Patagonia – Un orizzonte senza fine
Perché allora, e ciò non accade soltanto a me, questi aridi deserti mi si sono impressi così fortemente nella memoria? Perché non hanno prodotto un’uguale impressione le pampas, più piane, più verdi, più fertili e utili all’umanità? Non saprei analizzare questi sentimenti, ma essi devono dipendere in parte dal libero corso dato all’immaginazione.
Le pianure della Patagonia sono sconfinate, perché sono difficilmente percorribili, e perciò sconosciute; tutto fa pensare che siano rimaste immutate per millenni e che tali rimarranno nel tempo…” Charles Darwin ,Viaggio di un naturalista intorno al mondo Ripensando ai viaggi fatti nelle pianure patagoniche, a bordo di autobus di linea, su strade sterrate, non posso fare a meno di evocare emozioni e ricordi analoghi a quelli descritti da Darwin nel suo racconto del rapporto che ebbe con questi luoghi nel 1834, nel corso del suo viaggio intorno al mondo effettuato dal 1831 al 1836, a bordo della nave Beagle comandata dal capitano Robert Fitz Roy. Ricordi di spazi immensi battuti dai venti dove crescono solo rari arbusti spinosi, con scarse vie di comunicazione e pochi villaggi distanti tra di loro centinaia di chilometri; ma luoghi così inospitali e selvaggi producono un fascino irresistibile su chi, come me, cerca di sfuggire alle mete del turismo tradizionale. La Patagonia è però un paese di forti contrasti e quindi, a paesaggi così poco ospitali, affianca laghi e fiumi azzurri, verdi boschi, montagne innevate e ghiacciai che spingono i loro fronti nelle acque di grandi laghi. Forti contrasti si notano anche nelle condizioni climatiche e nella gestione del territorio: in poche ore si può passare dal caldo estivo al freddo intenso con forti venti, spesso anche accompagnati da precipitazioni nevose. A pochi chilometri di distanza convivono zone altamente sfruttate dal punto di vista turistico ed altre completamente desertiche dove la presenza umana è, o totalmente assente, o talmente rada e ben integrata nell’ambiente e nella natura da farne parte anch’essa. Forse è giusto dare a tutti la possibilità di visitare luoghi di bellezza e fascino indescrivibili, quindi collegarli con strade e sfruttarli turisticamente nel pieno rispetto dell’ambiente; non posso però fare a meno di pensare come sarebbe affascinante poterli ammirare in tutto il loro splendore selvaggio, come li ha visti Alberto Maria De Agostini quando, nella prima metà del 1900, esplorava queste terre.
Scoperta da Magellano nel 1520, la Patagonia ospitò stabili insediamenti spagnoli e gallesi solo dalla seconda metà dell’800. L’attuale regione, nella cartografia del XVI secolo, era indicata col nome di “Terra gigantum”; il nome deriva dall’impressione che l’incontro con gli indigeni aveva provocato in Magellano ed in Pigafetta che, nelle loro relazioni di viaggio, chiamavano gli abitanti del posto “Patagoni” per le impronte lasciate dalle loro calzature (“patagones” significa letteralmente “piedoni”). Dalle relazioni lasciate da viaggiatori ed esploratori, si riconoscono due gruppi di popolazione: uno settentrionale, a nord dello stretto di Magellano, i Tehuelche e uno meridionale, gli Ona, insediati nella terra del fuoco.
Anche il cielo notturno, che nell’emisfero australe è molto più ricco di stelle di quello che abitualmente siamo abituati ad ammirare, è meraviglioso; la costellazione dell’Orsa Minore, che da noi comprende la stella Polare e che indica il nord, è qui sostituita dal gruppo di stelle che formano la Croce del Sud che, naturalmente, indicano il sud; Pigafetta nella sua relazione del viaggio di Magellano intorno al mondo le definì “una croce meravigliosa”; anche Dante la cita nel Purgatorio della “Divina Commedia” (canto I, versi 22-24): “… puosi mente/ a l’altro polo, e vidi quattro stelle/ non viste mai fuor ch’ a la prima gente …”.
Merita di essere citata anche la cucina della Patagonia con le sue specialità. Il piatto forte è costituito dalla carne, specialmente ovina e caprina, ottenuta dalla macellazione di animali lasciati pascolare liberi nelle immense estancia. L’Asado è il modo più tipico di cucinarla in Argentina ed in particolare nella Patagonia; l’intero animale sventrato, infilzato su una croce di ferro piantata nel terreno vicino ad un fuoco di legna, è lasciato cuocere per ore. La Parrillada è un altro modo tipico di cucinare la carne in Patagonia; assomiglia ad una comune grigliata ma, insieme con tagli comunemente usati in Europa, ne vengono impiegati alcuni da noi sconosciuti od addirittura disprezzati come frattaglie, reni, intestino ed altri. Altro piatto tipico della Patagonia è la Empanada; è fatta da piccoli pezzetti di carne e verdure racchiuse in una striscia di pasta che può essere cotta al forno o fritta. Tra i dolci si deve sicuramente citare il Dulce de Leche, che si ottiene facendo cuocere a fuoco lento latte e zucchero ed ha un gusto simile alle nostre caramelle mou. Bevanda tipica è il Mate, un’infuso simile al té, con sapore decisamente amarognolo.
