Mongolia terra di nomadi

Un paese di spazi immensi con una natura selvaggia … Un popolo nomade generoso ed ospitale … Un viaggio indimenticabile in un mondo antico … La Mongolia è un paese che colpisce per i suoi spazi immensi, per la sensazione di vuoto così lontana dalla nostra realtà quotidiana. I pastori nomadi vivono nelle gher, le tradizionali tende...
Scritto da: mapko64
mongolia terra di nomadi
Partenza il: 25/06/2005
Ritorno il: 18/07/2005
Viaggiatori: in coppia
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Un paese di spazi immensi con una natura selvaggia … Un popolo nomade generoso ed ospitale … Un viaggio indimenticabile in un mondo antico … La Mongolia è un paese che colpisce per i suoi spazi immensi, per la sensazione di vuoto così lontana dalla nostra realtà quotidiana. I pastori nomadi vivono nelle gher, le tradizionali tende bianche di feltro, e l’incontro con la loro civiltà costituisce l’aspetto più interessante del viaggio; l’ospitalità è sincera ed ogni occasione è buona per offrire qualcosa all’ospite di passaggio. In un mondo sempre più globalizzato, dove tutti si stanno appiattendo sul modello occidentale, la Mongolia rappresenta ancora un ritorno alle tradizioni antiche, con i nomadi che vivono quasi come ai tempi di Gengis Khan. Appena si lascia Ulaan Batar, la moderna capitale, la natura regna incontaminata. Verdi praterie si estendono sterminate, punteggiate qua e là solo dai bianchi puntini delle gher. Salendo verso nord si raggiunge il lago Khuvsgul, circondato da montagne coperte da foreste di larici siberiani e prati ammantati di fiori selvatici. Le stelle alpine da noi così rare sono brucate tranquillamente dalle capre. Il sud è il regno dell’immenso deserto del Gobi, il più settentrionale del mondo. La lunga striscia delle dune di Khongoryn Els, rallegrata dalla presenza dei “veri” cammelli, quelli con due gobbe, costituisce una delle immagini più belle del paese. La Mongolia è uscita da poco più di un decennio dal lungo tunnel del regime comunista filo sovietico. Gli anni delle purghe staliniste sono stati tremendi: gran parte dei monasteri buddisti è stata distrutta e i monaci trucidati o deportati in Siberia. Il periodo post-comunista è stato altrettanto difficile: sono venute meno le garanzie sociali offerte dallo stato con la “classica” conseguenza dell’aumento della disoccupazione. Il paese per tirare avanti deve contare sugli aiuti internazionali. La vita è dura sia per chi vive in città che per i pastori delle campagne. Ad Ulaan Batar migliaia di bambini orfani vivono per strada rifugiandosi nel sottosuolo durante i gelidi mesi invernali, i salari sono bassi, anche se la situazione sta lentamente migliorando. Nelle campagne le temperature toccano punte di 50 gradi sottozero e i nomadi rischiano di perdere il bestiame, unico mezzo di sopravvivenza in una terra selvaggia dove è impossibile qualsiasi coltivazione. Con il crollo del regime comunista, i mongoli si stanno riappropriando delle proprie tradizioni religiose, legate ad un buddismo lamaista contaminato da elementi di sciamanismo. I monasteri sopravissuti sono stati riaperti al culto mentre altri sono in fase di restauro o ricostruzione. Alcuni sono veramente affascinanti: basti pensare ad Amarbayasgalant sperduto in una verde vallata. Naturalmente sono ricomparsi anche i monaci, ancora poco numerosi rispetto al passato, quando la Mongolia era uno stato teocratico. Assistere alle preghiere è un’esperienza intensa ed autentica. Il turismo è limitato, ostacolato dal pessimo stato della rete viaria. Solo un paio di strade è asfaltato e le piste devono essere percorse con mezzi a quattro ruote motrici. L’assenza di qualsiasi indicazione e i ridotti trasporti pubblici rendono necessario affittare un mezzo con autista. I campi di gher per turisti sono invece piacevoli e le possibilità di campeggio libero davvero infinite: piantando la propria tenda vicino alle gher dei pastori si è certi di essere invitati a casa loro e vivere uno spaccato di vita nomade. Naturalmente non bisogna abusare dell’ospitalità e contraccambiare sempre con qualche regalo. Il turismo, anche se limitato alla breve estate, può rappresentare una grossa risorsa ma c’è da augurarsi che il paese rimanga immune agli effetti devastanti del turismo di massa. Per il nostro viaggio io e Stefania ci siamo affidati ad un’agenzia segnalataci dall’ottimo sito www.Mongolia.It, la “Great Chingis Empire” gestita da Nyamaa, una mongola che parla un buon italiano. L’agenzia in realtà funge solo da intermediario: i mezzi sono di proprietà degli autisti e gli interpreti vengono ingaggiati per l’occasione. Il tour organizzato con tutti i pernottamenti prenotati è risultato tuttavia troppo rigido e malamente costruito nell’ultima settimana dedicata al deserto. Non immaginavamo che il programma inviatoci per e-mail e più volte modificato dovesse essere preso così alla lettera: siamo arrivati all’assurdità di passare a pochi chilometri da un sito ma dovere pagare un extra per poterlo visitare perché non incluso nel programma. Nelle prime due settimane abbiamo avuto un ottimo autista, Otgoo un ex nomade, e una guida in gamba, Erden uno studente di 22 anni, sempre pronti ad assecondare i nostri desideri di contatto con la popolazione. Il mezzo tuttavia era vecchio (un’ex autoambulanza di fabbricazione russa) ed, infatti, dopo innumerevoli contrattempi si è rotto nel deserto, per fortuna a pochi chilometri da un paese. Nell’ultima settimana abbiamo avuto un mezzo migliore ma la nuova guida, Nora una ragazza di città, si è rivelata inadatta a due viaggiatori indipendenti come noi, preoccupata solo della nostra sicurezza e poco incline ai contatti con i nomadi. Alla luce di quest’esperienza mi sentirei di consigliare agli amanti dei viaggi in libertà una scelta differente: noleggiare solo la macchina con autista (eventualmente facendosi procurare da loro un interprete) senza passare per un’agenzia che fornisce un pacchetto “tutto organizzato”. Un’informazione pratica: per ottenere il visto non conviene rivolgersi al consolato di Trieste che applica un sovrapprezzo ingiustificato ma invece spedire il passaporto all’efficiente ambasciata di Ginevra (mission.Mongolia@ties.Itu.Int). Ed ora il diario di viaggio. In Mongolia abbiamo seguito il seguente itinerario di massima: Ulaan Batar – lago Khuvsgul – lago Terkhiin Tsagaan – Kharakorum – deserto del Gobi – Ulaan Batar 25-26 giugno: Roma – Francoforte – Pechino – Ulaan Batar Arrivo ad Ulaan Batar Raggiungiamo Ulaan Batar con un volo da Pechino della Miat, la compagnia di bandiera mongola. All’aeroporto ci accolgono l’autista e la guida del tour organizzato. E’ tardi e c’è solo il tempo per raggiungere l’appartamento dove trascorreremo la prima notte. Si trova in un edificio fatiscente, protetto da una porta blindata che ci raccomandano di tenere ben serrata!! 27 giugno: Ulaan Batar – verso il monastero di Amarbayasgalant Ulaan Batar Nella sede dell’agenzia di viaggio “Great Chingis Empire” conosciamo di persona Nyamaa, la manager con la quale abbiamo tenuto i contatti per e-mail. Provvediamo a saldare l’intero importo del tour (speriamo bene !!), chiedendo assicurazioni sulla bontà del pulmino che ci è stato assegnato visto che appare un po’ vecchiotto. Iniziamo il giro turistico con il monastero di Gandam, formato da una serie di edifici scampati alle distruzioni comuniste. In un tempio i monaci siedono su due file, una di fronte all’altra. Pregano suonando grossi tamburi e piatti di metallo; voluminosi libri dalla forma allungata sono avvolti in panni. Intorno ai vari templi si trovano le ruote della preghiera, caratteristiche del buddismo tibetano; i fedeli pregano facendole girare una dopo l’altra. Un imponente edificio dall’aspetto moderno ospita una gigantesca statua di Budda in piedi, ricostruita di recente dopo che l’originale fu distrutto dai comunisti. Nelle pareti tutte intorno, dentro vetrine, campeggiano una miriade di statue di divinità. Il Palazzo d’Inverno era la residenza del lama-re d’inizio novecento. Attraversiamo una serie di splendidi padiglioni di legno. Gli interni sono decorati piacevolmente e il colore dominante è il rosso. Il complesso si è salvato perché trasformato in museo ed ospita un’interessante collezione. Raffinati arazzi recano rappresentazioni di divinità dalle molteplici braccia e teste. Nel tempio finale 21 statuette di bronzo sono opera di Zanabazar, il famoso lama vissuto nel seicento. Raffigurano Taras, divinità femminile dalle tette tornite, seduta all’orientale con una gamba piegata. Il giro termina con l’edificio a due piani, residenza del lama-re. Gli oggetti conservati sorprendono e fanno pensare ad un raffinato principe, non ad uno spartano monaco buddista. Una pelliccia è realizzata con le pelli di decine di volpi; i letti del re e della regina sono elaborate strutture di legno a baldacchino. Non mancano le curiosità come la foto di un elefante regalato al re, dopo una marcia di tre mesi dalla Russia. Splendide vesti testimoniano la raffinatezza dell’epoca. Prima di lasciare la città scaliamo la collina Zaisan, dominata dal monumento ai caduti eretto dai russi. Retorici mosaici raffigurano il pantheon del mondo sovietico: soldati in uniforme schiacciano i simboli del nazismo mentre astronauti, operai e contadini fraternizzano. Sul retro un mucchio di pietre è il nostro primo incontro con gli ovoo, i tradizionali tumuli di pietre retaggio dei culti sciamanici. Dal monumento la vista spazia, oltre il fiume, sulla città circondata da colline; gli edifici moderni di stile sovietico e le fabbriche con le loro ciminiere non ingentiliscono certo il panorama. In viaggio verso il monastero di Amarbayasgalant Alle tre e mezzo lasciamo Ulaan Batar, attraversando un paesaggio di verdi colline punteggiate qua e là dal bianco delle gher, le tradizionali tende di feltro dei nomadi mongoli. Ci fermiamo per qualche foto e subito un pastore a cavallo viene a salutarci mentre un gruppo di mucche pascola tranquillo. Proseguiamo verso nord e dopo tre ore, alle porte di Darkhan, lasciamo la strada diretta verso la Russia e pieghiamo in direzione di Erdenet. Il paesaggio è molto più monotono: una piatta distesa si estende brulla e anche le gher sono scomparse. La Mongolia è “il paese del cielo blu” ma oggi il tempo è nuvoloso e persino uno spruzzo di pioggia sembra porgerci il suo saluto poco rassicurante. Carichiamo due poliziotti: sarà un passaggio oppure una scorta? Scendono poco dopo a Khotol, una striscia di condomini davanti ad una fabbrica bianca. Superiamo un fiume e il paesaggio torna verde, una vallata chiusa da basse montagne. Unici segni dell’uomo, la linea elettrica e la striscia d’asfalto luccicante per il sole frontale. I tralicci sembrano i soli “alberi” di questa regione. La luce della sera esalta i colori della valle: brillanti strisce gialle e verdi sono chiuse dal verde cupo delle colline. Un tratto più brullo ed anche il marrone arricchisce la tavolozza dei colori. Alle otto e mezzo abbandoniamo l’asfalto prendendo una sterrata che si dipana tra colline verdissime. In cima ad una salita un ovoo c’invita ad una sosta; impariamo dal nostro autista a compiere tre giri intorno e a lanciare sassi sul mucchio, come vuole la tradizione. Dopo un’ora raggiungiamo il campo turistico; le gher sono disposte entro un recinto e l’effetto è molto suggestivo. Le tende sono bianche con le parti di legno dipinte d’arancione e il comignolo della stufa che sbuca nel mezzo. La linea elettrica è tagliata e così manca la luce a rendere l’atmosfera più autentica. Il sole scompare dietro le colline e subito la temperatura scende bruscamente; non mi resta che coprirmi un po’ e sfruttare la luce solare residua per preparare le cose per la notte. Nella gher ristorante siamo in pochi, poiché la maggioranza degli ospiti coreani consuma il pasto con le proprie provviste. Ceniamo insieme all’autista e alla guida con un piatto di carne con il sugo, tagliata a striscioline. Durante il giorno abbiamo avuto modo di conoscere Erden, la nostra guida. E’ uno studente di 22 anni e parla un ottimo inglese: è stato, infatti, un anno a Pittisburg negli Stati Uniti (ma anche in Cina ed Ungheria). Ci racconta tra l’altro qual è la situazione del paese dopo la caduta del comunismo; molte cose sono migliorate ma poi ci parla solo di ciò che è peggiorato (disoccupazione, privatizzazioni, ecc.). Erden sembra un ragazzo preparato e curioso: ci chiede notizie sull’Italia e i paesi del mondo che abbiamo visitato. Il primo giorno in Mongolia volge al termine e la mente corre alle immense distese verdi che abbiamo attraversato: la sensazione degli spazi vuoti è quella che più mi ha colpito in questa giornata.

