Strade di cuba su un’auto dorata
Non ho mai avuto un debole per Cuba, ma avevo voglia di fare un viaggio in un paese nel sud del mondo, senza una destinazione ben precisa.
Una mia amica aveva invece un sogno da anni, sin da quando si era specializzata ed era diventata cardiologa (lo aveva sempre pensato come il suo premio per la specializzazione): forse perché si professa comunista, forse per semplice curiosità, forse per capire una delle evoluzioni del comunismo o… perché no, per rendere omaggio al Che, l’uomo delle mille magliette.
Va bene, mi sono arresa subito, andiamo a Cuba. Inizio a dare un’occhiata alle agenzie turistiche del quartiere (zona Navigli a Milano, pretende di essere un quartiere “alternativo”) e mi guardano con un po’ di difficoltà quando chiedo: “Vorremmo solo acquistare il biglietto aereo, il visto e la prima notte a l’Havana. Poi dovremmo prenotare un’auto e decidere lì.” A sentire loro, trovare un hotel direttamente sul posto è un’esperienza da evitare, non vi sono molti hotel ed avremmo perso le nostre giornate nella ricerca. E poi: “Siete sicuri di viaggiare in auto? Le auto che si possono noleggiare a Cuba sono vecchie, si fermano quando meno ve lo aspettate. E le strade sono terribili, sono piene di buche e vi sono pochissime stazioni di servizio.” A renderci la decisione ancora più difficile, un amico ci consiglia di prendere addirittura contatti con un autista, che ci può evitare seccature con persone e strade cubane. Ma ormai abbiamo deciso e – incoscienti o testarde – non ascoltiamo i consigli. Dopotutto vi sono solo due settimane prima della partenza: noleggeremo una jeep, ci aiuterà tra le buche. Chissà cosa avrebbero detto tutti i “consiglieri della prudenza” (o del “terrore da turista sprovveduto”), se avessero saputo che, a soli tre giorni dalla partenza, abbiamo scoperto che non vi era neanche una jeep disponibile.
E che, tra i preparativi e gli ultimi giorni di lavoro, siamo partiti senza aver noleggiato neanche un’auto! Eccoci qui, nel frattempo siamo diventati cinque (l’idea di partire per Cuba ha attratto proseliti): – IO, l’organizzatrice e la ragioniera – data la mia natura di avvocato-rompipalle, ero in contatto con le agenzie ed intermediaria tra i cinque compagni di viaggio, che non si conoscevano nemmeno – da non sottovalutare, però, l’altro ruolo da “signorina Rottermeier” che mi è stato affidato: ho tenuto la contabilità durante il viaggio, riempiendo ben 6 pagine della mia Moleskine di numeri; – MAUTI (che in realtà si chiama Guglielmo), il main driver – nominato così dal cubano che ci ha noleggiato l’auto (cubano che, vedendosi indicare due piloti – Rosetta e Mauti – ha dichiarato sorridendo: “Il main driver DEVE ESSERE UN UOMO”) – il suo sogno era guidare una jeep, ma il ruolo di pilota gli era stato ormai affidato, nonostante l’assenza di jeep – e permettetemi questo momento di autocelebrazione: sono stata io a trascinare Mauti a Cuba, in un viaggio non organizzato, per la prima volta nella sua vita; – ROSETTA, il medico ed il secondo pilota – carica di ogni tipo di medicinale, mio fratello non ha potuto fare a meno di lei neanche un minuto, quando è stato male per il maiale alle cipolle della Bodeguita del Medio (una sera è arrivato a dichiarare, intenerendo tutti: “Io voglio dormire nella casa dove dorme Rosetta”) – anche lei avrebbe desiderato guidare una jeep ed era pronta a caricarsi di taniche di benzina, nel caso le stazioni di servizio fossero risultate rare (cosa non vera, è bastato un minimo di prudenza); – CINZIA, la socializzatrice – dopo due giorni aveva già imparato le parole base per interagire con i cubani ed era la nostra referente, per chiedere informazioni e curiosità – nonostante la nostra diffidenza iniziale, lei ha iniziato sin da subito a chiacchierare con la gente del posto, rispondendo ad ogni loro domanda – per questo abbiamo anche rischiato di perderla più volte (un giorno l’abbiamo lasciata a vigilare sull’auto ed al nostro ritorno l’abbiamo ritrovata seduta sull’uscio della casa di fronte, mentre disquisiva con una signora cubana della differenza tra i ritmi di vita di Havana e del resto dell’isola); – FRANCESCO (o Checco), il ballerino (nonché mio fratello) – dicono di lui che è un ormai abile ballerino di danze afro-caraibiche (mai chiamarle latino-americane, potrebbe innervosirsi): personalmente non ho la capacità di verificare la sua abilità, ma ha reso felice Rosetta, facendole fare quattro passi di salsa in ben due occasioni diverse – affascinato dalla santeria cubana, era il nostro esperto nel valutare musicisti, strumenti e ballerini (ricordo ancora quella volta in cui ha criticato senza pietà due turisti, che ostentavano una salsa in Plaza Vieja a l’Havana ma erano totalmente fuori tempo).
A completare il gruppo: restano ancora misteriose le sue origini, ma Mauti troverà nel suo zaino un modellino di Smart rossa, che diventerà la nostra mascotte.
Partiamo. Volo diretto Aireurope da Milano (a poco a poco abbiamo raccolto mio fratello che veniva da Bari, Rosetta che veniva da Roma e Cinzia da Parigi): economico e consigliabile, se riesci a fare a meno – per 10 ore e 50 minuti – delle cure e delle attenzioni che ricevi sui voli di linea (Cinzia, che viaggia più di tutti, ha notato che non ti danno la mascherina per dormire durante il volo, ad esempio).
Arrivi a l’Havana in pieno pomeriggio (in Italia è ormai sera), sei stanco ma trovi comunque le forze per fare un primo giro in centro ed assistere al tanto consigliato tramonto sul Malecon, tra cubani che pescano o che sono semplicemente seduti sul lungomare, senza motivo per attendere alcunché – milanesi miei, so che questo concetto è troppo difficile da capire, per voi! E poi cena, la guida di Rosetta parla di un certo Hanoi, a confine tra Habana Vieja e Centro Habana: cucina creola, beviamo il primo mojito di questo viaggio e mangiamo il nostro primo piatto di aragosta e gamberoni. Ognuno di noi viene anche munito di una tazza di fagioli neri speziati e buonissimi (anche per chi, come me, non sopporta neanche l’odore dei fagioli). Accanto al nostro tavolo, tre signori di mezza età iniziano ad intonare le prime note di una canzone, con mio fratello già emozionato che ci dice: “Questa è facile, è Chan chan!”. Ci mettiamo qualche minuto in più per riconoscerla, ma siamo tutti d’accordo. Due giorni dopo camminerò per le strade, intonando le note del ritornello di Chan chan.