Diario di viaggio Domenica, 30 Gennaio 2000 Finalmente, dopo un interminabile volo dall’Italia a Buenos Aires, con un successivo volo interno atterriamo, nella tarda mattinata, a Trelew, nella provincia del Chubut nel nord della Patagonia, dove ci attende un pulmino col quale percorriamo i circa 60 Km che ci separano da Puerto Madryn, nostra prima meta e porta di ingresso per le escursioni alla penisola di Valdés. Puerto Madryn è una cittadina di 83000 abitanti che si affaccia sul Golfo Nuevo, circondata alle spalle da alture che formano un anfiteatro naturale. Il pomeriggio libero ci consente di effettuare una passeggiata sulla spiaggia per andare a visitare gli insediamenti dei primi colonizzatori Gallesi, che si stabilirono nella zona alla fine del 1700.
Lunedì, 31 Gennaio 2000 Giornata dedicata alla visita della penisola di Valdés per ammirare i numerosi insediamenti di pinguini, leoni ed elefanti marini che colonizzano le sue sponde. La Península Valdés, così chiamata in onore di Antonio Valdés, ministro spagnolo della marina nella seconda metà del 1700, si presenta con una forma insolita, unita al continente dall’istmo Ameghino, una striscia di terra lunga 35 Km, che separa il Golfo di San José, a nord, dal Golfo Nuevo, a sud. Mediante un pulmino effettuiamo quasi l’intero periplo della penisola visitando: la Caleta Valdés, una insenatura lunga 32 Km separata dall’oceano da una sottile striscia di terra, dove si concentrano un gran numero di uccelli e mammiferi marini; Punta Norte, all’estremità nord-orientale della penisola, con numerose colonie di elefanti marini, osservabili solamente da una piazzola dall’alto del promontorio; Puerto Pirámides, unico centro abitato della penisola (70 abitanti), ubicato sul Golfo Nuevo, accoglie nelle sue vicinanze una colonia di “lobo marino de un pelo”, mammifero appartenente all’ordine dei Pinnipedi e alla famiglia degli Otaridi chiamato volgarmente leone di mare; Isla de los Pájaros, un’isola visibile dalle sponde dell’istmo Ameghino, creata riserva naturale nel 1967 per proteggere la grande varietà di uccelli marini che qui vivono e si riproducono.
Martedì, 1 Febbraio 2000 Altra giornata turistica dedicata alla visita di Punta Tombo in cui vive la più grossa colonia di Pinguini di Magellano esistente in Patagonia (circa 500.000 esemplari). La riserva faunistica di Punta Tombo è situata su di un bellissimo promontorio che si affaccia sull’oceano Atlantico; i pinguini che la popolano si nutrono prevalentemente di pesce, ma si spingono sino a 3 Km nell’interno per nidificare; questo comporta un movimento ininterrotto di questi simpatici uccelli dal mare ai loro nidi e viceversa. Dalle spiagge gremite si nota una scia di pinguini in continuo spostamento che, col loro caratteristico passo ondeggiante, si muove nei due sensi. Essendo la zona altamente turistica e visitata da migliaia di persone, i pinguini sono abituati alla presenza umana e non mostrano nessun terrore quando incontrano, nel loro continuo andirivieni, una persona sullo loro strada, anzi, non volendo deviare dal tragitto consueto, cercano di far spostare l’intruso con colpi di becco. Scattate le foto di rito, alle 13 si inizia il rientro verso Puerto Madryn con una deviazione verso il villaggio di Gaiman, 9000 abitanti, per visitare le vecchie costruzioni coloniali in pietra dei primi coloni Gallesi che la fondarono nel 1874. Gaiman, il cui nome deriva dall’araucano e significa letteralmente “pietra appuntita”, è posta a 15 Km da Trelew, lungo il corso del Rio Chubut in prossimità di sorgenti d’acqua utili per irrigare i campi. In perfetto stile Gallese sono anche le numerose “case da tè” dove, di pomeriggio, in una atmosfera ottocentesca, si può gustare la bevanda accompagnata da dolci squisiti, tutti di produzione casereccia.
Mercoledì, 2 Febbraio 2000 Giornata di trasferimento; con 2 ore di volo dall’aeroporto di Trelew si raggiunge Rio Gallegos, 49000 abitanti, posta sulle sponde dell’omonimo fiume e capitale della provincia Argentina di Santa Cruz. Con successive 4 ore di viaggio in autobus su strada sterrata, si arriva al villaggio di El Calafate, seconda meta del nostro viaggio e base per escursioni al Parque Nacional Los Glaciares. El Calafate è una cittadina turistica di 1700 abitanti sulle rive del Lago Argentino, ai piedi della Cuesta de Miguens e prende il nome, come il torrente che l’attraversa, dall’arbusto simbolo della Patagonia; già tra i primi coloni e viaggiatori del 1800 circolava una leggenda sul frutto del Calafate: “Chi assaggia la bacca agrodolce del Calafate non tarda a sentirsi attratto e conquistato dallo spirito della Patagonia, e dal momento in cui si macchierà le labbra del succo bluastro non riuscirà più a dimenticare questa terra e sempre un senso intenso di nostalgia lo spingerà a tornare!”. Personalmente credo di aver mangiato molti di questi frutti che nell’aspetto sono del tutto simili ai mirtilli che crescono sulle nostre Alpi. Già dalla fine del 1700 diverse spedizioni, risalendo il corso del fiume Santa Cruz, arrivarono al lago Argentino, essendo però convinte di avere raggiunto il lago Viedma, posto alcuni chilometri più a nord; solo nel 1877 Francisco Pascasio Moreno, giunto sulle sponde del lago nel corso di una approfondita esplorazione della zona, ebbe la conferma che il fiume Santa Cruz non nasceva dal lago Viedma, ma da un altro grande lago e lo battezzò con belle frasi prodotte dalla sua vena artistica: “Mare interno, figlio del manto patrio che copre la cordigliera, nell’immensa solitudine, la natura che ti ha creato non ti ha dato un nome: la volontà umana da oggi ti chiamerà lago Argentino!”.
