Sri Lanka, un ciuffo verde nell’Oceano Indiano

Un mini tour tra rigogliosa vegetazione, piantagioni di tè, spiritualità dei monasteri, antiche capitali. Poi relax alle Maldive
Scritto da: airada
sri lanka, un ciuffo verde nell'oceano indiano
Partenza il: 16/03/2013
Ritorno il: 26/03/2013
Viaggiatori: 1+gruppo
Spesa: 2000 €
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Premessa

Sri Lanka è un’isola che merita di essere visitata, perché offre al viaggiatore emozioni coinvolgenti. Ho avuto la sensazione che la gente del posto e l’isola stessa vogliano emanare dal loro profondo un calore avvolgente, per condividere e donare al turista, qui capitato, un pezzetto della loro bellezza. E’ come uno dei bellissimi fiori colorati delle offerte ai templi, che si apre e vuole lasciarsi ammirare. Qui domina la sensazione della contemplazione: della rigogliosa vegetazione, delle piantagioni di tè, della spiritualità dei monasteri, dello scorrere dei fiumi. Tutto invita alla serenità. Ho trascorso solo quattro giorni, intensi e dinamici, in questa goccia verde incastonata nell’oceano indiano, ma, nonostante il breve soggiorno, sono rimasta subito affascinata da questi luoghi, che mi sono davvero piaciuti molto.

Ho scelto un viaggio organizzato: un mini tour di 4 giorni a Sri Lanka + 4 notti alle Maldive, nell’atollo di Ari Nord. Essendo così strutturato, abbiamo soggiornato sempre in hotel della catena cingalese Chaaya, che permetteva, alle Maldive, un soggiorno inferiore alla settimana. Volo ottimo con Srilankan Airlines, puntuale e con un buon servizio.

Vorrei iniziare con qualche indicazione pratica:

CLIMA: sono stata fortunatissima. Sempre sole e caldo, anche a 1000 metri, e nemmeno una goccia di pioggia.

PRESE ELETTRICHE: a Sri Lanka ho usato quella di tipo inglese a 3 poli quadrati. In qualche hotel c’era pure quella italiana a 2 poli. Alle Maldive solo quella inglese.

VISTO: per entrare a Sri Lanka è necessario il visto. A noi l’ha richiesto il tour operator dall’Italia e non abbiamo fatto nessuna fila supplementare all’arrivo. Credo che si possa anche ottenere in aeroporto a Colombo.

VALUTA: in Sri Lanka ho cambiato, all’aeroporto, euro in rupie (1 euro=160 rupie). Ho visto che talvolta prendono anche euro e dollari, ma conviene sempre avere un po’ di valuta locale, specialmente per le bevande e per facilitare i cambi ed i resti. Alle Maldive ho usato carta di credito per gli extra e le escursioni dell’hotel. Nei negozi accettano dollari, non so euro, perché non sono andata all’isola dei pescatori.

Questo è il mio itinerario (indicherò, in corsivo, le notizie storiche)

1° giorno – sabato 16 marzo 2013: Roma – Colombo (Sri Lanka)

Il pavone: il mio primo approccio con lo Sri Lanka è con i colori (verde smeraldo e blu) degli abiti tradizionali delle hostess del nostro volo (Srilankan Airlines UL 582 delle ore 15.45) da Roma a Colombo. La gonna lunga, con un volantino arricciato in vita, è accompagnata da una maglietta scollata a maniche lunghe e ventre scoperto. Entrambe sono punteggiate da occhi di pavone, creando l’effetto della variopinta coda di questo animale, evidentemente importante per la nazione. Il colore verde mi accompagnerà nei prossimi giorni.

2° giorno – domenica 17 marzo: Colombo – Pinnawela – Habarana

Volo tranquillo: arriviamo alle 5.15 (in anticipo), ma in Italia sarebbero le 00.45 (ci sono 4 ore e mezzo in più), quindi è proprio l’ora di andare a letto! Ho cercato di dormire un po’ durante il viaggio, ma molto ad intermittenza, quindi stanchissima ritiro la valigia e saliamo sul bus. In aeroporto cambio qualche soldo, ricevendo circa 160 rupie per euro. Abbiamo per fortuna due bus (essendo in parecchi), con 2 guide: la nostra si chiama Nissanka, è simpatica, con un italiano a tratti non molto chiaro, ma si rivela preparata. Prima di salire sull’autobus veniamo accolti da una ragazza che ci mette al collo una bellissima ghirlanda di orchidee, legate con una nastro di raso lilla (che cercheremo di conservare il più possibile, sfoggiandola anche a cena).

Sri Lanka significa “isola risplendente” e mi appare subito nel suo aspetto migliore, con una vegetazione tropicale strepitosamente smagliante. Ci dice la guida che, vista dall’aereo, l’isola sembra un ciuffo verde nell’oceano indiano. I bordi della strada, che conduce dall’aeroporto di Colombo a Pinnawala, sono costeggiati da casette, negozi, bancarelle, quasi senza soluzione di continuità. Anche se è presto ed è domenica, si vedono parecchie persone in giro. Molti, vestiti di bianco, vanno nelle chiese o nei luoghi di preghiera, per il giorno di festa. La maggior parte delle donne indossa una veste tipo sari, gli uomini invece un pareo (sarong), lungo fino alle caviglie. I mezzi di trasporto più usuali sono i “tuc tuc”, una specie di “ape piccola”, di vari colori. Già all’uscita dell’aeroporto ci siamo immerse in un giardino pieno di fiori colorati, che continuiamo a vedere sugli alberi lungo il percorso.

