San Pietroburgo
Tornavamo da Praga. Sul treno dall’aeroporto a Milano, una signora danese ci aveva parlato di come era Praga quando è andata lei vent’anni fa e com’era i primi mesi del 1992. Per quanto mi fossi innamorata della città dalla quale tornavo, quella che descriveva lei sembrava più bella, con un’anima diversa. Ho invidiato quel racconto e ho pensato spesso a cosa ci ha detto: “Cercate di visitare i paesi che stanno cambiando, quelli dove c’è entusiasmo, dove la gente ha fiducia nel proprio futuro. E’ come parlare con un ragazzino pieno di sogni.” E’ quello il momento in cui ho preso coraggio per un viaggio che mi sembrava tanto difficile ed era quell’entusiasmo che avrei cercato una volta arrivata.
Piccolo salto temporale di cinque mesi, un altro bel salto tra Milano, Bruxelles, Tallin e finalmente sono sul Sibelius, il treno che è partito questa mattina alle 7.42 e che mi sta portando in Russia. Il viaggio è lungo: durerà sei ore. Alla stazione dopo la nostra è salito un gruppo di ragazzini. Si dividono tra due carrozze, nella nostra ne arrivano otto, più due accompagnatori che sembrano marito e moglie. Sono reduce da una notte sveglia in un aeroporto deserto, dove si sente solo musica degli anni ottanta, quella della mia adolescenza, e questi ragazzini adesso mi sembrano molto più simpatici del mio libro o di uno dei miei sport preferiti: spiare le parole crociate di Andrea e suggerirgli le soluzioni, così si arrabbia. Hanno tutti il passaporto russo e stanno probabilmente rientrando da un campeggio. Continuo a chiedermi perché mai tutti abbiano un sacchetto in plastica, di quelli della spesa. Quando ne tirano fuori maglioni perché hanno freddo, scarpe di ricambio, panini, capisco che è un pezzo della loro valigia. Sono contenta che la mia sia ben lontana da me in questo momento, perché mi sembra così elegante… Se solo sapessero che l’ho presa con i punti! Mi sento osservata da due ragazzine che ho di fronte: una sembra una bambolina bionda e l’altra è una simpatica mangiona che ha infilato di tutto nel suo bel sacchetto. Guardano lo zaino, le scarpe. Non hanno più di 15 anni. Lo dico con sicurezza perché non hanno dovuto compilare la dichiarazione d’ingresso per la dogana (è obbligatoria dai 16anni). Quando capiscono che siamo italiani si divertono a dirci “buon giorno” ogni volta che gli passiamo davanti. Non sanno probabilmente dire altro, quindi non proviamo nemmeno per paura di metterli in confusione e continuiamo a rispondere anche noi solo “buon giorno”. Sembriamo uno scatch sugli inchini giapponesi. A proposito di giapponesi… Ci siamo fatti due lunghe carrozze dietro a due macchiette di giapponesi che continuavano a spingere avanti le loro gigantesche valige, cercando di farci passare, finché una donna (giapponese) gliele ha spinte tra due sedili e… Miracolo siamo passati! Certo, evviva le donne, però se quell’uomo non si fosse agitato tanto, glielo avremmo spiegato anche noi! Mangiare sul treno è (un salasso) possibile solo superata la frontiera russa. Le procedure doganali funzionano così: 1) bloccano porte e bagni e passano i controllo da tutti per verificare i biglietti; 2) passano una seconda volta a contare i passeggeri per vagone; 3) la dogana finlandese controlla i passaporti e i visti, prendendo nota su un taccuino dei cittadini russi e degli stranieri; 4) sale sul treno la finanza russa (e fa un po’ impressione nonostante ridano tra loro e le donne abbiano anche le ciabatte …Rosa!!!) e ritira i passaporti. Il treno nel frattempo è fermo con le porte chiuse in aperta campagna… Deserta; 5) restituiscono i passaporti, timbrano il visto e staccano la prima copia in entrata. Perché lo racconto così nei dettagli? Perché presto non servirà più il visto per entrare in Russia e io tutto ciò lo racconterò un giorno ad una ragazza su un treno che torna dall’aeroporto.
Per quanto ne dica la Lonely Planet è necessario dichiarare ogni moneta in tasca. Il finanziere cerchia le cifre e le timbra.
Quando entriamo in Russia vediamo ancora foreste, ma ai pini finlandesi si sono sostituite le betulle russe. Ogni tanto c’è una casetta in legno. Sono le dacie: case estive. Quelle che si vedono dal treno sono un po’ mal messe. Hanno davanti degli orticelli con le staccionate in legno scolorite e attorno solo alberi. Ovviamente queste sono quelle vicine alle rotaie, forse come in Italia sono le più povere. Qualche persona cammina di fianco ai binari. Vedo una donna con un fazzoletto bianco in testa e un cestino in vimini. Più avanti ne vedrò altre penso vadano a funghi. Il treno è diretto fino a San Pietroburgo, ma attraversa delle stazioni. Le prime persone che vedo hanno la faccia rotonda, i capelli biondi, sono casualmente quasi tutte donne, piuttosto cicciottelle e vestite con tessuti molto lucidi e vivaci, sembrano costumi. Quando arriviamo in stazione all’alto parlante c’è l’inno russo. “Come il ben venuto a Don Camillo e Peppone!” No, per loro c’era “Volare.” E’ la prima volta che visito un paese con grandi difficoltà economiche e rimango stupita da come si riversino in strada i più poveri. Sugli scalini della stazione ci sono delle signore anziane che vendono semi neri. Mi viene in mente Marco e il suo pinolo russo non ben identificato.