28 giugno: Monastero di Amarbayasgalant – Erdenet Monastero di Amarbayasgalant La sala del tempio principale è affascinante: l’ambiente è diviso da pilastri dipinti di rosso ricoperti da stendardi colorati mentre il soffitto a cassettoni è decorato con figure dorate di draghi. Nella “navata centrale” due file di panche, una di fronte all’altra, sono destinate ai monaci, anzi ai lama, ma è tardi e l’ora della preghiera è passata. Il seggio del lama più anziano reca ancora le offerte mentre sulle panche vuote giacciono, piegate, tuniche gialle e rosse, insieme a buffi copricapo a cresta. Nella parete in fondo una selva di statue forma uno schieramento compatto; in una vetrina la statua realistica di un lama tutto abbigliato sembra sul punto di alzarsi dopo la preghiera. Il canto degli uccelli rende il luogo ancora più mistico. Dalle colline dietro il monastero, la vista spazia sull’immensità del paesaggio, un’ampia valle verdissima. Il monastero in basso sembra un plastico; un cavaliere solitario sfreccia sul suo destriero. Il silenzio è rotto solo dal canto lontano di qualche uccello appollaiato sui tetti del monastero. Il solito mucchio di sassi forma una macchia di colore con le sciarpe azzurre che si stagliano sul verde delle montagne. Solo le mosche ronzano dispettose disturbando la quiete del luogo. Camminando sul crinale raggiungiamo un secondo tumulo più in alto. La valle in basso è cosparsa qua e là dai bianchi puntini delle gher e dalle anse isolate di un ruscello. I tetti di tegole smaltate del monastero luccicano al sole. L’immensità dello spazio verde mi stupisce: nel terzo millennio esistono ancora luoghi incontaminati come questo! Il cielo si è riempito di nuvole e appare più basso come raccontano nei libri; il vento che ha preso a spirare sembra volere contribuire alla piacevolezza di questo paradiso verde. Le mosche sono scomparse e il silenzio regna sovrano. La visita del monastero è stata emozionante: nessun turista ma anche pochi monaci. Un vecchio lama malfermo era condotto nel tempio da due persone per le preghiere. Un giovane monaco ci ha accompagnato nei vari edifici, aprendoli giusto per noi. Vive nel monastero da due anni per studiare, lontano dalla famiglia. Nel padiglione subito dopo l’ingresso ritroviamo i quattro Protettori già incontrati nel Palazzo d’Inverno di Ulaan Batar. Le statue colorate sono ancora più grandi. Ciascuna reca in mano un simbolo, un topo, un serpente, una spada e uno strumento a corda; sotto i piedi schiacciano figure umane, un serpente e una tartaruga. Erden cerca di spiegarci la simbologia ma il significato mi sfugge. Tornati nel tempio principale il ragazzo solleva una botola e sotto il pavimento compare una riserva d’acqua, alimentata dalla pioggia convogliata dal tetto attraverso le colonne. Proseguiamo il giro dei vari edifici nella corte posteriore. In un padiglione dedicato alla dea della longevità colpisce la solita moltitudine di statuette in serie dalle vesti dorate che recano nelle mani giunte una corona. Nell’edificio centrale, attorno ai tre Budda del Passato, Presente e Futuro, alcuni mobili in legno contengono libri avvolti entro panni. I rotoli sono disposti nelle celle dell’armadio. Uno stendardo reca una svastica, simbolo arcano; un altro rappresenta il Dio della Cronologia dalle 12 braccia, con una corona di teschi sopra la testa e una cintura di volti umani alla vita. All’esterno, coronato dalla ruota del Dharma attorniata da due gazzelle, una scritta cinese ricorda che il tempio fu fondato da un re manchu. Un padiglione ospitava la tomba di Zanabazar ma oggi rimane solo la sua statua, fatta ricostruire dal Dalai Lama negli anni novanta; gli occhi spalancati esprimono uno sguardo infantile. Tornati al campo turistico pranziamo gustando strisce di stomaco, dumpling e pesce fritto. Chiudiamo con una “Fiesta” (gli unici dolci del nostro soggiorno in Mongolia saranno merendine confezionate importate da ogni parte del mondo). Erdenet L’Hotel Selenge è un classico albergo di stile sovietico; ci assegnano una camera de luxe con rosoni stuccati sul soffitto e mobilio di design moderno. Contrariamente alle attese si lascia apprezzare. Ceniamo poco lontano al “Millionaire Cafè” dove una portata costa appena un euro (Stefania sceglie una zuppa di carne e verdure, io riso e carne). Sono ancora le otto e, sempre scortati da Erden, passeggiamo lungo la strada principale. La città è completamente priva d’attrattive e i condomini dell’epoca comunista sono brutti e fatiscenti. La gente invece veste con gusto all’occidentale. In giro si vedono alcuni barboni e ubriachi. Erden ci sconsiglia di uscire da soli più tardi. Nei giardini della piazza principale si gusta un barbecue all’aperto mentre i bimbi giocano intorno alla fontana. Le femminucce sono belline, in particolare una con due codini, mentre i maschietti vivaci si mettono subito in posa per essere fotografati accettando di buon gusto di “battere il cinque”. Terminiamo la passeggiata davanti ai ritratti di Marx e Lenin che campeggiano su due palazzi, retaggio dell’era comunista finita senza toni troppo bruschi. Siamo nella terza città della Mongolia, sorta nei pressi di una gigantesca miniera di rame e ne approfittiamo per stabilire i contatti con l’Italia. All’ufficio postale una telefonata di un minuto costa 1000 tugrik (un euro vale circa 1300 T), la valuta locale: la procedura è un po’ lenta ma l’audio buono. In un Internet Cafè mandiamo alcune e-mail approfittando del collegamento veloce (200 T per mezzora). 29 giugno: Erdenet – Bulgan – vulcano Uran Uul Da Erdenet a Bulgan Nella periferia di Erdenet la gente abita nelle gher, protette da palizzate di legno. Lasciamo la città su una sterrata piena di buche in mezzo a paesaggi brulli. In alcuni tratti fervono i lavori per asfaltare la strada fino a Bulgan ma per ora non c’è traccia di pavimentazione. Il traffico pesante è intenso per gli standard mongoli. Dopo due ore siamo a Bulgan, dove al posto delle solite gher troviamo casette fatte di grossi tronchi di legno. Pranziamo in un “ristorantino” accompagnando le tradizionali schiacciate ripiene di carne e i dumpling, con il tè mongolo (una miscela di tè, latte e sale). Si dice che se una donna mette molto sale nel tè vuol dire che è incinta; i prossimi giorni osserverò attentamente i dosaggi di Stefania. In viaggio La steppa in questa regione è secca, poca erba spelacchiata, e questo ci spiega Erden è un brutto segno per il prossimo inverno quando non ci sarà da mangiare per il bestiame. Compaiono gli alberi e il paesaggio diventa più montano. Il fondo della valle torna verdissimo con un manto di fiori gialli. Ci fermiamo in cima ad una salita, presso un gruppo di capanne di legno e due ovoo. Una specie di grossa baita è già ultimata, un’altra è in costruzione: ospiteranno un hotel e un ristorante. Tre mongoli riposano all’orientale, accucciati sulle gambe. Ci offrono l’airag, bevanda leggermente alcolica di latte di giumenta fermentato. Sopraggiungono due motociclisti occidentali: sono tedeschi ma uno di loro vive a Venezia e parla italiano. Con le loro vecchie moto sono in viaggio da cinque settimane; dall’Italia hanno attraversato Slovenia, Ungheria, Ucraina e Russia. Complimenti! Vulcano Uran Uul Dopo la discesa, sbuchiamo in un’ampia conca; in lontananza si scorge il basso cono dell’Uran Uul, un vulcano spento. Improvvisamente il driver lascia la pista e procede in mezzo alla prateria. Ha scorto in lontananza un gruppo di cavalieri e punta verso di loro. Si stanno preparando per la versione locale della festa nazionale, il Naadan; alcuni indossano vesti tradizionali. Un uomo dallo sguardo severo porta un caratteristico cappello; altri il deel, una lunga tunica blu o rossa. Un bambino cavalca senza sella; parteciperà alle corse della festa. Con il nostro pulmino facciamo da traguardo ad una galoppata di gruppo. Le sorprese non sono finite: lasciati i cavalieri, ci fermiamo in una gher per visitare una famiglia nomade. Entriamo facendo attenzione a non calpestare la soglia; nell’ambiente circolare regna un po’ di confusione come a casa nostra. Sui lati due brande, con le gambe stranamente poggiate sopra barattoli, segnano le zone per gli uomini e le donne, mentre in fondo due specie di tatsebao recano le foto di famiglia. Ci accomodiamo sulla bassa panca sistemata davanti al tavolo. La padrona di casa ci offre subito il burro da prendere con biscotti duri allo yogurt, molto dolci. Segue poi una ciotola piena di yogurt (speriamo bene!). La notizia del nostro arrivo si sparge e sopraggiungono altri ospiti dalle gher vicine. Un uomo a torso nudo è accompagnato dal nipote; la sua notevole pancia è fermata da una fascia che sembra trattenere un’ernia. La sua mole, ci spiega Erden, è giustificata dal fatto che era un lottatore, come ora è suo figlio e come diventerà il nipote seduto al suo fianco. Sul petto reca un tatuaggio di cavallo; il ragazzo ha un sorriso bellissimo con il quale contraccambia sempre i miei. Il lottatore ci mostra orgoglioso una serie di regali ricevuti da italiani: bottigliette di Chianti, Martini e gin. Me le porge con la mano destra e sto ben attento a riceverle con entrambe le mani. Come segno di benvenuto procediamo anche ad un piccolo rituale, proprio come nel film “La storia del cammello che piange”: ci passiamo una boccetta dalla quale si estrae un pennello per cospargersi un dito con il tabacco. Per sdebitarci offriamo i nostri piccoli doni, un pacco di caramelle per la padrona di casa, bon bon e penne per i bambini. Ormai il ghiaccio è rotto e faccio i miei complimenti al lottatore per i suoi stivali: sono veramente massicci, con la punta ricurva e una fascia decorata. Terminata la visita, ci scambiamo i “Bayartee” e seguiamo la padrona di casa impegnata nella mungitura delle cavalle. La tecnica è molto semplice: un uomo si avvicina con il puledro alla giumenta e la signora passa alla mungitura (sempre da sinistra). Poi tocca al cucciolo. Il campo turistico è molto vicino, poco lontano dal vulcano. Ci aspetta un’altra notte in una gher, la tipica abitazione dei nomadi mongoli. Si tratta di una capanna circolare con il tetto conico; su un’intelaiatura di legno con pareti a reticolo e pali per il soffitto, viene posto il rivestimento di feltro, ottimo isolante. Al centro si trova un’apertura circolare dalla quale esce il comignolo della stufa. La porticina esterna, colorata in modo vivace, si apre verso sud per sfuggire ai freddi venti del nord. All’interno i due pali simboleggiano l’uomo e la donna, con l’apertura centrale che rappresenta la loro unione; separano la parte maschile e femminile della gher, quest’ultima naturalmente con la cucina. La capanna è facile da montare ed è quindi la residenza ideale per una popolazione nomade. Leggende mongole Erden ci racconta alcune leggende mongole. C’erano una volta sette soli e faceva molto caldo. Un arciere provetto, Erkhii, aveva otto frecce e decise di abbattere i soli con il suo arco. Vi riuscì subito con i primi sei ma al settimo tiro la freccia colpì la coda di una rondine di passaggio. Questo spiega perché le rondini hanno la coda con due punte. L’arciere decise di inseguire l’ultimo sole e promise che se non fosse riuscito a colpirlo si sarebbe tagliato il pollice delle mani, sarebbe vissuto in montagna e non avrebbe più bevuto acqua pura. Avrebbe anche tagliato le zampe anteriori al suo cavallo. Iniziò l’inseguimento ma il sole stava tramontando e non fece in tempo. Mantenne il voto fatto e divenne la marmotta mentre il suo cavallo divenne il saltellante topo mongolo. Un’altra storia racconta che gli animali dovevano decidere quali fra loro avrebbero fatto parte dei dodici segni zodiacali. Sarebbero stati i primi dodici a vedere sorgere il sole la mattina seguente. Il cammello era tutto contento, convinto che dall’alto della sua figura avrebbe visto l’alba per primo mentre il topo era triste perché così piccolo pensava di non avere speranza. Il cammello propose al topo di gareggiare insieme. La notte dormirono. Il cammello sedette guardando verso oriente mentre il topo si mise sopra il cammello rivolto nella direzione opposta. Al mattino il sole si riflesse sulla montagna prima ancora di sorgere e il primo a vederlo fu proprio il topo che avvertì gli altri animali. Il cammello così fu escluso dai dodici segni dello zodiaco. 30 giugno: vulcano Uran Uul – lago Khuvsgul In viaggio verso il lago Khuvsgul Alle sette e venti lasciamo il campo turistico salutati dalla famiglia del proprietario (mamma, papà, figlio e figlia). Ci aspetta il tragitto più lungo di tutto il viaggio. Procediamo lungo la valle di un fiume: la striscia di verde si raccoglie intorno alle acque. Davanti ad una gher una ragazzina bolle il latte di giumenta per preparare l’airag: è vergognosa e al mio arrivo si ritira un attimo nella gher per prendere un giubbino. Percorso un altro tratto, incrociamo un gregge con un cammello al seguito per il trasporto dei bagagli. I pastori, come al solito, controllano la situazione dall’alto dei loro cavalli, impugnando un lungo scudiscio. Dopo due ore dalla partenza raggiungiamo Khulag Unde, scavalcando su un lungo ponte il Selenge, il fiume più importante della Mongolia. Proseguiamo un bel tratto fino ad un nuovo splendido incontro con un folto gruppo di cavalieri. L’autista anche questa volta punta deciso verso di loro; scopriremo più tardi che fino al 1993 è stato anche lui un nomade. Erden ci racconterà che il minivan è suo e lavora solo d’estate. Cavalli e cavalieri, inclusi numerosi bambini, sono molto fieri; non è facile fotografarli perché non stanno mai fermi, girano in tondo e voltano la testa. Ripartiamo: il paesaggio è la solita successione di praterie, ora per la maggior parte molto secche; non mancano i tratti pietrosi. Attraversiamo anche una conca coltivata, fatto quasi incredibile per i mongoli che considerano sacrilego persino fare un buco nella terra. Il pranzo oggi è al sacco: panino e noodles, naturalmente con la carne. Viaggiamo in mezzo ad un gran polverone finché ci fermiamo in cima ad una salita. Sopraggiunge il pulmino degli olandesi, già incontrati al monastero e all’ultima sosta per i cavalli. Il nostro autista approfitta dell’aiuto del collega per smontare la ruota posteriore sinistra, estrarre tutta una serie di pezzi e lavarli con il gasolio. Niente di grave ci rassicura Erden ma prevenire è meglio che curare! Sono le quattro passate e ci aspetta ancora un lungo percorso. Durante il cammino diamo un passaggio a tre ragazzi. Mi lancio in qualche domanda in mongolo: chiedo come si chiamano ma mi rispondono con tre suoni gutturali incomprensibili. Alla domanda “quanti anni hai ?” per fortuna rispondono con le mani. La più piccola è decisamente carina con due fessure al posto degli occhi e il visetto schiacciato; ha 14 anni mentre il ragazzo ne ha 16 e la più grande 17. Per sdebitarsi del passaggio ci offrono lo yogurt che portano in una tanica. Lo versano nelle nostre tazze da viaggio ed è veramente saporito. Dal frasario della Lonely Planet estraggo una frase augurale: “Mal sureg targam tastai yu !” (“spero che i tuoi animali stiano ingrassando bene !”). Sono tutti contenti per il mio augurio anche l’autista mentre Erden mi fa i complimenti per la pronuncia. Al benzinaio di Moron, capitale del nord, incrociamo alcuni motociclisti: hanno delle grosse moto coreane ma indossano il deel con una fascia arancione che lo stringe in vita. Erden è di Moron e approfitta dell’occasione per visitare la sua famiglia; ci presenta la mamma e alcuni dei suoi nipoti (sono sette fratelli!). Ci offrono tè e biscotti e siamo ben lieti di fare la loro conoscenza. Ultima tirata di tre ore fino al lago Khuvsgul; raggiungiamo Khatgal, un paese pieno di sporcizia con misere case di legno circondate da palizzate malmesse. Una strada in discesa ci porta finalmente al lago: è tutta un susseguirsi di sassi e procediamo saltellando a passo d’uomo, degna conclusione della lunga giornata. Il campo turistico, “Khuvsgul Dul Tour Camp”, è il primo sulla sponda del lago e, anche se una penisola ne impedisce una visione più ampia, il luogo è affascinante con le nuvole rosse per il tramonto che si riflettono nelle acque. Siamo tornati nel circuito turistico: la nostra gher ha la corrente elettrica e il ristorante è ospitato in una grossa costruzione di legno. Interrompiamo la dieta a base di carne gustando pesce di lago alla cinese. 1 luglio: lago Khuvsgul Tsaatan Festival Per risalire il lago dal nostro campeggio dobbiamo tornare verso il paese e prendere una sterrata che si dirige a nord internamente, in certi tratti seguendo letteralmente il letto asciutto di un fiume. Prendiamo a salire in mezzo ad un bosco ed ecco dall’alto comparire nuovamente il lago. Una discesa in picchiata ci porta fino alla riva per raggiungere il “Dalai Tour Camp” dove è in programma lo Tsaatan Festival. Gli tsaatan, in lingua mongola la parola significa uomini-renna, sono una popolazione nomade così chiamata per la loro caratteristica di allevare questi animali. Sono ridotti a poche centinaia e vivono in una regione ad ovest del lago Khuvsgul. Il festival è dedicato a loro anche se sono presenti poche famiglie e la maggioranza degli attori è mongola. L’avvenimento riveste una certa importanza tanto che è onorato dalla presenza dei ministri del turismo e dei trasporti, giunti con l’elicottero parcheggiato sul prato vicino al lago (loro si sono evitati il massacro delle strade mongole). Il biglietto costa 14.000T, un vero prezzo per turisti. Lo spettacolo deve ancora cominciare ma dietro le quinte gli artisti sono già pronti insieme ad un gregge di renne. Gli animali attirano subito la nostra attenzione. Sono buffi e docilissimi: si lasciano carezzare le corna, quelle dei maschi maestose con le loro ramificazioni. Ci aggiriamo tra renne e figuranti, incuriositi dagli animali e dai costumi tsaatan. Finalmente dopo i pomposi discorsi delle autorità, tutto il mondo è paese, lo spettacolo ha inizio. Un gruppo di bambine sgambetta simulando, anche grazie al costume, il cavalcare delle renne. La musica tintinnante e l’allegria delle bambine riscaldano subito il pubblico. Nella prosecuzione si alternano vari balli e canti di gruppo. In particolare stupisce un solista che oltre alla “ordinaria” voce umana ne possiede una seconda, simile ad uno strumento musicale, proveniente dal profondo dello stomaco e dalla gola. Si tratta di una stupefacente forma di canto tradizionale. Nello spettacolo non manca la ragazzina contorsionista con il suo groviglio d’articolazioni. Il pranzo al sacco del campeggio è abbondante quanto i pasti seduti a tavola (finiremo proprio per ingrassare in questo viaggio). Sorge qualche incertezza sul proseguimento della giornata. Erden non è molto prodigo di consigli e sembra volere stroncare ogni nostra iniziativa. Alla fine riusciamo a convincere lui e l’autista a proseguire per la strada lungo il lago. Vorremmo, infatti, allontanarci dalla folla di turisti attratta dal festival ed esplorare qualche angolo caratteristico. Bastano pochi chilometri per riguadagnare la tranquillità, anche se non mancano i campi turistici. Sulla riva erbosa, oltre ai soliti splendidi cavalli, incrociamo dei bovini alquanto pelosi: si tratta di buffi incroci tra yak e mucca. Dopo un breve tratto, l’autista parcheggia davanti ad una gher. Vorremmo proseguire fino a Toilogt poiché la Lonely Planet afferma che il posto è bello e la strada buona, ma scoppia la “rivoluzione”: il tratto non è previsto dal “programma ufficiale” e dobbiamo rinunciare. Nella gher vivono due ragazze e i nostri accompagnatori sembrano fare un po’ i “molliconi”; procedono ad un baratto di cassette musicali ma per fortuna non perdiamo i “Ricchi e Poveri”, pezzo forte della colonna sonora dei giorni passati! Naturalmente veniamo invitati anche noi nella gher e come al solito finiamo per mangiare (gustoso il formaggio). Elaboriamo un programma alternativo facendoci lasciare ad una penisola nei pressi di Jankhai.