PRIMO GIORNO – L’HAVANA Il nostro hotel è al Miramar, zona residenziale dell’Havana. In taxi Cinzia stentava a crederci, immaginava una zona residenziale più ricca e non ha esitato a dire, poco prima dell’arrivo: “Saremo ancora lontani dall’hotel, questa non è una zona residenziale!” Alle 9 prendiamo una delle navette messe a disposizione dall’hotel per raggiungere il centro di Havana: il punto di arrivo è il Castillo de la Real Fuerza, quello sul quale troneggia la Giraldilla (avete presente la sagoma nera che vedete sul logo dell’Havana Club?).
La mattinata è dedicata al girovagare per Habana Vieja, tra le sue piazze più famose: partiamo dalla piazza della cattedrale, alle 9.30 del mattino non ci sono neanche molti turisti, vi è solo un gruppo di gente che indossa magliette rosse a sostegno di Chavez (e qui si apre la sfida: qual è lo stato governato da Chavez?).
Arriviamo in Plaza Vieja, c’è una torre su cui salire e Rosetta è affascinata dalle viste panoramiche (ricordo ancora quando mi ha convinta a salire sulla torre Eiffel, proprio io che soffro di vertigini).
Sono sincera: avevo letto che i turisti sono “assaliti” dai cubani che offrono sigari, che si offrono come guide o chiedono denaro. Ma a parte le offerte di giri in carrozza in piazza della cattedrale (Cinzia ha ovviamente chiacchierato per qualche minuto con uno di loro, spiando l’itinerario previsto per il giro in carrozza e riportandoci esattamente il giro indicato, in modo da avere qualche spunto), non ci siamo sentiti infastiditi. Al primo “no” smettevano di seguirci, tutto qui. Ed in ogni caso non ho visto quella insistenza e quella ostentata voglia di “approfittare del turista” che ho visto altrove (in Marocco non ne potevo più!).
E non ho sentito neanche il pericolo di camminare per le strade, ho subito tirato fuori la macchina fotografica ed ho camminato in lungo ed in largo con la mia reflex a tracolla.
Pranzo in Plaza Vieja, seguiamo la musica e ci ritroviamo in un ristorante con griglia all’aperto: scegli tra pesce o carne o entrambi, dopo una decina di minuti hai il tuo piatto con gli spiedini appesi ad una struttura in ferro.
Accanto al nostro tavolo, una strana coppia: lei, una turista che ha superato i quaranta; lui, un bel ragazzo cubano, sicuramente molto più giovane di lei. Iniziano a ballare e lui sembra pensare ad altro, così come è assente il suo sguardo mentre sono seduti in attesa del pranzo. Chissà se lei è qui solo in cerca di compagnia.
Nel pomeriggio visitiamo il Museo del Ron (molto turistico, ahimè, ci dicono perfino che possiamo partecipare ad una visita guidata in italiano – ma alla fine ti fanno assaggiare un Havana Club invecchiato… e poi Mauti ha comprato una camicia bianca da perfetto cubano, nel negozietto del museo!).
Fa caldo (sarà mica il rhum?) e Mauti e Cinzia tornano in hotel per un tuffo in piscina, mentre noi continuiamo a vagare senza meta, verso Centro Habana ed al di là del Capitolio (ma era proprio necessaria, una costruzione così americana nel centro di Havana?). Qui i turisti sono meno frequenti, le case hanno le porte e le finestre aperte e la musica ad alto volume riempie le strade (assieme alla gente seduta qua e là, ovvio). Rosetta è affascinata dalle sedie a dondolo dei cubani, ed in effetti non vi è casa che non abbia una sedia a dondolo accanto all’ingresso.
Da una finestra si sente della musica dal vivo ed un sacco di ragazzi si accalcano all’esterno, per assistere all’esibizione. E per strada, proprio davanti alla finestra, una ragazzina sui sette anni insegna alle sue amiche i movimenti base del reggaeton (cavolo, l’ho sempre ritenuta una danza molto volgare, ed ecco qui tre bimbette che muovono i loro bacini in modo perfettamente ammiccante).
In un’altra casa vi è una festa per bambini. Tra i palloncini, anche qui musica cubana a tutto volume e bambini che ballano (ritmi da reggaeton anche qui, forse la salsa non va di moda tra i più piccini).
Basta, siamo stanchi, ci siamo proprio meritati un mojito ed un sigaro Montecristo alla Bodeguita del Medio. Gruppi di ragazzi (nessun italiano), tre uomini di una certa età (a giudicare anche da come sono vestiti, sembrano colleghi di lavoro) e mojito a volontà.
Cinzia e Mauti hanno deciso di raggiungerci e (stanchi per il caldo o per il fuso orario) decidiamo di rimanere alla Bodeguita a cena. Mio fratello non la dimenticherà mai: due giorni di dolori.
SECONDO GIORNO – DA L’HAVANA A CIENFUEGOS Francesco finalmente si è addormentato dopo una notte di crampi, ne approfittiamo per andare alla Cubacar di fronte all’hotel e valutare le macchine offerte per il noleggio. Mauti e Rosetta le aprono, controllano ruota di scorta e graffi (siamo in cinque, ci sarà lo spazio per i nostri bagagli?) e scelgono: una Accent interamente DORATA (…Oh my Gold!) sarà la nostra complice per l’intero viaggio. Con il cambio automatico, faranno un po’ di fatica ma il piede sinistro deve star fermo.
Un’ora di attesa – la burocrazia cubana è disarmante ma non hai scelta, l’italiano “dall’accento nordico” che era in fila con noi sembrava impazzire e noi ostentavamo con orgoglio un’aria di superiorità accanto a lui – ed abbiamo l’auto. Ce l’abbiamo fatta anche senza agenzie, è tutto molto più facile di quanto ci avevano detto in Italia! Mi raccomando, questa è la piantina di Cuba, le stazioni di servizio sono tutte indicate: ma usate solo “Gasolina especial” (contro gli 83 ottani della benzina normale, la “especial” ne ha 92 o poco più).