Gli stereotipi confondono facilmente: una signora cicciottella, con i capelli bianchi, i vestiti senza maniche che si incrociano davanti e le ciabatte per me sta facendo i mestieri, è appena uscita di casa tra una lavatrice e l’altra per buttare l’umido. Mi aspetto abbiano anche i bigodini in testa. Invece è forse uno dei loro vestiti migliori! C’è una gran confusione, traffico, gente che spintona. Per andare in albergo dobbiamo prendere la metropolitana, ma il gioco si rivela un po’ complicato: non esiste una scritta che non sia in cirillico. Seguiamo la coda per i biglietti. Biglietti? Mi immagino cosa avrà pensato quella donna dietro il vetro: “Cosa vuole questa qui?” Si comprano i gettoni… Un giro in giostra praticamente, per 6 rubli (20 centesimi – a Milano costa 1 euro!). Una volta comprato il gettone non c’è modo di sbagliare: è un locale talmente stretto! La scala mobile è quasi attaccata al girello d’entrata. Impressiona la pendenza del soffitto: il tunnel della scala mobile è un incredibile buco quasi verticale, buio e silenzioso. La luce non è molta e viene da curiosi lampioncini molto distanti tra loro a forma di torcia, di fiaccola. Le persone sono diligentemente allineate a destra. Nessuno parla. Sul lato opposto, sul nastro in salita, tutti ci guardano con la stessa espressione fissa e fredda. Nessuno si sofferma a guardarci, è come se ci contassero. Non mi sono mai sentita tanto un numero. Per quanto tutto ciò possa essere naturale, quando a farlo è un piccolo esercito di visi uguali tutti in fila, l’impressione è un po’ agghiacciante. La discesa sembra non finire mai. Per quanto ci sporgiamo non vediamo il fondo. Qualcuno si siede, qualcuno legge. Dura quasi tre minuti che considerata la velocità mi sembra tantissimo. Sul fondo c’è una cabina chiusa con una signora che controlla le scale mobili. Capire le scritte delle fermate ora si rivela più semplice. Per fortuna avevo imparato almeno l’alfabeto russo. Le porte per uscire dalla stazione sono pesantissime. Le hanno bloccate in posizione semi-aperta per aiutare le persone o qualcuno rimarrebbe sicuramente fuori. La tengo aperta ad una signora anziana che mi vede e si apre da sola l’altra. Lo sapevo, ma mi ero dimenticata: per loro vuol dire che è aperta per te.
Subito fuori ci sono dei chioschi che vendono sigarette, giornali (tanti, con le copertine piene di modelle, come i nostri), uno solamente di collant, fiori. C’è gente con secchi in plastica pieni di pomodori, cassette in legno rovesciate per mettere in mostra melanzane o cetrioli. Una vende solo guanti in lattice, visibilmente già usati. Un’altra ha mini collant che ripiega su se stessi con amorevole diligenza. Non ci sono confezioni, non c’è niente. Loro stessi sono seduti su chissà cosa. Eppure questo amore per riordinare il loro piccolo campionario mi commuove. So che non li devo guardare direttamente , per cui li spio passando. Più che dolore o miseria, nelle loro espressioni c’è solo amore per le loro cose. In strada il traffico è incredibile. Guidano in modo molto azzardato. Le macchine sono solo LADA (scritto alla occidentale o alla russa). Di colori diversi ma tutte identiche. Le macchine un po’ più belle hanno i finestrini posteriori completamente neri. Per quanto le Lada siano vecchie, non manca qualche sfizio moderno: antifurto con la musichetta di un videogioco, chiusura centralizzata, telecomando.
Il nostro albergo si chiama Mercury. L’ho trovato via internet sul sito di un’agenzia di guide turistiche che ha avuto la pazienza a febbraio/marzo di quest’anno di girarseli tutti. Mi ha sorpreso che molti alberghi non abbiano permesso loro di fare fotografie della facciata, nemmeno di fronte alla motivazione di pura promozione a nuovi clienti. Molti altri alberghi non vogliono stranieri (uno di questi era consigliato da una guida turistica!). L’Hotel Mercury è statale. Non c’è l’insegna all’esterno e nemmeno un numero civico. Lo troviamo solo perché avevamo visto la foto sul quel sito. Prenotare un albergo in Russia da soli non è difficile, ma bisogna sceglierne uno abilitato a rilasciare l’invito, che è indispensabile per il visto. Un altro problema da tenere in considerazione – oltre alla conoscenza dell’inglese da parte del personale – sono le pulci! Più si è lontani dal fiume, meglio è, anche per le zanzare.
Una impiegata molto gentile ci consegna la chiave n. 3. E’ una stanza molto spaziosa, pulita e piena di luce. Abbiamo anche il bagno in camera. Va benissimo. Ogni giorno vedremo un impiegato diverso alla reception e tutti sempre molto gentili.