L’esperienza di Pinnawala è mista: la struttura, istituita nel 1975, è un orfanotrofio per gli elefanti e si preoccupa di recuperare i giovani animali rimasti orfani, di nutrirli, farli accoppiare e poi reinserirli nel branco. In sé per sé la cosa è abbastanza turistica e simile ad un parco-zoo: in un recinto vediamo alcuni elefanti più grandi, con una zampa incatenata, che vengono “allattati” con grossi biberon, per la soddisfazione fotografica dei turisti, intorno accalcati. Fa già molto caldo (umido) e si suda. Quello che mi piace di più è l’ambientazione: in un giardino immenso che costituisce la tenuta. Oltre ai turisti ci sono tante persone locali, intere famiglie o scolaresche, accompagnate da monaci “bonzi”. Un cartello avvisa che gli animali non sono addomesticati e non bisogna avvicinarsi troppo: rispetto a quelli africani, gli elefanti asiatici sono più piccoli, più chiari e si possono ammaestrare. Attraversiamo la strada ed imbocchiamo un sentiero: all’angolo vedo una bancarella di cocco reale, rossiccio, di cui assaggeremo il succo in albergo. Arriviamo all’hotel Elephant Bay, che si affaccia su uno scenario molto suggestivo: un fiume giallastro scorre, formando mini-rapide, e lungo le sue coste s’intravedono altri elefanti, che vengono accompagnati nell’acqua per rinfrescarsi. Anche questo viene fatto a beneficio dei turisti, ma qui il posto è proprio bello: seduti all’aperto, su una terrazza affacciata sul fiume, consumiamo la nostra prima colazione a Sri Lanka. Appare la frutta tropicale, specialmente la papaya, che ci accompagnerà per tutto il soggiorno. All’uscita dell’hotel la stanchezza non ci impedisce di entrare nel primo negozio dove iniziamo le prime compere ed ammiriamo le famose maschere di legno colorato, nate per allontanare gli spiriti maligni, che sono una caratteristica dell’artigianato locale.

Risaliti sul bus (dove ci attendono circa 3 ore di tragitto fino a Habarana) finalmente crolliamo esausti, sprofondando in un bel sonno ristoratore, interrotto ogni tanto dalla guida, che richiama la nostra attenzione (eccitata molto rapidamente e subito rinarcotizzata) su qualche particolare interessante del paesaggio. Verso le 13 arriviamo all’Hotel Chaaya Village Habarana, il cui nome è scritto su un’insegna a forma di piede, che rappresenta l’impronta di Buddha, da lui lasciata sulla vetta dello Sri Pada, in una delle sue tre visite nell’isola. L’impatto con la struttura è subito positivo. Il complesso è dislocato in un bellissimo parco ed è adiacente ad un lago. Dopo pranzo usciamo dall’albergo a piedi perché, subito lì fuori, ci aspettano gli elefanti per un piacevole ed insolito giro intorno al lago. Il baldacchino, posto sulla groppa di ogni animale, dal basso sembra abbastanza traballante, ma noi, senza nessuna esitazione, ci avviciniamo alle scalette in legno, che portano ad una piccola piattaforma posta in alto, al livello della schiena dell’elefante. Una volta sistemate (massimo 4 persone, sedute con le gambe penzoloni verso l’esterno), iniziamo la nostra divertente passeggiata, ballando ed ondeggiando un po’, conversando con i due omini che accompagnano l’animale, camminandogli a fianco. Percorriamo, in fila indiana e su sei elefanti, uno stretto sentiero che costeggia il lago: è veramente suggestivo. Il sole caldo sul viso e sulla pelle, ci avvolge: mi sento già conquistata dalla serena magia dell’isola. Il tour termina alle 17 e, indossato velocemente un costume (gli asciugamani sono forniti dall’hotel), ci tuffiamo nella piscina e ci rilassiamo nell’acqua calda, riuscendo, con movimenti morbidi, a togliere il gonfiore alle gambe, dovuto al lungo viaggio ed al caldo.

3° giorno – lunedì 18 marzo: Habarana – Sigiriya – Polonnaruwa – Habarana

Dall’hotel a Sigiriya (pronuncia sighirìa) c’è un breve tragitto di circa mezz’ora. All’arrivo ci accoglie un’insegna del sito, con la foto di una zampa di leone, simbolo del luogo, il cui nome significa proprio “la rocca del leone”. La roccia è molto scenografica anche dal basso: si erge come una specie di panettone gigante (circa 370 metri) sulla pianura lussureggiante e verde che la circonda. E’ una placca magmatica di origine vulcanica di colore grigio rossiccio.

In questo luogo, riconosciuto Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, si rifugiò Kasyapa (V sec. D.C.), figlio illegittimo del re Dhatusena, dopo aver uccise il padre murandolo vivo ed usurpandone il trono, che sarebbe spettato al fratello legittimo Mugallan. Quest’ultimo si rifugiò in India e da lì organizzò il suo ritorno per riprendersi il potere, costringendo il fratellastro a costruire a Sigiriya un’imprendibile fortezza-palazzo circondata, in basso, da canali avvelenati, pieni di alligatori ed altri sistemi difensivi.

Superato il fossato ed i giardini ricchi di rovine, di piscine e di vasche di decantazione per l’acqua piovana, qui convogliata dall’alto della fortezza, iniziamo la lunga scalata. Pare che il luogo fosse usato dai monaci buddisti sia prima di Kasyapa che dopo la sua sconfitta, quando Mugallan riportò la capitale ad Anuradhapura: infatti dopo i primi gradini, la guida ci fa notare delle piccolissime tracce di pittura dei monaci del primo periodo. All’inizio gli scalini sono di pietra e devo dire che, pur essendo 1200 o 2000 (non li ho contati), la salita non è impossibile, anche se è faticosa per il caldo. Nel primo tratto passiamo attraverso i resti del palazzo secondario, costruito ai piedi della roccia: la guida ci fa fermare spesso, in punti che diventano sempre più panoramici. Nel verde sottostante spicca un Buddha bianco gigante. A circa metà strada, una ripida scala a chiocciola di ferro, con due sensi di marcia (che ha sostituito i gradini originari stretti e rovinati), porta ad una galleria di roccia con degli splendidi dipinti colorati. Rappresentano le asparà (danzatrici, concubine reali o creature celesti), simili a quelle cambogiane di Angkor Vat. Ad un livello leggermente inferiore a quello degli affreschi, percorriamo un altro corridoio scoperto , il muro destro del quale una volta era anch’esso dipinto e le immagini si riflettevano sulla parete sinistra, talmente liscia da essere chiamata “specchio”. Su di essa gli antichi viaggiatori hanno iniziato a scrivere commenti sui dipinti soprastanti, rovinando l’effetto specchiato e suggerendo ai moderni turisti di fare altrettanto.