Promontorio di Jankhai Seduto sull’estremità del promontorio nel silenzio più assoluto, ammiro lo spettacolo della natura. Verso sud una corona di dolci colline ricoperte di foresta avvolge le acque placide. Di fronte i monti Saridag, più alti, sono coperti dagli alberi, solo fino ad una certa altezza mentre più in alto il grigio delle rocce sembra sorreggere i nuvoloni che avanzano. Verso nord il lago si apre come un mare e la sponda non s’intravede nemmeno. Quale contrasto tra il piombo del cielo da un lato e l’acqua marina dall’altro! Mi levo le scarpe ed immergo i piedi: l’acqua è gelida. Il promontorio termina con una punta di sassi ma prima ospita un bel boschetto dove sorge un piccolo campeggio di gher. Un gruppo di cavalli ha scelto quest’oasi di pace, mentre qualche “audace” ha piantato la propria tenda sull’istmo che separa una delle due lagune dal lago. Panorama sul lago Sulla via del ritorno per il campeggio ci fermiamo al passo, in prossimità del solito cumulo di sassi e, consigliati da un gruppo di italiani, intraprendiamo una ripida salita fino alla cima della montagna. La vista spazia finalmente su una larga porzione del lago, inclusa l’isola che sorge al suo centro. Nel paesaggio spicca il promontorio di Jankhai con le acque delle lagune che formano due macchie di colore in contrasto con l’azzurro del lago. Ritorno al campeggio In paese ci fermiamo davanti ad un food store; sembra di essere in un film western con i cavalli “parcheggiati” davanti al negozio. Il paese mi sembra meno squallido di ieri e le costruzioni di legno lungo la strada principale completano l’effetto da Far West. Memori del giorno precedente per evitare l’infernale discesa verso il campeggio, preferiamo proseguire a piedi. Il sole splende ora in un cielo terso e la visione è da fiaba: i “mezzi” yak pascolano su un prato verdissimo mentre le acque del lago si sono accese di varie tonalità d’azzurro, un mare dal turchese al blu. A cena, oltre l’immancabile carne, gustiamo una zuppa di carne (!!) nella quale s’intingono pezzetti di pane fritto, piatto tipico mongolo. Raggiungiamo poi la sottile striscia che si allunga in mezzo al lago; un campeggio sorge sul promontorio mentre sulla punta due pescatori armati di canne s’immergono nell’acqua con i loro stivaloni. Poche decine di metri ci separano da un minuscolo e basso isolotto. 2 luglio: lago Khuvsgul Prima settimana di viaggio Una settimana di viaggio, un momento di riflessione. La Mongolia è un paese unico: gli spazi immensi sono spopolati e la sensazione di vuoto colpisce chi, come me, è abituato a tutt’altra vita. I nomadi con le gher, i costumi e le tradizioni costituiscono l’aspetto più interessante: la loro ospitalità è sincera ed ogni occasione è buona per offrire qualcosa. Quale sarà il meglio per il loro futuro? Una vita di difficoltà in mezzo ad una natura selvaggia e crudele oppure la “comoda” vita di città ad Ulaan Batar in cerca di un lavoro? Il nostro autista quando ha perso il padre ha abbandonato il college ed ha vissuto quattro anni da nomade. Alla fine però ha venduto tutto il bestiame e si è comprato una macchina iniziando un nuovo lavoro. La millenaria tradizione nomade è forse destinata a sparire con il tempo? Le parole sagge di Erden sembrano tranquillizzarmi: i nomadi hanno molti figli e la natura non ha spazio per tutti (sembra strano in una paese così vasto ma è così), per cui è un bene se solo alcuni continuano con la vita nomade. La natura è l’altro elemento che stupisce il viaggiatore. Nella Mongolia centrale i paesaggi verdissimi ricordano certi scenari del nord Europa. Salendo verso nord invece le praterie diventano sempre più brulle fino all’incredibile “oasi dell’oceano del lago”. Il paesaggio qui è meno originale, meno vicino all’immaginario della Mongolia ma sicuramente splendido. Nei prati i fiori selvatici formano macchie di tutti i colori, dall’arancione al giallo, dal viola al celeste. Le stelle alpine da noi così rare sono brucate tranquillamente dalle capre. Gita in barca Il lago ha i suoi colori per ogni ora del giorno. Questa mattina le acque immobili hanno assunto le tonalità più cupe della sponda orientale in ombra. Erden dorme beatamente e così ci arrangiamo per conto nostro aggregandoci al giro in barca del gruppo di italiani in viaggio con la nostra stessa agenzia. Sono in cinque e per alcuni di loro si tratta del secondo viaggio in Mongolia. In barca risaliamo il braccio meridionale fino ad un promontorio dove il lago si allarga trasformandosi in un oceano (il lago meritò questo titolo nell’epoca manchu perché ha più di cento affluenti). Dalla barca i monti Saridag ci appaiono con il loro curioso manto di foreste: lingue di alberi scendono dalle rocce brulle fino al lago, torrenti di verde che confluiscono nell’azzurro delle acque. Rivedo, navigando, i luoghi di ieri: il passo con il sentiero per arrivare in cima, la penisola di Jankhai con gli alberi. La giornata è soleggiata; solo una nuvola poggia sulle vette più alte. La sua forma mi ricorda una nave mentre Stefania, ormai entrata nello spirito del viaggio, suggerisce un cappello mongolo. Attracchiamo su uno stretto promontorio, una mini Bellagio. Le nuvole sopra l’altra sponda si riflettono nelle acque turchesi della caletta sotto di noi e le montagne sullo sfondo completano il quadro. Sulla punta non manca il solito ovoo. Di fronte il lago si apre in una distesa immensa, un mare davanti a noi, ma lo sguardo non può che tornare alle acque della caletta, pennellate di turchese; una striscia immobile in mezzo alle increspature sembra un fiume che scorre nel lago. Gita a cavallo In cima alla montagna la vista è meravigliosa, uno spettacolo indimenticabile, il più bello del lago. Il ramo meridionale sotto di noi appare una tavolozza di verde, blu, azzurro e turchese: una visione che credevo fosse possibile solo nei mari tropicali. L’isolotto vicino al nostro campeggio sembra un atollo di sabbia strappato ad un’altra latitudine. Tutto intorno, il manto dei larici siberiani avvolge in un abbraccio la macchia colorata delle acque. Due spartane sdraio di legno accolgono le nostre membra dopo la cavalcata; sceso da cavallo le ginocchia erano a pezzi ma ora tutto è a posto. In due ore, procedendo al passo, abbiamo attraversato una foresta ammantata di fiori variopinti. E’ stata la mia prima esperienza a cavallo e il giro accompagnato dalla guida mongola è stato divertente, un’esperienza alla quale non potevamo rinunciare nel paese dei cavalli. 3 luglio: lago Khuvsgul – Moron – Shine Ider Khatgal – Moron A Khatgal facciamo benzina; la pompa manuale funziona ruotando una manovella. Sopraggiungono due moto russe da fuoristrada, vecchie ma possenti. Percorsi pochi chilometri ci dobbiamo fermare perché una gomma è sgonfia. L’autista estrae una pompa da bicicletta con la quale recuperiamo un po’ di pressione al prezzo di una notevole fatica di braccia. All’ufficio postale di Moron, dove giungiamo all’ora di pranzo, ci connettiamo ad internet per segnalare in Italia la nostra esistenza (linea un po’ lenta, 420T per mezzora). Insieme alle strade principali asfaltate ritroviamo quindi un elemento di modernità. Per il resto Moron non è che un grosso agglomerato di case in cemento o legno; una spianata funge da piazza principale con al centro un monumento dedicato all’eroe locale. Per pranzo siamo ospiti della famiglia di Erden. I rapporti tra familiari mi sembrano diversi dai nostri: non si fanno troppe smancerie, anche quando non ci si vede da tanto tempo, mentre si bada molto alle azioni, a preparare un pranzo, offrire un tè. Insieme alla mamma di Erden, al fratello aspirante poliziotto e a una sorella, abbiamo modo di assaporare la cucina casalinga: noodles con carne fresca e secca, patate e carote, seguiti da maxi dumplings (buuz). Davanti alla casa è parcheggiata la Hyundai della sorella ed Erden non si lascia sfuggire l’occasione per fare un giretto al volante. Dopo i saluti, facciamo una puntata al mercato acquistando caramelle e sigarette per i nomadi che incontreremo nei prossimi giorni. La maggioranza della gente veste all’occidentale ma alcuni anziani indossano il deel con stivali di tipo militare sovietico. Ai margini della città è stato ricostruito un monastero buddista: una ruota della preghiera è ricavata da un bidone di latta. Moron – Shine Ider Lasciamo Moron seguendo l’omonimo fiume, lungo una pietraia. Le montagne prive di vegetazione formano macchie di vari colori. E’ una giornata molto calda; diamo un passaggio ad un mongolo che cammina solitario. E’ molto timido ed evita i nostri sguardi. Percorriamo un lungo tratto, prima di giungere alla sua abitazione (come avrebbe fatto a piedi con quegli stivaloni invernali?!). Con qualche acrobazia il minivan raggiunge direttamente la capanna di legno: l’autista vuole procedere ad una riparazione e il mongolo ha una lunga barra d’acciaio necessaria per l’operazione. E’ proprio vero che in campagna ci si aiuta gli uni con gli altri. Con Stefania ne approfittiamo per spostarci dai vicini dove in un recinto è in corso la tosatura delle pecore: un pastore con le forbici sta togliendo la lana ad una pecora con tre zampe legate, tagliandola tutta insieme come se si trattasse di un cappotto. Lungo la strada incroceremo vari camion stracolmi di manti di pecore. Gli acquirenti vengono direttamente sul posto per le compere all’ingrosso. Nel frattempo la riparazione procede e veniamo invitati nella capanna di legno, intrattenuti da una signora anziana, una giovane e una bambina, alla quale regaliamo una manciata di caramelle. Questa zona appare molto secca ma i nostri ospiti sono generosi anche se poveri. La strada prende a salire in mezzo a boschi per poi spianare in una verde distesa circondata da colline. Il paesaggio prosegue in un’alternanza di aree brulle e verdi. Ci fermiamo verso le sette per la cena al sacco. Superate colline e vallate, dopo le nove raggiungiamo finalmente il villaggio di Shine Ider. In tenda presso Shine Ider Per la notte ci accampiamo nelle vicinanze di Shine Ider, ad una “distanza di cortesia” da un gruppo di gher. Il montaggio della tenda ci pone qualche problema per il forte vento che si scatena proprio in quel momento. Il sole prossimo al tramonto illumina le montagne e il paese in lontananza, sopra il quale splende un tratto d’arcobaleno. Il verde della prateria tende quasi al giallo. Sopraggiungono i nomadi per invitarci nella loro gher. L’ospitalità è un principio fondamentale nella cultura di questo popolo. Entriamo in una piccola gher, veramente misera. Erden traduce alcuni brani della conversazione. La famiglia ha perso quasi tutti gli animali durante l’inverno e per questo si è avvicinata al villaggio. Attratti dalla curiosità sopraggiungono a frotte i vicini. Cerchiamo di fare qualche domanda, tradotta da Erden, per entrare nella conversazione, ma non è facile. Questa volta non abbiamo a che fare con persone abituate ai turisti. I loro sguardi non incrociano mai i nostri; mi sento trasparente come se non ci fossi, una sensazione provata già altre volte questi giorni. Naturalmente ci offrono tè mongolo e yogurt che noi contraccambiamo con una busta di biscotti. Dopo un po’ i vicini sembrano perdere interesse nei nostri confronti: in una gher hanno la televisione e sta per iniziare un film, spettacolo evidentemente più interessante di quello che noi possiamo offrire! Incuriositi andiamo anche noi nell’altra gher: è più grande, con tre letti e molto più ricca con tappeti per terra e sulle pareti; anche la mobilia, al solito tutta colorata, è particolarmente bella. Hanno un generatore alimentato dal vento grazie al quale possono guardare la televisione mongola che sta trasmettendo un film russo in bianco e nero. Ormai si è fatto tardi, dopo una lunga giornata in pulmino: non ci resta quindi che salutare tutti e ritirarci nella nostra tenda. 4 luglio: Shine Ider – lago Terkhiin Tsagaan Mattino in tenda Alle otto il sole splende già alto illuminando la verde vallata con le gher. Sopraggiunge un nomade per offrirci il tè mongolo che accettiamo volentieri. E’ il capofamiglia della gher visitata ieri sera e nonostante la modesta condizione non rinuncia ai principi dell’ospitalità. Contraccambiamo con sigarette e altri biscotti. E’ interessato alla macchina fotografica digitale di Stefania e in particolare alle foto di animali. In viaggio verso il lago Terkhiin Tsagaan Dopo i saluti, alle nove passate riprendiamo la marcia verso sud, fermandoci subito presso un antico “monumento funebre”, formato da quattro pietre disposte agli angoli di un quadrato. Una seconda sosta è presso un ovoo dalla forma di tempietto, costruito in ricordo di un tempio distrutto dai comunisti. Erden ci racconta che suo nonno materno era un famoso cacciatore, esperto anche di medicina tradizionale. Era buddista e fu rapito dai comunisti senza fare più ritorno, un destino toccato a molte persone durante le purghe staliniste. A metà mattinata raggiungiamo il fiume Ider Gol che scavalchiamo su un ponte di legno poco rassicurante, raggiungendo un paese il cui nome mongolo significa “felicità”. Poco oltre sorge il “Jarkal Jigur Tourist Camp”, davanti al quale incontriamo di nuovo il gruppo di italiani intenti a fare il pediluvio in una pozza d’acqua calda. La loro guida ci consiglia di cospargerci con il latte di cavalla bianca, ottimo per la pelle.

