Sarajevo… la città rinata
Arrivai a Sarajevo in autobus da Zagabria. Arrivato nella capitale bosniaca avevo gli occhi spalancati, vedevo i palazzi che le fotografie e i media ti facevano vedere durante il terribile assedio di una città che era multirazziale, multiculturale, multi religiosa..
E’ stata oggetto del più lungo assedio del secolo, con una media di 329 bombardamenti al giorno durante il corso dell’assedio, ma oggi, finita la guerra, Sarajevo è rinata ed ha ripreso il simbolo della città tollerante fra etnie e religione che l’aveva contraddistinta per secoli. Non sono qui per un pellegrinaggio nei luoghi segnati dalla tragedia, anche se alcuni segni del passato ancora sono evidenti nelle pietre, sui muri, sugli asfalti delle strade. Andare a Sarajevo oggi non vuole dire più affacciarsi sull’orlo della paura, sul bordo dell’assedio più lungo del secolo, ma ci si può andare con la curiosità di un viaggiatore, con la curiosità di uno snowboardista, nella città olimpica del 1984 e quando la città fu assediata è stata bloccata la possibilità a quei giovani surfisti che iniziavano a vedere le prime tavole arrivare dall’ovest, loro hanno dovuto lasciarle chiuse in casa ed aspettare che la città tornasse a vivere in tutto e per tutto. Dove per loro la felicità era un’ora di luce o di acqua. Con la pace era ricominciata un’altra guerra, non sanguinosa, ma meno dura e umiliante: sopravvivere. Zlatan è uno di quei ragazzi, ormai cresciuto, che tra i primi in Sarajevo usò lo snowboard e che per tutti gli anni della guerra ha dovuto lasciarla nella cantina della sua casa che per fortuna non è stata distrutta, per poi un giorno riprendere la vecchia tavola, che ancora usa e riconquistare la felicità di tornare nelle sue montagne a due passi dalla città, ma così lontane in quei giorni di quel maledetto assedio di odio e violenza.
La loro vita in quei tremendi anni, era appesa alla benevolenza di un cecchino, eppure scorreva in una normalità improbabile e ostentata al nemico, ai cannoni puntati sulle piazze e sulle case. Normalità fatta di musica azionata dalle batterie delle automobili, ci si incontrava nei scantinati a ballare, con un grande amore che li teneva uniti, come la voglia di sopravvivere.
“Adesso è finita da un bel po’ e i nostri sogni sono riaffiorati. Ma è ancora un po’ tutto difficile. Siamo tornati quasi alla normalità, ma le ferite sono ancora profonde, i segni dell’orrore ci sono ancora, li vedi ovunque, ma sembra che ci sia futuro oggi per noi, e questa è una grande cosa. Nel periodo della guerra non mi sono mai diviso con i miei amici, neppure quando vedevamo i nostri compagni morire o fuggire o, peggio ancora, tradire gli amici. Io e i miei compagni abbiamo sempre pensato che questa fosse la guerra degli ignoranti e dei primitivi, di bande e di gruppi d’interesse. Nessuno poteva e potrà toglierci la nostra amicizia in nome di un’etnia, perché questo era lo spirito di Sarajevo e in questo spirito siamo cresciuti e in questo spirito vogliamo far crescere la nuova generazione. Lo vogliamo fare con lo sport, con lo snowboard, la passione di ieri e di oggi. Ci hanno intossicato di propaganda, di televisione, di paura, però ci siamo sempre rifiutati che il vicino di casa potesse ucciderci.”
Quella sera a Sarajevo c’era stata una manifestazione di snowboardisti locali. Quella sera si sarebbero divertiti nel dimostrare ai sarajeviti rinati le loro acrobazie, la loro passione, il loro sogno che diventò realtà.