Oggi però tutto è stato ripulito ed una corda impedisce di avvicinarsi: l’effetto ora è assolutamente anonimo e, se la guida non mi avesse raccontato la cosa, non avrei assolutamente notato il muro a specchio. Continuando la salita, arriviamo ad un ampio spazio dove spiccano due enormi zampe di leone, che costituivano la base della porta d’accesso (situata nelle fauci dell’animale) al palazzo di Kasyapa. Da questo passaggio, delle scale coperte portavano alla cima piatta della roccia, dove sorgeva il palazzo reale principale, del quale rimangono solo le fondamenta ed il perimetro, una grande piscina e la sala del trono. Per raggiungere la sommità, affrontiamo l’ultima arrampicata su gradinate di ferro disposte a zig zag, appoggiate alla roccia, che sale perpendicolare. Dall’alto le persone sembrano piccolissime e ci sono tante farfalle bianche che ci svolazzano intorno: è bellissimo, non per i resti pietrosi delle rovine, ma per l’impressionante scenicità del sito, che mi ricorda la visuale dalle piramidi Maya del Messico. Piano piano ridiscendiamo all’altezza delle zampe del leone e facciamo una piccola sosta, fotografando un gruppo di scimmiette. Per fortuna mi sono portata una bottiglietta d’acqua, perché l’unico punto di ristoro s’incontra alla fine del percorso di ritorno che, nella parte finale, attraversa un’altra zona, con percorsi suggestivi tra enormi massi, scalette ed altre sale, alcune delle quali usate come celle dai monaci del primo periodo. C’è anche un incantatore di serpenti!

Sigiriya è un sito da non perdere assolutamente in un tour di Sri Lanka!

Per raggiungere il posto scelto per il pranzo, ci addentriamo, a piedi, in una stradina che costeggia

Abitazioni locali con panni appesi, altarini indù su pietre dipinte, tuc tuc posteggiati vicino alle casette, pozzi coperti da veli colorati, uomini in sarong in bici, vegetazione rigogliosa. Finalmente il “ristorante” Priyamali Gedara, situato in un’abitazione colorata di viola. Nel giardino pieno di alberi tropicali ci sono due zone, coperte da una tettoia di paglia, sotto alla quale un grande tavolo è imbandito con specialità cingalesi. Noi ci sediamo tutt’intorno, su sedili di pietra con piccoli tavolinetti davanti, e mangiamo in carinissimi cestini di paglia colorata, con una foglia di banano alla base. La simpatica famiglia che ci ospita, ci accoglie sorridente, come tutte le persone incontrate durante il viaggio, e la mamma con le due figlie mi concede di posare per una foto. Alla base delle piante si notano spesso dei cerchi di gusci di cocco. Mentre stiamo per riprendere il bus, incontro due bimbe che tornano da scuola, molto carine nella loro uniforme, composta da una camicetta e gonna a pieghe bianche, con cravatta marrone: sono molto gentili nel lasciarsi fotografare ed una di loro ha l’immancabile ombrello per proteggersi dal sole.

La popolazione dello Sri Lanka è formata prevalentemente da singalesi (o cingalesi), di religione buddhista, e da una minoranza di tamil, di religione induista, proveniente dal sud-est dell’India e stanziata nel nord-est di Sri Lanka. Nel corso della storia queste popolazioni hanno avuto periodi di conflitti e di pace, alternando re di entrambi i popoli.

Dal 1983 al 2009, c’è stata una lunga e sanguinosa guerra civile tra il governo e le Tigri Tamil, gruppo separatista che combatteva per la creazione di uno stato indipendente nel nord e nell’est dell’isola.

La prima capitale dello Sri Lanka fu Anuradhapura, che però noi non visitiamo: ci rechiamo invece a Polonnaruwa, seconda capitale dal XI° secolo. Il re più importante di questo periodo è Parakramabahu, il cui regno è considerato l’età d’oro di Polonnaruwa, con la fioritura dell’agricoltura e dei commerci, grazie anche alla realizzazione di avanzati bacini di irrigazione, tesi a non sprecare neanche una goccia dell’acqua piovana ed ancora oggi funzionanti.

La zona che precede questo vasto sito archeologico, è molto ricca di risaie, che forniscono all’isola una produzione del’80% del fabbisogno nazionale. Il resto viene importato.

Iniziando la visita di Polonnaruwa, noto subito intere famiglie, sedute sui prati, e alcuni monaci buddhisti nei tradizionali abiti color arancio. Di fronte a me si ergono due grandi blocchi, che costituiscono i resti delle mura, in mattoni, del palazzo reale (un tempo molto imponente). In queste, spesse 3 metri, si vedono i fori delle travi che sorreggevano i piani superiori (pare sette). Un po’ più avanti ci avviciniamo ad una bella vasca-piscina e ammiriamo, lì accanto, i resti della sala delle udienze o del tribunale. Alcuni scalini, con ai lati due grandi statue di leoni, portano ad una piattaforma dove sono ancora erette numerose colonne. Alla base dei gradini c’è “la pietra della luna”, una mezzaluna sulla quale sono incisi, ad archi concentrici, motivi floreali e animali (cavalli ed elefanti, in diverse posizioni): la ritroveremo anche più avanti. Ricorda al visitatore che oltre tale soglia si accede al mondo sacro, lasciandosi alle spalle quello profano e le sue manifestazioni materiali.

Tutti i lati della zoccolatura che sorregge la sala, sono scolpiti a rilievo. Procedendo oltre, ci avviciniamo ad un piccolo tempio che contiene un linga, simbolo fallico considerato una forma di Shiva. La pietre esterne sono numerate, indicando quindi che sono state assemblate.