Giovedì, 3 Febbraio 2000 Giorno dedicato alla visita del ghiacciaio Perito Moreno. Il ghiacciaio è posto tra il Brazo Rico e il Canal de los Témpanos, entrambi rami del lago Argentino. Il ghiacciaio Moreno, che scende come un immenso fiume di ghiaccio dalla Cordigliera, mostra al viaggiatore tutto lo splendore ed il fascino del suo fronte lungo 5 Km ed alto 60 metri, fronte che si presenta tutto dentellato e ricco di giganteschi seracchi, tanto da somigliare ad una cattedrale gotica; da esso si staccano enormi blocchi di ghiaccio che precipitano nel lago provocando un immenso rumore e onde gigantesche. Il Moreno, a differenza della maggior parte degli altri ghiacciai, è in continuo avanzamento e nel dicembre del 1939 è arrivato ad ostruire, per la prima volta, il Canal de los Témpanos, congiungendosi con la penisola di Magallanes e bloccando quindi il drenaggio del Brazo Rico; le acque incominciarono quindi a crescere di livello, sino a che la colonna d’acqua superò di circa 9 metri quella del lago e raggiunse una tale forza da fare esplodere la diga di ghiaccio formatasi. Questo fenomeno si è ripetuto ciclicamente ogni 3 o 4 anni sino al 1988, richiamando turisti da ogni parte del mondo per osservare il grandioso evento. Purtroppo, dopo il 1988, il fenomeno non si è più verificato; le cause vanno probabilmente ricercate nell’aumento della temperatura media legato alla rarefazione della cappa dell’ozono.
Venerdì, 4 Febbraio 2000 Finalmente oggi si comincia a camminare. Partenza alle 7,30 con autobus per El Chalten, base per le ascensioni al Fitz Roy, al Cerro Torre e punto di partenza per il nostro primo trekking. Alle 13,30 si affronta il sentiero che, partendo decisamente in salita in un bellissimo bosco di faggi australi, ci conduce in 3 ore al campo Poicenot. Dopo 1 ora di cammino, raggiunto un pianoro, comincia a nevicare; scendono piccoli e radi fiocchi di neve, subito si forma un manto bianco che crea un magnifico contrasto con il verde dell’erba e degli alberi; anche la temperatura si abbassa notevolmente ed il cielo si copre: peccato perché dal pianoro in cui ci troviamo si potrebbe ammirare, in lontananza, la mole del Fitz Roy. Poco oltre il bivio per la laguna Capri il sentiero si inerpica di nuovo per un breve tratto, quindi prosegue con andamento più o meno pianeggiante sino al campo che raggiungiamo alle 16,30. Piazziamo le tende in un bosco che ci ripara dalla neve che, nel frattempo, è diminuita di intensità; la temperatura si mantiene piuttosto rigida, circa 2 °C. La frugale cena consumata alle 19 sotto la neve, fortunatamente, non abbassa il nostro morale che rimane decisamente alto; nonostante il freddo si ride e si scherza allegramente. Alle 20,30 la temperatura scende a 0 °C; decidiamo di ritirarci in tenda a dormire col proposito, se il tempo migliora, di alzarci alle 4 per poter arrivare all’alba ad ammirare i primi raggi di sole sul Fitz Roy .
Sabato, 5 Febbraio 2000 Mi sveglio alle 4 ed esco dalla tenda, nevica; sveglio Cristina per concordare se partire o attendere che il tempo migliori. Decidiamo di dormire ancora un’ora; ritorno nella tenda e mi riaddormento, quando mi sveglio sono già le 6; non nevica più, ma tutta la zona è imbiancata da neve fresca; la temperatura è di qualche grado sotto lo zero. Sveglia generale per recarsi al mirador del Fitz Roy, partenza alle 7. Non si smontano le tende, saranno recuperate al ritorno per la seconda parte della tappa che deve portarci nei pressi del Cerro Torre. Dal campo si attraversa il Rio Blanco e si raggiunge, dopo una breve salita, la radura che accoglie il campo base per le ascensioni al Fitz Roy. Mentre seguiamo il sentiero che, in ripida salita, porta alla Laguna de Los Tres, riprende a nevicare; salendo, il paesaggio che si imbianca sempre di più, acquista un fascino ed una bellezza particolari. Alle 8.45 raggiungiamo il mirador, non nevica più, ma il Fitz Roy non si scopre; si riesce solamente ad ammirare la base ed un tratto della parete del Cerro Poicenot. Siamo ad una quota modesta, circa 1100 metri, ma il paesaggio è quello tipico dell’alta montagna: rocce ricoperte dalla neve e, oltre la laguna posta poco sotto di noi, il ghiacciaio che porta all’attacco della parete del Fitz Roy; la temperatura si mantiene sugli 0 °C.