Rientriamo in hotel. Francesco si è svegliato, Rosetta l’ha riempito di medicine e siamo partiti verso l’Autopista: al km 171 c’è l’uscita per Cienfuegos (segnatevi di volta in volta i chilometri, non è detto che l’uscita sia segnalata!). L’Autopista è uno stradone a 6 corsie o più (non sono ben distinte, in effetti) che attraversa Cuba. Nei chilometri percorsi avremo trovato due stazioni di servizio ed un simpatico “Autogrill” (noi l’abbiamo chiamato così, si trattava di una struttura con tetto in paglia, ovviamente non segnalata, con dei tavolini dove prendere qualcosa da bere o mangiare delle coppette di gelato – in realtà esponeva una carta di gelati, ma aveva solo le coppette).
Buffa autostrada, con la gente che staziona sulla corsia più esterna in attesa di un passaggio o offrendo formaggi e corone di aglio, le auto di ogni tipo che procedono a zig-zag per evitare le buche, i camion riconoscibili dal rumore delle catene che si intravedono sotto le targhe e che scivolano sull’asfalto (chissà se ci sarà un motivo, per tali catene). I nuovissimi pullman turistici che corrono oltre ogni limite di velocità (in Autopista il limite massimo è di 100 km/h) ed i pullman locali pieni di gente, seduta ed in piedi, come nelle ore di punta delle nostre città. I carretti, le sidecar, la gente che cammina a piedi, quasi passeggiando al bordo della strada.
La ragazza dell’hotel è stata davvero precisa: al km 171 imbocchiamo l’uscita ed iniziamo a chiedere informazioni. In ogni caso, per il momento abbiamo trovato tutti i cartelli stradali che ci interessano, Cienfuegos è ben indicata.
Arriviamo in città, nel Parque Jose Marti: i ragazzi rimangono in auto (ci racconteranno dopo di essere stati avvicinati da un ragazzo cubano, che proponeva una stanza e la “comida” per la sera e che non sembrava voler andar via) e noi ragazze andiamo ad esaminare lo stato e la pulizia della casa particular indicata sulla guida. Inaspettatamente bella, una casa di corte con il soggiorno per gli ospiti e le stanze con bagno indipendente ed acqua calda. E’ vicina alla piazza ed è gestita da Leonor, una signora dolcissima, e suo marito Armando, che ci ha visti ed ha subito mostrato il suo interesse per le elezioni in Italia (mentre noi eravamo a Cuba, in Italia si votava per le ultime politiche… quelle vinte dal PDL). L’indirizzo della casa (è l’unico che consiglio, ne vale la pena) è Armando y Leonor, ave 56, n. 2927 (tra calle 29 e calle 31) – c’è anche un parcheggio custodito dietro l’angolo, in calle 31. Unica pecca: tutte le porte della casa non arrivano fino al soffitto e, dato che le porte sono attorno al cortile, le zanzare sono in agguato (sinceramente la casa era così curata e pulita, che non ho pensato ad “agguati” di altri animali).
Ci sistemiamo in quattro in questa casa e Cinzia trova una camera in una casa vicina (è la stessa Leonor a chiamare la vicina). Leonor regala un ciondolo di benvenuto per ciascuno ed il giorno dopo, a colazione, ci regalerà anche un anello (ed un sigaro agli uomini).
Facciamo un giro per Cienfuegos (passate davanti alle vetrine del barbiere di ave 54 e spiate un po’: è un tuffo nel passato!), Francesco ci accompagna mestamente e vede ogni panchina come un traguardo (i crampi sono tornati). Nella ricerca di un carretto che ci porti a fare un giro anche verso il mare (non troveremo mai un carretto adeguato), Rosetta si innamora di un carrettiere dai capelli lunghi e con degli occhiali da sole improponibili (il suo carretto era veramente un rottame, ma Rosetta ne parlerà fino al suo successivo e definitivo innamoramento cubano di Trinidad).
Francesco si arrende e torna a casa, noi ci concediamo un’altra mezz’ora di passeggiata verso il mare e rientriamo: è ora di cena, Leonor ed una sua amica, che la ha aiutata in cucina, ci aspettano con una zuppa di pollo ed un pollo in agrodolce buonissimo. E dopo cena, mojito “alla Leonor” sul terrazzo, sotto il gazebo in ferro battuto (come è diversa e come è povera, la casa di corte vicina…).
Francesco dorme e Rosetta si assicura di lasciargli una camomilla sul comodino.
TERZO GIORNO – DA CIENFUEGOS A TRINIDAD Armando ci mostra subito la sua faccia contrariata: “In Italia ha vinto Berlusconi, perché la gente non va a votare!” Come negare la sua disapprovazione? In Italia c’è sicuramente più democrazia (con grande dedizione, Leonor aveva raccolto i ritagli delle foto di Fidel e del Che sui vetri della credenza, proprio come quelli degli attori sui diari delle ragazzine), ma come giustificare ad Armando la vittoria di Berlusconi? Lasciamo perdere ogni approfondimento e non gli riferiamo neanche che la sinistra di Bertinotti non ha avuto neanche un seggio. Gli mostriamo la nostra avversione per Berlusconi e lui sembra già abbastanza soddisfatto.
Dopo la colazione, Leonor ci chiede di scrivere qualcosa sul suo diario degli ospiti. Poco dopo passerò davanti al soggiorno e la rivedrò tutta sola, mentre legge – sorridendo – la pagina del diario che le abbiamo scritto.
Facciamo un altro giro in piazza, compriamo qualche cartolina ed il bicchierino per la collezione di mio padre e partiamo (Francesco sta meglio!). Un posto di blocco ci ferma all’uscita di Cienfuegos e ci chiede i documenti: che fortuna, non avevamo visto il piccolo cartello che ci invitava a girare a sinistra e avevamo sbagliato strada! Ci dicono di fare un’inversione a U e poco dopo due ragazzi in cerca di un passaggio, vedendoci incerti, ci indicano la strada per Trinidad.
Un giro su e giù per le strade di montagna e poi (…Ooooooh!) la prima spiaggia caraibica, completamente deserta (ma perché non abbiamo messo il costume??). Ci fermiamo ad una bancarella improvvisata e compriamo tre manghi, un casco di bananine e dei frutti verdi e piccoli (poco più grandi di una nespola) non meglio identificati (ma a Mauti piacciono molto!). Cinzia ovviamente non esita a fare amicizia con le venditrici e prova anche un frutto rosso (anche questo mai visto): “ma non compriamolo, è un po’ zorboso!” Ci stiamo ancora tutti chiedendo il significato del termine “zorboso”, eppure una delle venditrici sembra averlo capito sin da subito, dato che ha dato immediatamente ragione a Cinzia ed ha anche cercato di integrarne la spiegazione.
