Mompracem vivrà

Da Singapore a Malacca a Kuala Lumpur, volo a Kota Bharu e riposo a Perhentian, per concludere a Kuching nel Borneo
Scritto da: Vertical
mompracem vivrà
Partenza il: 10/07/2012
Ritorno il: 29/07/2012
Viaggiatori: 2
Spesa: 2000 €
Puntuale come tutti gli ultimi anni, eccomi qui di ritorno dalle vacanze e buttare giù con word qualche impressione sul viaggio finito da poco. Questa volta però la voglia di mettermi a ricordare i giri fatti, le emozioni provate e i luoghi visitati era meno stringente del solito.

Ricordo l’anno passato in Mexico, e soprattutto il viaggio di nozze negli USA, che non appena rientrato, tanto era il desiderio di fissare sulla carta le esperienze vissute, da farmi cominciare a scrivere già il giorno dopo essere arrivato in Italia.

Questa volta invece è passato un mese e comincio solo ora ad organizzare le idee.

Perché?

Io credo che alla fine dipenda proprio da tipo di viaggio che abbiamo fatto, e da un aspetto in particolare su cui anche io e mia moglie abbiamo discusso già mentre eravamo via: il fatto cioè di aver visitato questa volta un mondo ( ambiente e persone) talmente diverso dal nostro da non essere alla fine riusciti a “fonderci” con esso.

La sensazione quindi è quella di non esserci addentrati fino in fondo nel modo di vivere, nei luoghi e nelle usanze della Malesia, ma di esserci semplicemente aggirati all’interno di essa come se ci trovassimo in un museo: osservatori esterni certamente interessati, ma non del tutto partecipi.

Negli altri viaggi fatti (USA, Mexico, Grecia ecc. ecc.) alla fine pur con i dovuti paragoni avevamo infatti sempre visto un mondo “occidentale”, e spesso aggiungerei anche “latino”, quindi non così distante da noi. Potevamo valutare gli atteggiamenti, capire e confrontare i modi di vita senza esserne troppo disorientati. La Malesia invece è un qualcosa di completamente diverso, variegato e multietnico con cui è molto difficile mettersi in contatto.

Da questo punto di vista il viaggio si è dimostrato riuscitissimo, perché la meta la avevamo scelta proprio per andare “per una prima volta verso est” e vedere qualcosa di diverso, ma pur avendo visitato luoghi straordinari e aver girato in lungo e in largo città, quartieri e foreste temo che per i motivi di cui sopra il paese non ci sia “entrato nel cuore” come accaduto invece in altri casi.

Come al solito da questo report non aspettatevi liste di alberghi, ristoranti e prezzi vari, quanto piuttosto esperienze e sensazioni: questa non è una guida ma piuttosto un diario di viaggio, ma già credo lo avevate intuito da questa lunga intro…

Credo comunque che parecchie info interessanti le troverete ugualmente, ma solo avendo la pazienza di leggere tutto.

Partendo brevemente dalla logistica, come al solito tutto il viaggio lo organizzo io in autonomia prenotando tutto su internet, dal volo agli alberghi ai trasporti interni; con l’unica differenza rispetto agli altri viaggi che non sapendo bene cosa aspettarsi e prevedendo diverse tappe abbastanza precise, decido di prenotare tutti gli alberghi direttamente dall’Italia, anche se a posteriori probabilmente non sarebbe stato un problema decidere di giorno in giorno.

Quanto alle tappe, alla fine se non si hanno mesi di tempo a disposizione sono abbastanza obbligate; prendiamo comunque come spunto un report di viaggio presente proprio qui su Tpc che ci trova molto vicini come “stile” e optiamo per un tour circolare: Volo su Singapore – Bus fino a Malacca – Bus fino a Kuala Lumpur – Volo a Kota Bharu – trasferimento a Perhentian Besar Island – Volo a Kuching – Volo a Singapore e rientro in Italia, per un totale di 20 giorni.

Decidiamo di volare a Singapore con Air Qatar, scalo a Doha, nulla da eccepire al riguardo sempre puntualissimi, anzi di solito in anticipo, ed aerei nuovissimi, ai prezzi migliori che ho trovato in rete.

Arriviamo a Doha all’imbrunire e vediamo dai finestrini gli innumerevoli pozzi petroliferi e le torri di estrazione svettanti nel deserto con il loro pennacchio di fiamme perenni, un panorama infernale molto suggestivo.

Sbarchiamo per lo scalo e mentre aspettiamo la coincidenza vediamo aggirarsi tutti gli autoctoni con il tradizionale dishdasha: lo so che sembra idiota come cosa ma qui da noi quel vestito si vede solo a carnevale e faccio fatica a convincermi che non si tratta di gente in costume che va ad una festa; riesco a stento a trattenere la Livia dal fotografarli tutti.

