Sarajevo, Bosnia Herzegovina
La sensazione di varcare una soglia immaginaria tra est ed ovest è palpabile. L’ingresso in Bosnia è anche l’ingresso in 250 km circa di statale fino a Sarajevo. E finalmente, eccola qui. Innevata e sporca, i segni della guerra ancora ben visibili, Sarajevo si mostra nella sua versione più malinconica. Sono lontani i viale alberati di agosto e le persone sedute ai caffè della Bascarsija. Ora c’è solo nebbia e fango, eppure la sensazione è quella di riconoscere il volto più sofferto ed autentico della città.
Bascarsija, il quartiere ottomano, centro commerciale tra i più fiorenti durante la dominazione ottomana, ci accoglie con le sue case basse di legno e le botteghe artigiane. I lastroni su cui ad agosto slittavi con l’infradito ora sono sporchi di neve e fango e spesso diventano lastre infide di ghiaccio. La Bascarsija è costellata di minareti, ma c’è anche una chiesa cristiano ortodossa. La sinagoga ashkenazita invece è sul lungo fiume, mentre campanili serbo ortodossi e cattolici si stagliano qua e là nel resto della città. Questa è Sarajevo, la Gerusalemme dei Balcani.
Al “To be or not to be” ceniamo al piano di sopra, la ragazza che ci serve è allegra, un sorriso aperto a commentare le finestre non proprio ermetiche, infatti dobbiamo cambiare tavolo. “Or not” non esiste più. L’hanno cancellato durante la guerra, per scaramanzia. La sera ci inerpichiamo lungo la collina, per vedere la città dall’alto e il cimitero musulmano di Alifakovac ci toglie per un attimo il respiro. Ritroviamo quelle immagini viste mille volte, di Sarajevo che compare all’orizzonte, dietro una distesa di tombe. Basta una camminata come questa, di pochi minuti, per rendersi conto della conformazione di Sarajevo, sua grazia e sua condanna: si stende in fondo a un imbuto, circondata da colline dalle quali è fin troppo facile guardare giù, verso le case e le persone. Ed è stato fin troppo facile assediarla e martoriarla per anni. La sensazione è proprio quella di topi in trappola, lasciati a morire anche dalle Nazioni Unite che, se solo tentavano di attraversare l’aeroporto, li rispedivano indietro. Andiamo al cimitero ebraico, emblema della meschinità di questa guerra: da lì le milizie serbe bombardavano la città. Ed è evidente il motivo: le sue tombe digradano lungo il pendio della collina e costituiscono un anfiteatro perfetto da cui sparare e nascondersi. Sanno che difficilmente i sarajeviti risponderanno al fuoco, profanando quindi un luogo sacro. D’altronde, c’è l’embargo sulla città, non hanno neanche le armi per difendersi. La gita al tunnel di Ilidza, “the tunnel of life” come lo chiamano loro, è un pugno nello stomaco. Non tanto per il tunnel in sé, che in fondo è la testimonianza di come l’uomo riesce incredibilmente ad adattarsi a tutto, e di come la vita sia sempre più forte del destino e della morte, ma soprattutto per la traversata in tram delle periferie, ancora devastate dalla guerra, immerse in questa neve sporca.
Rientriamo un giorno prima, dopo la notte di Capodanno. Abbiamo visto molte cose, la nebbia avvolge la città, è tutto chiuso. Il viaggio è concluso. Pensiamo che per un po’ si possano sospendere le visite ai Balcani… Eppure mi ritrovo qui a parlare di questo viaggio che mi ha insegnato più di quanto mi sarei mai aspettata.
Siamo un popolo pieno di sfaccettature, contraddizioni, diversità. E proprio per questo meraviglioso. Pare incredibile che qualcuno possa aver ritenuto tutto ciò un problema, invece che una straordinaria ricchezza.
Penso che torneremo ancora a Sarajevo.