Per molti anni si era creduto che il Fitz Roy, (Chaltén è il nome originale per gli indigeni Tehuelche), fosse un vulcano; tale lo credette anche Francisco Pascasio Moreno quando, nel 1876, lo vide per la prima volta, ingannato dalle nubi scambiate per fumo, che sempre coronano la sua vetta. A lui si deve il nome attuale; l’esploratore lo descrive così: “… In un momento di schiarita vediamo apparire tra densi nuvoloni il nero cono del vulcano e una leggera colonna di fumo, che si innalza dal suo cratere. I Tehuelche mi hanno più volte nominato con terrore superstizioso questa montagna che fuma. È il Chaltén che vomita fumo e ceneri e fa tremare la terra; serva di dimora a un’infinita di spiriti, che agitano le viscere delle montagne. Siccome questa montagna non è stata menzionata né da naviganti né da viaggiatori, e poiché gli indigeni la chiamano Chaltén, nome che usano anche per altre montagne, mi permetto di denominarlo vulcano Fitz Roy, come segno di gratitudine che gli argentini devono alla memoria del savio ed energico ammiraglio inglese, che diede a conoscere alle scienze geografiche le coste dell’America Australe”.
Nel primo pomeriggio, verso le 13, si parte per il campo De Agostini, situato vicino al lago Torre, 200 metri più in basso del precedente. Il tempo si mantiene instabile, non nevica, ma a tratti ci accompagna una fastidiosa pioggerellina. Alle 17 giungiamo al campo, collocato al riparo e sotto gli alberi. Nella notte piove e si sente il frastuono di un forte vento.
Domenica, 6 Febbraio 2000 Durante tutta la notte continua a piovere ed il vento non accenna a calmarsi; fortunatamente il campo è posto in una posizione riparata. È inutile alzarsi presto con un tempo così, si dorme sino alle 7.30. Alle 8.30 si parte sotto una leggera pioggerellina con l’intento di arrivare al mirador del Cerro Torre. Si risale in pochi minuti la morena frontale dell’antico ghiacciaio, che attualmente chiude verso valle la laguna Torre; giunti alla sommità, il sentiero prosegue sulla cresta formata dalla morena che fiancheggia la laguna; da questo punto, se la visuale lo consentisse, la vista spazierebbe sul Cerro Torre che è davanti a noi, subito dopo la laguna; purtroppo le nubi lo avvolgono e ne impediscono la vista; sulla cresta dove ci troviamo soffia un vento di una tale forza che si fatica a restare in piedi, a volte è necessario aggrapparsi ad un masso o sdraiarsi per terra per non rischiare di essere trascinati via. Restiamo qualche minuto sul luogo, sapendo che il Cerro Torre è li, a poche centinaia di metri, senza poterlo ammirare; ritenendo pericoloso continuare con un simile vento, scendiamo verso il campo, delusi per non aver potuto godere della vista della montagna più nota di tutta la Patagonia. Il famoso alpinista austriaco Heinz Zak, incontrato al campo De Agostini insieme ad un compagno di arrampicata, ci racconta di essere sul posto da tre settimane, in attesa del tempo propizio per tentare una nuova via sul Cerro Torre; dice che in questo periodo l’ha potuto ammirare non più di 5 o 6 volte, e solo per 5 minuti; questo ci consola parzialmente. Alle 13, smontato il campo, si parte per fare ritorno a El Chalten dove alle 18 ci attende l’autobus che ci riporterà a El Calafate. Durante la discesa il tempo si rischiara e si vede sulla nostra destra una bellissima montagna, il Cerro Solo (2121 metri) che, come indica il nome, sorge isolato da tutte le altre. Anche il Fitz Roy si lascia ammirare in lontananza, riusciamo anche a fotografarlo: pensare che ieri eravamo ai suoi piedi e non siamo riusciti a vederlo! Solamente il Cerro Torre, nella sua superba maestosità, si nega alla nostra vista. Durante le 4 ore di autobus che ci separano da El Calafate ammiriamo la pianura patagonica, spazi immensi e sconfinati, gli stessi che hanno attirato l’attenzione e l’interesse di Darwin.
Lunedì, 7 Febbraio 2000 Giornata dedicata alla visita del ghiacciaio Upsala. Partenza alle 7.30 in autobus per Punta Banderas, situata sulle rive del lago Argentino, ad ovest di El Calafate; da qui, alle 9, con un battello, risaliamo il ramo nord del lago sino a raggiungere, dopo 2.5 ore, Baia Cristina. La giornata, contrariamente ai giorni passati, è molto bella; la traversata, effettuata tra iceberg galleggianti, ci regala una magnifica visuale sulle montagne ed i ghiacciai che circondano il lago. Alle 11.45 si parte a piedi per un trekking di circa 2.5 ore che ci conduce al ghiacciaio Upsala. Durante la camminata si può ammirare, sulla nostra destra, il Cerro Norte (circa 2700 metri) che, con la complicità di un cielo limpido e senza nubi, mostra in tutto il suo splendore il ghiacciaio terminale. Improvvisamente ci appare, in una visione mozzafiato, il ghiacciaio, forse il maggiore di tutta la cordigliera australe; ha una superficie di 595 Km² e si estende per circa 60 Km, dal Cerro Don Bosco al braccio Upsala del lago Argentino, sul quale presenta il suo fronte lungo 6 Km e di altezza variabile dai 60 agli 80 metri. È alimentato da diversi ghiacciai laterali minori formando, in totale, un bacino di circa 1000 Km². Deve il suo nome alla omonima città svedese, la cui università sponsorizzò, all’inizio del 1900, i primi studi glaciologici nella regione. Nel 1952 è stato attraversato per la prima volta da una spedizione guidata dal colonnello Emiliano Huerta e dall’ingegnere Mario Bertone. Lo sguardo spazia sulle catene di montagne innevate che lo circondano e, col pensiero, si vorrebbe fermare il tempo per poter godere all’infinito di tanta bellezza; purtroppo il battello ci attende per le 17 alla Baia Cristina per il ritorno.
