 ore che dalla città di Osorno, ai piedi del vulcano, sconfina in Argentina, per poi tornare in Cile poco più a nord dello stretto. Il territorio cileno è infatti troppo frastagliato e percorso da fiordi per poterlo attraversare via terra.
Nel 1520 il navigatore portoghese Ferñao de Magalhães, o Fernando de Magallanes in spagnolo, fu il primo ad intraprendere la circumnavigazione del globo partendo dalla Spagna, anche se non la portò a termine perchè nel 1521 fu ucciso dagli indigeni di Mactan, nelle Filippine. Magellano individuò lungo la costa atlantica del Sudamerica un passaggio che con una perigliosa navigazione portava sulla costa del Pacifico. Lo stretto di Magellano divide il continente americano dall’isola più grande del Sud America, Terra del Fuoco, chiamata così dallo stesso Magellano perchè vi aveva scorto fuochi accesi dagli indigeni. Capo Horn, lo scoglio più meridionale dell’arcipelago di Terra del Fuoco, venne doppiato circa un secolo dopo dagli olandesi. Lo stretto di Drake, tra Terra del fuoco e Antartide, offre spazi di manovra più ampi ma le condizioni del vento e delle correnti sono estreme, tanto che venne soprannominato “cimitero delle navi”. Magellano partì dalla Spagna finanziato da Carlo V con cinque navi, di cui solo una, la Victoria, riuscì a tornare al comando del luogotenente Antonio Pigafetta, di Padova, che narrò dell’incredibile spedizione. Fino alla costruzione dell’istmo di Panama nel 1914, lo stretto di Magellano, e in seguito lo stretto di Drake, rappresentarono la via più veloce per raggiungere l’Oriente partendo dai grande porti europei e americani. La storia delle grandi navigazioni mi affascina, la maggior parte dei marinari e degli ufficiali incontrava la morte, a causa delle tempeste, delle malattie, degli indigeni, ma l’epopea continuò, dalle canoe dei polinesiani ai vascelli degli europei, in cerca di nuove terre, nuove ricchezze, avventura, conoscenza, anime da salvare…
Nel porto di Punta Arenas sono ormeggiate le copie di tre navi storiche: la Victoria, di Magellano, la goletta Ancud, che nel 1843 in nome del governo cileno prese possesso dello stretto e fondò la prima colonia di quella che sarebbe diventata Punta Arenas, e il brigantino Beagle, che nel 1833 ospitò Charles Darwin come naturalista in Patagonia, dove per la prima volta osservò i ghiacciai.
Punta Arenas è una città di 130.000 abitanti, con grandi colonie di tutte le nazionalità: inglesi, italiani, spagnoli e numerosissimi croati, che si stabilirono qui dopo la corsa all’ora in Terra del Fuoco alla fine dell’800, e dopo la I e la II guerra mondiale.
Siamo alloggiati in un hotel stranissimo, La Yegua Loca (la cavalla pazza) in cima a una strada acciottolata in salita, a circa mezzo chilometro dalla piazza principale dove troneggia la statua in bronzo di Magellano e seduto umilmente sotto i suoi piedi un indigeno della Patagonia. Pare che porti fortuna toccargli la zampa (!), che infatti è tutta lustra. Gli indigeni devono sopportare anche quest’ultima stupida, reiterata umiliazione dopo che sono stati quasi completamente sterminati in modo disumano dai tempi degli spagnoli fino a quelli dei coloni meno di 80 anni fa.
Nel giardinetto davanti all’hotel c’è la statua in bronzo a grandezza naturale di una cavalla in equilibrio sulla zampe posteriori, con un cappellino da babbo natale tra le orecchie. L’interno a tre piani è pieno di qualsiasi vecchia cosa, da un enorme libro mastro a una vecchissima calcolatrice, mentre le camere sono intitolate ad attività artigianali della zona con annessi accessori antichi. Quella mia e di Silvana, che ha un letto matrimoniale vasto come una piazza d’armi, è ispirata alla tosatura delle pecore, con pelli dappertutto, mentre in quella di Mike e Anthony, la segheria, sono appese truci seghe arrugginite. Dal pianerottolo su cui danno le stanze si ha una magnifica vista della città, l’hotel è costruito proprio sotto un belvedere.