Arriviamo a Trinidad, solito benvenuto degli uomini cubani con offerte di stanze e di comida, ma parcheggiamo ed iniziamo a vagare per il centro storico, in cerca di una casa particular (sono riconoscibili dal cartello che espongono): qui la guida non ci consiglia niente di particolare, ma i cubani hanno porte e finestre sempre aperte e basta spiare un po’, per farsi un’idea.
Anche qui non troviamo una casa con tre stanze disponibili e ci dividiamo in due case. La nostra proprietaria non è simpaticissima e Leonor rimarrà sempre insuperabile, ma la casa non è male (hanno un albero di manghi sul terrazzo) e non vogliamo perdere tempo nella ricerca. Trinidad è molto bella, forse il paese più bello che io abbia visto a Cuba. In centro l’asfalto non esiste e le strade sono tutte in pietra. Ma – cosa che per noi sembrerebbe impossibile – i cubani le attraversano normalmente sui carretti o in bici (…C’è qualcuno di noi che ha affermato: ecco perché le cubane hanno un sedere così sodo!).
Presto ci ritroviamo in piazza e come al solito, seguendo la musica, ci sediamo ad un bar (beviamo cachanchara questa volta, ma rimpiangiamo il mojito), dove un gruppo molto bravo sta intrattenendo i pochi turisti seduti. E’ qui che Rosetta si innamora nuovamente, il sassofonista è un gran bel ragazzo e ad un certo punto fa un assolo che Rosetta non dimenticherà mai. Ormai Chan chan è la colonna sonora di Cuba ed ha cancellato i ritornelli del primo giorno “Venceremos, adelante!” di Daniele Silvestri (leggendo i cartelloni all’ingresso delle città ed in Autopista, non vi sono messaggi poi così diversi da quel “venceremos” della canzone Cohiba).
Anche qui c’è una torre con vista panoramica (Rosetta, è tutta per te!), vi è un museo della lotta contro i banditi (ma non abbiamo capito granché delle cose esposte, nella nostra ignoranza sulla storia cubana), vi è un tempio dedicato alla Santeria Yemayà, dea del mare (vi è la statua della dea in un angolo, non diversa dalle nostre Madonne, e poi semplici oggetti, immagino simboli: avremmo anche chiesto al sacerdote qualche spiegazione, ma stava mangiando e sembrava non gradire che qualcuno lo disturbasse). A proposito (e scusate l’inciso), vi è una festa brasiliana in onore della dea Yemanjà a Gaggiano (MI) il prossimo 18 maggio (non so come sarà, ma fatevi sentire e vi inoltro il volantino)! Abbiamo fatto poi un giro nel mercatino, comprato altre collane e bracciali fatte di semini (ce ne sono di ogni tipo, non costano molto e sono un bel regalo), qualche statua in legno (Francesco e Rosetta dispongono ormai di un gruppo di suonatori al completo). Cinzia era ormai stanca e, dopo l’acquisto di un cappello di paglia da diva, ha preferito rintanarsi alla Casa de la Trova: altra musica altro cocktail.
Facciamo un salto alla fabbrica del tabacco, ma è chiusa. Ci dicono che è in ristrutturazione (chissà se è vero o se è una “trovata commerciale”: il cubano che ce l’ha detto ci ha proposto subito dopo l’acquisto dei suoi sigari). Quindi non ci resta che andare al mare, un salto a Playa Ancon, Cinzia ci assicura di aver chiesto informazioni e gli stessi cubani dicono che è la spiaggia più bella e pulita (non consigliano la Boca, invece). Attenzione: la Lonely Planet dice che al tramonto la spiaggia è presa di assalto dalle pulci di mare. Sarà, ma è tardo pomeriggio ed io non ne ho viste. Siamo arrivati, abbiamo lasciato l’auto al solito posteggiatore autorizzato e munito di cartello (bastano 1-2 pesos e l’auto è custodita) ed eccoci qui, una spiaggia proprio come la immagini: due o tre famiglie su una sabbia bianca di cui non conosci la fine, una fila di capannine con i tetti di foglie di palma per proteggerti dal sole ed un cocco fresco da bere, sul quale lo stesso posteggiatore – munito di un coltello da far paura – incide un buco ed inserisce due cannucce. Finito di bere, lo riporti dal posteggiatore, che lo spacca a metà e puoi mangiare il resto.
Bella spiaggia, pochissimi turisti e mare verde. Il tempo di fare un bagno e (per quanto mi riguarda) qualche foto e siamo di nuovo sulla strada di ritorno: Playa Ancon dista solo 12 km da Trinidad ma non vogliamo viaggiare al buio, la strada è piena di buche, in numero maggiore e più profonde del solito.
Eccoci di nuovo a casa: la cena è pronta, stasera aragoste (e Francesco ricomincia a mangiare). Dopo cena Cinzia e Rosetta sono stanche, mentre io e i due ragazzi ci incamminiamo verso la Casa della Musica. E’ estate, la musica si fa all’aperto, tutti seduti sulla scalinata, bicchiere alla mano (come al solito, siamo indecisi tra un mojito ed una birra Bucanero). Francesco (che non beve alcol perché ancora in convalescenza) scompare per un po’. Scopriremo poco dopo che si è guadagnato un posto in prima fila, per filmare una rumba ed i balli della santeria: i ballerini si muovono scalzi, cercando di scansare un cane randagio che si trova sicuramente nel posto sbagliato e che si aggira confuso e senza tregua tra i piedi e le gonne svolazzanti. Che bella danza, per una non-esperta di samba come me, questi ritmi mi ricordano molto quelli afro (anche la danza, in realtà, non è poi così diversa da quella afro). Mio fratello cerca di spiegare le ragioni di qualche movimento a me ed a Mauti (ma il fuso orario si sente ancora, Mauti ha sonno).
Torniamo alla casa particular, questa volta non c’è l’acqua calda e non è pulita come quella della prima sera: Francesco riceve il benvenuto da uno scarafaggio (ed in un momento particolarmente creativo, blocca gli accessi agli scarafaggi posizionando una coperta sotto la porta) ed io chiudo la finestra, permettendo ad una lucertolina di scappare (uff, appena in tempo!).