E’ il primo pomeriggio e vogliamo andare in centro. Bisogna prendere il trollibus. E’ un mini-pullmino nel quale hanno tolto qualche sedile per permettere alla gente di camminare all’interno fino all’ultimo posto. Si paga a bordo (120 rubli = 40 centesimi) con un simpatico passamano se si è seduti nell’ultimo posto. E’ una iniziativa semi-privata per sopperire alla carenza di mezzi pubblici. Ci stupisce vedere che tra loro i russi non si parlano e raramente dicono grazie (una delle poche parole che avrei capito). I trolli sono molto comodi, tappezzati di probabili circolari di autorizzazione, di fogli stampati con il prezzo e altri con il numero del percorso. Sono uno diverso dall’altro. C’è un solo problema con loro: riuscire a dire dove vogliamo scendere! Un sorriso e una cartina, mi salvano da tutto il russo che non ho imparato.
La prima cosa che vogliamo vedere è la chiesa della Resurrezione. E’ famosissima e penso che chiunque la sappia ricollegare a San Pietroburgo. E’ piena di colorati mosaici, con tantissimi particolari e molto oro. Si potrebbe entrare ma sembra non ne valga la pena (il costo è altissimo). Tutti i turisti sono qui, a farsi le foto con alcuni personaggi in maschera che noi abilmente evitiamo.
In ogni strada ci sono cantieri aperti. Proprio dietro al chiesa c’è un mercatino di souvenir dove accettano tutte le carte di credito e parlano anche italiano. La scelta non è molto varia: matrioske, articoli in legno (soprattutto scatoline), cimeli del periodo comunista, colbacchi e orologi.
Si segue il canale e si arriva alla Nevsky Prospekt che è l’esatto contrario di tutti i quartieri rigorosi, austeri, squadrati e purtroppo poveri visti finora. Il traffico, i cartellini pubblicitari, i cantieri, la gente che spintona, le grandi firme di abbigliamento sono una visione fastidiosa.
La piazza del Palazzo d’Inverno è totalmente all’aria per i lavori, tanto che per attraversarla ci sono delle passerelle in legno, ma non bastano: bisogna saltare per superare gli scavi.
Agli angoli delle strade ci sono delle donne con dei vecchi frigo per gelati marchiati Nestlè. Questi sono i bar! Vendono anche bibite fresche e hanno tutto il loro campionario esposto sotto il sole con dei bigliettini per il prezzo. Sono donne in ciabatte, con le calze di lana, spesso senza denti e cotte dal sole. La versione extra lusso dei bar, ma sono molto pochi, consiste in una carrozza lucidata a nuovo con una ragazza che da un finestrino parla al cliente (il quale è salito su un trespolo di 3 gradini) e gli passa le bibite. Le carrozze hanno davanti dei tavolini e sono l’unica cosa che a colpo d’occhio si possa riconoscere come un bar. La via intermedia sono i chioschi in metallo che vendono tutto ciò che è attaccato ai vetri. Appena arrivati non si riconosce altro. C’è sicuramente qualche locale al chiuso ma si tratta di bar-ristoranti, praticamente solo per stranieri. Ci sono anche carrettini per hot dog e krapfen: un clima turistico da zoo! Passeggiando troviamo un localino molto semplice, frequentato da molti ragazzi russi, mangeremo lì ogni sera. E’ un “telephone-caffè”: ogni tavolo ha un telefono che può chiamare gli altri del locale con il solo scopo di fare amicizia. Una santo buono è entrato anche in Russia e ci fa arrivare in tempo per prendere l’unico tavolo senza telefono. Assaggiamo la vodka. Si dice NASDOROVIE e si butta giù tutto d’un fiato… Se siete stupidi come me, se siete furbi come mio marito sorseggiate. Mi è venuta una coccola che pensavo di morire. Se mi avesse vista Gaia! Per strada durante il giorno ci sono dei pittori. E’ carino vedere come ognuno rappresenti la stessa cosa in modo personale. Ci sono poi i caricaturisti, ma nessun altro artista da strada.
Quasi su ogni canale è ancorato un gruppetto di barche che propone brevissimi giri turistici, dando spiegazioni purtroppo solo in russo.
Cercare di telefonare in Italia si presenta un problema non da poco. Le tessere telefoniche si acquistano solo nei chioschi fuori dalla metropolitana e non tutte funzionano da ogni telefono. Usare la moneta è impossibile: la cifra da raggiungere è troppo alta.
Rientriamo in albergo presto per la stanchezza e proviamo a guardare la televisione. Si prende MTV in inglese. I film sugli altri canali sono quasi tutti americani e vengono doppiati mantenendo sotto la voce americana: il risultato è piuttosto rumoroso. Alcune volte sembra che ci sia una sola voce di donna a doppiare tutti i personaggi femminili.
Non si può bere l’acqua dei rubinetti di San Pietroburgo per un virus che passa nelle tubature. Anche per lavarci i denti usiamo l’acqua minerale, ma non è semplice trovarla senza gas.
Secondo giorno Prima di partire ci siamo messi in contatto con una guida locale che ci accompagnerà in un tour a piedi. Dobbiamo raggiungerlo all’ostello, dove ogni giorno raggruppa un buon numero di persone. Per noi questo vuol dire una bella camminata. Anche il quartiere che attraversiamo, come quello del nostro albergo, non è molto frequentato dai turisti. Stiamo cercando un posto dove fare colazione. Sembra che gli alberghi, ad eccezione di quelli condominio, non siano in generale molto abituati ad offrire anche il servizio colazione. Non esistono insegne e le poche sono molto poche. I negozi sono stati ricavati nel seminterrato dei palazzi, quindi non hanno vetrina ma una mezza finestrella. Alcuni sono a livello strada e hanno tenuto la vecchia porta in legno. Sono tutti luoghi bui, dall’odore anche umidi come cantine. Alla fine faremo colazione all’ostello.