Fa freddo e tira un vento gelido, Punta Arenas è una città molto ventosa in cui spesso l’amministrazione deve mettere delle corde attaccate ai muri per permettere ai pedoni di spostarsi, ho appena visto una scena di questo genere alla televisione mentre eravamo all’isola di Pasqua. Nonostante il clima inclemente (e siamo in estate) Punta Arenas è una città fiorente per l’allevamento delle pecore nel territorio circostante e i giacimenti di gas e petrolio. Negli ultimi anni ha avuto grande impulso anche il turismo, è una base per le crociere alla Terra del Fuoco e l’Antartide verso sud e il parco nazionale Torres del Paine verso nord.
Il centro ha imponenti edifici, ma per il resto Punta Arenas è fatta di casette basse, un po’ tenute bene un po’ no, sembra aver conosciuto tempi migliori o non averli ancora raggiunti. Verso il mare gli edifici grigi sono ravvivati da bei murales colorati, su due moli di legno in disuso nidificano migliaia di cormorani.
Nel pomeriggio dell’11 dicembre prendiamo il bus per Puerto Natales, 250 km a nord. La strada attraversa una regione stepposa, desolata, con scarsissimi insediamenti umani ma parecchie pecore al pascolo. In uno dei rari villaggi ci sono cartelli che invitano alla festa della tosatura. Silvana vede sul bordo della strada una specie di struzzo grigio solitario, che poi scopriremo essere un nandù, lo struzzo del sudamericano.
Puerto Natales è situata sul Fiordo Ultima Speranza, un grosso braccio di mare tra le isole e le penisole patagoniche. E’ freddo e nuvoloso, tranne nella stanza dell’hotel dove fa un caldo pazzesco e c’è il solito piumone pesantissimo sul letto.
La nostra esplorazione verso il parco nazionale comincia la mattina del 12 con la caverna del milodonte (Cueva del Milodón), dove nel 1895 sono stati ritrovati i resti di un animale preistorico vissuto circa 10000 anni fa, imparentato con l’attuale bradipo, un erbivoro alto 2 metri e mezzo e pesante 3 tonnellate. In questa enorme caverna intorno all’8000 a.C. vissero anche i paleoindi, discesi attraverso lo stretto di Bering dalle steppe asiatiche durante l’ultima glaciazione e spintisi fino a queste estreme latitudini sud.
Entriamo nel Parque Nacional Torres del Paine, uno dei parchi più estesi e importanti del Cile, dichiarato Riserva della Biosfera dall’Unesco, circa 100 km a nord di Puerto Natales, meraviglioso per la presenza di montagne, ghiacciai, laghi, fiumi e cascate, boschi, guanachi in libertà. Riesco a filmare ( purtroppo piuttosto da lontano) un guanaco che si tuffa in un torrente per attraversarlo. Il tempo è decisamente migliorato, splende il sole a tratti velato da qualche nuvola, siamo fortunati perchè sembra che ieri piovesse. Il colore dei laghi e dei fiumi varia dal blu al turchese all’acquamarina, a seconda di quanto sono abbondanti i sedimenti dei ghiacciai.
La strada si inoltra verso nord lungo il fiume Paine, che nella lingua dei nativi significa blu, fino a una piccola cascata chiamata Salto Grande. Da qui si può vedere il massiccio del Paine, al centro del parco: a ovest la cima più alta, il Paine Grande, 3050 metri, dritti davanti a noi i Corni del Paine, e in lontananza, parzialmente coperti dalle nubi, le Torri del Paine, tre giganti di granito croce e delizia degli alpinisti di tutto il mondo, tra cui l’italiano Guido Monzino che per primo scalò la torre nord.
Ci fermiamo a mangiare all’Hosteria Pehoe in un’isoletta collegata da un ponticello di legno sulla sponda orientale del lago Pehoe, con una vista magnifica sul massiccio del Paine.