Martedì, 8 Febbraio 2000 Oggi abbandoniamo l’Argentina per trasferirci nella parte cilena della Patagonia. Partenza in autobus alle 7.30 con destinazione Puerto Natales dove giungiamo alle 13.30. Puerto Natales, 16000 abitanti, capitale della provincia cilena di Ultima Esperanza, si trova sulle rive del Seno Ultima Esperanza comunicante con l’Oceano Pacifico. Nel pomeriggio shopping con visita al paese che risulta essere molto grazioso, ma con un’urbanistica priva di fantasia, come del resto la maggioranza dei centri abitati della Patagonia, con il tipico impianto urbanistico di tradizione spagnola a “cuadra”, dove tutte le strade si intersecano a 90°. Il tempo è nuvoloso ma non freddo; pensando ai 6 giorni di trekking che ci attendono da domani, concludiamo la giornata con un’ottima cena a base di pesce al ristorante Los Pioneros con vista sul mare.
Mercoledì, 9 Febbraio 2000 Partenza alle 7.30 in autobus per la laguna Amarga, luogo di ingresso per il Parco Torri del Paine (Paine, nell’antico idioma Tehuelche, significa azzurro, forse riferito all’abbondanza di specchi d’acqua). Il tempo è buono ed il cielo privo di nubi; già nel tragitto percorso in autobus, costeggiando un laghetto con le rive gremite di fenicotteri rosa, si può ammirare in lontananza la sagoma slanciata delle torri. Dalla laguna Amarga si prosegue, sempre in autobus, nell’interno del parco, sino al rifugio Pudeto, sulle rive del lago Pehoe, dove giungiamo alle 10.30. Dobbiamo attendere le 12 per la partenza del battello che, in ½ ora, ci condurrà al rifugio Pehoe, luogo di partenza per la prima tappa del nostro trekking. Approfittiamo del tempo a nostra disposizione per raggiungere, in circa 20 minuti, una cascata che sulle carte è indicata col nome di “Salto Grande”; si tratta di un salto d’acqua non molto alto ma di notevole portata, formata da un fiume che unisce il lago Nordenskjöld, posto a livello più alto, col lago Pehoe. Alle 12.30, raggiunto il rifugio Pehoe, imbocchiamo il sentiero che, in circa 4 ore, ci permetterà di raggiungere il Rifugio Grey, sull’omonimo lago e vicinissimo al fronte dell’omonimo ghiacciaio. Dopo 2.5 ore di marcia in salita, si raggiunge il lago Grey sul quale galleggiano innumerevoli iceberg che si staccano dal ghiacciaio. La visione, già gratificante, non è nulla al confronto di quella che si ha dopo ½ ora quando, in fondo al lago, appare il fronte del ghiacciaio. Una grande isola, metà nel lago e metà immersa nel ghiaccio, sembra spaccare il fronte in due rami. L’azzurro del lago con il bianco degli innumerevoli iceberg forma un contrasto stupendo con il verde del bosco che si spinge sino alle sue rive; poche volte mi è capitato di ammirare un paesaggio così suggestivo. Continuiamo a costeggiare il lago e, alle 16.30, raggiungiamo il rifugio, vicino al quale piazziamo le nostre tende, sulle rive del lago. La bellezza del luogo ripaga ampiamente della fatica fatta per raggiungerlo. Purtroppo il tempo cambia e comincia a scendere una leggera pioggia. Anche la temperatura si abbassa ed il caldo afoso che ci ha accompagnato per tutto il pomeriggio cede il posto ad una temperatura piuttosto fresca, non fredda. Sistemate le tende e consumata una frugale cena, approfittando del fatto che la pioggia è cessata, sto scrivendo questi miei appunti, sono le 20.30, seduto su un masso in riva al lago, con davanti agli occhi un paesaggio incantevole che raramente si ammira in altri luoghi. Cerco di imprimerlo in modo permanente nella mia mente perché, le pur molte foto fatte, non riusciranno certamente a rendere la dovuta ragione a così tanta bellezza.
Giovedì, 10 Febbraio 2000 Oggi non smontiamo il campo, è prevista un’escursione nella zona con ritorno al campo Grey. Partenza alle 7.30 con destinazione il Campo Paso (5 ore di cammino) e, se la volontà e le forze ce lo consentiranno, il Passo Garner (altre 2 ore). Il sentiero passando nel bosco costeggia il ghiacciaio Grey raggiungendo prima il campo Cileno e successivamente il campo Paso. Numerosi tronchi di alberi caduti, anche di notevoli dimensioni, intralciano la marcia, obbligandoci a scavalcarli o ad aggirarli; questo rende leggermente più difficoltosa l’escursione che altrimenti, non presentando eccessivi dislivelli, risulterebbe abbastanza facile e poco faticosa. Il bosco a tratti copre la vista del ghiacciaio che, quando è visibile, offre un panorama insolito e bellissimo. Arrivati al campo Paso, solamente Giangiacomo e Luciano proseguono alla volta del passo su un sentiero che ora sale decisamente; tutti gli altri, pensando alle 5 ore che ci aspettano per tornare al campo ed alla tappa di domani, che ci vedrà nuovamente con tutti i bagagli in spalla, preferiscono fermarsi. Alla sera, tornati al campo, nonostante le 10 ore di cammino, non mi sento particolarmente stanco anche perché effettuate con lo zaino poco pesante; dentro di me però sento un leggero rimorso per non avere raggiunto il passo.