Arriva Peter: ma è giovane! Mi aspettavo un vecchietto. Viaggia in bicicletta, con zaino in spalla e una larga camicia. Se qualcuno ha uno sfizio, una passione, Peter gli propone un itinerario ad hoc. Per noi, che non abbiamo richieste, ha in mente un giro in un quartiere residenziale, poco turistico che lui definisce un gioiello. Da lì arriveremo a piedi fino alla Neva attraversando quasi tutta la città. Siamo un gruppetti di 11 ragazzi: 3 francesi, una spagnola, due inglesi, un neo zelandese, un americano e un altro che non ha mai parlato, più noi due.
Prendiamo la metropolitana e non a caso. Infatti nel periodo di Stalin vennero costruite molte stazioni con l’intento di farne non solo un rifugio antiatomico ma un “palazzo per i poveri”. I ricchi avevano già i palazzi veri, alla gente comune si poteva almeno dare un po’ di decoro negli spazi comuni. Peter ci porta fino a NARVSKAYA che secondo lui è una delle più belle: colonne in marmo, pavimento in granito, bassorilievi inneggianti agli eroi del tempo: i lavoratori. Ci copre mentre rubiamo una fotografia. Riprendiamo la metropolitana verso la stazione BALTIYSKAYA. Da qui partono molto autobus per Peterhof, la residenza estiva dello zar, famosa per i suoi giardini. C’è una coda ordinata e lunghissima in attesa di questi autobus di latta, rattoppi e ruggine. Noi seguiamo Peter a piedi. Siamo nella zona sud-ovest della città, totalmente fuori persino dalla nostra mappa. In strada passano di continuo camion e jeep dell’esercito: è la normalità. Peter vuole farci vedere la statua di Lenin. E’ gigantesca come quasi tutto qui a SP. Si trova proprio sulla facciata di una vecchia stazione dei treni. Ogni stazione doveva averne una, almeno a figura intera. Oggi la stazione è un museo di locomotive a vapore. Passiamo sotto al saluto di Lenin e seguiamo il nostro Peter. Guardando questo quartiere è molto evidente che tutto ciò che non sono palazzi è stato concepito per essere la residenza degli ufficiali dell’esercito. Anche il nostro albergo ha una struttura molto chiara da camerata. Ristrutturandolo hanno fatto di due camere una, ma si vede ancora. Sembra che un vecchio detto di SP sia: “Non distruggere, ma aggiusta e non avrai il mal di testa”. Sulla strada della statua c’è la Casa della Cultura, avviata dai socialisti per istruire il popolo e dar loro un modo per socializzare. La tappa successiva è la Chiesa della Trinità, famosa per i suoi cupoloni color turchese dove un tempo splendevano stelle dorate. Durante il periodo comunista molte chiese vennero riconvertite in ambienti con alte funzioni. Questa doveva diventare un crematorio, per sua “fortuna” è scoppiata la guerra. Così è rimasta intatta e tutt’oggi è luogo di culto. Ovviamente ci serve una introduzione sul culto ortodosso. I libri sacri sono gli stessi di ogni altra espressione di cristianesimo, vengono però recitati in un russo antico che quasi nessuno conosce. Solo la predica è in russo moderno. I fedeli non si possono sedere e c’è sempre una demarcazione molto netta dello spazio a loro disposizione. Solo alcuni di noi possono entrare. Rimangono fuori i pantaloncini corti e le magliette senza maniche. Devo coprirmi la testa. Ovviamente non trovo più il foulard che mi ero portata e devo usare il maglione. Maglione nero sulla testa, con le maniche buttate dietro il collo, secondo me sono uno spettacolo. L’ultima volta che ho fatto una cosa simile avevo la tonsillite e forse 9 anni. “Andrea, come sto?”. Lui mi rassicura: “Lupo ululì, castello ululà!” Ma chi era Igor? Se fossi in una chiesa in centro tutto questo non mi verrebbe chiesto. Ci sono tanti quadri di santi, regalati dai fedeli alla chiesa. Le candele sono piccole e scoppiettano some le stelline di Capodanno. Peter ci spiega all’uscita che tutti dovettero sospendere il culto sotto la dittatura, ma oggi molti sono tornati a praticare. “E’ una parte della cultura di un popolo e ci mancava.” Davanti ad ogni chiesa russa c’è un mercato, sembra sia nella Bibbia. Da lontano guardiamo le cupole blu. Sopra ognuna c’è una croce che è rivolta verso l’ingresso. L’ingresso è a ovest, l’altare a est. La croce così facendo ha i punti cardinali in asse. La diagonale sotto la croce indica il nord e fa riconoscere il lato delle croce perché si muove da alto sinistra a basso destra. Prima di attraversare il mercato una ragazza chiede a Peter il significato delle matrioske. Vennero portate in Russia dai militari che andarono in Giappone, come giocattoli. Qui piacquero molto e le copiarono. Il nome viene a da “matriona” che è la ragazza di campagna prosperosa, per questo le bambole sono cicciottelle e con le guance rosse. Le hanno vestite con i costumi tradizionali (rosso è il colore delle Russia come la ex-bandiera, blu è il colore si SP). Il mercato russo le ha elette a souvenir simbolo, mentre il Giappone le ha dimenticate. Il mercato è fatto di bancarelle chioschi di abbigliamento. E’ tutto sintetico e traslucido. I prezzi sono un ventesimo dei nostri. Sul nostro tragitto, tra canali, ponti e casette colorate con finestrelle bianche, c’è la Chiesa di San Nicola. Le chiese di SP sono colorate come i palazzi, alcune hanno le cupole a cipolla in stile russo, ma qui se ne trovano anche rotonde e questa ne è un esempio. E’ sfarzosamente barocca all’interno, con le cornici dorate, i fedeli che ripetono il segno della croce per tutto il tempo della preghiera e le signore che compilano le richieste per le messe dedicate a un loro caro. Riprendiamo la nostra camminata lungo i canali. C’è una gran calma, tanti bambini con i nonni. Le scritte per noi continuano ad essere molto difficili e Peter lancia la sua difesa: “Se parli russo, puoi andare in mezza Europa senza problemi”. Va bene, ci proveremo. Ci fermiamo su un ponte a guardare un palazzo orrendo: grigio scuro, senza tetto, con una parte più alta come nessun altra casa di SP e dei balconi mai visti in tutta la città. E’ una chiesa riconvertita! Hanno staccato tutto ciò che facesse pensare alla sua vecchia funzione e le hanno fatto fare prima la Casa della Cultura Radiofonica, poi da casa. Ci viene male a guardarla.