A nord ovest del lago Pehoe si estende il lago Grey, così chiamato perchè è grigio per la forte presenza di sedimenti rilasciati dal ghiacciaio Grey che lo forma. Siamo alle falde del campo di ghiaccio Pagonico Sud, Campo de Hielo Sur, la terza più estesa calotta glaciale dopo Antartide e Groenlandia. Il Campo de Hielo Sur è per il 90% in territorio cileno e per il restante in territorio argentino.
Dopo una piacevole passeggiata nel bosco giungiamo davanti al lago Grey, tira un vento fortissimo, convogliato dal ghiacciaio attraverso i monti che lo circondano. Sul lago fluttuano pezzi di ghiaccio e piccoli iceberg, che non possiamo fare a meno di raccogliere per fare le fotografie.
Siamo a dormire all’hotel Serrano, una magnifica struttura situata all’entrata del Parco Nazionale, dalle cui ampie vetrate si vede il massiccio del Paine, ora quasi del tutto sgombro dalle nubi.
Il mattino dopo la visuale è ancora migliore, la giornata è bellissima. Camminando attraverso i campi arriviamo fino al molo dove dobbiamo prendere lo Zodiac per imbarcarci sul Rio Serrano. Ci fanno bardare come astronauti con delle cerate gialle e sopra i giubbotti salvagente. La compagnia che organizza queste gite si chiama “21 de mayo”, data che commemora un’importante battaglia navale in cui il Cile, giocando d’astuzia, sconfisse il Perù nella Guerra del Pacifico nel 1879. Il guidatore è un pazzoide che si diverte ad andare a gran velocità, far finta di fracassarsi contro la riva e derapare sull’acqua sollevando schizzi sulla barca a fianco. Silvana è alquanto indispettita, ma David lo trova divertente. A un certo punto offrono anche a Mike di pilotare il mezzo, e ne abbiamo le prove fotografiche! Percorriamo il Rio Serrano sullo Zodiac fermandoci poi nel punto in cui attraverso una stretto sentiero tra i boschi si giunge ai piedi del ghiacciaio Serrano, una colata di ghiaccio blu che scende come una cascata da un spaccatura tra le montagne, da cui si staccano blocchi che cadono nel corso d’acqua Ogni tanto si sente il rimbombo secco del ghiaccio che si stacca, esattamente come nel mio frigorifero a casa.
Saliamo su una barca più grossa per intraprendere la navigazione del Seno de Ultima Esperanza. Si chiama così perchè per il navigatore spagnolo Juan De Ladrillero, che lo percorse per primo nel 1557, rappresentava l’ultima speranza di raggiungere lo stretto di Magellano partendo dal Pacifico, ma si sbagliava. Passiamo davanti al ghiacciaio Balmaceda, ultima propaggine del Campo de Hielo Sur, dove ci offrono del whiskey con il ghiaccio proveniente dal ghiacciaio. Siamo seduti vicino a due colombiane residenti negli Stati Uniti che ci raccontano tutta la loro vita, e a una ragazza brasiliana che viaggia da sola. Sostiamo all’Estancia Perales a ingozzarci di cordero magallánico (agnello della Patagonia) portato in tavola sulle braci. Poi riprendiamo la navigazione tra le profuse chiacchiere delle colombiane e della brasiliana, fino ad arrivare dopo un paio d’ore a Puerto Natales. Per fortuna in hotel ci attendono le nostre valigie che avevamo lasciato all’Hotel Serrano e del cui destino eravamo molto preoccupati.
Questa è la nostra ultima notte insieme, domani prenderemo il bus verso Punta Arenas, e da lì l’aereo verso Santiago.
14/12 – 17/12: VIÑA DEL MAR, VALPARAÍSO
Siamo rimasti in tre. Da Santiago con la VW Gol (in Cile si chiama così) noleggiata in aeroporto imbocchiamo l’autostrada verso Viña del Mar, circa 120 km a ovest sul Pacifico, passando accanto alle tenute vinicole. C’è una strana foschia giallastra e un vago odore di fumo, probabilmente qualche incendio non molto lontano.