Giungiamo a Singapore dopo le canoniche 16 ore di viaggio e la prima impressione con questa “Svizzera d’oriente” non delude le aspettative; l’aeroporto Changi è magnifico, probabilmente il più bello tra tutti quelli su cui siamo passati, non per nulla è stato votato come miglior aeroporto al mondo dietro solo a quello di Seul: con pareti di piante pensili, cascate e marmi policromi ovunque.

Sbrighiamo rapidamente le pratiche di immigrazione, in cui non possiamo fare a meno di sorridere alla domanda relativa l’importazione di oggetti pericolosissimi quali: armi, stupefacenti…chewingum… essì, a Singapore sono illegali, non li vendono ed è vietata l’importazione anche ad “uso personale” ( ed in effetti a terra non se ne vedono).

Prendiamo il treno veloce per il centro e smontiamo dalle parti di Little India dove abbiamo prenotato l’albergo (Hotel 81 Dickson) nella ricerca di contenere un po’ i costi in questa città che per dormire non è affatto economica. La zona è piuttosto selvaggia, e per la prima volta durante un viaggio notiamo che a differenza di altre città del mondo, quando scrivono “little india” oppure “chinatown”, non si tratta di quartieri turistici con solo negozietti a uso e consumo dei viaggiatori.

Singapore così come la Malesia sono infatti un crogiuolo di lingue, culture e religioni diverse ben amalgamate tra loro e quindi quando si entra a Little India pare a tutti gli effetti di essere veramente in India.

Depositiamo bagagli in camera e senza farsi prendere dalla tentazione di un riposino usciamo immediatamente in giro per Little India anche se siamo in viaggio da più di 24 ore e il fuso si fa sentire.

Visitiamo tutta una serie di templi Induisti magnifici con la caratteristica torre scolpita con le immagini coloratissime dei diversi protagonisti della religione Indù. Per entrare nel tempio è necessario togliersi le scarpe ed entrare scalzi: dentro ci sono i diversi altari con i sacerdoti addetti alle funzioni che si susseguono senza soluzione di continuità, i fedeli portano in dono le caratteristiche corone di fiori freschi e piatti di cibo presso le statue a volte mostruose dislocate negli altari che si aprono nelle pareti del tempio. Noi ci sentiamo quasi fuori posto a girovagare palesemente da turisti in questo susseguirsi di riti, ma i sorrisi che riceviamo ci convincono che la nostra presenza curiosa non li disturba. In un altro tempio assistiamo ad una strana processione con canti e balli ossessivi mentre tutti i partecipanti ondeggiano da una parte all’altra della sala principale all’inseguimento della statua del dio che viene portata a spalla dai fedeli; sarà la stanchezza del viaggio o il fatto di essere catapultati nel giro di poche ore in un ambiente così diverso dal nostro ma siamo piuttosto disorientati dal mondo in cui siamo capitati. Entriamo anche al Mustafà Center, un cubo di negozi assolutamente invaso di merci di ogni tipo, con corridoi claustrofobici, roba ammassata fino al soffitto e gente che si prova scarpe sedendosi per terra, alla ricerca di spazzolini e dentifricio che ho furbescamente dimenticato in Italia; strano però ero assolutamente certo di averli messi in una busta tra i vestiti; e infatti non appena rientriamo in camera li trovo in fondo alla valigia.

La sera ceniamo ovviamente in un locale di cucina indiana, mangiando molto bene e poi crolliamo a dormire dopo quasi due giorni consecutivi di viaggio. La mattina dopo il tempo è magnifico e quindi partiamo a piedi per una lunga passeggiata verso la zona più moderna e ricca di Singapore: ci facciamo a piedi tutta Orchard Road e qui veramente siamo stupefatti dalla cura maniacale della città, dalle strade ai giardini curatissimi e lussureggianti, ai palazzi tutti nuovi e modernissimi. La via è in pratica un susseguirsi di centri commerciali enormi e scintillanti che credo neppure in un mese sarebbe possibile visitare a fondo, accerchiati da una natura rigogliosa di alberi enormi con piante di orchidee che penzolano dai rami più alti. Passiamo a bocca aperta questa zona senza entrare nei negozi ( mica abbiamo fatto 10.000km per andare a vedere il negozio di Gucci!), e arriviamo alla fine ai Singapore Botanic Gardens, un polmone verde proprio al centro della città in cui se è possibile i giardini sono ancora più curati e rigogliosi.

Visitiamo a fondo i National Orchid Gardens che a ragione sono ritenuti la attrazione più interessante di tutta Singapore, con la loro collezione di centinaia e centinaia di varietà di orchidee di ogni forma e colore, la serra umida con il pulviscolo in sospensione e le piante della foresta pluviale, una cosa da paradiso terrestre, avrò fatto 100 foto solo lì, una più meravigliosa dell’altra.