Per pranzo ci fermiamo in una gher lungo la strada. L’interno è piacevole con tappeti e mobili dipinti. Vi abita una signora anziana con una nipote ma, come al solito, gli ospiti di passaggio sono numerosi, in particolare un folto gruppo di ragazzine. Ci offrono tè mongolo e formaggio ma i loro sguardi sfuggono ai nostri rivolgendosi sempre ad Erden. Una ragazzina acerba ma carina non resiste però a lungo e comincia a gettarmi occhiate interessate. Per pranzo ci preparano dei noodle fatti in casa: l’impasto d’acqua e farina viene trasformato in una sfoglia sottile dalla quale le ragazze tagliano i noodle. La padrona di casa accende il focolare e procede alla cottura. Nel frattempo Erden c’insegna un paio di giochi mongoli, basati su piccole ossa di caviglia di capra. Le ossa fungono da dadi e le quattro facce simboleggiano capra, pecora, cavallo e cammello. Il primo gioco è simile al nostro “saltacavallo”, il secondo consiste nel lanciare per aria una catenina e riacchiapparla al volo dopo avere riempito la mano con le ossa. I noodle sono pronti e ci vengono serviti in brodo insieme a carne secca (e molti capelli!). L’autista, che si era sdraiato per terra schiacciando un pisolino, si risveglia prontamente. Al pranzo partecipa anche un cavaliere appena giunto, dal volto e dalle vesti tipicamente mongoli (come farà a non scoppiare di caldo con gli stivali russi e il deel). Dopo pranzo, assistiamo alla mungitura delle pecore da parte delle ragazzine; ormai il ghiaccio è rotto e le foto digitali di Stefania suscitano un gran clamore. Ci facciamo scrivere l’indirizzo in mongolo da Erden per potere spedire qualche foto. Lago Terkhiin Tsagaan: seduti su un promontorio a picco sul lago Il campeggio sorge su un promontorio che termina con una roccia a picco sul lago. Dalla cima ammiriamo il panorama, illuminato dalla luce della tarda serata. Il paesaggio è completamente diverso dal Khuvsgul: verdi montagne circondano lo specchio d’acqua, punteggiate qua e là dalle gher dei campi turistici. Davanti al nostro campeggio una stretta spiaggia di sabbia rappresenta una rarità per la Mongolia. Un paio di pescatori è all’opera, uno con una canna da lancio, l’altro semplicemente con un filo che lancia lontano e ritira. 5 luglio: lago Terkhiin Tsagaan Vulcano Khorgo In cima al vulcano Khorgo si ammira il profondo cratere spento. Le rocce laviche scure e la profonda depressione sono impressionanti. E’ tutta una pietraia, piena di leggere rocce porose, ma, un tempo, la forza dell’eruzione generò la colata lavica, oggi ricoperta dagli alberi, che si estende nella piana verso il lago. Siamo arrivati fin qui sobbalzando nel pulmino sopra la colata e salendo una scala di gradini in cemento costruita per agevolare i visitatori. In cielo volteggia in ampi giri un’aquila. Percorriamo l’orlo del cratere, ammirando in lontananza le acque del lago; dal punto più alto s’intravede anche il nostro campeggio. Le grotte di Shar Nokhon, vicino al vulcano, sono una delusione, nient’altro che voragini nella roccia lavica della colata. Gita a cavallo Il pomeriggio decidiamo di fare un giro a cavallo di un paio d’ore. Dal campo turistico procediamo lungo la riva del lago con un’andatura molto tranquilla, quasi sonnolenta, ma quando facciamo capire al nostro accompagnatore che vorremmo andare più veloci, parte al trotto e, viste le mie scarse capacità di cavallerizzo, finisco per rimbalzare sulla sella. Ripresa la lenta andatura al passo, mi sembra invece di essere uno di quei feriti che venivano trasportati legati in sella ad un cavallo, come leggevo nei libri da ragazzo. Dopo la tempesta Siedo davanti alla nostra gher di fronte al lago. Dopo la grandinata, un arcobaleno si staglia sui nuvoloni scuri. Le acque agitate dal vento sono di piombo ma qualche montagna in lontananza splende per la luce del sole. Il tempo è molto variabile in questa stagione e il cielo racchiude questa mutevolezza, con pennellate di colore che sembrano l’opera di un pittore impressionista. Alcuni nuvoloni striati richiamano il pelo dello yak, altri più bassi velano le montagne mentre squarci d’azzurro si fanno largo qua e là; l’oro del sole al tramonto si trasmette alle nuvolette ormai isolate a ponente. 6 luglio: lago Terkhiin Tsagaan – Tsetseterleg – terme di Tsenker Dal lago Terkhiin Tsagaan a Tsetseterleg Riusciamo ad anticipare di un’ora la partenza, alle otto, in modo da visitare anche il monastero di Tsetseterleg non incluso nel programma. Superato il vulcano Khorgo, raggiungiamo il villaggio di Tariat, scavalcando il fiume su un ponte di legno. Diamo un passaggio ad un viandante: indossa un deel marrone chiaro, stivali e un cappellino da polo! I capelli bianchi proseguono in due basettoni uniti da una striscia di barba sotto il mento. La pelle scura indica una vita da nomade passata sotto il sole. Come altre persone alle quali abbiamo dato un passaggio siede di fronte a noi ma volge la testa per guardare la strada o evitare i nostri sguardi. Si sta recando ad assistere alle corse dei cavalli di un festival locale. Poco oltre incrociamo una colonna di nomadi: si stanno trasferendo con tutte le loro cose, gher incluse, a bordo di carri trainati da yak. L’immagine della lunga fila nella prateria con le montagne sullo sfondo è emozionante, rovinata solo un po’ dal pensiero che lo spostamento è motivato da un documentario. Alle dieci raggiungiamo il canyon del fiume Chuulut che scorre tra pareti verticali per svariati chilometri, formando un solco profondo nella piana, ma noi ci limitiamo ad ammirarne un breve tratto. In mezzo ad un bosco di larici, sorge l’Albero dei Cento Rami, un vecchio ed imponente esemplare avvolto da una moltitudine di panni azzurri, pieno d’offerte. Uno scoiattolo fa capolino tra le pietre poste ai suoi piedi. Attraversiamo un’ampia vallata, seguendo una sterrata che è una vera pacchia rispetto a quelle dei giorni scorsi, anche se il nostro autista a volte preferisce le piste laterali. Lungo la strada gruppi di bambini vendono bottiglie di airag e l’autista non si lascia sfuggire l’occasione. Una piccola tenda occidentale offre loro un riparo dal sole dove nascondersi appena cerco di fotografarli. Due maschietti si esibiscono per noi in un “incontro di wrestling”. Questa regione di verdi praterie ha un aspetto più ospitale ma meno pittoresco; la strada è sollevata su una massicciata e parzialmente asfaltata. All’ora di pranzo, superato il villaggio di Ikh Tamir, ci fermiamo presso la roccia di Taikhar Chuluu. Isolata nella campagna, ha dato luogo a varie leggende; oggi nei suoi paraggi sorge un “prosaico” campo turistico. Pranziamo al sacco all’ombra del pulmino. Monastero di Tsetseterleg Il monastero nella città di Tsetseterleg era formato da un vasto complesso d’edifici che ospitava 2500 monaci, com’è testimoniato dalle foto scattate da un tedesco all’inizio del novecento. Anche qui però è caduta la mannaia del comunismo ed oggi sopravvivono solo gli edifici intorno ad una corte. E’ una fortuna che siano stati conservati per ospitare un museo. Gli interni di legno sono affascinanti ma la collezione è addirittura sorprendente. Nella prima sala al piano terra è ricostruita un’intera gher, a differenza di quelle attuali arredata con mobili tradizionali: credenze dipinte e letti intarsiati, insieme a vari utensili tra cui un grosso contenitore per l’airag. Un carro trainato da uno yak trasporta una gher smontata, proprio come quelli osservati nella carovana di questa mattina. Una scala di legno conduce al piano superiore (tutto è in legno senza l’utilizzo di chiodi), dove l’esposizione prosegue con splendide teiere intarsiate d’oro, vestiti tradizionali (impressionante l’acconciatura di una donna con due “trecce laterali” che la costringevano a dormire a pancia in su), una sella per cavallo, una maglia di ferro dell’epoca di Gengis Khaan, borsette per la polvere da sparo, un set di coltelli e bacchette “da viaggio”. La saletta in fondo contiene una raccolta di strumenti musicali: corni lunghi più di due metri, strumenti a corda con teste di drago o cigno e una specie d’arpa! Passiamo poi al tempio “privato” del lama perfettamente arredato tanto che l’assenza dei monaci si avverte netta. Un plastico, ricostruito grazie alle foto del tedesco, illustra la struttura originaria del monastero. A fianco degli edifici sopravissuti si trovava il tempio principale del quale oggi rimane solo lo scheletro. Vicino al complesso antico è stato costruito un nuovo tempio ma a quest’ora è chiuso e dobbiamo accontentarci di fare qualche giro alle ruote della preghiera. Scaliamo invece la collina dietro il museo, sormontata da un tempietto in rovina. Dalla cima si gode un bel panorama sulla città, circondata dalle montagne (il suo nome significa “giardino”). Alcuni quartieri si estendono sulle pendici delle colline e almeno da lontano, con la loro struttura regolare di basse casette, forniscono un’impressione piacevole, ben diversa dai fatiscenti palazzi del centro. Mercato di Tsetseterleg Il mercato della città è interessante. Il settore all’aperto è formato da container addossati l’uno all’altro che fungono da negozi. In giro si vedono diverse persone con il vestito tradizionale. Un edificio ospita il mercato alimentare, diviso esattamente a metà tra i settori macelleria e latticini. La sfilata di carne esposta sui banconi fa una certa impressione; alcune donne sono impegnate a fare a pezzi un bue. In un paese di carnivori non sorprende trovare un settore così ben fornito con la gente che si accalca per comprare interiora e i più svariati pezzi di carne, portandoli via semplicemente in una busta di plastica. Tra i latticini ritroviamo i prodotti dei nomadi: formaggi di tutti i tipi, biscotti di yogurt ed airag a volontà. Da Tsetseterleg alle terme di Tsenker In viaggio sul pulmino, mentre scrivo qualche riga, Stefania esclama sorpresa: “Ma ha nevicato?!”. Alzo gli occhi e il paesaggio è tutto imbiancato. Il nubifragio della città in campagna si è trasformato in una grandinata: chicchi grossi come acini d’uva coprono tutta la prateria! L’estate mongola è veramente piena di sorprese. Proseguiamo in una regione verdissima, con la strada resa fangosa dalla pioggia. Sembra di essere in una valle dell’Eden, con l’acceso contrasto tra il verde lucente dei prati e quello scuro delle foreste sulle colline. I cavalli galoppano liberi; qua e là si scorgono aironi cinerini e strane papere con una macchia gialla sul petto. E’ l’ora della mungitura; pecore e capre sono ammassate nei recinti, pronte per l’operazione. In fondo alla valle si trovano alcune sorgenti d’acqua calda, sfruttate da due campeggi turistici. Ci sistemiamo nello “Juulchin Tsenker Tourist Camp”. A parte le cameriere in minigonna vertiginosa e tacchi a spillo e la televisione con musica a tutto volume nella gher ristorante, tutto il resto sembra costruito sapientemente: bagni caldi con piscina separati per uomini e donne e una posizione idilliaca fra una collina boscosa e una con verdi prati percorsi da greggi e mongoli a cavallo. Sembrerebbe quasi di assistere ad un cartone animato ambientato in una valle tirolese, se non fosse per le gher del campo turistico al posto delle baite e i mongoli con deel a cavallo invece dei tirolesi in pantaloni corti e pon pon sui calzettoni. Una buffa casa di legno, con i tetti spioventi e le pareti oblique, richiama ulteriormente la nostra Europa alpina. 7 luglio: terme di Tsenker Dopo la burrasca di ieri, la mattinata è soleggiata e luminosa. Ne approfittiamo per una passeggiata nella valle. Raggiungiamo un primo gruppo di gher dove ci accolgono un paio di bambini che salutiamo con il solito “Sainbainuu”. Quattro cavallini sono legati ad una corda, mentre qualche adulto è bloccato da solo ad un palo (sarà una punizione o una dieta?!). Davanti ad una gher è parcheggiata una motocicletta mentre sul tetto è steso il formaggio a stagionare. I contrasti tra modernità e mondo pastorale proseguono con una gher dotata di parabola e pannello solare mentre davanti in un recinto i cavalli agitano le code per allontanare le mosche. E’ difficile credere che questo paradiso terrestre possa trasformarsi in un mondo inospitale con temperature polari; i ricoveri di legno per l’inverno, vuoti in questa stagione, sembrano volercelo ricordare. Davanti ad essi un gruppo di ossa segnala qualche passato banchetto. Ci sediamo all’ombra del bosco sulle pendici di una collina, trovando un po’ di refrigerio nella calda giornata. La pace è quasi totale, disturbata solo dalle mosche che ronzano intorno fastidiosamente. Nel pomeriggio saliamo sulla collina che domina il campeggio; dall’alto la vista sulla valle è completa con il ruscello serpeggiante nel mezzo, ma le mosche non concedono tregua, impedendo qualsiasi sosta contemplativa. Raggiungiamo in basso le sorgenti d’acqua calda, ormai imbrigliate da vasche di cemento e condotti ad uso dei campeggi. Siamo in un’area apprezzata proprio per le sue acque termali ed è ormai giunta l’ora di approfittarne. In un edificio i bagnanti hanno a disposizione delle basse e scomode docce (molto in voga in Giappone) e una vasca con l’acqua tiepida. All’esterno invece c’è una piccola piscina piena d’acqua calda solforosa ed è un piacere sguazzarci dentro. Unico disturbo le solite fastidiose mosche, molte delle quali galleggiano morte sul pelo dell’acqua. Per completare il momento di relax mi stendo su una sdraio di legno, questa volta insieme a Stefania dato che per il resto non è possibile nessuna commistione tra i sessi. Consigliati da Erden ci cospargiamo la pelle di airag e momentaneamente le mosche ci lasciano in pace. Considerazioni sui campi turistici di gher Sono strutture accoglienti e piacevoli, caratterizzate da gher confortevoli. Unico neo nei campi più grandi, l’effetto turismo (per esempio nell’abbigliamento delle cameriere) e la cucina spesso frutto di una tragica combinazione mongolo occidentale in base alla quale si mangia sempre carne preparata per i gusti “moderni”. 