Riprendiamo la camminata in stradine dove non saremmo mai andati da soli. C’è gente che lavora e ci guarda un po’ ridendo. Con i nostri zaini sembriamo dei nani con Biancaneve. Guardiamo l’interno dei cortili sotto gli archi d’ingresso. Sono tutti rovinati dal tempo. Dalle porte esce odore di umidità. Sembra una grande caserma rosa e gialla. Secondo Peter SP ha più canali di Venezia. Oibò! Parliamone… Questa notte Praga e Vienna hanno rischiato di vedersi rompere gli argini per l’alluvione. Per fortuna Elisa e Fede non dovrebbero essere ancora partite. Guardiamo i canali tranquilli e il cielo terso… non sembra vero. SP a novembre rischia sempre l’acqua alta.
Peter è entusiasta del quartiere che ci ha mostrato; dice che è calmo, elegante, tranquillo. Quante cose influiscono sulla nostra idea di casa, lui la vede lì. Con tutto l’entusiasmo di uno che ama la sua città ci propone di proseguire oltre il fiume “come se fossimo i fondatori”, come i mercanti inglesi e tedeschi che hanno costruito le case attorno al fiume e – per interessi – tutta la città. Oggi ci sono le pulci dove un tempo giravano tanti soldi. E’ nata sul fiume, è stata concepita per “apparire” di fronte all’Europa: era tutta una facciata sugli argini per quelli che arrivavano, la parte interna è arrivata dopo. Molti canali oggi sono stati coperti, trovano lo spazio per le zone pedonali che in Russia non esistono. Se il canale prima era tra la “lane” (strada orizzontale) 5 e 6 oggi lo è ancora pur essendo coperto (la via ha un nome diverso per lato). Le vie in verticale sono “prospekt”, hanno spesso i nomi dei reggimenti e c’è un nome solo per quartiere, con i numeri “prima”, “seconda”… Peter ci mostra la Chiesa di Santa Caterina; brillante bianca e rosa, un tempo riconvertita in computer discount. C’era una ragazza prima con noi che sta imparando a diventare guida. Ha 20 anni e ha studiato, ma nessuno le ha mai detto delle riconversioni e lei fatica a crederci. Insegnano ai giovani che la Russia è sempre stata bella e raggiante. Se tacciono la verità, cresceranno male, secondo me. SP vuole recuperare visibilità in Europa. Rivaleggia con Mosca, dove ci sono gli uffici delle multinazionali. Se l’Occidente vuole un punto in Russia, lo apre a Mosca. SP si è posta una lista di 198 lavori da fare: termine maggio dell’anno prossimo per il trecentenario della fondazione. Le zone pedonali erano nella lista, come ritinteggiare tutte le facciate delle case. Ne hanno fatti 5 per ora. Peter ha collaborato con due scrittori per una guida turistica, li ha portati in giro, anche nei locali e loro hanno preso appunti tutto il tempo. Alla fine gli hanno detto che la guida sarebbe uscita di lì a un anno. “Cosa sarà cambiato tra un anno?” Tutto! Con il crollo finanziario di mezzo, è cambiato tutto. Secondo Peter i turisti “di classe” non ci credono che SP possa migliorare in un anno e si lamentano dello sporco come della mancanza di organizzazione. I backpackers (noi) no,loro ci credono. Sarà l’età, i sogni, i sacrifici pur di viaggiare? Ci porta a vedere il mercato della frutta. Sulla parete esterna ci sono molti abusivi che vendono prodotti dei loro orti. Dentro c’è prima il “reparto” vestiti: sotto un telone vengono accatastati i capi sui bancali a terra e la gente rovista. Mi fa pensare con vergogna a quante cose scarto ogni anno. Il mercato della frutta è un capannone con delle bancarelle in lamiere lunghe non più di un metro, rialzate. Le venditrici hanno il fazzoletto in testa e sembrano contadine. Tutti facciamo acquisti (gesticolando perché non c’è verso di dire una parole comprensibile). Hanno poche cose ma disposte con ordine e amore: piccole piramidi di arance lucide, piccole piramidi di mele lucide. Dico ad Andrea: “ Com’è ordinato e pieno di colori!” Peter è dietro di noi, non conosce l’italiano e mi risponde: “So che ti può fare impressione tutto questo, ma stiamo cercando di diventare come voi”. Vorrei spiegargli cosa ho detto, cosa forse non sanno di noi, ma mi sembra di intuire della malinconia in lui e lascio perdere. Fino ad ora aveva descritto la città con gli occhi di un occidentale, ma da questo momento è diventato russo. Passeggiando lungo la Neva ci spiega come funzionano i Banja (la sauna). Andiamo a vedere l’università, ma solo da fuori, perché dopo l’attentato terroristico a Moska, non è più consentito l’ingresso agli estranei. Dice che è un peccato perché il museo dedicato allo scienziato che ha studiato qui la tavola degli elementi è interessante. Per finire ci porta sulla punta della Neva, una penisola simmetrica: stesse colonne, stessi edifici su ogni lato. SP ama questo punto perché qui “ti si apre tutto davanti”; mi sembra molto metaforico. Arrivano tanti sposi in limousine con gigantesche fedi d’oro sopra il tetto. In macchina ci sono i testimoni, con una fascia stile sindaco e il fotografo. Nessun altro. Bevono champagne qui, poi rompono i bicchieri e si danno un bacio mentre gli atri urlano “gorkia” amaro (un bacio amaro porta fortuna). Qui finisce il giro di Peter, simbolicamente con un matrimonio perché ora ci sentiamo molto più vicini a queste persone.