Venerdì, 11 Febbraio 2000 Tappa di trasferimento al Campo Italiano con partenza alle 9.15. Ripercorrendo a ritroso il percorso fatto due giorni fa, si arriva al rifugio Pehoe. Sosta per il pranzo e ripartenza alle 14.30 per il Campo Italiano dove si arriva alle 17 percorrendo un sentiero che costeggia il lago Skottsberg, con vista sul gruppo del Paine. Il campo è situato sulla sponda sinistra del Rio del Frances ed è raggiungibile mediante un ponte sospeso. Con l’intento di prendere acqua dal fiume, Luciana scivola su di un masso bagnato e vi finisce dentro sino alla vita. Niente di grave, per fortuna, ma deve cambiarsi e mettere gli abiti ad asciugare.
Sabato, 12 Febbraio 2000 Sveglia alle 7 e partenza alle 8.45 per il Campo Britannico. Marisa, pensando alla seconda parte della tappa da farsi con zaino pesante, preferisce passare la mattinata al campo; Luciana, dopo circa ½ ora di cammino, torna indietro perché febbricitante; sono le conseguenze del bagno di ieri nel fiume. Con 2 ore di marcia si raggiunge il Campo Britannico e, con altri 15 minuti, il mirador situato poco sopra. Il cielo è offuscato da qualche nuvola, ma il panorama risulta egualmente stupendo; la vista spazia a 360 gradi su gran parte della catena del Paine, specialmente sui Cuernos. Ad est sono visibili il Cuerno Principal (2600 mt.), il Cuerno Este (2200 mt.), il Cuerno Norte (2400 mt.), il Cerro Mascara, il Cerro Hoja ed il Cerro Espada; in direzione nord il Cerro Fortaleza (3000 mt.), il Cerro Escudo, il Cerro Cabeza de Indio, la Punta Catalina ed il Cerro Aleta de Tiburon (1717 mt.); a ovest spiccano il Cerro Catedral (2168 mt.), il Cerro 2000 ed il Cerro Castillo. Ritornati al Campo Italiano e smontato l’accampamento, verso le 15 si parte per il Rifugio los Cuernos. Il rifugio dista 2 ore di cammino che percorriamo su di un magnifico sentiero, non faticoso perché prevalentemente in leggera discesa o pianeggiante; il lato destro costeggia il lago Nordenskjöld mentre il lato sinistro è costantemente sormontato dai Cuernos. Dal campo, situato vicino al lago, si gode di una buona visuale del gruppo del Paine; domani arriveremo a vedere anche le tre torri che ancora non abbiamo ammirato. Possiamo distinguere nettamente le due diverse formazioni rocciose che caratterizzano il gruppo: quella superiore, di colore più scuro, formata da rocce scistose e quella inferiore formata da rocce granitiche di colore grigio.
Domenica, 13 Febbraio 2000 Dopo la colazione e lo smontaggio del campo, alle 9, si riprende il cammino sul sentiero che costeggia il lago Nordenskjöld ed un successivo laghetto in cui nuotano numerose anatre. Alle 13 si giunge all’Hosteria las Torres, meta prevista per piazzare l’ultimo campo; visto che è ancora presto, decidiamo di continuare sino al rifugio Chileno per montare le tende in prossimità delle torri. Poco più di un’ora di cammino, prima in ripida salita e poi in discesa, ci permette di arrivare al rifugio. Abbiamo fatto bene a proseguire perché da qui si vedono finalmente, anche se non per intero, le Torri del Paine; si tratta di tre ardite guglie che danno il nome al parco: Torre Sur o De Agostini (2850 mt), Torre Centrale (2800 mt) e Torre Norte o Monzino (2650 mt). La giornata è bella, il sole splendente e caldo, un cielo azzurro fa da sfondo e la visione delle torri è spettacolare, il verde del bosco a quote più basse e un torrente cristallino che scorre nei pressi del rifugio completano il paesaggio. Sono di nuovo arrivato in un posto di una tale bellezza da sembrare dipinto. Domani ci avvicineremo ulteriormente alle torri. Se il tempo resterà sereno come oggi, non riesco ad immaginare lo spettacolo che le torri ci regaleranno.
Lunedì, 14 Febbraio 2000 Si parte alle 8 per il mirador delle torri. La giornata è bella, ma non come ieri; il sole è leggermente offuscato. In principio il sentiero segue il torrente nel bosco e, dopo circa 1 ora, esce allo scoperto e si inerpica decisamente risalendo la morena Acatreo, in mezzo ad una pietraia. Davanti a noi si ammira la vetta delle torri; non si vedranno completamente sino al raggiungimento del mirador; questo ci stimola a sopportare la fatica della salita. Verso le 10 raggiungiamo la cima della morena e le torri si lasciano ammirare in tutto il loro splendore; un laghetto con blocchi di ghiaccio galleggianti è posto alla loro base. Mediante un binocolo si scorgono due scalatori sulla torre Centrale: sono oltre la metà della parete e seguono una fessura che taglia la liscia placca di granito; 50 metri al di sotto di loro si intravede il bivacco dove hanno passato la notte. Sembra quasi impossibile che due esseri umani riescano ad avere ragione di una parete tanto liscia. Il posto in cui ci troviamo è di una bellezza e di un fascino indescrivibili, si vorrebbe rimanere per sempre a godere di una simile vista; purtroppo dobbiamo ridiscendere a smontare il campo perché, alle 18.30, ci attende all’Hosteria las Torres il pulmino che ci porterà alla laguna Amarga per la coincidenza con l’autobus per Puerto Natales, dove giungiamo alle 22.30.