QUARTO GIORNO – DA TRINIDAD A SANTA CLARA (PASSANDO DA SANCTI SPIRITUS) Ancora una colazione con frutti tropicali e succo di frutta ed un altro giro al mercatino di Trinidad: Rosetta è una di quelle persone che devono vedere le cose più volte, prima di comprarle, mentre Francesco comprerebbe tutto il mercato. Vedendolo incuriosito dalle statuette in legno, una ragazza gli ha anche fatto una proposta: “Se mi dai il tuo zainetto, puoi prendere tutto quello che vuoi!” (…Che occasione mancata, lo zainetto è di Mauti e non può privarsene!). Un’ultima sosta alla Casa de l’Habano e compriamo i primi sigari da regalare a parenti e amici (ci consigliano i Partagas e ci dicono di evitare i Guantanamera: sono economici, ma sono fatti a macchina).
E poi via verso Sancti Spiritus, con una breve sosta sulla torre Manaca Iznaca: questa volta non ce l’ho fatta a salire, le vertigini hanno avuto la meglio e mi hanno detto che ho fatto bene perché le scale cigolavano troppo. Meglio così, ho fatto qualche foto ed ho perfino suscitato la curiosità di una ragazza cubana, per il bracciale di semini che indossavo.
Sancti Spiritus non è particolarmente bella, ma è l’unico paesino in cui non abbiamo trovato neanche un turista e dove ci siamo imbattuti in un vero mercato locale, con bancarelle di scarpe, smalti per le unghie ed ogni genere di ferro o attrezzo per casa o auto o chissà. Qui abbiamo pranzato al Rapido, una specie di MacDonald cubano: cinque pizze e birra. In alternativa alla CocaCola, che è bandita da Cuba, potete sempre provare la Tukola: è dello stesso colore della CocaCola, ma meno saporita (per questo, a differenza della CocaCola, non lascia macchie sui vestiti… chiedete conferma a Mauti!).
Qualche chilometro dopo Sancti Spiritus abbiamo ripreso l’Autopista in direzione Santa Clara, in fondo non si può andare a Cuba senza visitare il mausoleo del Che.
Questa volta l’uscita per Santa Clara non era segnalata e le indicazioni che avevamo ricevuto non erano così precise come quelle per Cienfuegos. Superato il chilometro che ci avevano indicato (e non vedendo uscite), ci siamo fermati a chiedere informazioni: avevamo superato l’uscita, ma tranquilli… è sempre possibile fare inversione ad U (in autostrada!). Che strano, mentre in direzione Sancti Spiritus-Havana non vi sono indicazioni, nell’opposto senso di marcia l’uscita di Santa Clara è più che segnalata, con cartelli che inneggiano alla rivoluzione e frasi celebri del Che.
Decidiamo di fare la nostra prima tappa al mausoleo. Per alcuni si tratta di una cattedrale nel deserto, su cui troneggia la statua del Che. Forse è un po’ retorico, ma imponente: una struttura semplice e piena di citazioni, forse più vicina al nostro gusto occidentale che alle tradizioni ed all’architettura coloniale di Cienfuegos, Trinidad, Sancti Spiritus e dei paesini attraversati fino a quel momento. Ma cosa vuoi farci, il Che è sempre un personaggio mitico, gli si possono perdonare queste ed altre cose. E nella retorica e nei colori dei cartelli stradali, il mausoleo è una delle cose più sobrie che abbia visto. Un gruppo di militari “in vacanza” è in posa davanti al mausoleo per una foto con il Che, ma ormai è tardi ed il museo è chiuso (nella mia Lonely Planet sono previsti diversi orari di chiusura, ma non è la prima volta che dà informazioni non corrette, sui monumenti cubani).
Andiamo a vedere il treno deragliato, allora. Qualche scatto al treno, al Caterpillar usato dai rivoluzionari, ai binari funzionanti ancora oggi (come al solito, non vi è alcun passaggio a livello ed i binari attraversano la strada) e siamo di nuovo in giro, alla ricerca della prossima casa particular. La guida di Rosetta ne consiglia una in centro: come al solito, lasciamo i ragazzi in auto e partiamo in perlustrazione. E, come al solito, i ragazzi sono avvicinati da un cubano che inizia a chiacchierare con loro, facendo la corte all’accendino azzurro in bella vista in macchina. Al passaggio di una ragazza, il nostro “amico” cubano, appoggiato con orgoglio sulla nostra auto dorata, non esita neanche a farle delle battute, dichiarando poi a Francesco e Mauti che si è permesso di farlo perché un’auto così te lo permette! La casa particular segnalata sulla guida non aveva camere vuote, l’ultima stanza era stata occupata poco prima da una coppia di russi. Peccato, la casa era molto bella e la signora sembrava proprio simpatica. Anche lei sembrava dispiaciuta, non ha tentato neanche di nascondere che i russi non le piacevano e che lei non riusciva né a capirli né a farsi capire. Con gli italiani, invece, basta un gesto… Anzi, venite con me, vi faccio vedere la casa, sto ristrutturando alcune camere ed il terrazzo. E poi sul balcone, guardate, da qui si vede la statua del Che, quella del mausoleo. Facciamo così, vi aiuto a trovare una soluzione per stanotte.
Dopo una decina di telefonate, abbiamo le nostre tre camere (anche questa volta siamo divisi in due case). Francesco non è d’accordo sulla scelta della casa, ma non abbiamo grandi alternative: è tardi e le case sono ormai tutte occupate. E la signora che ci ha trovato queste camere ci ha avvisati: oggi a Santa Clara sono arrivati parecchi turisti. La padrona di casa non potrà neanche prepararci la cena e ci invita ad andare in un paladar, a casa di un’amica. Suo figlio ci accompagnerà.
Ok, affare fatto! Finora avevamo mangiato nei ristoranti o nelle casas particulares, ci mancava l’esperienza del paladar: in realtà è come un vero ristorante, non vi è un unico piatto, ma è munito di carta dalla quale si può scegliere tra carne, pesce e verdure… A proposito, sono proprio buoni, i platani fritti sottili sottili, come se fossero delle patatine! “Ce ne porta ancora due piatti?” Dopo cena, giro in centro a Santa Clara. Mauti non è un amante dei cocktail a base di rhum e non ne può più. Meno male che la birra Bucanero è sempre presente.
QUINTO GIORNO – DA SANTA CLARA A CAYO SANTA MARIA Prima di dirigerci al mausoleo – stamattina dovrebbe essere aperto – ci fidiamo della mia guida ed andiamo a visitare la fabbrica del tabacco. Anzi, la mia guida dice che è una delle più interessanti di Cuba.