SARAJEVO, SABATO 8 GENNAIO 2011
H.23.30 – Sono tornato dalla manifestazione di snowboard nella piazza di Sarajevo, alla BBI Centrum, di fronte al monumento dei bambini caduti durante l’assedio. Cinque snowboardisti e quattro sciatori si alternavano in alcune acrobazie. Ragazzi giovani che quando c’era la guerra non erano ancora nati oppure erano piccoli. Che città particolare che è Sarajevo. Da una parte vedi il monumento dei bambini morti tra il 1992 e il 1996 e dall’altra parte la vita oggi nel 2011 con snowboard, musica, fuochi d’artificio e ragazzi nati tra il 1992 e il 1996. E’ come se quei bambini morti ricordati da quel monumento siano rinati. Non si conosce la vita di questi ragazzi nati nella guerra, nati, forse, alcuni di loro dalla violenza che tante donne hanno subito in quei lunghi anni dell’assedio di sarajevo. Una guerra che è stata oltre che etnica, contro le donne. Nel 1992 sapevano tutti degli stupri di massa. In Bosnia Erzegovina, lo stupro è stato utilizzato come strumento specifico di terrore all’intero delle campagne di pulizia etnica. Una guerra che prima ancora di essere contro gruppi etnici è stata contro le donne. Nonostante quello che è successo, questa sera tutto sembrava come se la città voleva curare le ferite profonde causate da quella terribile guerra.
Camminare per Sarajevo è bellissimo, vedi chiese cattoliche, ortodosse, protestanti, moschee e sinagoghe. Tutte le città dovrebbero essere come Sarajevo oggi, tutti i paesi del mondo dovrebbero essere laici perché ognuno deve scegliere la fede che vuole seguire. Non deve essere imposto niente a nessuno. Non si dovrebbe mai additare l’altro perché di una religione non uguale alla tua. A vedere Sarajevo oggi, sembra sia tornata quella città tollerante di una volta perché forse la gente vuole così.
Com’è strano l’uomo, invece che vivere bene insieme nella propria diversità, si odia perché diversi.
La religione e la politica sono delle brutte bestie perché usate solo a fine di lucro personale. Se uno vuole amare oggi, non può credere nel Dio degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani. Perché i loro leader religiosi non te lo fanno amare.
Guarda la storia del mondo: gli ebrei con i romani perseguitavano i cristiani, i cristiani perseguitavano poi ebrei e musulmani, i musulmani perseguitano i cristiani, i protestanti e i cattolici si odiano, sunniti e sciiti si odiano, e tutti credono nello stesso Dio. Il Dio che ha fatto l’universo e la terra, il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe.
Tanti bambini sono morti a Sarajevo, uomini e donne trucidati, basta passeggiare per la città ed entrare in uno dei numerosi cimiteri esistenti della città per rendersene conto.
Ma stasera fuori al BBI Centrum sembrava che la città non volesse più vivere l’odio del passato. Zlatan, Ibrahimovic, Goran; cristiani, serbi, musulmani e croati sembrava volessero dimenticare quel terribile assedio durato quasi cinque anni.
Avrei voluto conoscere più persone, chiedere di più, entrare nelle loro paure, nelle loro storie, ma sapevo che non sarei riuscito a fare di più di quello che avevo fatto. Una notte avevo addirittura sognato l’assedio di Sarajevo. Ma non ebbi il coraggio di chiedere di più, oppure era un rispetto inconscio perché come fai a chiedere a qualcuno un qualcosa che vorrebbe cercare di rimuovere dalla propria mente?
Andavo a visitare i cimiteri famosi per poter rivivere quei momenti, e cercare di immaginare come poteva essere terribile vivere in quell’inferno.
Andai al cimitero di Kosevo, costruito dopo la guerra per dare sepoltura a tutti i morti dell’assedio sparse per tutta la città. Qui non si vedevano buche sui muri degli edifici delle granate sparate all’impazzata, ma bensì tombe. File di tombe, musulmane, cattoliche, ortodosse con morti datati: 1992, 1993, 1994, 1995. Un continuo, uno dietro l’altro, anziani, giovani, bambini. Le date mi impressionavano, perché in quelle date io ero ragazzo, cosciente di ciò che succedeva dall’altra parte dell’Adriatico, e perché tante date erano di ragazzi nati nel mio stesso anno, e morti mentre io giravo spensierato il mondo. Ed era triste vedere una donna mettere dei fiori al proprio figlio nato nel 1975 e morto nel 1995. Non si poteva essere insensibili ad una immagine del genere, e stringerti, anche solo con il pensiero a quelle persone vittime di quella’atroce guerra europea. E stringersi ora, a quelle persone che ancora oggi soffrono in guerre che l’essere umano crea nel nostro meraviglioso pianeta, grazie alla sua cosiddetta “intelligenza” che riesce a far diventare luoghi sulla terra degli inferni.