Il sito è molto esteso e dobbiamo riprendere il bus per raggiungere il Quadrilatero, un insieme di importanti rovine poste su una piattaforma. Per prima cosa visitiamo il Thuparama gedige (tempio buddhista), per entrare nel quale ci dobbiamo togliere le scarpe in segno di rispetto: su consiglio della guida, abbiamo lasciato sul bus le scarpe chiuse e messo pratiche ciabattine di gomma. Si può entrare scalzi o usare dei calzini, a scelta. L’interno è abbastanza buio, ma per questo ancora più suggestivo. Ci sono delle statue di Buddha, seduto o in piedi, con dinanzi offerte di fiorellini bianchi e incenso che brucia. All’uscita, sulla destra, spicca un particolare edificio circolare, che mi colpisce molto, proprio per la sua forma. E’ il Vatadage, che è costituito da una prima piattaforma circolare, con un unico accesso, ed una seconda con quattro aperture verso i punti cardinali. Ogni ingresso è molto scenografico, con gradini dalle alzate scolpite, fiancheggiati da belle figure in rilievo, e le quattro statue di Budda che circondano il dagoba (reliquario) centrale, visibili al centro di ogni entrata. Qui ritroviamo le mezzelune con i cavalli ed elefanti incisi. Anche qui dobbiamo toglierci le scarpe e, se si lasciano all’esterno, bisogna dare una piccola mancia, oppure metti i tuoi infradito in borsa. Di fronte a questa bellissima struttura circolare c’è l’Hatadage, di cui rimangono solo colonne ed una porta d’accesso, dove era contenuta la reliquia più importante dello Sri Lanka: il dente di Budda, simbolo di potere, custodito sempre nella capitale ed ora situato a Kandy. Sia questo edificio che il vicino Latha Mandapaya, furono costruiti dal re Nissanka (come la nostra guida!) Malla. Quest’ultimo monumento è veramente particolare: un recinto di pietra che imita uno steccato in legno, racchiude un piccolo dagoba circondato da colonne stranissime, ondulate, a forma di steli di loto. Nell’angolo nord-orientale del complesso, sorge il Satmahal Prasada, una specie di edificio piramidale a 6 piani degradanti, che mi ricorda quelli in Cambogia.

Ci avviciniamo poi ad un’enorme lastra di pietra, lunga 9 metri e larga 1,5, che rappresenta un libro, con sopra la più lunga incisione in pietra dello Sri Lanka, che indica di essere opera sempre del re Nissanka Malla. Mi colpisce molto, davvero bello.

Riprendiamo il bus (ho già accennato al fatto che il sito è molto ampio), ma dopo un po’ la guida ci fa scendere un attimo, per vedere un enorme dagoba: questa costruzione (che in altri paesi si chiama stupa) è un monumento buddhista per conservare reliquie, ma è diventato anche un luogo di preghiere. Questo davanti a noi, ha la forma di goccia d’acqua (altri sono a campana) ed è veramente imponente. Se si salgono le scalette e si vuole camminare sulla piattaforma che circonda la base della struttura, bisogna togliersi le scarpe, perché il luogo è religioso. Sopra alla cupola, c’è una specie di blocco rettangolare, sormontato da un pinnacolo conico. Percorriamo poi un pezzo di strada a piedi: è un sentiero in mezzo alla vegetazione, molto trafficato da tuc tuc, biciclette e gente a piedi. In questo viaggio ho visto pochissimi turisti, c’è in giro molta gente locale. Costeggiamo uno scenografico stagno pieno di fiori di loto ed arriviamo al Gal Vihara (tempio della roccia nera), punto imperdibile del sito, massima espressione della scultura rupestre singalese. Ci sono quattro statue di Buddha, ognuna scolpita in un unico blocco di granito: è molto d’effetto, data anche la grandezza delle sculture! Quella in piedi è alta 7 metri e, per la posizione incrociata delle braccia ed il volto addolorato, si riteneva che fosse Ananda, discepolo di Buddha, triste per la scomparsa del maestro. Ora però pare che anch’essa rappresenti il filosofo. Alla sua sinistra ci sono due statue sedute, ed alla destra quella che mi piace di più: una figura sdraiata di 14 metri, anch’essa in color grigio, che rappresenta Buddha che è entrato nel Nirvana (perché ha un piede più in avanti dell’altro), con una dolcissima e bellissima espressione del viso. La testa è posata su un cuscino, nel quale si nota il leggero affossamento del peso del capo, e sul lato esterno, la ruota del sole. Tolte le scarpe mi avvicino, cercando la posizione migliore per fotografare: sicuramente per avere una visione d’insieme delle statue (sdraiata ed in piedi) è meglio salire un po’ sulle pietre di fronte, ed aspettare che la folla si diradi (anche se una persona vicino alla scultura, rende meglio l’idea della proporzione). Purtroppo sopra alle statue è stata messa un’antiestetica tettoia in lamiera, per non rovinarle con la pioggia, che toglie un po’ di fascino. Le sculture sono del XI secolo D.C.

Nota personale sulla visita a Polonnaruwa: il percorso è durato circa 3 ore, perché il sito è molto grande. Credo che abbiamo visitato tutte le cose più importanti, facendo dei tratti a piedi ed anche in bus. Nell’insieme è stato molto bello: caldo, sole e parecchie sudate, ma meritava la fatica. Naturalmente di molti monumenti restano solo i basamenti in granito ed in alcuni anche qualche colonna, che dà il senso dell’altezza (non molto alta perché i cingalesi sono piuttosto bassi). Io, per carattere, tendo ad emozionarmi o perlomeno ad entusiasmarmi sempre, cercando in ogni viaggio di evitare i confronti tra le varie località già visitate. Però è anche naturale che, ammirando questo sito (che per vegetazione, colori della pietra e spesso anche per tipologia delle rovine, ha qualcosa in comune con la Cambogia), mi succeda di confrontare per lo meno le emozioni. Qui mi è piaciuto tutto, specialmente il grande dagoba a goccia d’acqua e la statua sdraiata del Buddha con la dolcissima espressione serena. In Cambogia, a Siem Reap, sono rimasta a bocca aperta per la maestosità dei vari siti. Ciò non toglie naturalmente la soddisfazione della visita!

In serata, nonostante abbia letto che la spa del nostro hotel sia eccellente, trascinata dalle amiche, accetto la proposta della guida di provare il massaggio ayurvedico fuori dell’hotel, ad un costo più basso. Il luogo è abbastanza modesto ed ho anche qualche dubbio sulla pulizia, ma alla fine l’esperienza è piacevole: mi libero della stanchezza della giornata, mi idrato la pelle e mi diverto.