Solo una volta arrivati, scopriamo che è necessario acquistare i biglietti all’agenzia Havanatur in centro. Io e Mauti torniamo indietro e, dopo una lunga attesa e i nostri sempre più fondati dubbi sulla burocrazia cubana, abbiamo i biglietti. Ad essere sincera ne è valsa la pena, anche di quella estenuante attesa. Una ragazza ci ha fatto da guida e ci ha spiegato le varie fasi della lavorazione: – cinque foglie di tabacco vengono unite ed avvolte in un’altra foglia, che servirà da primo involucro; – il rotolo così ottenuto viene lasciato sotto una pressa; – lo stesso rotolo viene quindi tagliato alle estremità ed avvolto in un’altra foglia più pregiata – a fissare il tutto ci pensa una resina, che funge da colla naturale; – degli operai più specializzati (sembravano proprio tali, a giudicare dal ruolo assegnato sul retro delle loro sedie) provvedono poi alla selezione finale (i sigari con difetti “estetici” vengono venduti agli stessi lavoratori, ad un prezzo scontato), a raggruppare i sigari in base al colore, ad apporre le etichette (la fabbrica di Santa Clara produce Romeo Y Julieta, Partagas e Montecristo, tutti per l’esportazione) ed a confezionare il tutto (quanto mi piacevano le confezioni dei Romeo Y Julieta, ma averne una vuota è stato impossibile!).
Gli operai vengono pagati a cottimo, sono seduti uno accanto all’altro in uno stanzone (tranne gli operai specializzati, che sono seduti in altre stanze più piccole, nelle quali vi è anche una maggiore distanza tra le postazioni). Ad ogni fila di operai è assegnato un altro lavoratore, che cammina tra le postazioni. Chiediamo alla nostra guida il motivo di tale passeggiare (saranno mica lì per controllare gli operai?) e ci dice che il loro ruolo è quello di assicurarsi che gli operai non vendano sigari ai visitatori (è proibito vendere sigari nelle fabbriche). Sarà, ma proprio uno dei controllori approfitta di un momento in cui la guida è uscita, per mostrarmi un sigaro ed indicarmi un “due” con la mano.
In ogni sala si sente la musica, la guida dice che viene alternata alla lettura dei giornali. Fortunatamente al nostro passaggio c’è un ritmo che fa ballare (a proposito, non abbiamo visto altri visitatori) e tra gli operai distinguiamo una ragazza che continua a muovere la testa e le spalle seguendo la musica, mentre arrotola il sigaro che sarà.
E’ prevista un’ultima tappa, mentre Cinzia freme per andare al mare: il mausoleo del Che. Visitiamo le sepolture del Che e dei guerriglieri morti con lui. E poi un piccolo museo, con cimeli e foto, sin da quando Ernesto Guevara era un bambino. Che belle foto, è un’atmosfera commovente anche per una persona che ha sempre visto il Che come un fenomeno da ostentazione, una icona ideologica senza grandi riscontri nella realtà. Dalle foto sembra un ragazzo con uno sguardo sorridente ed un fisico asciutto. Si potrebbe pensare a tutto, tranne che ad un guerrigliero violento e senza pietà. E perdonatemi questa precisazione da ragazzetta, ma… era proprio un gran bel ragazzo.
Tra le sue pistole, la sua amaca, i suoi ferri da dentista (Rosetta è sempre più fiera di essere un medico), lasciamo il museo e chiediamo informazioni su dove poter trovare un libro con le fotografie che avevamo visto. Sembra strano, ma accanto al mausoleo non c’è nessun negozio. Forse è l’unico posto in tutta l’isola in cui non si vendono magliette o qualsiasi altro gadget con il volto del Che.
Di nuovo in macchina, altrimenti non reggiamo più Cinzia. Siamo diretti verso Cayo Santa Maria, dobbiamo vedere il mare almeno per un giorno. Raggiungiamo Remedios: i segnali stradali si fanno sempre più rari, ma la vegetazione è ricchissima, è tutto più verde del solito. Poi ancora Caibarien, dove non sono segnalati neanche i sensi unici, ce ne accorgiamo dai cubani che ci bloccano la strada e ci fanno segno di tornare indietro. La mia guida consiglia di andare all’Havanatur di Caibarien e di prenotare l’hotel per Cayo Santa Maria: la ricerca dovrebbe così essere più facile e non si rischiano richieste troppo costose. Eppure proprio quel giorno l’Havanatur è chiuso.
Pazienza, ormai non possiamo che rischiare e ci dirigiamo verso la strada creata dal nulla del bel mezzo dell’oceano, che ci porterà al Cayo. Paghiamo il pedaggio di 2 cuc: 48 km di asfalto con il mare al bordo della strada, che strana sensazione.
Stiamo arrivando, pronti per la spiaggia. Ma il primo villaggio è in ristrutturazione. Il secondo è già tutto pieno. Speriamo di trovare due stanze al terzo. Si, ce l’abbiamo fatta! Parcheggiamo l’auto dorata e ci avviciniamo alla reception.
Secondo me laggiù, alla reception del villaggio, si racconta ancora oggi la storia di cinque ragazzi, che sono arrivati lì tutti soli, piantina alla mano, senza prenotazione e senza nemmeno aver contattato un’agenzia. Il mistero si infittisce se si pensa che questi cinque ragazzi facevano così tante domande e chiedevano informazioni. E ci si chiede ancora oggi dove fosse finito il loro “referente”.
Ma siamo testardi e – forse tra l’incredulità generale – alla fine meritiamo anche noi il braccialetto azzurro del villaggio, l’arma da mostrare per avere tutto quello che vuoi. Ci fanno aspettare un po’ con un mojito di benvenuto e poi caricano noi ed i nostri bagagli su una macchinetta, verso il bungalow con vista mare che ci siamo meritati.
Cinzia e Rosetta sono felici di essere arrivate al mare, Francesco è felice di non dormire più in una casa particular, tutti siamo felici di poter mangiare e bere all-inclusive.
Controllerò il giorno dopo il prezzo del pernottamento che ci hanno chiesto alla reception e lo paragonerò a quelli indicati sul depliant dell’agenzia (ne avevo conservato uno, di una di quelle agenzie che mi avevano guardata come una pazza incosciente, prima di partire): abbiamo perfino risparmiato! La camera si affaccia sulle palme mosse dal vento, sullo sfondo il verde del mare, ma abbiamo troppa fame per dedicarci a slanci poetici. Facciamo un salto in spiaggia (Cinzia fa il bagno subito dopo aver mangiato un hamburger imbarazzante, mentre noi siamo meno coraggiosi) ed inizia così il passaggio dal mojito alla pina colada. In spiaggia c’è troppo vento ormai, fa quasi freddo. Lasciamo Rosetta in spiaggia, a godersi un lettino (il suo meritato premio), ed andiamo in giro. Cinzia prenota la sua “manicure con smalto” per la mattina successiva (come darle torto, è offerta ad un prezzo così conveniente!) e poi ci sediamo al bar. Due matrimoni americani festeggeranno al bordo delle piscine: le damigelle ed i “damigelli” sono pronti e sorridono, tutti vestiti in verde, circondando gli sposi.
