Sal: l’isola prima della discesa degli Unni
AGOSTO 2001
Siamo partite io e Chiara. Per entrambe era la prima vacanza al caldo e la scelta è stata abbastanza casuale. Così agenzia, biglietto aereo e prenotazione. Potevamo scegliere tra due iper-mega-wow-ultra-villaggi-bunker per turisti lussuosi o qualche "accomodazione", decisamente meno comfortevole e più economica. Neanche a dirlo,...
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AGOSTO 2001 Siamo partite io e Chiara. Per entrambe era la prima vacanza al caldo e la scelta è stata abbastanza casuale. Così agenzia, biglietto aereo e prenotazione. Potevamo scegliere tra due iper-mega-wow-ultra-villaggi-bunker per turisti lussuosi o qualche “accomodazione”, decisamente meno comfortevole e più economica. Neanche a dirlo, per me, abituata a partire senza biglietti e solo con uno zaino l’unica soluzione era un piccolo albergo alla fine dell’isola, vicino a “cape shark”. Siamo partite dalla Malpensa, aereo colmo. Scena classica, italiani a profusione, milanesi e veronesi, poche altre eccezioni tranne Elena e Chiara, toscane. Viaggio comodo, cinque ore. Arriviamo all’alba. Una lunga striscia di sabbia viola battuta: l’aeroporto. Ritiriamo le valigie e fuori. Il 99,98% dei passeggeri del nostro aereo vengono “ritirati” da pulmini bianchi immacolati che partono su un’unica stretta striscia di catrame che rappresenta, come avremo scoperto poi, l’unica strada dell’isola. Sal non è grande, è pressappoco come l’Elba, ma il suo interno è desertico e vederla all’alba, questa sabbia rossa, viola, cupa e calda con il sole che la fa brillare di traverso è una cosa splendida. Troviamo un tassista che parla solo portoghese, ma alla fine lo stile comunicativo italico ha la meglio, così partiamo su una macchina che non sarebbe stonata neanche per le vie di Cuba e ci ritroviamo davanti all’albergo ancora interamente addormentato. Come ho detto era la mia prima esperienza al “caldo” e non trovare il campanello sulla porta, e la porta chiusa è stato il primo impatto, e chi lo sapeva che avrei dovuto battere le mani. Avrei potuto farlo spontaneamente giusto in caso di un attacco di isterismo convulso. Comunque, abbiamo approfittato della vista dell’alba sull’oceano, ci siamo sedute sui gradini esterni dell’albergo ed abbiamo aspettato chiaccherando sotto un albero di banane, primo vero segno d’Africa. Ad un tratto trotterella verso di noi un ragazzo di circa quindici anni, che parlava soltanto portoghese, ma ancora una volta la musa della comunicazione c’è venuta incontro così abbiamo capito che la nostra stanza non sarebbe stata pronta prima di mezzogiorno, ma che vista la nostra faccia derelitta ci avrebbe sistemato in una camera provvisoria per consentirci di fare una doccia e riposare un pò. Non vi dico quando ho scoperto che nella camera provvisoria stava già dormendo il fratellino di cinque anni del nostro ospite… Povero bimbo è stato preso di peso e portato via e non sono entrata in camera finchè non l’ho visto adagiato su di un altro letto. La stanza era piccolissima e alle nove di mattina era un forno… Poi abbiamo capito che quelle erano le stanze riservate al personale, quindi era abbastanza “logico” (?) che fossero le meno accessoriate. Mi faccio una doccia, ma di dormire non se ne parla per niente, risolto il dramma di Chiara che in un eccesso di prudenza ha chiuso a chiave la propria valigia per poi lasciare le chiavi a casa (… Ma si può??) zompiamo fuori dal nostro micro albergo con banano sulla porta e ci mettiamo a camminare per le vie di Santa Maria (scopriremo poi che le camere sono molto comode con letti ad una piazza e mezzo e ventilatore). E’ Domenica. I turisti sono partiti sabato sera e quelli che sono arrivati sono chiusi nei loro villaggi-bunker. Non c’è nessuno per strada. E le nostre piccole esploratrici si ritrovano a girare il paese guardandosi attorno. Fa un pò strano essere le uniche bianche in giro. Pian piano vengono fuori un pò di persone, sono concentrate tutte nel piccolissimo mercato di frutta. L’odore del mango è incantevole, ma non c’è niente di coltivato a Sal, e dove dovrebbero coltivare?? con una striscia di sabbia rubata ai flutti dell’oceano a disposizione… Continuiamo a camminare arriviamo al molo. Un tetris di assi di legno che ci si chiede come possa reggersi in piedi. Tra asse ed asse ci sono buchi e falle paurosi e la prima volta che ci montiamo sopra ci vengono le vertigini ed il mal di mare, ma arrivate in cima ci sediamo e guardiamo negli occhi l’Oceano. Meraviglia. Girovaghiamo sulla spiaggia che sembra non finire così alla svelta e ci troviamo nel pieno della zona villaggio vacanze. Sono tre villaggi costruiti uno accanto all’altro, ma sembrano piccole mosche rispetto alla grandezza della spiaggia e le zone ombrellone-riservato non sono esclusive nè per bellezza nè per nient’altro di particolare che non ragazzi senegalesi giovani che vanno ad offrire la loro