4° giorno – martedì 19 marzo: Habarana – Dambulla – Matale – Kandy

Sono molto contenta perché il tempo anche oggi è bello. Dopo circa 40 minuti di bus arriviamo a Dambulla (che si trova al centro di Sri Lanka) ed iniziamo una camminata in salita lungo una strada (e al ritorno scendendo scale), che ci porta su al famoso Tempio delle grotte (o Tempio d’oro). Una donna vende fiori da offrire a Buddha. L’atmosfera già dall’inizio è molto particolare, per il colore grigio del pavimento lastricato, per le strane pietre bianche a forma di campana-triangolo (con tre buchi alla base ed uno al centro), che costeggiano la stradina e che vedrò molto spesso nell’isola, per gli alberi dai rami contorti, le collinette a forma di conetti tutti verdi che si vedono sullo sfondo e le immancabili scimmiette (bisogna stare attenti a non tirar fuori del cibo, altrimenti se lo prendono). Qualche venditore insistente ti segue lungo la salita, per vendere collanine o magliette. Arrivati in cima ci togliamo le scarpe e qui siamo obbligati a lasciarle. Si entra attraverso una casetta con il tetto a pagoda e subito il posto mi appare bellissimo: si respira un’atmosfera mistica. Sulla destra una distesa di roccia scura dentro la quale si snodano cinque grotte (ora diventate templi), con ingressi separati, ai quali si accede da un lungo portico bianco. Il portale di ogni entrata, prima del corridoio, ha la parte superiore a forma di dagoba. Suggestivi anche piccoli stagni con ninfee. Nell’interno (scuro perché poco illuminato e molto suggestivo) ci sono un’infinità di statue di Buddha (circa 153), dorate e colorate, nelle varie posizioni: seduto (in meditazione) o sdraiato. Le più antiche sono scolpite nel granito e quelle più recenti in legno o stucco. Nella grotta più grande c’è un Buddha sdraiato di circa 14 metri, scolpito nella roccia. Ci sono anche altre divinità e dagoba. L’epoca del monumento è circa il I secolo A.C., ma ci sono stati vari restauri e ricostruzioni dal XI sec. in poi: il luogo era abitato da monaci che ospitarono (nel I secolo A.C.), per 14 anni, il re Valagamba, fuggitivo da Anuradhapura, che in seguito si sdebitò dell’accoglienza con molte donazioni. Questo esempio fu poi seguito da altri regnanti. In una grotta si vede la statua di un re posta dietro a quella di Buddha, in un anfratto più arretrato. Oltre alla bellezza delle sculture, quello che colpisce sono gli affreschi (circa XIII secolo), in colori naturali (purtroppo per questo non restaurabili) che ricoprono interamente le pareti ed i soffitti. Sono bellissimi, colorati e molto d’effetto. Purtroppo dei vermi si sono annidati su di essi e li stanno irrimediabilmente rovinando. Oltre a noi turisti, ci sono moltissime persone del luogo, che vengono qui a pregare e portare in offerta fiori di loto o candele alle divinità.

Il buddhismo è arrivato a Sri Lanka, dall’India, nel III secolo A.C., portato dal monaco Mahinda. Prima del suo arrivo, nell’isola non esisteva una religione organizzata e questo fatto, insieme al coinvolgimento entusiasta del sovrano Devānampiya Tissa, ne facilitò la diffusione. In seguito una monaca amica di Mahinda portò nell’isola un frammento dell’albero del Bodh (conservato ad Anuradhapura) ed iniziò l’ordine monastico femminile, prima riservato solo ai maschi. All’inizio Buddha si chiamava Siddharta (nel V secolo A.C.) ed apparteneva ad una famiglia reale dell’India del nord. Il suo oroscopo prevedeva che sarebbe diventato famoso. A 16 anni gli fecero sposare una fanciulla che era cresciuta con lui. A 29 anni uscì per la prima volta dal suo palazzo e venne a contatto con la triste realtà della gente che dormiva per strada, che era ammalata e moriva di fame. Capì allora di aver vissuto fin’ora una vita falsa e, dopo aver avuto un figlio, Rahula (che in seguito diventò monaco), abbandonò la sua casa e la famiglia ed iniziò a vagabondare per il paese meditando e mortificando il fisico. A 35 anni, meditando seduto a gambe incrociate nella posizione del loto, sotto un albero di fico, ebbe l’illuminazione a Bodh Gaya, Da allora diventò un famoso filosofo con tanti seguaci e morì ad ottanta anni.

Siamo tutti molto colpiti da questa bellissima visita a Dambulla e nella discesa incontriamo una gran folla che sale: ci sono intere scolaresche, con le candide divise e la cravatta (questa volta azzurra, forse il colore indica il tipo di classe). Sono tutte ragazze, molto sorridenti e disponibili a farsi fotografare. Poi incrociamo un folto gruppo di monaci, sia uomini che donne, quasi tutti vestiti di rosso scuro. Il colore degli abiti indica il loro stato: il marrone viene usato dai monaci che meditano in montagna, l’arancio dai discepoli dei monasteri ed il rosso dai giovani.

Alla fine della discesa ci troviamo di fronte un grande Buddha dorato, che sovrasta un tempio moderno, scenografico, ma privo del fascino di quello delle grotte!

Riprendiamo il bus per raggiungere Matale, dove ci fermiamo al rigoglioso (ma non molto esteso) giardino, pieno di piante di spezie di tutti i tipi. All’ingresso parecchi uomini, seduti da un lato, leggono tranquilli il giornale, godendosi l’ombra al riparo delle piante. Pur essendo bellissima la vegetazione ed anche interessante vedere da vicino i differenti tipi di piante e fiori (alcuni molto spettacolari), la visita risulta troppo lunga, soprattutto per l’interminabile spiegazione sui benefici effetti delle piante medicinali e aromatiche. Finalmente ci spostiamo più indietro, nella zona riservata al “ristorante”, che è veramente carino e caratteristico. E’ una specie di corridoio, coperto da una tettoia di paglia, con alle spalle un rigagnolo e di fronte un panorama lussureggiante con tutte le sfumature di verde. Il tavolo, stretto, lunghissimo e coperto con delle stuoie di paglia, ha delle panche disposte solo da un alto. Ci sediamo tutti nello stesso verso, di fronte a bicchierini di gusci di cocco e a cestini di paglia intrecciata, con foglie di banano sopra, che fungono da piatti, come ieri. Parecchi camerieri passano per servire le specialità locali, che vengono messe tutte nello stesso piatto: devo dire che alcune sono molto buone, come il frutto dell’albero del pane e le melanzane un po’ agrodolci. Riso bianco e rosso (integrale), pollo e pesce fritto e, per finire, posti sopra una foglia a goccia, una fetta di ananas, una specie di crêpe ripiena di cocco e miele, cocco fresco e banane, accompagnate da tè, addolcito da una pallina secca di miele. Buonissimo!