Andiamo da soli al Museo di Antropologia ed Etnologia per vedere i tesori (la Kunstkammer) di Pietro il Grande, il fondatore della città. La biglietteria è nel bagno, le vetrine sono chiuse con lo spago, non ci sono scritte in inglese, tutti spingono. Però ci piace vedere cosa si faceva portare dall’estero Pietro il Grande: maschere (se le vedesse Paolo!), vestiti, oggetti delle divinità. Lui in persona aveva curato una sezione dedicata ai difetti di natura, imponendo che tutto l’impero gli portasse “mostri” se ne avessero trovati (feti di gemelli siamesi, bimbi con 3 braccia o 2 teste). Inaugurò l’esposizione con nani e giganti come camerieri. Voleva dimostrare che le malformazioni sono frutto di malattie e non del diavolo. C’è anche lo scheletro del suo servo, il gigante francese, con il suo cuore (sotto spirito?). Ci sono sassi, fiori, denti. Tra i visitatori sono molti i russi che sembrano in viaggio per la prima volta nella loro vita, tanto è l’entusiasmo e l’ingenuità, la meraviglia. Alcuni hanno i denti d’oro. Come borsette hanno un sacchetto in plastica, di quelli del supermercato, come i ragazzi sul treno. Una signora aveva un cappello di sacchetti intrecciati. Dopo cena ci godiamo il tramonto sul fiume e tra i canali, in questa notte bianca che scurisce tardi, riscaldata dal fuoco perenne del Campo di Marte, tra i ragazzi che giocano a calcio e i cavalli per turisti.
Terzo giorno Dopo aver visto il Convento Smol’nyi (nato per le ragazze di buona famiglia e sede del partito sotto i comunisti) a piedi, tra le auto che offrono souvenir nel bagagliaio, prendiamo il nostro trolli per andare a far colazione in centro. Guardo queste ragazze altissime e penso che se mi comprassi un paio di calze qui potrei farne una tuta da palombaro, non parliamo delle scarpe. Sulla metro dietro ogni viso che guarda dritto, c’è un paio d’occhi che spia verso di noi. Non c’è un turista nemmeno se lo pagassimo a peso d’oro. Andiamo al Mudeo delle locomotive. Ce ne sono con la faccia di Lenin, altre con il cannone sopra, altre che sembrano sottomarini. Alcune fatte per le commemorazioni, altre usate davvero.
Entriamo nella Casa della Cultura vista ieri. C’è una babutska che accende tutto e una signora che ci spiega la storia dei treni russi. I primi biglietti erano in metallo. Lei dice “Leningrado”, non San Pietroburgo, come Peter aveva spiegato che fanno solo i Comunisti. Ci sono molte ricostruzioni (tipo trenino dei bambini), anche dell’ultimo viaggio di Nicola II, lo zar ucciso.
Tornando verso il centro cerchiamo la casa di Dostoevsky e i riferimenti di Delitto e Castigo. Leggendolo non sentivo l’odore delle cantine così forte, non immaginavo scale e cortili così bui e soprattutto case così da caserma senza balconi, decori o infissi. Pensavo a Milano vecchia, ma dovevo raschiare via tutto. Dobbiamo comprare i francobolli! La posta è in un appartamento in cima ad una scala in pietra. Linoleum per terra, formica per il bancone e scatolini di plastica (tipo burro) per le piante. Tante vecchine in fila con il loro fazzoletto in testa e il libretto in mano. L’impiegata tarda a tornare e una severa la richiama:”Tabarish!”. Siamo a posto! Volevamo andare al Museo dei Sogni di Freud ma ahimè è chiuso. Così decidiamo per il parco “pic-nic”, o meglio dove i Russi vanno a fare i pic-nic. Noi non abbiamo niente ed entriamo in un bar (uno dei pochi) dove c’è: una brocca di caffè, qualche pasticcino e una fetta di torta. Tutto qui. Sembra la descrizione della danese su Praga post-comunismo.