Usciti dal parco, con il sole la temperatura nel frattempo si è alzata parecchio, e per andare a visitare la zona di Marina Bay, che è piuttosto lontana da qui, prendiamo un autobus comodissimo che ci fa anche fare un bel giro per la città. Il traffico che pure è commisurato ad una città di oltre 5 milioni di abitanti non è mai caotico, perché a Singapore vige una politica di controllo di trasporti e inquinamento che in pratica limita il traffico delle auto ad un numero massimo di licenze: se uno non possiede tale licenza non gli vendono neppure l’auto! La conseguenza è che la rete di trasporti pubblici è di una efficienza esemplare, sia della metro che dei bus che con attese di meno di 5 minuti ti portano ovunque nella città ( e infatti non esiste UN abitante di Singapore che non abbia anche l’abbonamento elettronico integrato dei mezzi pubblici).

Smontiamo in pieno Central Business District e data l’ora di pranzo cerchiamo dove magiare un boccone: proprio in pieno centro attorniato da grattacieli altissimi e modernissimi si trova piazza Lau Pa Sat dove sotto un padiglione vittoriano in ferro battuto arrivato direttamente dall’inghilterra si possono mangiare cibi di ogni genere prendendoli direttamente da uno degli innumerevoli baracchini che vendono ognuno la propria specialità: una soluzione che raccoglie i consensi sia dei turisti che dei molti impiegati degli uffici nei dintorni, che vengono qui durante la pausa pranzo.

Rifocillati dal cibo ci lanciamo alla cieca alla scoperta della zona della baia; dico alla cieca perché pur avendo l’ultima edizione della Lonely Planet (2010), su quest’ultima praticamente tutta questa zona della città semplicemente non esiste. Tale è stato infatti lo sviluppo edilizio di Singapore negli ultimi anni che gran parte dei palazzi modernissimi che ora si vedono non hanno più di due anni di vita e dove ora sorge quello che è l’edificio simbolo della moderna Singapore, l’hotel “Marina Bay Sands”, la LP liquida la zona con un laconico “fields” (campi).

Facciamo dunque a piedi tutta la bellissima passeggiata pedonale che fa il giro della baia, passando di fianco allo storico hotel Fullerton, quindi scoprendo che la statua del Merlion ( il simbolo di Singapore) è chiusa per restauro ( “Sorry but the Merlion is in holiday till september ”), e ancora dietro alla Esplanade, l’enorme sala concerti e attraverso il modernissimo Helix Bridge in un susseguirsi di panorami uno più stupefacente dell’altro sullo skyline del financial district, dell’hotel The Sands e del museo di ArtScience dalla curiosa a forma di fiore di loto.

Entriamo a dare un occhio nella hall dell’albergo e rimaniamo a bocca aperta per la dimensione interna dei volumi del palazzo ed il lusso che si respira. Ci dicono che il Casinò, che si trova sempre qui, valga la pena della visita, ma già due anni fa a Las Vegas ne abbiamo visti abbastanza così andiamo in cerca dell’ascensore per salire sulla terrazza panoramica al 50° piano.

Girovaghiamo abbastanza a lungo prima di scoprire che non si sale da dentro la hall ma da una zona apposita fuori dall’hotel. In pochi secondi di ascensore razzo siamo sulla prua dello Skydeck con una vista meravigliosa sullo skyline dei palazzi della baia. Purtroppo a differenza di qualche anno fa non è più possibile per gli esterni fare il bagno nella così detta “piscina infinita”, quella famosissima con il bordo a sfioro sul vuoto, che ora è riservata agli ospiti dell’hotel. Guardando verso il mare siamo sconvolti dalla quantità di navi che vediamo solcare il tratto di mare antistante la città, viste da questa altezza paiono innumerevoli anche tenendo conto che Singapore vanta uno dei porti più grandi al mondo. Appena sotto il Sands ci sarebbe anche un nuovissimo giardino botanico di recentissima apertura ( Gardens By the Bay), che dovrebbe essere molto interessante, ma al tempo non credevo neppure fosse ancora aperto ( alcune zone erano ancora in fase di scavo): buono per una visita futura.

Completato il giro della baia, sempre su strade e tra palazzi che sulla guida non ci sono, continuiamo il giro andando verso la zona di Chinatown. La cosa straordinaria di Singapore è che mentre si cammina nel centro si passa dai palazzi nuovissimi e lussuosi con le opere d’arte moderna alle vie dei quartieri storici in pochissimi metri; da una parte della strada si cammina nel XXI secolo, passati dalla parte opposta tutti i palazzi sono di fine ottocento con facciate in legno, tutte le scritte solo in cinese e in giro si vedono solo cinesi ( turisti esclusi). Le case molto belle dipinte in colori pastello si stagliano sullo sfondo dei grattacieli del centro e camminiamo in mezzo a tutta un serie di mercatini con una offerta di roba praticamente infinita ( tanta chincaglieria comunque). Visitiamo un po’ di templi, questa volta Buddhisti, molto ricchi sia dentro che fuori e suoniamo la ruota di preghiera gigante che si trova sul giardino sul tetto.