Il cimitero del leone, sempre a Kosevo, era un luogo dove risulterebbero nell’estate 1992 civili serbi uccisi. Fu trovata una fossa comune in questo cimitero. Corpi sotterrati uno accanto all’altro, alcuni in sacchi di plastica, altri avvolti in coperte, altri con i soli abiti. Si trattava di civili, e fra essi c’era anche una donna anziana, tutti morti nel 1992 nel primo anno di guerra. I corpi delle diverse vittime serbe gettate nella fossa comune sarebbero state uccise dai musulmani in un vicino ospedale. E l’ospedale davanti al cimitero del Leone è il Kosevo.
I gruppi paramilitari musulmani che organizzarono la difesa di Sarajevo nel 1992, uccisero un gran numero di civili serbi, secondo le 56 pagine di documenti riservati della Corte militare bosniaca. Gli omicidi sono paragonabili a quelli commessi dai serbi contro civili musulmani e croati.
Il 25 gennaio 1992 il parlamento, nonostante la ferma opposizione dei Serbo-bosniaci, decise di organizzare un referendum sull’indipendenza della Repubblica. Il 29 febbraio e il 1 marzo si tenne nel territorio della Bosnia-Erzegovina il referendum sulla secessione dalla Jugoslavia. Il 64% dei cittadini si espresse a favore. I Serbi boicottarono però le urne e bloccarono con barricate Sarajevo. Il Presidente della Repubblica, il musulmano Alija Izetbegovic, chiese l’intervento dell’esercito, affinchè garantisse un regolare svolgimento delle votazioni e la cessazione delle tensioni etniche. Il partito che maggiormente rappresentava i Serbi di Bosnia, fece sapere però subito che i suoi uomini si sarebbero opposti in qualsiasi modo all’indipendenza. E da qui iniziò questa tremenda guerra fra le tre nazionalità.
La guerra che ne derivò fu la più complessa, caotica e sanguinosa guerra in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale. Così Sarajevo fu assediata per ben 43 mesi. Ciascuno dei tre gruppi nazionali si rese protagonista di crimini di guerra e di operazioni di pulizia etnica.
In tutti quei mesi la gente di Sarajevo iniziò a vivere nella miseria, nella paura, nel terrore che il tuo vicino di casa potesse ucciderti, tutto era permesso, tutto era legale, non esistevano più crimini. Non posso immaginare una vita in quelle condizioni, in quel luogo dove io ero a godermi la bellezza della città, il suo snowboard contest, i giovani che ridevano, scherzavano, ballavano come se nulla fosse successo.
“Eravamo tutti stanchi di morte, fame, freddo. D’inverno vivevo senza riscaldamento, con le finestre rotte, nella camera 7 gradi sotto zero. Andavo di tanto in tanto dal mio vicino che si riscaldava un po’ con una batteria. Non avevo nulla da mangiare. Sono dimagrita 19 chili. Nel contempo vedevo alcuni leaders che non riuscivano a chiudere i bottoni dei loro gilets. Sapevamo tutti che le autorità, la gente ben piazzata, mantenevano l’assedio e, soprattutto, si arricchivano col mercato nero. C’erano dei banditi, dei criminali, dei mafiosi, che avevano l’interesse che la situazione si prolungasse. E questi erano tutti Mussulmani, per la semplice ragione che i posti di rilievo erano tutti nelle loro mani, che i Serbi non erano in posizione da poter tirare le corde, e che i Croati erano solo una debole minoranza.”
In questa testimonianza c’è l’accusa ai mussulmani di Bosnia. Ma chi aveva ragione? Chi può giudicare il torto o la ragione di qualcuno? Sta di fatto che era una società gravemente disgregata, in cui i nazionalismi e gli odi etnici ebbero la meglio sulla ragione e sulla solidarietà, la guerra jugoslava fu una guerra di tutti contro tutti che coinvolse sia le etnie che le fedi religiose.
Incominciò tutto nel 1991 con la Slovenia, repubblica etnicamente omogenea, dichiara unilateralmente la propria indipendenza. Di fronte al sollecito riconoscimento del nuovo stato da parte della comunità internazionale ( il primo a riconoscere la nuova repubblica fu lo Stato del Vaticano) la Serbia accetta il fatto compiuto.
Da qui iniziò poi la Croazia e la sanguinosa guerra che vedevamo tutti i giorni sui giornali e al telegiornale. Entrava in casa nostra con violenza come se noi potevamo essere insensibili a ciò che succedeva a pochi chilometri da casa nostra.