Dopo pranzo risaliamo sul bus diretti a Kandy: attraversando il paese di Matale, rimango colpita dal fatto che tutte le abitazioni poste lungo la via principale, presentano la facciata abbattuta, per fare spazio ad una strada più larga! L’hotel Chaaya Cinnamon Citadel, situato a qualche chilometro dal centro, è molto bello. Già dalla hall s’intravede, dopo una sala tutta bianca con un bar moderno, la piscina sottostante ed il fiume sullo sfondo. Lasciamo velocemente le valige in camera e, all’uscita dell’hotel, ci aspettano tantissimi tuc tuc colorati (verde, rosso e blu) per portarci al Dalada Maligawa o Tempio del Dente del Buddha, situato in centro città. Il tragitto è abbastanza lungo ed il nostro driver è un pazzo scatenato, che fa sorpassi a destra e sinistra, s’infila tra altri tuc tuc, tra bus, macchine e moto.

La città di Kandy si trova a quasi 500 metri sul livello del mare e fu fondata nel XIV secolo, diventando capitale, due secoli dopo, di un regno che rimase indipendente fino alla colonizzazione britannica del 1815 (si mantiene ancora la guida inglese). E’ un luogo sacro per il buddismo (paragonabile al nostro Vaticano o alla Mecca per i mussulmani), per la reliquia del dente di Buddha, conservata nell’omonimo tempio, accanto al lago artificiale di Kandy.

Questa città emana subito un’atmosfera molto serena, mistica, pacata: i parapetti del lago (circondato da colline verdi punteggiate da basse abitazioni bianche), hanno le stesse strane pietre triangolari che avevo notato a Dambulla. Per entrare nel Dalada Maligawa dobbiamo attraversare (disposti su due file, una per le donne ed una per gli uomini) una casetta e passare attraverso il metal detector, perché nel 1998 c’è stato un attentato che ha distrutto parte della struttura. Bisogna anche indossare pantaloni lunghi e almeno mezze maniche. L’importanza del luogo è tale, perché la reliquia che contiene, è l’unica esistente di Buddha: si tratta di un suo canino sinistro, sopravvissuto alla cremazione e conservato dal re indiano di quel periodo. E’ sempre stato un simbolo del diritto a governare e nel IV secolo D.C. il re indiano che lo custodiva, per non farlo cadere nelle mani dei suoi nemici, lo mandò a Sri Lanka, nascosto nei capelli della principessa, sua figlia. La preziosa reliquia fu conservata sempre nelle capitali.

Entriamo in un grande giardino e ci avviciniamo ad un bellissimo albero strano, con dei fiori rosa e frutti tondi (la guida li chiama “palle di cannone”). Sul prato alla nostra destra, una chiassosa scolaresca, seduta sull’erba, ci saluta festosa: i maschietti sono separati dalle femminucce!

Di fronte a noi c’è la struttura ottagonale che custodisce il dente: è tutta bianca (prima la cupola era dorata) e circondata da un piccolo fossato. Tolte le scarpe, saliamo su un pianerottolo, il cui soffitto (a volta) è dipinto di azzurro, con dei cerchi bianchi e con due strisce rosse, sulle quali è raffigurata una lunghissima processione sacra di elefanti. Rappresenta l’uscita della reliquia, una volta all’anno (tra luglio ed agosto), proprio dall’enorme porta da cui siamo entrati, durante la spettacolare festa dell’Esala Perahera.

Il tempio è inserito nel complesso del Palazzo Reale, di cui sono rimasti alcuni padiglioni (come la sala delle udienze ed i quartieri delle donne), situati più avanti nel giardino circostante. Varchiamo un bellissimo portale di pietra lavorata e superiamo un corridoio tutto dipinto di color oro, bianco e rosso, che conduce ad un grande cortile semicoperto, pieno di colonne e bandiere buddhiste a strisce colorate. Delle scale conducono alla “cappella”, posta al secondo piano, dove c’è la teca che contiene la reliquia: mi pare che siano 6 o 7 contenitori, posti l’uno dentro l’altro (come le matrioske). Naturalmente è tutto chiuso e non si vede niente, solo in alcune occasioni il dente viene esposto. E’ difficile descrivere la mia impressione. Il posto mi affascina soprattutto per l’atmosfera: ci sono numerosissimi fedeli accorsi per la “Puja”, la preghiera pomeridiana. Molti sono vestiti di bianco e si avvicinano al lungo tavolo posto davanti al tabernacolo, lasciando in offerta bellissimi fiori colorati (rosa, viola, bianchi e gialli) o pregano, seduti in terra. Architettonicamente c’è un misto di stili, di materiali e di epoche diverse, anche dovuto alla ricostruzione dopo l’attentato. Molto bello un soffitto a cassettoni, con decorazioni circolari a lamine d’oro, donato dalla Thailandia. Molte nazioni contribuiscono alla manutenzione del sito, considerato sacro da tutti i popoli buddhisti. Nell’ultima sala, oltre a tante statue di Buddha, ci sono pannelli dipinti che rappresentano la vita di Siddharta. Tra il soffitto e le pareti, moltissime teste dorate di elefanti. Come in tutti i luoghi sacri qui visitati, bisogna stare molto attenti a non fare fotografie alle statue delle divinità con accanto una persona: è assolutamente vietato. Inoltre bisognerebbe allontanarsi senza voltare le spalle alle stesse. L’emozione più grande, per me, è alla fine, quando ripercorriamo il giardino all’uscita del tempio e siamo avvolti da suoni “magici”: quelli degli altoparlanti che diffondono le preghiere dei monaci e quelli della moltitudine di uccelli che affolla gli alberi. In lontananza il lago con i colori del tramonto e le luci della città che si accendono. Molto bello.

La guida ci lascia un po’ di tempo per un giretto nella via principale. Tante bancarelle che vendono i bellissimi fiori delle offerte, un ponte sul lago, un local market abbastanza scadente, parecchi bar, ristoranti e qualche negozio, sotto i portici del bellissimo hotel, tutto bianco, situato all’angolo di fronte al tempio.