8 luglio: terme di Tsenker – Kharakorum Storia di passate distruzioni Lasciate le terme, attraversiamo i paesi di Tsenker e Khotont. Una coppia in moto trova lo spazio per trasportare anche una pecora con le zampe legate. A mezzogiorno siamo a Kharakorum che ci appare una città di baracche con una grossa fabbrica giapponese. Kharakorum era la capitale dell’impero mongolo ma oggi nulla resta a ricordare quei tempi poiché la città fu rasa al suolo dai cinesi; sulle sue rovine fu costruito il monastero di Erdene Zuu, il più importante della Mongolia, formato da ben 65 templi ma arrivarono i manchu e portarono nuove distruzioni. Nell’ottocento parte del complesso fu restaurata ma passò un altro secolo e toccò alle purghe staliniste. Oggi lo spazio all’interno delle vaste mura, movimentate da 108 stupa, è quasi vuoto: solo un recinto con tre templi si è salvato perché destinato a diventare un “museo dell’epoca feudale”. Della gigantesca gher che ospitava le assemblee rimane solo la traccia sul terreno mentre il tempio principale fu distrutto dai comunisti negli anni quaranta ed è in programma la sua ricostruzione. Una gher è destinata alla raccolta dei fondi: al suo interno, mentre quattro monaci salmodiano, si vendono souvenir ed accettano offerte. Insieme agli oggetti antichi mi colpisce un telefono rosa accanto ad un cellulare. Il monastero Lavin Sum è stato già ricostruito in stile tibetano, squadrato senza i tetti spioventi dell’architettura cinese. Al nostro arrivo l’ora della preghiera è passata e i novizi seduti sui banchi sorseggiano tè mongolo; davanti a loro conchiglie bianche e fogli abbandonati con preghiere in tibetano. Dal soffitto a cassettoni pendono stendardi colorati mentre, in fondo, tra le molte statue campeggia un Budda vestito con un mantello tutto dorato che reca tra le mani una fotografia in bianco e nero di qualche lama famoso (forse il re lama d’inizio novecento?). I libri delle preghiere, avvolti in panni gialli, sono posti su una ruota girevole che i fedeli provvedono a muovere. Seguendo il precetto buddista percorro il giro in senso orario. Le pareti sono ricoperte dalle tipiche pitture mongole su stoffa, i thangha, nelle quali lama dallo sguardo mistico dominano piccole figure mostruose poste ai loro piedi. In un angolo una statua rappresenta Mahakala, mostruosa divinità con la pelle blu, quattro braccia, una corona di teschi e una cintura di volti umani. Sotto i piedi schiaccia una figura umana. Nell’area recintata si trovano gli edifici sopravvissuti alle passate distruzioni, tre templi affiancati con tetti dall’impronta cinese coperti da tegole verdi smaltate. Al loro interno la selva di statue confonde le idee ma l’effetto è molto bello. Sono rappresentati il Budda Storico, il Budda Presente e il Budda Futuro, insieme ad altre divinità dall’aspetto mostruoso e lama, accompagnati da oggetti dal significato mistico come gli otto simboli del buon auspicio (parasole, coppia di pesci, ruota del Dharma ad otto raggi, ecc.). Draghi avvolgono le loro spire attorno alle colonne. In particolare mi colpiscono le offerte di dolci decorati fatti di burro, grasso e polvere. Nel negozio del monastero non mancano gli oggetti interessanti e finiscono per acquistare un Mahakala dipinto su stoffa, dall’aspetto antico. In giro per Kharakorum Con il pulmino raggiungiamo una collina dove una scultura fallica, puntata verso un pendio dalla forma vaginale, è considerata di buon auspicio per le donne desiderose di maternità. Per la prima volta da quando siamo in Mongolia i turisti sono numerosi e con essi le bancarelle di souvenir. Indotto nuovamente in tentazione, cedo acquistando un libro di preghiere in tibetano: una copertina di legno racchiude i fogli dai misteriosi caratteri. In cima alla collina una tartaruga di pietra ricorda uno dei quattro angoli delle mura dell’antica Kharakorum mentre la vista spazia sulla città moderna. Sopra di noi i falchi volteggiano lasciandosi trascinare dal vento. Cambiamo collina, raggiungendo l’imponente monumento circolare costruito l’anno scorso: la riproduzione di una tenda conica è circondata da tre pareti che recano le cartine degli imperi “mongoli” di varie epoche (unni, turchi, fino all’enorme territorio conquistato da Gengis Khan e dai suoi discendenti). In città raggiungiamo il mercato; formato anche questa volta da una successione di container, ha dimensioni ridotte rispetto a quello di Tsetseterleg. Stefania riesce finalmente a coronare il suo sogno di acquistare un deel: circondata dalle donne ne prova alcuni e alla fine sceglie un modello dorato dall’aspetto molto ricco (28.000T la spesa). Pernottiamo in un campo turistico nelle vicinanze del monastero. Siamo alla periferia della città e le gher in un prato spelacchiato e polveroso danno l’idea di un rifugio di sfollati, ben diversa dalle idilliache visioni dei giorni scorsi. Il ristorante è ospitato in una gher gigantesca, con una statua di Gengis Khan sistemata come su un trono e belle maschere tsam alle pareti. La cena in compenso è pessima, carne bollita e spaghetti sconditi come contorno. Anche il tramonto non è certo all’altezza dei precedenti: in lontananza si scorge il monastero ma la visuale è rovinata da decine di pali della luce e dalle fabbriche. Tuttavia le nuvole in cielo s’infiammano e ci fanno ben sperare per spettacolari repliche nel deserto del Gobi. 9 luglio: Kharakorum – Arvaikheer – verso il deserto del Gobi Monastero di Shank Dopo la pomposità di Erdene Zuu, il monastero di Shank, in un piccolo villaggio in mezzo al nulla, sembra avere una dimensione più umana. Il tempio centrale è stato restaurato e ha un certo fascino per il suo aspetto antico. Le parti più basse sono in muratura ma tutto il resto è in legno: il portico intorno, il padiglione centrale. Le travi sono dipinte con colori slavati mentre il tetto come al solito è di tegole smaltate che luccicano al sole. Sopra la porta campeggia tra due gazzelle la ruota del Dharma. L’interno è spoglio e un po’ triste senza i lama che pregano (i pigroni arriveranno solo alle undici) ma le pitture su stoffa alle pareti sono molto belle: rappresentano sempre lo stesso tema, il dio Dunkar (?) dalle molteplici facce e braccia (blu, rosse, gialle e bianche) che stringe a se in un abbraccio voluttuoso una dea nuda dall’incarnato giallo. Sotto i piedi schiacciano figure umane in miniatura. Ci sediamo a “conversare” con il ragazzo che ci ha aperto; ci offre l’airag prendendolo da un grosso vaso di porcellana ma rinunciamo preoccupati dagli insetti che galleggiano nel latte. Come gli altri lama del monastero è solo “a mezzo servizio”: i monaci vivono nelle gher e lavorano come i nomadi, possono anche sposarsi ma dedicano alcune ore della loro giornata alla preghiera. Sopraggiungono altri mongoli e un monaco più grande con un rosario al polso; tutti ricevono la loro razione di airag. L’atmosfera è autentica, ben lontana dalle “folle di turisti” di Erdene Zuu. Un vecchio compie un giro intorno al portico con un rosario tra le mani; si ferma davanti ad ogni colonna poggiando devotamente la testa su di esse (ogni parte del tempio è sacra). Il luogo è di una pace estrema: mamma corvo fa ritorno al nido sotto il tetto del portico e i piccoli la accolgono con un gran baccano. L’ora della preghiera si avvicina: due monaci salgono su una piattaforma suonando grosse conchiglie bianche per richiamare gli altri; indossano caratteristici cappelli a cresta. Fervono i preparativi, si spalancano porte e finestre. Sopraggiungono alla spicciolata i monaci, tra i quali un piccolino con la tunica chiara, molto preso dal suo ruolo. Finalmente iniziano a salmodiare, incluso il bambino, seduti ai banchi e leggendo da fogli contenuti in una cassetta di legno rettangolare. Il monaco più importante (ed opulento) controlla la situazione con aria indifferente, finché si alza per inchinarsi più volte davanti al Budda; passa poi ad onorare le varie divinità degli stendardi, porgendo agli altri monaci una boccetta con qualche profumo. Un monaco muove le mani con movenze serpeggianti, agitando una campanella e un altro strano oggetto. E’ un “professionista”, studia ad Ulaan Batar nell’università buddista del monastero di Ghandam. Sopraggiungono altri monaci tra cui un vecchio con le stampelle; alcuni bambini recano sutra voluminosi dalla forma allungata, avvolti in panni gialli posti tra legni rossi. Il monaco capo convoca Erden per cospargerlo con il latte mentre un anziano s’inginocchia per ricevere un paio di leggere bastonate (chissà cosa avrà combinato!). Il piccolino sembra stancarsi di salmodiare e inizia a giocherellare con i fogli dei libroni; Erden ci spiega che in realtà compie questo gesto perché non sa leggere il tibetano (ha solo sei anni!). Arvaikheer Procedendo verso sud il paesaggio si è fatto molto più brullo: la vasta piana è quasi priva d’erba come anche le montagne in lontananza. Tre macchie lontane sembrano persone ma avvicinandosi si rivelano grossi avvoltoi. Con il binocolo ne riusciamo ad intravedere le forme. Dopo il pranzo al sacco, raggiungiamo la strada asfaltata e alle tre passate siamo ad Arvaikheer, caratterizzato dalla stessa struttura degli altri capoluoghi di aimag, le regioni della Mongolia. La piazza centrale è in realtà una vasta spianata, con l’ufficio postale, il palazzo governativo e retorici monumenti. Nell’immancabile mercato dei container la gente e la merce sembrano più occidentali. Il pulmino ha dato segni di cedimento e necessità qualche riparazione; nell’attesa del suo ritorno ci rifugiamo nell’ufficio postale, collegandoci ad internet apprendiamo le drammatiche notizie degli attentati di Londra. Verso il deserto Lasciamo Arvaikheer puntando verso sud in direzione del deserto del Gobi. Procediamo spediti sulla sterrata, in mezzo ad una steppa piatta e desolata. Il paesaggio si fa più ondulato e su una “cima” troviamo due moto ferme: uomini dai vestiti tradizionali stanno armeggiando su un motore sotto gli occhi di un bambino e nel disinteresse delle donne. Dall’alto le piste di terra si stendono come “guide” parallele in mezzo al nulla. Per la notte ci accampiamo in prossimità di due gher: una è vuota, perfetta per gli ospiti. Non ci sono bambini, la famiglia è formata dal nonno che si muove poggiandosi su due bastoni, pregando con un rosario, dal capofamiglia con la moglie, e da quattro figli, tre maschi e una femmina, tutti adulti. Ceniamo con tagliolini e carne secca. La vita nel Gobi è veramente dura. Durante il giorno il bestiame è lasciato libero ma, mentre cammelli e cavalli continuano la libera uscita anche di notte allontanandosi di chilometri, capre e pecore devono essere “ricondotte a casa”. In assenza di uno steccato (non ci sono alberi) la notte un membro della famiglia deve dormire all’aperto per controllare gli animali, poiché in giro ci sono i lupi. A volte i nomadi sono costretti a seguire il bestiame alla ricerca d’erba da mangiare; lasciano così le gher abbandonate mettendo davanti alla porta dei legni per segnalare la loro assenza, come gli indiani d’America. La famiglia è ospitale: ci aiutano a piantare i picchetti della tenda nel terreno sassoso e mentre scrivo seduto per terra all’ombra della gher nell’attesa delle solite riparazioni al pulmino, mi portano un materassino per stare più comodo. Erden ci spiega il complesso significato di un libretto spiegazzato che hanno con loro: si tratta di un calendario astrologico con tutta una serie di preziose informazioni e consigli per la vita nomade. L’anno è scandito dagli eventi legati alla vita animale: i cuccioli per esempio nascono in primavera e questa stagione è piena di lavoro. Nei branchi di cavalli, cammelli e yak uno solo è il maschio destinato alla riproduzione mentre tutti gli altri sono castrati per evitare “discussioni”. 10 luglio: deserto del Gobi – Bulgan – Bayanzag Rottura del pulmino Dopo la colazione a base di tagliolini in brodo con carne secca, l’autista smonta e rimonta tutta una serie di pezzi del motore e finalmente alle dieci riprendiamo la marcia verso sud. Superata una striscia di montagne, si apre una vasta piana priva di vegetazione, ormai siamo nel deserto. Una buca e il motore si spegne. Insieme al nomade che ci seguiva in moto con la lana di cammello da vendere in paese, smontano ancora il motore (la pompa della benzina?!). Ripartiamo ma dopo un breve tratto ci fermiamo di nuovo. La situazione è critica: Erden decide di farsi dare un passaggio in moto fino al paese successivi per chiamare la manager dell’agenzia. Nell’attesa l’autista continua a trafficare con pezzi del motore mentre Stefania aiuta la moglie del nomade, che aveva anche lei “sfruttato” il passaggio, ad intrecciare una cavigliera per Erden. Dopo un’oretta, il nomade in moto ritorna ma è da solo. L’autista ha rimontato tutto ma anche questa volta riusciamo a fare poca strada e ormai deve arrendersi alla meccanica. Lo sconforto comincia a prenderci, anche per l’impossibilità di comunicare senza l’interprete, quando compare una jeep UAZ con Erden a bordo. Contrariamente ai nostri dubbi, è riuscito a combinare ottimamente la sostituzione: per i prossimi due giorni viaggeremo con una vera jeep russa, fino a Dalanzadgad dove l’agenzia farà arrivare un nuovo mezzo per il resto del giro. Non ci resta quindi che trasferire i bagagli nella jeep e trainare il pulmino in panne fino al paese di Gulchin Us (“Trenta Acque”), dove salutiamo con un certo dispiacere il nostro driver (mancia di 30 euro). Un rapido pranzo nella casa/gher del nuovo autista, dotata di tutti confort (frigorifero, telefono e televisore), una sosta al distributore per il pieno e alle due e un quarto finalmente partiamo alla volta del Gobi. Abbiamo perso mezza giornata ma per come si era messa la situazione possiamo ritenerci fortunati: il pulmino si è rotto a pochi chilometri da un paese e non nel nulla come sarebbe potuto accadere ! Attraverso il deserto Procediamo spediti in un deserto di terra e sassi, fermandoci per un paio d’incontri: un gruppo di cammellini e una cavalla splendida con il cucciolo di pochi giorni dispersi nell’arsura. Finalmente, a rompere la monotonia del paesaggio, ecco comparire una catena montuosa dalla forma strana: sembra di essere in Arizona, mucchi di terra rossa sono sormontati da pareti verticali di rocce. Per passare c’infiliamo in salita tra “dune di sassi”. Riprendiamo a viaggiare tra piatte distese desolate, ammirando un nutrito gruppo di cammelli. Se ne stanno incocciati al sole, seduti per terra e non sembrano per nulla turbati dalla mia vicinanza; sono proprio buffi con le due gobbe e i dentoni che ruotano masticando. Finalmente dopo tanti paesi di dromedari, questa è la volta dei veri cammelli! Peccato che sia estate e siano stati tosati dai nomadi e privati della folta lana. Lungo il tragitto, gli incontri proseguono, incluso un cammello bianco veramente speciale. Durante l’estate i nomadi lasciano liberi i cammelli di cercare gli scarsissimi pascoli, allontanandosi per decine di chilometri, ma le loro carcasse sono numerose ed, infatti, ecco comparire un gruppo d’avvoltoi. Bulgan Alle sette e mezzo improvvisamente sbuca dal nulla il paese di Bulgan. Una grossa tubatura butta un potente getto d’acqua ed è un piacere rinfrescarsi dopo tanta polvere. Insieme con noi un gruppo di cammelli e cavalli (uno bianco è splendido) approfitta del bene prezioso. L’acqua sostiene Erden fa bene allo stomaco ma nel deserto non c’è tanto da andare per il sottile! Bayanzag Roy Chapman Andrews, il paleontologo scopritore dei dinosauri di Bayanzag, scrisse: “La poesia del deserto verrà distrutta. I turisti siederanno in automobili riscaldate, mangiando cibo europeo …”. Il campeggio di Bayanzag sembra confermare il vaticinio: nulla che ricordi le celebri scoperte d’uova e ossa di dinosauro, un assurdo ristorante a forma di tartaruga dove si scoppia di caldo per l’effetto serra delle vetrate mangiando pessimo cibo occidentale. In compenso il fascino del posto è rimasto inalterato. In lontananza si scorge una muraglia di montagne rosse, esaltata dalla luce della tarda serata. Dopo cena, cerchiamo di avvicinarci a piedi ma il tempo è troppo poco. Il sole alle nostre spalle ormai basso sull’orizzonte punta la sua luce sulle rocce rendendole sempre più rosse. Due formazioni isolate più vicine attirano la nostra attenzione: una ripete in piccolo la forma delle mese americane. Lontani dal campeggio, la natura è tornata regina e il triste presagio di Andrews appare ancora lontano. 