Martedì, 15 Febbraio 2000 Mattinata di relax e di shopping a Puerto Natales in attesa di salire, alle 13, sull’autobus che ci condurrà a Punta Arenas, sullo stretto di Magellano. Sono le 10.30 e mi trovo seduto su di uno scoglio in riva al Seno Ultima Esperanza; gli scogli vicini sono zeppi di uccelli marini dalle razze più svariate: cigni, cormorani, gabbiani ed altri a me sconosciuti; in lontananza il seno è circondato da catene di montagne innevate tra cui si distingue il Cerro Balmaceda. La visuale non ha forse il fascino di quello delle Torri del Paine, ma è molto rilassante e suggestiva; il paesaggio duro e selvaggio dei giorni passati è sostituito da un panorama tranquillo e dolce. Alle 16.30 si arriva a Punta Arenas, 112000 abitanti e capitale delle Región de Magallanes y Antártica Cilena; pomeriggio libero per la visita alla città. Dal mirador si ha una splendida vista sullo stretto e si intravede, in lontananza, la Terra del Fuoco. Si conclude la giornata con una cena a base di zuppa di pesce e Asado di pecora.
Mercoledì, 16 Febbraio 2000 Alle 7, in autobus, raggiungiamo punta Delgada per attraversare lo stretto di Magellano e raggiungere la mitica Tierra del Fuego che, avvolta in un fascino di mistero ed avventura, risulta l’estremità meridionale del continente americano, alle porte dell’Antartide. La Terra del Fuoco è costituita da un vasto arcipelago, formato da migliaia di isole, che si estende tra il 52° e il 60° parallelo di latitudine sud e tra il 64° e il 76° di longitudine ovest; il suo nome deriva dai molti fuochi che gli indigeni usavano accendere ed erano avvistati dalle navi che transitavano al largo delle sue coste; amministrativamente è suddivisa tra Cile ed Argentina. Delle migliaia di isole che la compongono, solamente le isole Grande, Navarino e Dawson sono abitate, tutte le restanti sono desolate e perennemente spazzate dai venti e dalla pioggia. È stata scoperta, come l’intera Patagonia, da Magellano nel 1520, ma per molti anni questa remota regione australe destò poco interesse nelle potenze europee; la prima esplorazione e raccolta di notizie la si deve all’inglese James Cook e al francese Louis Antoine de Bougainville nel 1769. Entrambi furono colpiti dall’aspetto degli indigeni e dalle loro condizioni di vita. Cook li descrive così: “…In una parola: sono forse le creature più miserabili che vi siano oggi sulla terra”. Anche l’immagine data da Bougainville non è da meno: “…Piccoli, brutti, magri, con un puzzo insopportabile; sono quasi nudi non avendo per vesti che brutte pelli…”. Quando il capitano Fitz Roy, uomo profondamente religioso, ebbe i primi contatti con gli indigeni, mosso dal desiderio di diffondere la civiltà in quelle terre remote, imbarcò quattro nativi e li portò in Inghilterra per farli educare secondo i costumi anglosassoni prima di restituirli nuovamente alla loro gente. Fu così che quattro indigeni salparono a bordo della Beagle e vissero per due anni in Inghilterra, dove vennero persino ricevuti a corte. Quando, nel 1831, la Beagle riprese il mare con a bordo anche il giovane Darwin, solamente tre tornavano alla loro terra natale perché il quarto era morto di vaiolo in Inghilterra. Erano istruiti, avevano imparato l’inglese e appreso rudimenti di falegnameria e agricoltura. Furono lasciati sull’isola di Navarino dove vennero costruite, per loro, delle capanne. Quando l’anno seguente Fitz Roy ritornò, le capanne c’erano ancora, ma non si vedeva traccia degli occupanti. La Beagle sparò un colpo di cannone per annunciare il suo arrivo; comparvero varie canoe e, a bordo di una di esse, vi erano i tre indigeni nudi e con i capelli lunghi sino alle spalle. Saliti a bordo cenarono insieme ai vecchi compagni, ma dichiararono che non sarebbero tornati con loro perché questa era la loro terra e non volevano più sentire parlare di civiltà. Per Fitz Roy fu una delusione enorme ma per Darwin i fatti erano chiari: non si poteva interrompere il corso della natura sperando di avere successo. Le razze possono sopravvivere solo se lasciate libere di seguire la propria evoluzione, interferire vuol dire causarne la scomparsa.