5° giorno – mercoledì 20 marzo: Kandy

La partenza anche oggi è alle 8. Ci dirigiamo verso le zone di montagna, dove ci sono tantissime piantagioni di tè (infatti questa coltivazione preferisce un’altitudine tra i 900 e 2400 metri). Man mano che saliamo l’aria diventa sempre più tersa, con meno umidità, rendendo il verde della vegetazione ancora più smagliante. Dovunque guardi si vedono colline piene di piante del tè, che non sono molto alte, arrivano circa alla vita di una persona: hanno le foglie morbidissime e lucide. Per mantenerle alla giusta altezza, ogni due settimane, vengono tagliati dei rametti. L’effetto da lontano è quasi quello di bassi filari di viti: strisce di verde con piccoli spazi vuoti in mezzo. Colline e montagne circondano l’insieme. La strada è tortuosa e qualcuno soffre il mal d’auto. Arrivati a Pussellawa, scendiamo a fare una bella passeggiata tra la popolazione locale. La giornata è bellissima, con un sole smagliante e caldo, che invita a mettere un cappellino! Ci sono tanti negozi di frutta (le mele sono inserite in retine rosa di plastica!), legumi e utensili. Bancarelle di ciambelline e panzerotti, botteghe di sarti sulla strada, gente in sari, sarong o vestita moderna (sempre con l’immancabile ombrellino). Appese all’esterno di una bottega vedo delle curiose gabbiette in cartone per uccellini. Mi piace molto: intorno a me tante insegne colorate, le persone sorridono con molta gentilezza ed un altoparlante diffonde allegra musica. Anche i bus sono coloratissimi, come gli abiti delle persone. Appena fuori dal paese, ci addentriamo tra le piante di tè per scattare delle foto! Lo Sri Lanka è il quarto produttore mondiale di questa pianta, la cui coltivazione fu iniziata nel 1967 dallo scozzese James Taylor. Più avanti visitiamo la fabbrica Glenloch (posizionata, come tutte le altre, vicino alle piantagioni). Di solito mi annoio in queste situazioni, ma devo ammettere che è molto interessante vedere dal vivo tutto il procedimento della lavorazione del tè. Le foglie raccolte (a mano dalle donne che hanno, appoggiate sulla schiena, delle ceste o sacchi), vengono immediatamente portate alle fabbriche e messe ad asciugare su lunghi tavoli. Ci sono tanti macchinari (più o meno nuovi), introdotti dagli inglesi, dopo aver scoperto la possibilità di coltivare questa pianta anche a Ceylon, oltre che in India. E’ molto importante indovinare il giusto grado di asciugatura, né troppo secco, né bagnato. Private dell’umidità, le foglie sono mescolate, setacciate, essiccate e fermentate: in Sri Lanka si produce prevalentemente tè nero, che è fermentato. In ultimo si separa la parte fibrosa e vengono selezionate le varie qualità: la migliore è la BOPF, che significa broken (sminuzzata) orange (color arancio) Pekoe (dalla città cinese) fannings (leggera). Il tè prodotto viene messo generalmente in sacchi per l’esportazione o confezionato in scatole, con il logo del leone che indica la produzione di Sri Lanka.

Naturalmente, dopo aver assistito al processo di lavorazione, è d’obbligo passare al negozio annesso, dove avviene la degustazione della bevanda calda ed i relativi acquisti!

La gita mi piace moltissimo: mi sono sentita veramente immersa nell’anima di quest’isola, di cui non si poteva non vedere il suo cuore, ricco di piantagioni e fabbriche di tè. Dovunque cartelli con nomi famosi di “estate” come Rothschild ed altri.

Dopo pranzo qualcuno ritorna in hotel, ma la maggior parte, imperterrita, continua la visita di un negozio di gemme (con relativo filmato sull’estrazione delle pietre preziose, specialmente zaffiri blu per cui Sri Lanka è famoso). Poi di nuovo nel centro: ci sono altre cose da vedere a Kandy, ma noi torniamo in un negozio carino, sotto i portici, di fronte al Tempio del Dente. Mi piace questa città vivace, ma nello stesso tempo rilassante e serena, intrisa di religiosità, con i sorrisi e la gentilezza delle persone e i canti religiosi (che ormai ci sono familiari).

Tornati in hotel, ci aspetta, alle 19.30, uno spettacolo di danze locali tipiche per concludere in bellezza il nostro soggiorno a Sri Lanka. Viene allestito all’aperto (del resto è una bellissima e calda serata), vicino alla piscina e, pur essendo turistico, è molto bello, sia per i costumi che per i coinvolgenti movimenti tribali dei ballerini, che si esibiscono in salti mortali, rotazioni tipo dervisci, fuoco sulla pelle e nella gola, e persino camminata sui carboni ardenti. Il tutto accompagnato dai rulli dei tamburi. Meno spazio alle danzatrici donne, che sono più di riempitivo.

6° giorno – giovedì 21 marzo: Kandy – Colombo – Male (Maldive) – Resort

La giornata di oggi è di trasferimento. Partiamo alle 7 diretti all’aeroporto di Colombo (che dista circa 3 ore e 30 min. da Kandy. Sul bus chiedo alla guida di rivedere una cosa molto particolare, che ci aveva precedentemente mostrato: è una foglia di palma, ingiallita, sulla quale anticamente veniva scritto l’oroscopo di una persona, alla sua nascita. Da un lato c’è una fitta scrittura e dall’altro simboli e disegni geometrici collegati all’astrologia. I cingalesi sono attentissimi a seguire, in tutte le fasi della loro vita, le indicazioni date loro dagli astrologi, persino sull’ora esatta per compiere certe azioni. Ora gli oroscopi sono scritti su fogli di carta normale, ma per me questa foglia che si arrotola, piena di segni misteriosi, è molto affascinante.

Mentre aspettiamo il volo Srilankan Airlines (UL 115) delle ore 14.05, girovaghiamo tra i numerosissimi negozi di tè, di cui chiaramente l’aeroporto di Colombo è ricco: c’è persino la “boutique”! Dopo circa un’ora e mezzo di volo (e dopo aver spostato l’orologio di mezz’ora indietro, perché alle Maldive c’è un fuso orario di quattro ore in più dell’Italia), finalmente atterriamo a Male. Inutile dire che, come mi era già capitato nel mio precedente viaggio del 2010, sorvolando l’isola che ospita la capitale delle Maldive, rimango ancora meravigliata nel vedere tutti questi grattacieli! Ricordo con nostalgia (e rimpianto per i luoghi “vergini”) quando, nella mia prima visita in queste meravigliose isole, nel lontano 1982, l’aeroporto era proprio a Male, che si presentava ai pochi e primi turisti di allora, come un piccolo villaggio, con stradine sterrate e baracche ai lati. Quanto fascino si perde con lo sviluppo turistico!