11 luglio: Bayanzag – Dalanzadgad Naadam Festival Sulla strada per Dalanzadgad incrociamo un minivan Mitsubishi: è il mezzo mandato dalla capitale in sostituzione ed incredibilmente ci siamo trovati in mezzo al nulla. Salutiamo Erden, richiamato ad Ulaan Batar da impegni personali, e l’autista che ci ha accompagnato nel deserto, passando sul nuovo mezzo. Poche centinaia di metri e raggiungiamo l’area della corsa dei cavalli. Oggi è il secondo giorno del Naadam Festival e vicino alla città si tengono le competizioni equestri. Questa mattina è prevista la categoria due anni. In lontananza scorgiamo un gran polverone che si avvicina: i cavalli sono seguiti dalle jeep di locali e turisti. I fantini sono bambini dai 5 ai 13 anni e molte persone al seguito sono loro familiari. I cavalli galoppano, inseguendo una macchina con la bandiera mongola. La corsa è estenuante, lunga decine di chilometri. I fantini bambini indossano vesti colorate e anche molti cavalli hanno la coda agghindata. Prendiamo a seguire la corsa in macchina (in testa c’è un quartetto), portandoci poi al traguardo, un vasto spiazzo alla periferia di Dalanzadgad. In testa sono rimasti in due e il bambino con la casacca rosa nello sprint finale supera quello con la casacca gialla. Toccare il cavallo del vincitore porta fortuna e anche noi rispettiamo la tradizione dandogli una pacca. Il vincitore è proprio piccolino; Nora, la nostra nuova guida, ci dice che ha otto anni, ma come molti mongoli ne dimostra meno. Al traguardo c’è una gran confusione e tutti spingono per avvicinarsi al vincitore; anche per me è emozionante essere così vicino, sicuramente ad Ulaan Batar, dove si svolge il festival più celebrato, non avremmo potuto fare altrettanto! Ci spostiamo allo stadio per la lotta. Fa un caldo tremendo e un lottatore solitario se ne sta impalato nel prato con l’erba alta, nell’attesa dell’inizio. Indossa stivaloni tradizionali con la punta ricurva, slip blu e una maglietta che copre solo le braccia e una parte della schiena. Il petto deve essere nudo da quando tanti anni fa le gare furono vinte da una donna in incognito. Molti uomini gravitano attorno ai lottatori, indossando deel tradizionali. Ci spostiamo nell’area del tiro con l’arco, terzo sport del festival. Una donna con un vestito giallo e stivali con il tacco a spillo sta provando i tiri, insieme con alcuni bambini. Gli arcieri scoccano le frecce da distanze diverse in base al sesso e all’età, e devono colpire dei birilli segnalati da una striscia di bandierine rosse. Finalmente ha inizio la lotta: gli allenatori, con deel viola o blu e medaglie sul petto, si schierano su due file mentre i lottatori compiono una specie di danza girando attorno a loro. Lo speaker sembra invocare i loro nomi. Nel prato gli scontri avvengono contemporaneamente: la coppia in lotta è seguita dagli allenatori (o saranno gli arbitri?) che reggono i cappelli tradizionali dei contendenti. Alcune volte bastano pochi secondi per risolvere la sfida, altre volte lo scontro si protrae con gli allenatori che incitano i pupilli con pacche sul sedere (uno per la verità chiamato sul cellulare durante lo scontro si allontana per conversare). Il vincitore festeggia con la mossa del falcone, ruotando su se stesso con le braccia alzate. Per premio gli spettano dei dolcetti che lancia tra il pubblico, mentre il perdente è eliminato e riceve come premio una caffettiera. Un lungo scontro termina con una mossa repentina e la resistenza del perdente a pochi centimetri dal suolo prima di finire a terra. Il sole incoccia e ci rifugiamo sotto il tendone dello speaker, subito rifocillati dall’offerta di una ciotola di airag. Solo due lottatori sono rimasti sul prato, immobili nella presa attendono il momento propizio per la mossa risolutiva che sembra non venire mai; un breve break e ritornano avvinghiati. Sembra quasi una partita a scacchi! Nel pomeriggio si riparte con gli ottavi di finale. Tutto procede rapidamente fino alle semifinali: la prima termina in un attimo con un colosso con tre cerchi tatuati sulla schiena che atterra l’avversario ma la seconda si trasforma in un lungo balletto con i lottatori che si studiano facendo avanti e indietro. Una momentanea tempesta di sabbia non sembra disturbarli più di tanto. Nel frattempo arrivano due lavatrici destinate a qualche premio. Finalmente i due contendenti iniziano sul serio lo scontro e in pochi secondi tutto finisce. Nell’attesa della finalissima è ora il momento delle premiazioni che si protraggono più di un’ora. Si inizia con gli arcieri, tra i quali ritroviamo la donna di questa mattina e molti bambini, passando poi alle corse dei cavalli. Le categorie sono diverse e quindi i premiati numerosi: maschi e femmine effettuano un paio di giri d’onore con i cavalli, lanciando una specie di grido. Una piccolina cavalca senza sella e anche l’ultimo arrivato della categoria dei cavalli più giovani riceve un premio. I premi sono ritirati da adulti vestiti con deel tradizionali, probabilmente i padri dei fantini. Si accomodano su un tappeto e ricevono una coppa di airag che bevono solo dopo averne spruzzato un po’ in aria. Si scambiano poi alcune boccette che aprono e annusano (contengono tabacco); completato il rituale finalmente ritirano i premi, un tappeto con uno scialle azzurro sopra (come quelli lasciati negli ovoo) e un oggetto d’elettronica (lettore DVD, radio portatile, ecc.), curioso miscuglio di moderno e antico. Siamo ormai giunti al culmine della manifestazione, la finale di lotta. Il gigante tatuato deve affrontare un avversario di stazza minore (non esistono categorie) ma molto tenace: rimangono avvinghiati a lungo ma alla fine la mole ha la meglio. Il “Gobi Camp” si trova a 40 chilometri e questo c’impedirà di tornare in città dopo cena, nonostante alle dieci sia prevista una festa. Restiamo quindi un po’ delusi, poiché per il Naadam ci aspettavamo una folla di gente in costume, in mezzo a bancarelle di prodotti locali, mentre il tutto si è ridotto ad assistere, sia pur da vicino, ad una manifestazione sportiva tradizionale. Al campeggio si potrebbero gustare due piatti tipici mongoli, il khorkhog e il boodog, nei quali la carne viene cotta cucendo all’interno delle pietre roventi, ma dovremmo aspettare fino alle dieci e pagare un extra di cinque dollari. Ripieghiamo quindi sul barbecue ma in realtà ci vengono serviti degli spaghetti con il ragù! Nora non ha ancora capito assolutamente quali sono i nostri gusti e così ha pensato di farci cosa gradita con un piatto italiano. La nostra conversazione in inglese è abbastanza problematica, spesso non ci comprendiamo a vicenda; inoltre è alla sua prima esperienza ed appare abbastanza intimidita. Speriamo bene per la prosecuzione del viaggio anche perché sembra un tipo cittadino mentre noi vorremmo proseguire nell’immersione nella vita nomade. 12 luglio: Dalanzadgad – Yolyn Am – Khongoryn Els Yolyn Am Lasciamo il campeggio per raggiungere in un’ora la valle delle aquile, Yolyn Am. All’ingresso del parco Gurvan Saikhan, insieme a svariati negozi per turisti ospitati in gher, si trova un piccolo museo con un’interessante collezione di animali impagliati. Il deserto e in particolare quest’area montagnosa sono ricchi di animali: possiamo ammirare una coppia di avvoltoi, un’aquila, una lince, un gatto selvatico, una volpe e un lupo, per finire in bellezza con un leopardo delle nevi e un asino selvatico. Interessanti anche lo scheletro e le uova di un piccolo dinosauro. La strada prosegue per una decina di chilometri infilandosi nella valle, fino a raggiungere un parcheggio dal quale si continua a piedi. In giro non si vedono gli annunciati animali, neppure le famose aquile che danno il nome alla valle, ma solo piccoli roditori che scappano veloci di buca in buca. Ne riesco ad individuare due specie: una, con le orecchie più rotonde, simile ad un topo e un’altra, con la coda di pelliccia, che assomiglia ad uno scoiattolo. La valle si fa sempre più stretta trasformandosi in un canyon con il ruscello che scorre tra i sassi, finché dopo una curva improvvisamente compare il ghiaccio! Durante l’inverno il canyon è completamente bloccato e in questo tratto più stretto il ghiaccio resiste ancora. I blocchi si poggiano alle pareti rocciose mentre nel mezzo un ponte congiunge i due lati; per proseguire c’infiliamo sotto camminando carponi. Con i sandali non mi faccio problemi immergendo i piedi nell’acqua gelida. Continuiamo per un altro tratto ammirando le formazioni ma dopo un po’ il passaggio si allarga e il ghiaccio scompare. Due turisti vengono nella direzione opposta: sembrano afflitti, hanno camminato per cinque chilometri senza trovare nessuna parte gelata e la loro guida è molto confortata di sapere che a cento metri troveranno l’agognato tratto non disgelato. Ormai è tempo di tornare indietro, gettando un’occhiata alle ripide pareti rocciose delle montagne nella vana ricerca di qualche aquila volteggiante. Verso le dune Khongoryn Els A mezzogiorno ripartiamo con il pulmino alla volta delle dune di Khongoryn Els, infilandoci in un’altra valle, Dungenee, tra aride e spettacolari montagne rocciose. E’ il momento degli incontri, grazie alla vista d’aquila dell’autista: per primo, tocca ad un raro cammello bianco con due gobbe gonfie, poi ad una femmina di cervo che riusciamo appena ad intravedere in lontananza e infine ad una lince, che se ne sta all’ombra sotto un costone di roccia lungo la pista ma subito fugge al nostro arrivo. All’una inauguriamo la nuova gestione del viaggio per quanto riguarda i pranzi: ci fermiamo su un praticello a fianco di uno dei rari ruscelli e Nora ci cucina, con un fornello da campo, carne in scatola con il sugo. Siamo molto dubbiosi ma il risultato finale è accettabile. Nella scatola fornita dall’agenzia ci sono molte provviste (cinque chili di riso!!) ma Erden, sfruttando la nostra preferenza per il cibo dei nomadi, si era ben guardato dallo sfruttarle. Il picnic è piacevole, provo solo un po’ di pena per la povera Nora che lava e rilava tutto nel ruscello e ci apparecchia sul tavolino che noi pensavamo fosse un’asse di legno da utilizzare nel caso in cui la macchina s’impantanasse! Ripartiti la valle si fa sempre più stretta; camminiamo nel letto del torrente fino ad un passaggio spettacolare appena sufficiente per la macchina. Subito dopo il paesaggio cambia completamente, con un’arida piana sterminata. Vicino ad una gher un primitivo canestro da basket sembra rappresentare l’unico svago possibile, nel nulla più totale. In lontananza il driver ci segnala una gazzella; ci fermiamo per scrutare il grazioso animale con il binocolo. Superata la distesa desertica, raggiungiamo una vallata tre due catene montuose, aiutati dagli abitanti delle varie gher ai quali chiediamo continuamente la strada (Nora però non si azzarda a scendere per via dei cani pastori!). A destra corre una catena di monti rosati mentre a sinistra parallela le fa il paio una di monti neri. Il tempo peggiora e presto il cielo si copre completamente. Comincia a spirare un vento fortissimo sollevando terra e sabbia. Tutto appare nero o grigio: dal cielo di piombo alla pietraia che attraversiamo, fino alle montagne lontane. Finalmente il tempo migliora e i colori si riaccendono. Il paesaggio si fa stupendo. Corriamo tra quattro strisce di colore: a destra il nero dei monti e il verde della prateria nella quale si è trasformata l’arida piana mentre a sinistra la striscia rosa delle dune di sabbia di Khongoryn Els, sovrastate di nuovo dal nero delle montagne più alte. Percorriamo decine di chilometri in questo paesaggio, fissando estasiati l’avorio delle dune illuminate dal sole, quando l’autista si blocca: sull’altro lato ha scorto un branco di khulam, asini selvatici. Sono lontani ma con il binocolo riusciamo a vederli bene; non avrei mai immaginato che degli asini potessero essere così belli! Il loro manto è avorio (come la sabbia) pezzato di marrone, le loro code fluenti e le orecchie naturalmente da asini. Cerchiamo di avvicinarli a piedi ma quando siamo un po’ meno lontani si allontanano di nuovo a distanza di sicurezza. Alle sei e mezzo giungiamo finalmente al campeggio “Discovery Gobi”, gemello di quello di ieri, situato nella piana a qualche chilometro dalle dune. Senza perdere tempo ceniamo ingozzandoci di dumpling, dedicandoci poi ad una passeggiata serale fino alle dune dove ci attende il tramonto. Tramonto sulle dune