Sbarcati nella Terra del Fuoco incontriamo un paesaggio che si presenta subito brullo, senza alberi, un vero deserto con spazi immensi senza nessun segno di presenza umana, molto più selvaggio delle pianure incontrate nella Patagonia; riesco a comprendere molto meglio come hanno fatto, questi aridi deserti, ad imprimersi così fortemente nella memoria di Darwin. Alle 16 arriviamo a Rio Grande (35000 abitanti), siamo rientrati in Argentina; la coincidenza dell’autobus per Ushuaia è alle 19, riusciamo così a fare una breve visita alla città che, a prima vista, appare decisamente poco attraente: piatta, spoglia, polverosa e battuta dai venti, ma con molti motivi di interesse che vanno ricercati nella storia e nelle bellezze naturali dei dintorni. Spostandoci verso sud, gradatamente il paesaggio si trasforma; cominciano a comparire i primi corsi d’acqua e, di conseguenza, i primi alberi. Arrivati vicino alle alture cambia radicalmente: il deserto incontrato nel nord della Terra del Fuoco si trasforma in verdi boschi ed azzurri laghetti; stupenda risulta la zona del lago Fagnano e della laguna Escondida, che si incontrano poche decine di Km prima di Ushuaia, dove giungiamo alle 22.30.
Ushuaia (fondata nel 1884, 30000 abitanti), capitale della provincia argentina della Terra del Fuoco, situata sul canale di Beagle, è la città più australe del mondo: 54° e 46’ di latitudine sud.
Giovedì, 17 Febbraio 2000 Luciano, fortunato lui, ci abbandona per imbarcarsi su una rompighiaccio dove lo attende una crociera di 11 giorni nell’Antartide. Per tutti gli altri la giornata viene dedicata ad una escursione nel Parco Nazionale della Terra del Fuoco. Partenza in autobus alle 9.15 per il parco; il pulmino ci lascia sulle rive della baia Ensenada, sul canale di Beagle, e tornerà a riprenderci alle 19.15 presso il lago Roca. Con una tranquilla camminata lungo un sentiero che alterna tratti in mezzo al bosco a tratti che costeggiano il mare, si raggiunge la baia Lapataia dove vivono colonie di castori. I castori non si fanno vedere ma si notano le dighe che costruiscono sui corsi d’acqua durante la notte. Il Parco Nazionale della Terra del Fuoco, creato nel 1960 ed il cui ingresso si trova a circa 20 Km ad ovest di Ushuaia, è caratterizzato da catene di montagne interrotte da laghi e profonde valli, in un paesaggio che varia dalla severità dei monti e l’incanto dei ghiacciai, allo spettacolare canale di Beagle che, nei suoi oltre 20 Km di sviluppo, comprende la profonda baia Lapataia ed altre numerose calette.
Venerdì, 18 Febbraio 2000 Purtroppo questa sera alle 19 si lascerà la Terra del Fuoco con un volo che ci riporterà a Buenos Aires. Ci rimane il tempo, in mattinata, di fare un’escursione in battello sul canale Beagle per ammirare, oltre a Ushuaia dal mare, le numerose colonie di uccelli marini che nidificano nelle isole del canale. Le isole che si trovano di fronte a Ushuaia furono chiamate Bridges nel 1882 dal capitano Martial ed ognuna porta il nome di uno degli allora figli del pastore Thomas Bridges: Despard, Lucas, Willie, Alice e Bertha. Più a sud si trovano le isole Lawrence, Whaits e Cole, dal nome dei primi missionari; nell’Isla de los Lobos, situata in vicinanza del Faro Les Eclaireurs, si può osservare una delle poche colonie di leoni marini ancora esistenti nel canale. Il Faro Les Eclaireurs segna l’ingresso al porto di Ushuaia e ricorda il luogo dove naufragò, nel 1930, la nave Monte Cervantes. Dal canale si può anche vedere, in tutta la sua verticalità, il monte Olivia che sovrasta la baia di Ushuaia e che fu scalato per la prima volta da De Agostini nel 1913.
Sabato, 19 Febbraio 2000 Il volo per l’Italia partirà questo pomeriggio alle 15.30. Dedichiamo la mattinata alla visita del famoso quartiere La Boca, uno dei principali luoghi turistici di Buenos Aires. Si popolò nella seconda metà del XIX secolo grazie all’impulso dato dall’immigrazione, specialmente di origine italiana, che gli ha conferito un carattere tipico: case basse in legno e lamiera ondulata, dipinte con colori chiari. In questo quartiere la melodia del tango è una costante: passeggiando tra le bancarelle, dove gli artisti pongono in mostra le loro opere, lo si sente suonare ovunque. Altra caratteristica del quartiere è il Caminito, una piccola via, lunga solo un centinaio di metri. Originariamente era un binario morto, ma grazie all’iniziativa di alcuni abitanti del quartiere e di diversi artisti, è diventata una strada pittoresca, senza marciapiedi o portoni, ma con molte finestre e balconi, decorate dai principali artisti argentini con disegni e dipinti molto appariscenti.
Conclusioni La maggioranza delle persone, quando sente parlare della Patagonia, pensa solamente ai suoi grandi ghiacciai ed alle sue celebri cime. Bisogna invece saper guardare alla Patagonia ed alla Terra del Fuoco senza il “paraocchi” degli alpinisti. Le sole montagne non restituiscono la grandiosità di quelle terre, che sono anche fatte di pianure sconfinate, di un cielo immenso spazzato dai venti del Pacifico e percorso da convogli di nubi. Le montagne sono solo una piccola parte di quei luoghi; dimorano circondate da un orizzonte unico e senza fine.
Elenco partecipanti (in ordine alfabetico) · Bruno Germagnano (TO) · Cristina Trento · Fulvio Savona · Giangiacomo Sanremo (IM) · Luciana Torino · Luciano Monghidoro (BO) · Marco Medelana Marzabotto (BO) · Marco Caronno Pertusella (VA) · Marisa Selvazzano (PD) · Matteo Rovigo