Diverse volte ci capita di vedere orsi al guinzaglio per fare le foto. Poverini! Nel parco non ci sono panchine (non si poteva andare a passeggiare, figurarsi sedersi!) e l’erba è alta per sedersi sul prato. Le giostre sono pony dove salgono bimbe piene di fiocchi come una cartolina d’altri tempi.
Cerchiamo la fortezza, all’interno della quale c’è la cattedrale dei SS. Pietro e Paolo. E’ in restauro. Qui nel ’97 hanno riportato le salme dell’ultimo zar in una cerimonia snobbata dal capo di stato e dalla chiesa. Meglio ignorare che mettere pace con la storia? Un buffo cartello dice che dal ponte non ci si può lanciare con gli sci… lo terremo a mente. Sentiamo un italiano che cerca di capire come vivano i russi chiacchierando con una ragazza vestita da damina (per le foto con i turisti). Mi è rimasta impressa la risposta: “Adesso posso mettermi i jeans, uscire la sera, parlare con chi voglio e non devo più cercare le spie, però a qualche anziano non piaccio se faccio così.” Mentre siamo nel parco della fortezza c’è un ragazzino che corre in giro a controllare i tappi delle bottiglie in plastica. Altri (anche anziani) qui come in città raccolgono quelle in vetro, che qui deve essere prezioso visto che anche nei palazzi se si rompe mettono il cartone.
Al ponte dei leoni vedo una scenetta carina; due soldati in mimetica (una azzurra e l’altra verde) che spingono un passeggino con una bimba in rosa e ridono. Sembrano le quinte della ripresa di un film, dove nel film si parla della vera storia della Russia.
Poco più in là una vecchina in ciabatte che si raccomanda (da cosa l’ho capito se non so il russo? Dall’indice a bacchetta!) ad un povero ragazzo che potrebbe essere suo figlio.
E’ strano girare in questa città. Ai bordi delle strade ci comprano biro e spazzolini o le calze in nylon corte dalla vecchina che continua a venderle e ripiegarle. Nel mini-market dove compriamo l’acqua si vende quasi tutto sciolto: anche i rotoli di carta igienica (che ovviamente vanno alla cassa rimbalzando!).
Il tramonto è bellissimo e infatti sono tante le barche che portano i turisti lungo il fiume per vederlo. Ci piacerebbe vedere quando si alzano i ponti ma è alle 2 di notte! Torniamo al nostro alberghetto. Per strada di sera c’è ancora qualcuno, delle coppiette avvolte in abbracci scheletrici (i ragazzi sono magrissimi!). Tutti in silenzio. Anche il giardino d’estate, dove ci sono i busti di personaggi illustri, chiude presto e manda fuori tutti. Tra gli alberi spunta la Chiesa della Resurrezione, coloratissima, ma ora non mi piace più, è troppo diversa dalla città. C’è anche un dirigibile! Non ne vedevo più da quando ero bambina.
Entriamo in albergo dove non abbiamo mai visto nessun altro ospite. Ci sembra di essere Don Camillo e Peppone nel film in cui vanno in Russia. C’è anche l’ombra sul muro della cornice tolta con dentro un quadro più piccolo! Andrea mi fa segno di non parlare: potrebbe esserci un microfono. Un po’ per ridere, un po’ per scherzare… un po’ perché l’atmosfera sembrava proprio quella.
Quarto giorno Oggi il grande Ermitage (il forziere “ermetico” di Caterina, per suo diletto privato!). Intanto noi come stranieri paghiamo un biglietto che costa 5 volte tanto di quello per i Russi. Non ci sono cartelli in inglese. Kandinsky (che è russo!) è sotto le scale vicino all’estintore, Michelangelo tra i Greci e Canova con i tedeschi, gli Impressionisti alla fine, con le finestre che fanno riflesso e la gente stanca che si siede ovunque. Il palazzo è splendido, l’organizzazione… “da rifinire”.
Volevo vedere l’Ammiragliato perché sui giornali inglesi si dice che il popolo piange l’anniversario della tragedia del Kursk (è metà agosto!). Ci sono tanti marinai giovani in giro ma qui non vedo fiori (forse cerco il simbolo sbagliato: non commemorano con i fiori). L’Ammiragliato ha di fronte un parco dove stanno facendo dei lavori. Ci sono bambini che fanno i giardinieri, donne che mettono la catramina. E io cosa faccio qui? La turista? Cos’è? La piazza del palazzo d’inverno che due giorni fa era tutta all’aria è già coperta.
Andiamo a prendere il treno ma a SP la porta da cui esci non è la stessa da cui rientri. Che allegoria! Me lo spiega in russo una vecchia signora seduta sugli scalini sotto un ombrellino nero che vende semini (di girasole?). Non la capisco e penso voglia vendermi qualcosa. Poi mi accorgo quando non riesco ad entrare e torno indietro lei mi rivede e cerchiamo di parlarci. Miracolosamente mi ricordavo come si diceva treno. Mi capisce e mi aiuta. In realtà mi aveva già cercato di aiutare prima, ma io non l’ho ascoltata. Ci penso fin sul treno, poi mollo le valigie e torno indietro di corsa a comprare i suoi semini. Mi riconosce e mi sorride. Mentre studio le monete per un volontario sovrapprezzo (e prego che non si offenda), lei mi guarda. Deve pensare che io non ne abbia a sufficienza e mi fa segno che va bene quello che ho. Quando vede che aggiungo, aggiunge anche lei nel cartoccio di giornale con foga volenterosa. Li conta e mi fa il sorriso più bello che mi potessi immaginare. Solo la mia mamma mi guarda così. Di tutti i ricordi di questo viaggio, che la cattiva memoria si perda quello che vuole, ma questo sorriso no.