di Khongoryn Els Stefania e Nora sono due macchioline di colore nella distesa desertica, le gher del campeggio puntini bianchi nella piana desolata; solo una leggera brezza è mia compagna in cima alla duna più alta. Il mare di sabbia sembra una coperta ondulata gettata sulla piana più vasta. Il sole gioca a nascondino dietro una nuvola mentre dall’altra parte le montagne di roccia scura sembrano volere arrestare il volo della mente. Ogni deserto ha il suo fascino e questa striscia, lunga a perdita d’occhio ma larga solo alcuni chilometri, è incantevole. Quale magnificenza è la natura, quale pace può dare un tramonto solitario in un luogo sperduto. E’ tutto un gioco di tonalità delicate: una macchia rosata il cielo al tramonto, una tavola verde l’oasi lontana, una distesa bruna la piana sterminata, un grumo di neri e grigi le montagne e poi il tappeto sabbioso. L’avorio è pennellato da marroni più intensi e linee color crema corrono lungo le onde delle dune. Anche il vento è delicato come se volesse contribuire al dolce inganno di questa terra selvaggia. Ma ecco irrompere una forza: il sole calando trova uno squarcio di sereno per lanciare le sue tinte forti. Riuscirà ad accendere questo sogno soffuso? Mi fermo curioso ad aspettare, con la pazienza che richiede un tramonto nordico. Compare la luna; la falce pallidissima richiama il compagno più forte a non turbare la quiete del paesaggio e questi subito scompare dietro un’altra nuvola. Solo una macchia di giallo rimane più accesa nell’ovatta dei colori, arricchiti ora dalla pallida striscia rosa a ponente. Mi giro dall’altro lato: potrei essere su un pianeta morto dove tutti i colori sono stati banditi eccetto il marrone presente in mille tonalità, un pianeta misterioso ed ugualmente bello. Uno spettacolo così ben costruito non poteva che concludersi con un colpo di scena: il sole tramontando “sorge” dalle nuvole squarciando il cielo e la palla infuocata appare in tutto il suo furore rosso; un paio di nuvolette pennellano nel disco appena due linee. Il cielo s’infiamma, le nuvole prendono fuoco e lo spettacolo è sublime. Il disco infuocato sembra fermarsi sulla linea dell’orizzonte ma poi deve affondare obbedendo a forze più grandi di lei. Non mi resta che lanciarmi in picchiata verso i lontani puntini bianchi delle gher. 13 luglio: Khongoryn Els – Bayanzag Scalata sulle dune Dal campeggio la mattina soleggiata ripete lo spettacolo di ieri pomeriggio: in fondo alla distesa cosparsa di bassi cespugli si staglia la striscia delle dune, dominata dal carbone delle montagne. La sabbia ha assunto la tonalità classica del deserto, un delicato beige spennellato dalle onde di nero delle zone in ombra. Il cielo sgombro di nuvole e la suggestione del deserto sembrano promettere una giornata densa d’emozioni. Effettivamente iniziamo presto, visto che finiamo insabbiati poco dopo: l’autista perde la pista e passando troppo vicino alle dune finisce nella sabbia. La macchina non accenna a muoversi e così non ci resta che dedicarci ad una scalata mentre l’autista va in cerca di soccorso a piedi. Siamo alla fine della lunga striscia di Khongoryn Els e le dune sono diventate vere montagne. L’ascesa è lunga ed estenuante: alcuni tratti ripidi tolgono il fiato, affondo nella sabbia ma alla fine arrivo in vetta. La vista è superlativa, una catena di montagne di sabbia si snoda sotto i miei occhi; nella piana una macchia verde reca i segni della presenza dell’acqua mentre, per il resto, il paesaggio appare bruno e spettrale per il sole frontale già alto. La piana mi sembra stranamente vicina come se allungando una mano potessi toccarla, ma poi guardando in basso la parete di sabbia quasi verticale ristabilisco le giuste distanze. Il pulmino in lontananza è piccolissimo e grazie all’aiuto di un altro mezzo è stato disincagliato dalla sabbia. Il silenzio è totale; la cresta della duna sembra la riga sottile di un pantalone stirato. E’ tempo di lasciare la cima e lanciarsi per la picchiata: infagotto macchina fotografica, sandali e quaderno nello zaino e mi preparo per la discesa. Nel primo tratto affondo fin quasi alle ginocchia e la sabbia risponde con un suono cupo (non per nulla mi trovo sulle “dune suonanti”). I tratti soffici si alternano a quelli più duri ed è una vera goduria dopo la fatica della salita. Raggiunti Stefania e i due accompagnatori che mi aspettavano più in basso, ci sdraiamo sulla sabbia per un momento di relax. Con il pulmino torniamo indietro fino all’oasi osservata dall’alto. Un gregge di pecore e capre dalle lunghe corna si abbevera nel ruscello. Passiamo un ponticello di legno e siamo in un’area di verde intenso, incredibile qui nel deserto. La striscia della prateria è popolata di cavalli dagli splendidi manti; molti puledri seguono da vicino le loro mamme. In alcuni punti, forse grazie alla pioggia di ieri, c’è un vero acquitrino. Il contrasto tra il verde dei prati e l’oro delle dune mi sorprende. Raggiungiamo una gher “super tecnologica”, con trattore e antenna parabolica all’esterno, televisore con videoregistratore all’interno. L’effetto del turismo si sente: ci offrono la possibilità di un giro in cammello (3000T a testa per un’ora) e non resistiamo a soddisfare la nostra curiosità. Nell’attesa del ritorno dei cammelli, impegnati con altri turisti, ci offrono il dried curd, una specie di formaggio dolce essiccato al sole, molto saporito. Ma ecco che il lato commerciale ha la meglio e compaiono una serie di oggetti in vendita: anche questa volta cediamo alla tentazione acquistando una borsetta di lana di capra, una gher e un topolino in miniatura (7000T). Nel frattempo i cammelli sono arrivati: si accovacciano per farci salire, sollevandosi quindi sulle zampe posteriori (momento critico nel quale si rischia di scivolare in avanti) e poi su quelle anteriori. Stefania è un po’ gelosa del mio che ha entrambe le gobbe sollevate, mentre il suo ha una gobba completamente floscia. La passeggiata è tranquillissima, con i cammelli condotti al guinzaglio da due bambini. Da vicino sono veramente buffi, dei dinosauri in miniatura: il testone con gli occhi prominenti dalle lunghe ciglia, il collo lungo e le incredibili zampe con due dita suggeriscono a Stefania un tacchino gigante. Verso Bayanzag Dopo il pranzo al campeggio, lasciamo le dune costeggiando da nord la catena di montagne che ieri avevamo seguito da sud, dopo averle superate in un bel paesaggio di rocce. La pista a saliscendi ci porta ad un punto panoramico dove la vista si apre ampia: il giallo di sfondo si arricchisce con le macchie verdi dei prati e rosse delle montagne, mentre la pista “multi corsia” serpeggia nel mezzo. Alle sei siamo a Bulgan, già attraversata all’andata. In viaggio quando ripasso per un posto già visitato, mi sento un po’ come se tornassi a casa, ritrovando la familiarità dei luoghi conosciuti. Rivediamo la costruzione del “riscaldamento centralizzato di quartiere”, retaggio di un’epoca di collettivizzazioni, e il recinto coltivato, uno dei pochi incontrati in Mongolia. Un basso e lungo edificio ospita un “centro commerciale”. Davanti un gruppo di ragazze siede chiacchierando e risponde con sorrisi al mio saluto. All’interno i negozi sono stanze aperte su uno stretto corridoio (tipo celle di una prigione) e hanno un po’ tutti le stesse cose. Bayanzag I monti di Bayanzag si ergono come alte scogliere sul mare della prateria. Dall’alto scorgiamo, lontanissimo, il campeggio con la tartaruga ristorante di qualche giorno fa. La montagna sta franando, sfaldandosi in una sabbia dal colore dell’argilla, ma oggi è tutta una serie di rientranze, anfratti, faraglioni isolati, colonne sormontate da rocce più dure. L’argilla forma macchie di colore dalle varie tonalità mentre davanti la prateria da una sensazione di vuoto come se qualcuno avesse portato via le acque del mare. Fu proprio qui che Andrews trovò i suoi dinosauri. Tramonto a Bayanzag I nostri accompagnatori scelgono un posto scenografico per la notte: ci accampiamo in un’area sabbiosa di verdi cespuglietti, sotto un basso “muretto” d’arenaria. Sullo sfondo, lontano, il rosso muraglione di Bayanzag e più avanti a racchiudere quest’oasi di verde una linea di formazioni arancione. La luce della sera rende tutto più caldo, fino all’arcobaleno che sorge su Bayanzag. Il sole tramonta nella direzione opposta e le nuvole allungate fanno sembrare il cielo ancora più basso. L’isolata formazione della scorsa visita sembra un’auto con rimorchio parcheggiata nella distesa bruna. Le nuvole sopra la scogliera si accendono di rosso. Una gomma del minivan è a terra e l’autista dopo averla sostituita decide di recarsi al campeggio per cercare di ripararla. Sono le dieci di sera e dopo mezzora fa buio. La povera Nora ha tutte le sue cose in macchina mentre le scatole con il cibo sono rimaste a fianco della tenda. Alle undici c’infiliamo tutti e tre nella tenda, preoccupati che qualche animale sia attratto dal mangiare. I rumori della tenda agitata dal forte vento ci fanno temere che qualcuno sia nelle vicinanze ma finalmente alle undici e mezzo l’autista si ripresenta in tutto il suo candore. Il cibo è intatto e, tranquillizzati, dopo un tè caldo, ci ritiriamo nuovamente nella tenda. Nora e l’autista dormono in macchina. 14 luglio: Bayanzag – Saikhan Ovoo In viaggio verso nord Alle sei e mezzo il vento, che ci aveva concesso una tregua per tutta la notte, si scatena di nuovo. La tenda si agita ed è impossibile dormire ma è l’unico posto riparato perciò resistiamo al suo interno per altre due ore. Alcuni picchetti sono saltati ma la struttura per fortuna ha retto. Per ripararci dal vento, facciamo colazione all’interno della macchina e alle nove e mezzo partiamo diretti verso nord. In mezzo al deserto un pozzo ha consentito ad una famiglia di coltivare un’incredibile varietà di verdure! In una grigia distesa di sassi è curioso trovare una macchia colorata di barbabietole, carote, patate, cipolle e cavoli. Il capofamiglia possiede una moto fiammeggiante mentre vicino alla gher campeggia un’antenna parabolica. Poco lontano c’indica i ricoveri per l’inverno. Nora è una vera donna di città: non è mai stata a cavallo e tanto meno su un cammello. Al nostro primo incontro il suo volto bianco mi aveva fatto pensare ad un lungo viaggio nella polvere ma poi ho scoperto che si trattava del trucco, rinfrescato tutti i giorni per evitare l’abbronzatura. Verso mezzogiorno avvistiamo il paese di Mandal Ovoo ma proseguiamo oltre lungo una pista dritta e piatta, toccando la folle velocità di cento chilometri orari. All’una deviamo, puntando verso un gruppo di gher; suggerisco a Nora di pranzare da loro ma prima non capisce (sarà per l’inglese o per l’assurdità della richiesta?!), poi mi risponde che lei deve cucinare per noi perché così le ha detto la manager. A nulla vale spiegarle che con la guida precedente spesso pranzavamo dai nomadi. Raggiungiamo un fiumiciattolo con una striscia di prato. Mucche e vitellini pascolano e si abbeverano tranquilli mentre Nora prepara il pranzo, lavando nel fiume i coperchi delle pentole, le scatolette di carne e pesce, i bicchieri e ogni cosa le capiti sotto tiro. L’autista invece approfitta del fiume per pulire il minivan, ormai ricoperto di polvere. Il posto è in ogni caso piacevole per un picnic considerando che siamo in mezzo al deserto; spira anche un gradevole venticello. Dopo un’ora di preparazione il risultato finale è una pasta stracotta, senza sale, condita con carne in scatola dall’aspetto di cibo per cani. Il pasto è immangiabile, anche per l’autista, e ripiego sul pane con la marmellata. Segue un’altra ora per “sparecchiare”, lavare le pentole e bollire l’acqua del fiume per il tè. Aiuto! Per tornare sulla pista principale ripassiamo davanti alla gher dei nomadi, proprio mentre una giovane è intenta alla mungitura delle cammelle. Tre piccoli sono legati ad una corda e solo una mamma alla volta può avvicinarsi al figlioletto in modo che, durante l’allattamento, la donna possa mungerla stando dall’altro lato. Una bambina, dai lunghi capelli e occhi che sono due sottili fessure, tiene lontane le altre cammelle. La mungitrice c’invita nella gher per assaggiare il latte appena munto mentre compaiono altri cinque bambini e la nonna (gli uomini invece sono assenti). Nora ci concede appena una decina di minuti, avvertendoci di assaggiare soltanto lo yogurt di cammello che ci viene offerto (buono!) perché potrebbe farci male. A nulla vale l’osservazione di Stefania che non è la prima volta che mangiamo cibo dai nomadi e quindi siamo vaccinati. Per sdebitarci regaliamo caramelle ai bambini, merendine alla giovane mamma (?) e sigarette alla nonna. Saikhan Ovoo Nei pressi dei campi turistici di Saikhan Ovoo raggiungiamo il monastero di Ongiih Khid. Il complesso fu distrutto dai comunisti e oggi non rimane che qualche muro delle antiche costruzioni, sulla sponda di un fiume quasi asciutto in mezzo ad un paesaggio di montagne rocciose. Un tempio è stato ricostruito e nell’edificio moderno ritroviamo gli strumenti per la preghiera poggiati sui banchi, insieme a sutra avvolti in panni. Due gher ospitano un piccolo ma interessante museo con oggetti usati in passato dai monaci per la vita quotidiana e la preghiera. Tra i tanti mi colpiscono un trapano manuale e una mazza per le punizioni (simboliche) come quella osservata al monastero di Shank. Evitando la zona dei campeggi, piena di spazzatura, ci accampiamo vicino al “Saikha Gobi Ger Camp”, ad una decina di chilometri di distanza. Scegliamo un prato confortevole, cenando con il risotto alle verdure liofilizzate già sperimentato ieri, in compagnia di un cane che aspetta pazientemente accucciato la sua razione. Dopo cena la luce del sole basso in cielo esalta il verde del prato su cui siamo accampati, con una montagna sassosa, il campeggio e una gher che ci circondano sul lato opposto al fiumiciattolo. Il cane, dopo avere girovagato un po’, si accuccia nei paraggi come se volesse farci la guardia per la notte. La giornata non è stata esaltante e questo tragitto di ritorno verso Ulaan Batar sembra costruito male. La serata tranquilla e fresca in compenso giunge gradita dopo il caldo e le fatiche dei giorni scorsi; anche il vento ci concede una pausa senza molestare la nostra tenda come in tutte le altre occasioni.