Quando iniziò la guerra io mi trovavo in Israele. Nel novembre dello stesso anno ad Eilat conobbi due ragazzi di Sarajevo, uno era mussulmano sia da parte di padre che di madre, e il suo migliore amico aveva il padre serbo e la madre croata e mi dissero:
“A Sarajevo la guerra non potrà mai esserci, che cosa facciamo ci ammazziamo tra di noi? Mio padre, mia madre, i miei migliori amici? No, Sarajevo è l’unico angolo di pace oggi in Yugoslavia.” Invece terminata in Croazia, la guerra si sposta nella Bosnia-Erzegovina. Una feroce guerra civile, e l’assedio di Sarajevo da parte dell’esercito serbo diventò il simbolo di una guerra atroce e per certi versi assurda, nella quale il maggior numero di vittime si contò fra i civili. Fu la più crudele delle guerre civili, nel corso della quale serbi, croati e musulmani di Bosnia tentarono di eliminare qualsiasi presenza estranea nelle zone in cui prevaleva la propria etnia. Ogni mezzo fu ritenuto valido: violenze fisiche sulle persone, distruzione di villaggi, espulsione oltre confine e internamento in campi di concentramento delle popolazioni.
La guerra civile jugoslava, ispirata della “pulizia etnica” cioè allo sterminio degli avversari, è stata la più sanguinosa e disumana: milioni di persone sono state uccise e orrendamente mutilate, milioni di donne sono state stuprate e violentate, migliaia sono stai deportati in campi di concentramento, e milioni hanno dovuto abbandonare le case e le proprietà.
In quel viaggio leggevo un libricino dal titolo: “QUANDO FINIRA’ IL MALE”
Perché esiste il male? Perché aspettare millenni per un giudizio finale quando poteva essere stroncato tutto all’inizio? Non ci sarebbe stata sofferenza. E’ vero che l’uomo ha la possibilità di scegliere il bene o il male. Purtroppo chi sceglie di fare del male è a sfavore dell’altro e non di se stesso. Non ci sono regole per fare il bene, il bene viene con il cuore.
Intanto continuavo a camminare per il cimitero di Kosevo, arrivando nella ala del cimitero del leone, Lav Groblje. Qui trovai la risposta alla mia domanda, alla mia ricerca di chi aveva ragione in questa guerra. La trovai davanti la tomba di due ragazzi bosniaci battezzati Romeo e Giulietta di Bosnia. Lei, Almira, mussulmana, e lui, Bosko serbo. Sono stati uccisi mentre cercavano di fuggire da una città in cui non potevano amarsi. Sono stati sepolti insieme, sotto una lapide a forma di due cuori racchiusi uno nell’altro.
I leader di tutti i popoli presenti nella ex jugoslavia non sono riusciti a dividere definitivamente i popoli. La ragione è di nessuno, hanno tutti colpa.
Un giorno andai nel comprensori di Sarajevo, Bjelasnica a 30 km a sud est della città. Presi il tram dall’ostello per arrivare a Novo Sarajevo dove c’era l’autobus diretto che partiva dal Museo Nazionale. La partenza era alle nove. Ero contento di poter andare nel comprensorio dove avevano fatto le olimpiadi nel 1984. C’erano ancora solo 8 discipline, lo snowboard ancora non esisteva, l’Italia vinse due medaglie d’oro: Paoletta Magoni nello slalom speciale e Paul Hildgartner nello slittino.