compagnia a ricche donne sole… Eh, si perchè non si pensa mai alle donne che sfruttano la prostituzione di ragazzi giovani e poveri quando si accenna al problema? Vi assicuro che il mio stomaco ha fatto più di una capriola di disgusto a quello spettacolo. Come faccio a sapere che erano ragazzi senegalesi e non capoverdiani? Perchè grazie alla nostra sistemazione povera, alla nostra passione per le camminate intorno senza meta, per i ristoranti dove abbondano i locali che dietro un’aragosta ti ci piazzano sempre almeno due chitarre ed un cri-cri, per le parrucchierie di paese che è il modo migliore per conoscere le donne del posto, dopo un paio di giorni conoscevamo quasi l’intera popolazione di Santa Maria, che ci additavano come le “italiane” che sembrano portoghesi. Non avete idea dell’insulto che sia “italiana” a quelle latitudini e quanta impressione faceva ai nostri nuovi amici sapere che arrivavamo dal bel paese. La cosa non mi ha fatto per niente piacere, ma ci ho messo poco a capire… Innanzitutto tornando all’inizio di questo discorso, gli uomini a Capo Verde, di Capo Verde sono pochissimi. La maggior parte sono in giro per il mondo a fare manovalanza per mandare i soldi a casa. Ho visto moltissime donne sole, tirare avanti con dignità in mezzo se non proprio alla fame (i bambini al mattino pescano tra le assi rotte del molo con piccoli pezzi di pane, e vi assicuro che abboccano!!) certamente alla miseria. All’inizio del paese c’erano delle casupole di cemento, senza acqua, nè luce, senza niente e quando passavi di lì c’era una folla di bambinetti che ti seguiva urlando “uma plata, uma plata”, spiccioli. Non spendevamo molto nel nostro soggiorno così la plata finiva in mano ai nostri cari bimbi. Una sera ci si avvicina una bimba, Medira, avrà avuto sette anni e ci chiede se l’indomani saremmo potuti passare per darle una monetina, per festeggiare il suo compleanno. Invece decidiamo di farle un piccolo regalo, una collanina che avevo fatto con le mie mano con un fiore di tessuto che continuava a toccarmi tutte le volte che l’indossavo. Passiamo davanti questa schiera di baracche di cemento, ma non c’era stranamente nessuno, bussiamo alla sua porta ed esce sua madre Margherita, trent’anni e cinque figli, il più piccolo di quasi due. Ci squadra e ci manda via in malo modo, arriva in nostro soccorso la sorella maggiore di Medira e spiega alla madre che ci conosce e che “siamo a posto”. La madre ci guarda un pò in cagnesco, ma abbassa la guadia. Passano i giorni e riusciamo a chiarirci con Margherita, che dice di aver paura per i propri bambini con tutta questa gente che arriva da fuori piena di soldi e lei non c’è mai perchè fa le pulizie nelle case, e poi suo marito è via ed ha paura che le cose cambino troppo velocemente e che succeda qualcosa di male alla sua famiglia. Di noi si fida e nei giorni che restano alla fine del viaggio, quando non affrontiamo il deserto in califfone, o nuotiamo nelle piscine naturali o nel cratere spento di un vulcano, troviamo sempre un pò di tempo per passare da Medira ed i suoi fratellini più piccoli per un gelato, un pò di gioco e due risate. L’ultimo giorno li portiamo in spiaggia per salutarli, decidiamo di festeggiare con un mega gelato seduti al tavolo del bar, i bambini ci guardano con occhi spauriti, lì non ce li vogliono e loro lo sanno. Lì tranquillizziamo e finiamo con il giocare a spalmarci il gelato in faccia e a fare smorfie. Li riaccompagniamo a casa ed al posto di caricarci di paccottiglia che non serve a niente e a nessuno decidiamo di dare i soldi risparmiati a Margherita. Un regalo alla sua forza ed alla sua bellezza. Adesso so che hanno spazzato via le casupole di cemento, hanno spostato le famiglie povere nella zona a sud, dietro l’allevamento dei maiali, non stava bene che i turisti vedessero. Io non ho mai trovato neanche un turista a piedi per Santa Maria, erano segregati nelle loro prigioni d’oro come ci hanno confessato candidamente al ritorno sull’aereo, ma tant’è… So che è tutto cambiato a partire dalla “Esplanada Mateus” che preparava i pesci più buoni del mondo (bica, garupa, aragosta) ed ha rinunciato a tavoli e sedie di plastica per “ristrutturarsi” e far fronte a tutti i nuovi villaggi per turisti danarosi, al “Vulcao do Fogo” dove abbiamo conosciuto uno dei gruppi musicali più simpatici del globo che si sono eletti anche nostri guardiaspalle e canta stornelli a domicilio sulla spiaggia. No, cari, mi hanno raccontato che anche questo piccolo posto, quasi vuoto d’altro e pieno di bellezza è stato addentato da squali peggiori di quelli che in fondo nuotano pacifici a largo da Cape Shark, che sventolano i loro soldi e lastricano, costruiscono, rendono sempre più simile a tutto il resto un posto che è nato unico. Adesso sono le jeep a solcare il piccolo deserto, e come faranno mi chiedo a farsi gelare il cuore da un silenzio che solo il deserto può regalarti? Largo, avanzano gli Unni.