15 luglio: Saikhan Ovoo – Erdene Dalai – Dhuut Khad – Campeggio Ancora verso nord Il paesaggio monotono m’induce a qualche riflessione. I viaggiatori (o i turisti, secondo la propria vocazione) si dividono in due categorie, coloro che vogliono insegnare la propria lingua ai locali e gli altri che cercano di imparare qualche frase nella lingua locale. Ieri sera ci siamo divertiti un mondo a “conversare” in mongolo con Baira, il nostro autista, grazie all’ausilio del frasario della Lonely Planet. Monastero di Ertene Dalai Il monastero di Erdene Dalai è splendido, si è salvato perché utilizzato come magazzino durante il comunismo. La vasta sala interna tutta in legno è una selva d’alte colonne rosse che sorreggono un tetto spiovente di travi blu. L’atmosfera trasuda antichità mentre i monaci siedono nell’attesa della preghiera. Grossi tamburi agganciati a corde poggiano su colonne mentre un carretto è parcheggiato in un angolo. Sono le undici quando i monaci iniziano a salmodiare, fermandosi però subito per la colazione a base di biscotti confezionati, intinti nelle ciotole con il latte. Un vecchietto lucida una serie di piccoli calici d’ottone ma presto anche lui richiede la sua razione di airag. Ai piedi indossa pesanti stivali dalla punta ricurva. L’esterno del monastero ha l’aspetto di un tempio cinese, con un porticato e il tetto di tegole, questa volta non lucenti. Le travi di legno sono dipinte con motivi geometrici, sopra la porta, immancabile, la ruota del Dharma con le due gazzelle. Terminata la colazione, i monaci si dividono i fogli di un sutra e iniziano a salmodiare a bassa voce mentre il vecchio strabico riprende l’attività di lucidatura. La preghiera prosegue un po’ a rilento con frequenti interruzioni per il passaggio dei fogli che avviene in modo alquanto confuso (come faranno poi a ricomporre il libro?). Un lama dietro una scrivania funge da cassiere per le offerte. Nora consegna dei soldi e riceve indietro un bigliettino. Lasciamo il tempio, con i lama impegnati nella preghiera con ritmi molto “rilassati”! Confusione nella toponomastica I nomi dei posti riportati nella Lonely Planet, vecchia di qualche anno, sono cambiati e questo crea un po’ di confusione. Il monastero di Erdene Dalai si chiama ora Sangiin Dalai da non confondere con l’omonimo lago che non è previsto dal programma e quindi non possiamo visitare. Analoga confusione tra le rocce suonanti di Dhuut Khad (50 chilometri da Erdene Dalai), legate al nobile Tsogt Taji discendente di Gengis Khan, da non confondere con Tsgot Taji Chulu dove si trovano iscrizioni rupestri legate alla stessa persona, riportate nella Lonely Planet. Rocce suonanti di Dhuut Khad A Dhuut Khad grossi macigni si ergono nella campagna; uno reca un’iscrizione in caratteri mongoli (dall’alto in basso) risalente al seicento anche se il suo aspetto perfetto è alquanto sospetto. Le rocce, addossate una alle altre, sono chiamate “pietre suonanti” perché percosse con un sasso emettono un suono metallico, tipo campanella. Il sito non merita la lunga deviazione. Ci fermiamo nei paraggi per l’ennesimo assurdo picnic sull’erba. A pochi chilometri una famiglia di nomadi ha appena traslocato con un camion e qualche gher ancora deve essere montata. Campeggio nel nulla Alle cinque arriviamo al “Middle Gobi Camp”, situato in una piana in mezzo al nulla sotto un sole cuocente. L’unica attività possibile per il resto della giornata è la doccia. Una giornata molto deludente termina “degnamente” con una discussione. Domani il programma prevede l’arrivo ad un altro campeggio a quaranta chilometri da Ulaan Batar e nient’altro. Queste ultime giornate si stanno rivelando una beffa: non pensavamo che il programma inviato per e-mail andasse preso alla lettera ma invece è proprio così e se non è previsto nulla non si fa nulla! Ad una quindicina di chilometri dal campeggio di domani si trova un monastero in un parco; proponiamo quindi di partire presto in modo da poterlo visitare (dobbiamo percorrere 240 chilometri). Ci viene risposto che non è previsto e quindi non possiamo vederlo. Stefania, più diplomatica, propone di pagare la deviazione e alla fine ci accordiamo per fare colazione alle sei e mezzo in modo da partire alle sette, invece che alle nove come proposto da Nora. Domani poi si vedrà il da farsi. 16 luglio: Zuunmod – monastero di Manzshir – Undur Dov In viaggio verso Zuunmod Partenza alle sette come stabilito. Viaggiamo verso nord in un paesaggio monotono senza mai attraversare “insediamenti umani”. Unico avvenimento l’ennesima foratura di una gomma. A metà mattinata cambiamo aimag, passando nel Tov la regione che circonda la capitale. Il paesaggio diventa verde e compaiono numerose mandrie di cavalli. Finalmente ci viene concesso di visitare una famiglia di nomadi. Ci accolgono al solito calorosamente, offrendoci airag e formaggio. E’ il momento della mungitura delle giumente. I puledri sono nella fase dello svezzamento e durante il giorno sono tenuti legati, lontani dalle madri. Al momento della mungitura viene sciolto un puledro alla volta ma quando si avvicina alla madre un bambino lo trattiene e una donna le prende il latte! I bambini si divertono un mondo nell’operazione ma ogni tanto qualche puledro sfugge alle loro grinfie, allontanandosi con la mamma. Nel tentativo di scappare uno di loro cade rovinosamente a terra inciampando in una corda tesa: non ha ancora imparato a saltare! Ripreso il viaggio, all’una e mezzo ci fermiamo per il momento delle decisioni: da una parte si va al campeggio di Undur Dov, dove dovremmo passare confinati il resto della giornata, dall’altra a Zuunmod, capitale dell’aimag, distante cinque chilometri dal Manzshir Khid nel parco di Bogdkhan Uul. L’estensione richiesta secondo l’autista comporta un allungamento di 50 chilometri (ma leggendo la Lonely Planet la stima mi pare esagerata) e quindi deve chiedere l’autorizzazione all’agenzia. Nora parla con una collaboratrice di Nyamaa, la manager, e ci annuncia contenta che abbiamo l’autorizzazione ma naturalmente dobbiamo pagare un extra di 15.000T a causa dei 50 chilometri in più. Raggiungiamo Zuunmod dove l’autista lascia la ruota squarciata da un gommista, circostanza che mi lascia pensare che avrebbe dovuto in ogni caso passare in città. Monastero di Manzshir Il parco di Bogdkhan Uul si trova in una valle a pochi chilometri dalla città. Dobbiamo pagare 5000T a testa per l’ingresso e la visita del museo. Nel prato davanti al parcheggio consumiamo il pranzo al sacco, ansiosamente atteso dall’autista e alle due e mezzo finalmente iniziamo la visita con Nora alle calcagna. Il parco si estende in una vallata circondata da montagne parzialmente coperte da una foresta. Nell’area sorgeva il monastero di Manzshir, distrutto al solito dai comunisti; solo uno dei templi è stato ricostruito. Per primo raggiungiamo il museo; nel prato davanti si trovano numerosi steli con figure umane abbozzate (turche secondo Nora?!) e un grande calderone in bronzo da due tonnellate utilizzato dai monaci per cucinare. Il museo ospita una collezione di animali impagliati che vivono (o vivevano) in zona. Impressionanti per dimensioni un cervo e due avvoltoi. Davanti alla montagna che chiude la valle, in un paesaggio di grossi macigni sparsi qua e là, sorgeva il monastero. Il tempio principale è ormai ridotto allo scheletro delle murature, mentre l’edificio a fianco di legno è stato ricostruito. Ospita interessanti foto del complesso prima della distruzione e tre splendide maschere tsan tra le quali mi colpisce quella di un vecchio canuto. Dietro il tempio sulla montagna si trovano alcuni bassorilievi rupestri raffiguranti Budda e santoni, raggiungibili con un percorso da capre tra i macigni. La giornata nuvolosa, la spazzatura in giro e l’affollamento di turisti al quale non siamo più abituati, rendono comunque meno gradevole la visita della valle. Campeggio di Undur Dov Tornati a Zuunmod, dopo una sosta per telefonare e collegarci ad internet, ci dirigiamo al campeggio di Undur Dov. Lasciamo la strada asfaltata e con quattro chilometri di pista arriviamo a destinazione, al “Gobi Mon Tourist Camp”. In tutto dal monastero non avremo percorso nemmeno 15 chilometri (i cartelli stradali in caratteri latini non lasciano dubbi) e quindi sottolineiamo la cosa a Nora. Nasce una nuova discussione con l’autista che insiste con la storia dei 50 chilometri, mentre Nora vuole ridarci i soldi. Naturalmente rifiutiamo dicendo che sono da considerare per il “lavoro” extra ma che non ci piace essere presi in giro. 17 luglio: Ulaan Batar In giro per la capitale Ultimo giorno in Mongolia dedicato integralmente alla visita di Ulaan Batar. Alle nove e mezzo, dopo un’ora di macchina, siamo in città nell’edificio vicino al Sandwich Hotel dove tutto ebbe inizio. Una collaboratrice di Nyamaa ci porta le chiavi, accompagnata da Erden che riprende il suo ruolo di guida. Salutiamo quindi Nora che dopo le discussioni dei giorni scorsi regala a Stefania come segno di pace un panno di feltro a forma di gher, arricchito da pietre. Ci lascia anche la sua e-mail in modo che possiamo inviarle qualche foto digitale. Ci scaricano nella piazza centrale della città dedicata a Sukhbaatar, eroe della rivoluzione comunista; finalmente possiamo girare a piedi, scortati naturalmente da Erden. La piazza ha il classico aspetto dell’urbanistica comunista: un’immensa spianata, recentemente lastricata a nuovo, al centro il monumento dedicato a Sukhbaatar e intorno gli edifici pubblici più importanti in stile neoclassico. Tutto il lato settentrionale è dominato dall’imponente palazzo grigio del Parlamento, davanti al quale sorge il mausoleo dedicato a Sukhbaatar. Poche centinaia di metri ci portano al Museo di Storia Naturale, famoso per la sua collezione di dinosauri. L’esposizione su tre piani è imponente e copre i vari aspetti della natura mongola, dalla geologia ad un’enorme collezione di animali impagliati che ci consente di rivedere tante specie incontrate durante il viaggio e altre più sfuggenti che non abbiamo visto (come il leopardo delle nevi). Sicuramente la sezione più interessante è quella dedicata ai dinosauri: lo scheletro di un enorme carnivoro, il Tarbosauros, campeggia con la sua mole nella sala principale, richiamando le scene di “Jurassic Park”. Oltre al gigante, sono presenti scheletri di dinosauri più piccoli e molte uova. Sorprendente il ritrovamento di due dinosauri in combattimento: un Protoceratopos e un Velociraptor avvinghiati da 80 milioni d’anni in un combattimento mortale. Si passa poi alla sezione dedicata ai grandi mammiferi estinti, anche questa impressionante per le dimensioni di ossa e zanne di mammut. Attraversando di nuovo la piazza verso sud, raggiungiamo il monastero di Coijin Lama, salvato dalla distruzione da parte dei comunisti perché trasformato in museo (risale agli inizi del novecento). Davanti al complesso sorge la “porta dei venti” già incontrata nel monastero di Amarbayasgalant mentre nel tempio principale ammiriamo le splendide maschere tsan. Una figura completa con una veste ricca di disegni, inserzioni di metallo e collane, presenta una maschera tutta di corallo rosso dal peso di trenta chili. Gli stivali recano altre collanine di corallo bianco con la solita punta all’insù tipo proboscide. Le altre maschere sono tutte molto colorate, con corone di teschi, un occhio al centro della fronte e bocche aperte dalle quali spuntano canini pronunciati. Altrettanto belle sono le sculture in oro e bronzo: una ritrae il famoso Zanabazar, un’altra fantastica opera proprio del primo lama mongolo rappresenta un uomo e una donna avvinghiati nella posizione della meditazione (?!) denominata Demchigca Rav. Una curiosa pittura naif rappresenta l’inferno con i dannati avvolti nelle fiamme, divorati dai corvi, bolliti da demoni, fatti a pezzi, reincarnati con corpo di capra, ecc. Nella seconda sala prosegue la collezione di statue, alternando demoni arrabbiati a lama meditativi, mentre sul soffitto curiosi dipinti rappresentano pelli, teste con occhi fuori delle orbite e gambe umane, tutti stesi su un filo. Nel complesso si trovano alcune gher negozio dove facciamo un po’ di acquisti (si riveleranno le più convenienti ma ancora non lo sappiamo). Per pranzo vorremmo provare un locale mongolo ma in realtà tutto è già organizzato e quindi non ci resta che raggiungere un ristorante per turisti a due passi dal monastero, il “Khaan Brau”, dove assaggio il montone che Nora aveva sempre evitato ritenendolo troppo grasso. Finalmente raggiungiamo i grandi magazzini statali che ci sono stati consigliati sin dall’inizio del viaggio per gli acquisti. L’ultimo piano è dedicato ai souvenir per turisti; effettivamente la scelta è ampia (violini, scacchi, selle, deel, dipinti, ecc.) ma i prezzi sono alti (inclusi i capi di cachemire) e così usciamo a mani vuote con un certo disappunto. Proseguiamo nello shopping in cerca di qualche soluzione alternativa ma senza successo. Ritornati in piazza raggiungiamo la statua di Lenin davanti al lussuoso Hotel Ulaan Batar. Fa un caldo notevole e ci sediamo un po’ nei giardini, per poi riprendere lo shopping. Erden sembra preferire i grandi negozi, differentemente dai nostri gusti; per caso passiamo davanti ad un negozietto dove finalmente riusciamo ad acquistare un piccolo violino souvenir, il tipico moriin khuur con la testa di cavallo e le corde di crini di cavallo. Al “Mongolian National Song of Dance” assistiamo ad un interessante spettacolo di danze in costume e musica tradizionale. Sul palcoscenico si alternano balli scatenati, sul tipo di quelli cosacchi (?), e canti tradizionali, long song femminili e impressionanti canti di gola maschili. Due bambine compiono le “solite” contorsioni mentre quattro personaggi con maschere tsan si muovono danzando attorno a loro: ritroviamo il vecchio canuto con il bastone e il mostro con la faccia di corallo rosso (molto affascinante!). La parte finale dello spettacolo è tutta orchestrale, con tanto di direttore, ma gli strumenti sono quelli tipici della Mongolia: violini con testa di cavallo, suonati poggiati tra le gambe, insieme alla loro versione più grande tipo contrabbasso, arpe mongole (lunghi strumenti a corda), corni, una specie di mandolino molto lungo e altri ancora. I musicisti indossano costumi tradizionali, differentemente dalle nostre seriose orchestre di musica classica, mentre i pezzi eseguiti sono locali oppure classici occidentali che ascoltiamo incuriositi vista la differenza di strumenti. Lo spettacolo mi è piaciuto molto, nonostante sia concepito per i turisti. Per l’ultima cena, ci portano all’Hotel Mongolia alla periferia della città. Il complesso di recente costruzione riprende la reggia di Kharakorum: all’interno di un quadrilatero di mura, l’edificio centrale ospita il ristorante mentre, tutto intorno, le gher in cemento sono destinate agli ospiti (un panno bianco cerca di celare la loro modernità). Nel cortile una fontana sormontata da un angelo riproduce il monumento dell’antica capitale, opera di un francese, anche se i quattro draghi sputano acqua invece che vino, latte, birra e una bevanda ricavata dal miele, come si racconta facesse l’originale. La scenografia è splendida ma la cena sicuramente non all’altezza con un servizio di una lentezza snervante. Considerazioni su Ulaan Batar Abbiamo trascorso un’intera giornata ad Ulaan Batar e dopo tanto tempo nel countryside non è stato facile riabituarsi ai ritmi di una città di un milione d’abitanti. Il centro è fatto di grossi stradoni e appare abbastanza pulito e ordinato. Le parti residenziali attraversate in pulmino mi sono sembrate migliori rispetto a quelle delle altre città, specie alcuni quartieri di basse casette. Tuttavia la realtà non deve essere così rosea come appare all’occhio superficiale del turista: migliaia di bambini orfani vivono per strada rifugiandosi nel sottosuolo durante il tremendo inverno, i salari sono bassi, anche se la situazione sta migliorando dopo il periodo di crisi seguito al crollo del comunismo. 18 luglio: Ulaan Batar – Pechino Arrivederci Mongolia Il volo per Pechino fissato alle 7:30 ci costringe a una levataccia. Alle cinque troviamo il pulmino ad attenderci davanti al portone, con l’autista ed Erden che dormono dentro. All’aeroporto salutiamo con mancia i nostri accompagnatori. Un volo di due ore è sufficiente per farci cambiare completamente mondo, passando dalla spopolata Mongolia al caos di Pechino, dove ci attende un’altra settimana di viaggio, ma questa è un’altra storia …



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