L’autobus parte e dopo aver attraversato la città inizia a salire. Salivo e salivo e la neve iniziava ad affiancare i bordi della strada. In pochi minuti mi trovai in un paesaggio da sogno, tutto candido di neve, puro, intatto. Le montagne erano ricoperte di una splendida foresta di conifere, in alcuni punti si apriva per far scorrere fiumi di neve. Dal finestrino dell’autobus si vedevano delle vallate candide, senza alcuna traccia di sci o di snowboard, tutte coperte di neve fresca e immacolata. Come se volesse coprire l’orrore dell’uomo. Avevo trovato in internet, mentre facevo ricerche su questo centro sciistico, un racconto di un libricino dal titolo: “Ad un passo dal cuore di Sarajevo” e mi colpì molto questo racconto che voglio riportare:
“Alcuni ricordi mi portano indietro nel tempo. Sta nevicando già da parecchie ore. Questa volta la neve non crea la gioia come negli anni precedenti. Pure essa è diventata un flagello per la popolazione che oltre tutto deve soffrire anche per il freddo nei gelidi appartamenti. Le strade stanno rimanendo coperte da questo bianco nemico perché lo scarso carburante, usato soprattutto per le necessità degli ospedali, non si può destinare per le macchine spazzaneve. Questo 5 gennaio del 1993 non è meno triste di altri giorni precedenti. Le nostre strade ancora oggi sono state bagnate col sangue e la fine di questa dura realtà sembra molto lontana. Oggi in casa si è parlato nuovamente di nonno e della sua tragica morte a Mostar. Ancora una volta mamma ha mostrato la forza e la fede che le stanno aiutando a vincere il desiderio di vendetta verso quelli che le hanno ucciso il padre. Pensando bene non c’è nessuna casa che non rimpiange qualcuno dei propri cari e dei propri amici. Ma nonostante tutto dentro di me sento una strana sensazione che mi tranquillizza e mi dà la certezza che le persone scomparse sono andate in paradiso, il paradiso che si può trovare dentro ogni cuore che ama. Credere che la giustizia divina restituirà la dignità a tutte le vittime della guerra rimane per me l’unico porto di salvezza. Le promesse di Gesù si sono avverate, non mi sento abbandonato e in ogni momento sto cercando di cogliere il messaggio di tenerezza che ci viene dato. Infatti siamo arrivati in questa situazione seguendo la nostra limitata convinzione di poter fare tutto senza ricorrere all’aiuto divino. Si vede chiaramente che senza Dio siamo in grado di creare solamente la distruzione, le guerre e i fatti quotidiani lo stano confermando giorno dopo giorno. Frequentemente sto incontrando la gente che cerca di aggrapparsi a qualcosa di soprannaturale. E così molti ragazzi, a secondo della propria fede, portano con se delle immaginette sacre, dei rosari e dei tespih come il segno della presenza divina che li accompagna e li custodisce. Qualche giorno fa sentii la testimonianza di un imam che ha parlato del perdono e dell’amore pur avendo perso sette familiari. Un coraggioso gesto che invitava a riflettere e a domare gli odi. Nonostante che possano sembrare inutili o poco influenti, questi piccoli uomini continuano a farsi la voce della semplice gente che desidera solo la pace. Per molti la guerra offre la possibilità di rivendicare qualche torto dei tempi passati. Nascondendosi sotto le divise militari vari ladri e malfattori stanno approfittando della situazione per compiere dei reati indicibili. Molti di loro trovano la morte mentre portano il bottino tratto dalle case abbandonate dai profughi. Si sta mostrando che è praticamente impossibile nascondere la propria natura in questa serie di prove sottili e continue. Ogni cosa che faccio comporta dei rischi, ma come tutti gli altri non mi posso fermare di fronte alle esigenze quotidiane. Stiamo mostrando in fondo che non ci possono trasformare in bersagli immobili e passivi. Per questa ragione gli aggressori non sbagliano mai quando lanciano delle granate perché trovano sempre dei civili sulle strade, impegnati nella lotta per sopravvivere. Il gioco della vita e della morte è destinato a durare ancora per molto e mi chiedo anche se sarò mai in grado di descrivere la tristezza di questi giorni. So che dovrei almeno tentare affinché gli altri capiscano cosa significa essere condannati “a vivere” in un cerchio della morte. Sicuramente nessuno potrà mai cambiare i fatti già compiuti, nessuno potrà mai fermare le lacrime già piante ma tutti insieme possiamo far sì che le sofferenze e la storia eroica della gente di Sarajevo non venga mai dimenticata.”
Arrivai a Bjelasnica, scesi dal bus e mi avviai verso gli impianti. Presi la neve in mano e me la misi in bocca, non so perché di quel gesto, così. Il comprensorio ha circa 20 km di pista ed è servito da sette impianti. Si dice che a Bjelasnica d’inverno ci sia molta neve e che ha raggiunto addirittura i quattro metri, e la media durante tutta la stagione invernale si aggira ai 135 centimetri.
Andai a fare lo skipass, feci quello di mezza giornata che costava 10 euro. Quando vado in comprensori piccoli, di solito faccio mezza giornata. Faccio qualche discesa in pista, qualche fuori pista e poi se vedo dei luoghi per un breve backcountry, finita la mezza giornata faccio un ultimo fuori pista come si deve.