Mi riempe il cuore, mi fa amare questa gente che ce la mette tutta ed è mamma delle piccole cose…E non conosce quelle grandi.
Sulla passerella conosciamo due ragazzi italiani che sono arrivati fino ad Helsinki in moto. Il loro commento: “Dupalle!” Se lo avessimo fatto noi, io sarei di sicuro caduta addormentata alla prima buca delle autostrade tedesche.
Sul treno conosciamo Silvio e Lidia, una coppia di signorotti romani che è venuta qui con un gruppo internazionale e con guida. Hanno un giudizio più severo: “Non ce la faranno! Ci vuole molto più tempo!” Penso al ragionamento di Peter.
Quando la guida dell’Ermitage li ha portati a vedere il ritratto di Nicola II, ha detto: “Questo è lo zar che se avesse governato, avrebbe risparmiato alla Russia i Comunisti!”. Ora capisco perché tanti si illudono che Anastasia e Alexey siano sopravvissuti: è la voglia di cancellare tutto.
Silvio è di una comicità tipicamente romana. “Questi vogliono diventare come noi, ma non lo sanno come siamo: quanto lavoriamo, che ci sono gli emarginati pure da noi, le zone depresse. Loro ci vedono qui in vacanza, nei film o nella pubblicità. C’è la pubblicità del gatto che se magna tutta quella roba. Oggi ho buttato via un uovo e uno lo ha ripreso dal cestino e non mi sembrava uno senza casa. Qui dicono ‘Se il gatto de là magna così, magno pur io, male che me vada… me magno er gatto!”. Silvio ha molta sfiducia per come li ha visto lavorare senza ponteggi, maschere, senza voglia o metodo. Forse perché lui ha lavorato molto quando l’Italia era in crisi e lo dice con orgoglio. “Questo è il loro dopoguerra, ma serve altro non solo colorare le case. Devono organizzarsi prima: qui non hanno neanche la patente o le assicurazioni”. Arriviamo al confine, con il finanziere finlandese che sgrida Silvio perché il suo passaporto non è firmato. “Questi sono entrati in Europa e adesso fanno tanto i precisini, ma a noi non ci piegano: dagli tempo due anni e i passaporti non li firmano più neanche loro!”. Ci fermiamo e Silvio tira fuori una bellissima Leika perché il figlio gli ha chiesto: “Papà famme vedè come stanno de là!” E’ un confine incredibile: dai terreni russi abbandonati e pieni di erbacce, ai campi finlandesi coltivati e ordinati. Dalle dacie scrostate che cadono a pezzi, alle casette rosse (stesso disegno, stesso stile) verniciate e ordinate. “Che peccato! Hanno proprio perso il treno!”.
Questi erano i miei appunti, scritti sul quadernino tra una pausa e l’altra. Ci sono quasi tutte le fotografie che non ho potuto scattare (non si fotografa la gente, certi palazzi, non si fanno foto dall’alto, alle strade…) e ci sono le mie impressioni. La prima impressione ha la sua importanza, ma qualcosa (con le letture di poi) va riscritto.
Il biglietto più caro ai musei o l’albergo che accetta solo russi è la conferma che la linea di confine tra straniero e russi non si è mai cancellata. Una volta assegnavano posti diversi sui treni o sugli aerei, davano targhe di un colore diverso alle macchine degli stranieri, noi il confine lo abbiamo trovato in questi due esempi.
I “turisti russi” che a noi sono sembrati tanto emozionati sono veramente ai loro primi viaggi. Prima potevano andare solo nei sanatori delle loro aziende, gratuitamente.
Le dace che io ho visto lungo i binari credendo fossero le più brutte, in realtà sono le uniche. Sono casette in legno ad un piano, senza riscaldamento o servizi igienici o acqua corrente, spesso anche senza elettricità, costruite lungo i binari della ferrovia perché utilizzano tuttora il treno per andarci nel fine settimana e non certo per riposare ma per lavorare nel loro orticello che gli darà da mangiare.
A proposito degli orticelli e delle persone che vendono i loro prodotti abusivamente… ho trovato questo: “La Russia descritta dai giornali è diversa da quella reale, come nei paradossi dell’Urss di Breznev: 1) non c’è disoccupazione, ma nessuno lavora; 2) nessuno lavora, ma il piano quinquennale è sempre realizzato; 3) il piano è sempre realizzato, ma le vetrine dei negozi sono vuote; 4) le vetrine sono vuote, ma i frigoriferi sono pieni; 5) i frigoriferi sono pieni, ma tutti sono insoddisfatti; 6) tutti sono insoddisfatti, ma ciascuno vota a favore al momento delle elezioni.” I negozi erano vuoti perché i produttori preferivano vendere al mercato nero, ma i frigoriferi erano pieni lo stesso grazie agli orticelli privati delle famiglie. La produzione privata copre percentuali altissime su livello nazionale.
Tornata da questo viaggio mi ha fatto piacere leggere su Il Sole 24 Ore che la Russia è in anticipo sul rimborso del debito internazionale, perché pensavo a tutte le persone che ho visto lavorare: alla piazza ricoperta in due giorni, alla signora dei semini, ai sogni di Peter.