Ci accalchiamo sul molo, appena fuori dell’aeroporto, in attesa delle due barche che ci condurranno nell’atollo di Ari Nord, al Chaaya Reef Ellaidhoo. All’arrivo, dopo circa un’ora e mezzo di navigazione, vedo finalmente dal vivo l’isola tanto scrutata nelle foto di internet. Dopo un cartello che ci accoglie con “calore”, si materializzano i famosi muretti, l’abbondante vegetazione e le varie zone: hall, ristorante, diving.

7° giorno – venerdì 22 marzo: Maldive

Dedico la mattina a fare snorkeling su reef, facilissimo da raggiungere e, come dicevano le recensioni, davvero bello e ricco di pesci colorati.

Dopo pranzo si parte per la prima escursione: l’isola di fronte (Maaga, qualche anno fa appartenente alla nostra struttura ed oggi ritornata di proprietà maldiviana) che si raggiunge in soli 15 minuti di dhoni. Attracchiamo ad uno strano pontile a forma di “V”, proteso su una piscina naturale di indescrivibile bellezza. L’isola è deserta, salvo per un operaio che fa da custode: stanno costruendo un piccolissimo resort di poche camere. C’è una piattaforma sopraelevata che conserva due scheletri di squalo balena, enorme e, più in là, un pellicano rosa con il becco giallo (simile a quelli visti in Namibia), che diventa subito l’attrazione del gruppo. Il mare è talmente bello che rimango immersa per tutto il tempo, rinunciando, per pigrizia, a prendere maschera e pinne. In seguito, sentendo i racconti entusiasti di chi ha seguito il ragazzo maldiviano nella nuotata tra i coralli, mi pentirò!

8° giorno – sabato 23 marzo: Maldive

La giornata di oggi la trascorro in nome della libertà: libera di andare dove voglio, di tornare in mattinata all’isola di ieri, per fare lo snorkeling saltato, di partire per la seconda escursione, all’una e mezzo, e navigare tra gli atolli di Ari Nord, guardando il luccichio del sole sul mare (purtroppo molto sporco tra le isole), che fa l’effetto di tante lucette che si accendono e spengono. Libera di arrivare al reef della lingua di sabbia e trasbordare su una barca più piccola, guidata da un personaggio da “national geographic”, tipo aborigeno australiano. Libera di scendere su una meravigliosa isoletta di solo sabbia, circondata da un’acqua dalle mille sfumature di celeste e piena di cespugli di corallo e di pesci colorati. Libera di ritornare in barca ed appisolarmi cullata dal rumore del motore, dal calore e dalla luce. Libera di cenare, e poi, mentre la luce va via e tutta l’isola, per un’ora, è illuminata dalle fiaccole, andare sulla spiaggia e vedere una festa maldiviana, con balli tipici accompagnati da tamburi, sotto un cielo stellato illuminato dalla luna.

9° giorno – domenica 24 marzo: Maldive

Oggi faccio una bellissima escursione verso un’isola deserta, Diggiri, un mini atollo con un ciuffo di palmette e lingua di sabbia da sogno. Ci arriviamo in circa 50 minuti di dhoni e, come ieri, trasbordiamo su una barca più piccola, per passare sul reef e sbarcare a terra. Anche qui il mare è strepitoso, per bagno e snorkeling (anche se ci sono meno pesci della nostra isola). Pranziamo sotto le palme e ci godiamo il cibo, preparato dai gentilissimi ragazzi maldiviani che ci hanno accompagnato, sistemati ad un lungo e stretto tavolo, con bicchieri colorati, seduti su sedie di plastica o su contenitori frigo. Dopo pranzo mi rituffo dall’altro lato dell’isola, ormai deserta perché tutti rimangono all’ombra e posso fare foto senza nessuno che rovini il paesaggio. Bello anche lo snorkeling pomeridiano, anche se, per accorciare la strada del ritorno, passo “a pelo” sui coralli, con il rischio (per fortuna sventato) di tagliarmi.

10° giorno – lunedì 25 marzo: Maldive – Colombo – Roma

Il giorno della partenza è sempre strano: c’è aria di smobilitazione, ma cerco di godermi ancora la mezza giornata a disposizione, facendo snorkeling e una perlustrazione dell’isola che fin’ora non avevo avuto il tempo di fare (e scopro una Spa, una sala biliardo, dei campi da tennis, una palestra!). Il soggiorno ad Ellaidhoo è senz’altro consigliabile, sia per la bellissima barriera che per le stupende e vicine escursioni. Ma il fascino dei giorni precedenti sta sfumando. Si devono chiudere le valige, organizzare l’abbigliamento per il ritorno (passeremo da oltre 30° al freddo). La strada è lunga: un’ora e mezzo di barca, altrettanto di volo per Colombo (Srilankan Airlines UL 104 alle ore 20.25), più quasi dieci ore per Roma (Srilankan Airlines UL 581 alle 01.15).

Conclusioni

Prima di partire avevo molte perplessità sul breve soggiorno a Sri Lanka. Temevo di vedere poche cose. Invece, per fortuna, anche se sicuramente quest’isola riserva altre splendide sorprese, penso di aver visitato almeno i luoghi imperdibili, riuscendo comunque a percepire l’atmosfera prevalente del posto.

Per le Maldive il discorso è diverso: a chi ama il mare (come me), i giorni non bastano mai, e difficilmente mi annoio. Per gli altri invece, un breve soggiorno in queste isole, è sufficiente a dare un’idea della bellezza dell’arcipelago. Poi c’è che ritorna (per me era la quarta volta!) o decide di andare altrove. Una cosa mi è dispiaciuta: vedere per la prima volta l’acqua del mare (all’interno dell’atollo di Ari), abbastanza sporca. Per fortuna intorno all’isola era pulita.

È molto positivo fare l’abbinamento tour + soggiorno mare, perché ti permette di beneficiare, in un unico viaggio, di due tipologie di vacanza. Per me è stata una bellissima esperienza!

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