Nel villaggio ritroviamo anche gli italiani in vacanza, finora erano stati merce rarissima (per fortuna). Il nostro ingresso al ristorante è infatti anticipato da un italiano, forse milanese. Avanza subito pretese alla cameriera da “chiamatemi il caposala” o “guadagno-pago-pretendo” e diventerà il nostro bersaglio per il resto del viaggio. Sono stati giorni duri, per stasera ci siamo meritati un po’ di tregua. Fortunatamente si tratta solo di un giorno: non amo rimanere in spiaggia per ore e non riuscirei sicuramente a resistere, in un posto così.
Mi aggiro per il villaggio, litigo con l’addetto alle prenotazioni che non vuole farci cenare perché siamo arrivati in ritardo (ma come? il ragazzo della reception non ci aveva avvisati del fatto che avremmo dovuto prenotare entro le cinque!), vado in reception tutta combattiva ed ottengo la possibilità di cenare, in deroga alle norme sulle prenotazioni. Ed ho uno spiraglio di ottimismo quando trovo nel negozietto di souvenir proprio il libro con le foto sul Che che cercavo: tutte le foto esposte al mausoleo ed ancora altre, raccolte per ogni singolo fotografo. Prendo anche una foto-cartolina da esporre sul frigorifero di casa ed un’altra, magari la porterò in ufficio.
Chissà cosa hanno combinato Rosetta, Francesco e Mauti dopo cena. Io e Cinzia avevamo sonno, ma loro hanno deciso di rimanere nella discoteca del villaggio. Rosetta avrebbe quindi ballato un po’ di salsa con Francesco ed i nostri amici avrebbero anche bevuto un bel po’, prima di mangiare – alle 3 di notte, dicono – un altro hamburger con l’uovo fritto che colava da tutte le parti.
SESTO GIORNO – DA CAYO SANTA MARIA A L’HAVANA Cinzia è già uscita con l’obiettivo “manicure”, mentre gli altri si preparano per andare in spiaggia. Rosetta e Francesco, voi due potete andare a prendere posto, vi raggiungiamo presto. Mauti (l’amore spinge alle scelte più coraggiose, alle volte) invece mi accompagna, alla ricerca di un telefono per confermare il volo di ritorno (meglio non rischiare, sul biglietto è richiesta la conferma).
La vita di un villaggio scorre serena, fino al momento in cui qualcuno vi arriva senza preavviso ed inizia a cercare qualcosa di non pre-confezionato, qualcosa di incontrollabile e fuori dal comune. E’ così che mi sono sentita, quella mattina: mi hanno spedita come un pacchetto da un banco clienti all’altro, fino a quando sono riuscita ad ottenere la mia telefonata di due minuti, facendo arrendere – dopo lungo tribolare – la centralinista che avrebbe dovuto semplicemente assistere i clienti, comunicando l’importo da pagare per ogni telefonata effettuata. Una semplice conferma di nominativi per il volo del giorno successivo mi ha fatto quindi perdere l’occasione di fare un bagno e di rimanere (anche solo per un quarto d’ora, mi accontento facilmente) su uno dei lettini della spiaggia.
Non fa niente, mangiamo qualcosa ed è l’ora di tornare all’Havana, non è consigliabile viaggiare di notte: è già abbastanza difficile trovare la strada giusta e scansare le buche in pieno giorno. Sulla via del ritorno, passiamo nuovamente per Remedios. Vi prego, almeno stavolta ci fermiamo a visitare la chiesa indicata sulla guida? C’è perfino una statua della Madonna incinta, è rarissima, io non ne ho mai viste. Inteneriti forse dalle mie richieste, si arrendono tutti e cerchiamo la chiesa.
Si entra dal retro, dalla sacrestia, questa volta la guida aveva ragione. Un ragazzo ci accompagna all’ingresso della chiesa. Indossa una maglietta della Nike al contrario ed è così preciso e dedito, nelle spiegazioni, che non fai fatica ad ascoltarlo ed a fargli domande. Riusciamo anche ad incuriosirlo, raccontandogli che le stesse tradizioni si possono trovare nel sud dell’Italia: in ogni altare della chiesa di Remedios vi è uno dei misteri, che viene portato in processione nella Settimana Santa, proprio come da noi.
Così come ci ha raccontato che una volta un ginecologo ha visitato la chiesa ed ha precisato, dopo aver visto la famosa statua della Madonna, che la gravidanza poteva essere di 6 o 7 mesi.
La chiesa merita sicuramente una visita, per l’affetto con cui il ragazzo ne spiega ogni dettaglio (ci ha anche raccontato della tradizione delle Parrandas e ci ha mostrato le statue dei santi patroni dei due quartieri di Remedios, rivali in tale manifestazione: non a caso le due statue si fronteggiano, su due altari laterali della chiesa), ma anche per il suo altare ed il soffitto in legno. Soddisfatti, ognuno di noi ha lasciato una mancia al ragazzo: per la prima volta, abbiamo tutti fatto un’offerta senza esitazione.
Si riparte, abbiamo tanti chilometri di Autopista da percorrere.
Arriviamo a l’Havana all’imbrunire (appena in tempo!) e seguiamo un pullman turistico tra le stradine di quartieri a noi non noti, sperando che ci porti in centro. Detto fatto, ci ritroviamo in Plaza de la Revolucion e dobbiamo ancora trovare un hotel per la notte.
Il primo non ha più camere disponibili, il secondo è troppo costoso, ne troviamo un terzo che sembra un giusto compromesso. E’ sul Malecon, non lontano dal Vedado. La nostra camera è al diciannovesimo piano. Rosetta potrà essere soddisfatta per la vista panoramica, Cinzia ci rivela improvvisamente di lavorare al trentatreesimo piano, ma… povera me, l’idea di essere così in alto non mi tranquillizza affatto, meno male che dormiremo qui solo per una notte.