A Viña siamo alloggiati in un appartamento un po’ squallidino al 7° piano, sulla Avenida San Martin, la via principale a ridosso del mare. Anche qui, come nell’appartamento di Santiago, c’è un portiere h 24. La vista dal 7° piano è bella, ma il rumore del traffico assordante, in Cile non si usano i doppi vetri. Ma strano, nonostante il rumore dormiamo bene. In compenso il wifi è potentissimo, telefoniamo a Milano con whatsapp che sembra di essere nella stanza accanto. Pare di essere a Miami: grattacieli, casinò, ristoranti, palazzi signorili, giardini ben tenuti. Con le moderne tecnologie nonostante i frequenti fenomeni tellurici si è ora in grado di costruire palazzi di venti e più piani perfettamente antisismici. Non fa ancora caldissimo, l’inizio dell’estate è il 21 dicembre, di notte ci vuole una giacca e sulle spiagge c’è ancora poca gente, quasi nessuno in mare a fare il bagno. In questi giorni alla mattina c’è sempre un’intensa foschia, che si dissolve verso il primo pomeriggio lasciando spazio a un cielo limpido e soleggiato.
A sud di Viña, praticamente attaccata, c’è Valparaíso, dove ci hanno sconsigliato di andare in macchina perchè c’è criminalità e traffico. Dopo essermi ingegnata a capire con quale altro mezzo potremmo arrivarci (Huber, metro, bus e metro) alla fine, vista l’abilità di Mike e le nostre mappe scaricate da Google, decidiamo di andarci in auto, che è giù nel garage che ci aspetta. E in effetti non è nulla di difficile, piazziamo la macchina in un parcheggio in centro e a piedi arriviamo a plaza Anibal Pinto, da dove parte lo Street Art Free Tour di cui ho letto su Tripadvisor.
Valparaiso è sicuramente la città più bella e caratteristica del Cile, anche se i cileni stessi non l’apprezzano perchè secondo loro è sporca, pieni di ladri e di ubriachi. Valparaíso è una città di 275000 abitanti, pressappoco come Viña, situata in una splendida baia, costruita su più di quaranta cerros, separati tra loro da profondi anfratti. Il nucleo della città cominciò a formarsi all’inizio dell’800 con una vocazione cosmopolita, con colonie inglesi, francesi, italiane, tedesche e svizzere. Dopo l’indipendenza dalla Spagna e la costituzione della Repubblica del Cile nel 1818, Valparaíso divenne il primo porto del Cile, punto di appoggio per tutte le navi che attraversavano lo stretto di Magellano o doppiavano Capo Horn, base importantissima ai tempi della febbre dell’oro a metà dell’800 per il rifornimento dei cercatori in California. La città perse molta della sua importanza commerciale dopo l’apertura del Canale di Panama e cadde in una sorta di decadenza e spopolamento, anche a causa dello spaventoso terremoto del 1906, dal quale uscì semidistrutta e con migliaia di morti. A Valparaíso è stata fondata la prima Borsa dell’America Latina e continua ad esistere il più antico giornale in lingua spagnola al mondo, il El Mercurio de Valparaíso. Da una quindicina di anni la città si sta riqualificando, con iniziative in campo artistico, architettonico e musicale, ci sono quattro università, il porto è il secondo per importanza commerciale in Cile dopo San Antonio, e sta attraendo un sempre maggior numero di navi da crociera.
Il ragazzo del Free Tour porta i dreads, tutti quelli del gruppo sono backpackers e hanno meno di 25 anni, ci sentiamo un po’ fuori luogo. Il tour è incentrato sulle centinaia di murales dipinti sui muri di Valparaíso (Valpo Street Art), in un lungo giro ci porta a conoscere i più bei dipinti, le tecniche, gli autori, i significati (quando ci sono). Ci inerpichiamo sulle strade strette al Cerro Conceptión, che sbucano in piccole piazze, terrazze con vista sulla baia, camminamenti pedonali, scalinate, fermandoci spesso davanti ai murales. I murales hanno cominciato ad essere dipinti illegalmente, poi sono diventati una tale attrazione che adesso gli abitanti offrono i propri muri agli artisti o addirittura li pagano.