Prendo il primo impianto e dopo altri due arrivo al punto più alto, 2067 metri. Un panorama a 360 gradi, come quasi sempre quando raggiungi una vetta anche se non altissima. Bjelasnica si estende da Sarajevo a Konjic e comprende paesaggi spettacolari. Da qui potevo vedere tutto ciò: antichi villaggi di capanne, fra i quali quello di Lukomir tradizioni bogomile (l’antica eresia cristiana precedente la dominazione turca), quel giorno erano completamente innevate. Il villaggio sorge a 1495 metri di altitudine ed è il centro abitato in quota di tutta la Bosnia Herzegovina. Ai piedi della montagna le grandi foreste che si estendono fino ai 1500 metri di altezza, oltre i quali dominano grandi vallate innevate. È qui che emerge il grande fascino di Bjelasnica, con le sue vette, abitate dai lupi, dal cinghiale e dall’orso. Il paesaggio esprimeva serenità, dove il tempo sembrava essersi fermato.
Mi siedo e guardo il panorama davanti. Le informazioni prese da internet dicevano di non avventurarsi fuori pista a causa delle mine lasciate nel periodo dell’assedio. C’era poca gente, controllavo dove potevo uscire, dove potevo inoltrarmi, fino a dove, quanto potevo rischiare oggi, dopo 14 anni dalla fine della città assediata, dalla fine della guerra terribile di Bosnia. Mi alzo e decido di fare una semplice discesa nelle piste che hanno ospitato campioni del mondo delle olimpiadi del 1984. Una bella discesa con solo 800 metri di dislivello, da 2067 arrivavo a 1270. Arrivato risalgo per poi tornare a valle facendo un fuori pista, sicuramente le mine ormai erano quasi tutte esplose. Un semplice fuori pista con un piccola parte di open space per poi entrare nella foresta di abeti del luogo, di queste montagne che d’estate ospita meravigliose passeggiate tra laghi e cascate.
Arrivato di nuovo alla vetta più alta cammino verso sinistra dall’arrivo dell’ultimo impianto. Ancora una volta un panorama da cartolina, mi sedetti sulla neve e mangiai della cioccolata. Mi preparai a scendere da questo fuori pista, c’era un bel po’ di metri di open space prima di arrivare nel bosco. Mi riprometto di non urlare, di non svegliare la montagna, di non disturbare i caduti di Bjelasnica. Le prime curve sono uniche, la neve era bellissima e il silenzio svuotava la mente. Avevo la pelle d’oca, non tanto per la discesa che era un semplice fuori pista come tanti, ma per quello che in quel luogo era successo, come nelle nostre alpi, che ormai ci dimentichiamo dei caduti nelle montagne per la resistenza, la libertà. Le montagne parlano, hanno tutte dei racconti, delle storie dei nostri paesi che noi ci dimentichiamo dopo anni, purtroppo, e invece non dovremmo mai.
Dopo qualche curva guardai indietro, volevo vedere i miei segni, le mie strisce, lo facevo sempre, in qualsiasi discesa. Ancora giù, ancora curve, grandi spolverate e poi dentro il bosco stretto circondato da alberi imponenti e solo rispetto per la montagna, massima attenzione ad ogni metro, fino a che non ritorno a valle, al punto di partenza. Chiudendo così un’altra discesa, un altro luogo, con le sue sofferenze, le sue storie, le sue tragiche perdite.
Tornai a Sarajevo e dopo qualche giorno presi il treno per Belgrado. Guardavo dal finestrino e vedevo le montagne della Bosnia, le case dei contadini. Avrei voluto piangere. Piangere per tutto quello che era successo, piangere per le donne violentate, per quei bambini strappati dal grembo della madre e dai loro giochi, per quei papà indifesi picchiati a sangue, per quegli anziani presi a calci perché di diversa etnia, piangere per quei popoli che subiscono ancora tutto questo oggi, piangere per l’umiliazione che un essere umano può subire. Il treno correva, la mia tavola era appoggiata nello scompartimento su di me. La neve fuori copriva tutto di bianco. Il bianco candido della gente morta innocente, era di fronte a me.
La mia discesa in Bosnia era stata un’esperienza indescrivibile, piena di pensieri, avrei voluto dare amore a tutti quelli che non ne hanno avuto, avrei voluto piangere. Ma non piansi.
Ciao Bosnia