Ed ora cosa facciamo? Troviamo un locale sulla guida ed andiamo in centro, no? E’ così che ci siamo ritrovati al Cafè Paris, ad ascoltare ancora un po’ di musica dal vivo. E’ la nostra ultima sera cubana, dopotutto, e mio fratello si dichiara soddisfatto dei musicisti che suonano nel locale. Il “buttafuori” apre le danze con due ragazze straniere, mentre i musicisti intonano anche una versione di “Destinazione paradiso” di Grignani, con sonorità tutte cubane: inizio perfino ad apprezzare la canzone, compreremo il cd di questo gruppo! A mezzanotte il locale chiude ed uno dei musicisti ci consiglia di continuare la serata alla Casa della Musica. Cinzia va a dormire e noi prendiamo un taxi che ci porta al Miramar.
Quando arriviamo, un cubano vestito in abito scuro ci viene incontro e, con fare da mentore, ci spiega in perfetto italiano i costi per l’ingresso (con tavolo – senza tavolo). Mentre mi guardo attorno, tra le ragazze cubane truccatissime ed in abiti succinti, inizio ad innervosirmi di tanta supponenza. Sarei andata via senza ulteriori esitazioni, ma gli altri vogliono entrare.
Quindici pesos (in base ai prezzi pagati finora, sembrano una cifra troppo elevata) e siamo dentro. Francesco guarda il programma della serata e riconosce il nome di un gruppo – a suo dire – famosissimo, Rosetta non vede l’ora di ballare di nuovo.
Io mi siedo e resterò nella stessa posizione (e con la stessa espressione) fino alla fine della serata, osservando le tante ragazze ammiccanti che ci provano con i turisti di mezza età. Proprio al tavolo davanti a noi sono seduti due italiani sulla cinquantina, che hanno offerto da bere a due ragazze cubane in jeans e top attillatissimo. Inizia il primo reggaeton ed una delle due ragazze si alza in piedi ed inizia a muovere il bacino. Uno dei due italiani appoggia la mano sul sedere della ragazza e la cosa va avanti così, fino alla fine della canzone. Il cocktail finisce, le ragazze si alzano ed iniziano a flirtare con il successivo turista, in cambio di un altro cocktail.
Anche questa è Cuba, ma che tristezza. Una ragazza si avvicina anche a Mauti, lo invita a ballare. E quando lui le fa capire che la sua ragazza è lì (indicando me, per quelli di voi che non lo avessero ancora capito), lei gli chiede: “Ma potrebbe farti problemi?” Lui accenna ad un si e lei va via, con la stessa velocità con cui era apparsa.
Anche il concerto del gruppo conosciuto da mio fratello finisce e possiamo tornare in hotel. Meno male. Quanto ho rimpianto Chan chan e la musica delle strade e dei bar, in quel momento.
PS: So che sono un avvocato, ma il mio senso storico mi impone di riportarvi gli appunti di Rosetta, sulla nostra esperienza alla Casa della Musica: “…Non potevamo andare a dormire l’ultima sera senza andare a ballare…La casa della musica sembrava proprio fatta per noi…(consigliata dalle guide e dai musicisti cubani che tanto avevamo adorato durante il viaggio!)…E poi un ultimo ballo non mi dispiaceva affatto!…E neanche a Francesco, secondo me! Il tassista (un guidatore folle!), professando chiusa la casa della musica del centro, che in origine avevamo scelto, ci scarica in periferia…Tutti un po’ titubanti ci ritroviamo in una fila di gente…Ops! Sembrerebbe non esserci neanche un “caucasico”! e si paga l’ingresso? È la prima volta…”ma in fondo a Roma pago molto di più per sentire musica”, mi ripeto, e poi alla cassa c’è tanto di cartello con il prezzo ufficiale imposto da Fidel! Come non fidarsi! Lo sforzo psicologico per non sentirsi “fuori luogo” vale la candela: ci ritroviamo in un luogo incredibilmente autentico…La casa della musica si rivela essere in realtà un teatro, con tanto di palco e presentatore vestito in abito colorato! Al posto della platea tavolinetti stile liberty, con giovani cubani e cubane tirati a lucido: le prime bellissime in abitini attilattissimi, curve mozzafiato e lucidi occhi chiari; i secondi con cappello, camicia ed abito bianco, o crema…Un tuffo in un mondo irreale! Il primo gruppo è un po’ deludente, ma l’atmosfera piacevolmente assurda, da film…E poi c’è ritmo!…E, diciamoci la verità, un cuba libre aiuta ad immedesimarsi e ad arrendersi alla musica…Il secondo gruppo (quello famoso!) è uno spettacolo di ritmi incalzanti, coloratissimo, con tanto di ballerine sul palco: e dai tavoli si “elevano” le coppie che ballano nel poco spazio disponibile, bellissime ragazze che ballano, anche da sole, nello spazio vitale del loro compagno (quando sono accompagnate)…
Nella pacata tristezza delle donne più belle che puntano ai pochi turisti con una dignità oserei dire elegante, e l’allegria del ballo, la serata è stata una delle esperienze più autentiche ed una delle immagini più intense…Sarà stato il rum!!!” A voi l’ardua sentenza.
SETTIMO GIORNO – PARTENZA Questa volta è compito di Rosetta e Mauti, affrontare la burocrazia cubana per la restituzione dell’auto. Noi decidiamo di fare gli ultimi acquisti al fornitissimo mercatino del sabato, attorno al Castillo la Real Fuerza. Forse non soddisfatto delle tele acquistate finora – immagini della città che balla, vecchie auto, suonatori, ballerini, bevitori di mojito, uomini e donne di ogni colore e dimensione – Francesco ne acquisterà altre, che susciteranno i sospetti della dogana di Milano (ed i nostri: quante pareti avrà da riempire?). Ci incontreremo al mercatino per riprendere il taxi, raccogliere le valigie dall’hotel ed andare in aeroporto.
In valigia conservavo ancora molte penne, avevo letto che i bambini cubani le avrebbero apprezzate. Decidiamo di raccoglierle e di regalarle al tassista, che in fondo ci ha fatto un buon prezzo fino all’aeroporto: “Conosci dei bambini a cui regalarle?” Certo che ne conosce, ha un figlio di undici anni! Ci guadagniamo con lui un ultimo giro con foto in Plaza de la Revolucion e ne approfittiamo per fare qualche domanda su Fidel e Raul: Fidel parlava molto, il nostro amico ci dice che un suo lunghissimo discorso è addirittura annoverato tra i record.
Raul non parla così tanto, invece.
Vedremo, il primo maggio è la festa dei lavoratori anche a Cuba e Plaza de la Revolucion sarà piena di gente, come ogni anno. Chissà se Raul farà un bel discorso.