Molte case sono state trasformate in pensioni, pub o ristoranti, ci sono antiche dimore signorili con terrazze e giardini, e piccole case colorate e un po’ diroccate. Le casette sono dipinte in colori vivaci e diversi, sembra che all’inizio venissero utilizzati i rimasugli di pittura che avanzavano sulle navi. Dal Cerro Conceptión attraverso il passaggio Yugoslavo si arriva al Cerro Alegre, dove nell’800 abitava la colonia britannica. Nel 1903 venne inaugurata la funicolare Reina Victoria, in onore della regina morta nel 1901, una delle 16 esistenti a Valparaíso, che dalla sommità del cerro porta alla città bassa. E’ un delizioso ascensore a vetri per 10 persone, che parte da una casetta bianca e gialla dove entrano i passeggeri e sta seduto il manovratore. Sotto la passerella di legno che conduce alla casetta ci sono dei murales ispirati al libro “Bestiario del Reyno de Chile”, di Lukas, un disegnatore scrittore che in questa opera pubblicata nel 1972 personificò i difetti del Cile in animali caricaturali come il gallo-vacca o il gallo-rana o il gallo-polpo. Stupendo!
Valparaíso è una scoperta continua. Torniamo da Cuelli Mangui, il muralista spagnolo di Alicante che ora vive a Valparaiso, a comprare i disegni che vende per strada. Ha uno stile del tutto particolare, forme organiche indefinibili si intrecciano tra loro creando o lasciando sbocciare figure umane o animali.
Siamo stati alla casa di Neruda, la Sebastiana, sul Cerro Florida, comprata nel 1959 dal poeta che cercava “una casa che sembrasse galleggiare nell’aria, ma fosse ben piantata sulla terra”. La casa ha tre piani e man mano che si sale la vista sulla baia diventa sempre più impressionante. Neruda passava sempre qui il Capodanno, perchè nella baia c’è uno spettacolo di fuochi artificiali incredibile. Neruda raccolse oggetti di ogni tipo, perchè tutte le cose belle gli suscitavano un sentimento di amore. Gli piaceva invitare gli amici e preparare loro da mangiare, inventando i nomi dei piatti nel menu e presentandosi a loro in travestimenti bizzarri. Era comunista e per questo subì l’esilio nel 1948 per la sua protesta contro la dura repressione degli scioperi dei minatori. Morì a 69 anni il 23 settembre 1973, pochi giorni dopo il golpe di Pinochet, e fino ad oggi si dubita che nonostante fosse malato di cancro alla prostasta la sua dipartita sia stata accelerata da un’iniezione letale praticata da sicari del neodittatore mentre il poeta era ricoverato in una clinica di Santiago.
Le ultime due sere a Viña andiamo a cena al ristorante Tierra del Fuego, a poche centinaia di metri dal nostro appartamento, con terrazza sulla spiaggia, dove si mangia del pesce ottimo e si beve il miglior Pisco Sour della città (asserisce il cameriere), un cocktail classico peruviano che è diventato popolare anche in Cile.
Il 18 abbiamo l’aereo per San Paolo alle 10 del mattino, da San Paolo voliamo a Londra e da Londra a Milano. Mi sfugge il motivo per cui ho prenotato un volo con due scali, ma probabilmente perchè non me ne sono accorta. Ciononostante rientramo a Milano abbastanza riposati e entusiasti del viaggio, pronti per affrontare il Natale e il Capodanno.
A Santiago abbiamo dormito al Travel Place Andino, consigliato anche per il bellissimo panoramo sulle Ande.
L’hotel all’isola di Pasqua era Aukara B&B, consigliatissimo.
Per il resto dell’organizzazione (voli interni, hotel, noleggio pick up, tour nel deserto di Atacama e in Patagonia) ci siamo affidati a Exploring Chile Travel and Dreams con cui ci siamo trovati molto bene.
Nell’ultima parte del viaggio abbiamo prenotato un hotel a Vina del Mar, ma consiglio di dormire a Valparaiso, molto più bella.