La giornata volge al termine e quindi ad orario aperitivo ci rechiamo nella zona lungofiume denominata Clarke Quay, un posto pieno di giovani con pub, ristoranti e locali all’aperto, caratterizzata da dei particolari “ombrelli giganti” che coprono praticamente tutti i vicoli della zona.

Cena non ricordo dove e poi proviamo a salire a Fort Canning, una collina anche piuttosto ripida, perché avevo letto che la sera c’era uno spettacolo di ballo, boh, è tutto buio e non c’è anima viva in giro tra i sentierini del parco. La musica però si sente in lontananza così avanziamo fino al Forte; solo che lo spettacolo è la sera successiva e la musica che sentiamo è quella delle prove. Ci sono però diversi personaggi che la notte si ritrovano lì a fare tai-chi nella penombra, molto suggestivo. Seguendo le indicazioni per il Giardino delle Spezie ci infiliamo in un viottolo buio pesto, le piante non le vediamo però gli odori che ci giungono sono inebrianti. Rotoliamo a dormire distrutti dopo questa camminata infinita.

Il giorno dopo prendiamo un paio di mezzi (metro + bus) e ci rechiamo un po’ fuori città allo Zoo di Singapore. Ci mischiamo un po’ come dei fessi a tutta una serie di scolaresche di bambini, e sono tante, in visita al parco che comunque è curatissimo e ricco di animali di ogni genere. Non si tratta di uno zoo con le gabbie, ma ogni animale ha a disposizione una zona del parco recintata e protetta da fossati ( a seconda della pericolosità o meno), e tutto è veramente molto ben tenuto e corredato di spiegazioni: noi ce lo sogniamo un parco così. Vediamo veramente animali di ogni tipo, anche se probabilmente le zone più spettacolari sono quelle della biosfera “Fragile Forest” (una specie di voliera enorme con bradipi, pipistrelli giganti, i lemuri e altre scimmie tutti liberi di vagare in mezzo alla gente ), e la valle dei babbuini dove ci sono oltre 70 esemplari in giro e sembra di essere nel set di 2001 odissea nello spazio.

Gira e rigira passiamo un bel po’ di tempo nel parco e quando rientriamo in centro siamo un po’ sconvolti da caldo e camminate, così passiamo in hotel a rinfrescarci, anche perché abbiamo un appuntamento per cena. E sì, esatto, poco prima di partire dall’Italia avevamo infatti scoperto che un amico era a Singapore per lavoro proprio quella settimana e così ci siamo dati appuntamento lì: “Ci vediamo per un’ape a Singapore” mi faceva morire questa cosa. L’appuntamento è all’Altitude Bar, un posto in pieno centro, sulla terrazza in cima al grattacielo più alto di Singapore. C’è anche una bella coda, per fortuna una collega del mio amico ha prenotato il tavolo, così canguriamo la fila, salvo che poi non mi ricordavo il nome e ho fatto un simpatico siparietto con l’addetta alla lista; alla fine ci fa passare comunque credo pensando che facevamo i furbi. Saliamo nell’ascensore che serve il bar, è esterno e a vetri, e sale come un proiettile fino al 67° piano, impressionante. La vista dalla cima è impagabile e consiglio vivamente di provare ad andarci al tramonto, anche se la coda senza prenotazione può essere lunghetta, con tutti i palazzi illuminati intorno, l’atmosfera cosmopolita, pare di essere veramente al centro del mondo.

Per cena torniamo a Lu Pa Sat, ma stavolta con il supporto della collega “local” facciamo degli ordini più corretti e assaggiamo un po’ di tutto.

Infine, per non farci mancare nulla, prendiamo anche una delle barchette turistiche che fanno il giro della baia per vedere la città dal mare e devo dire che valeva assolutamente la pena, eravamo anche nell’ultimo giro della giornata e quindi il barcone era tutto per noi. A questo punto gli amici giustamente proseguivano la serata tornando a Clarke Quay che a quest’ora letteralmente esplode di vita, ma noi il giorno dopo dovevamo lasciare Singapore con direzione Malacca e quindi a malincuore rientriamo in albergo con la ferma convinzione di ritornare prima o poi in questa fantastica città dalle potenzialità infinite.

La mattina dopo pioviggina e noi arranchiamo con le valige verso la fermata del bus che abbiam prenotato per le 8 di mattina (prima corsa della giornata perché le altre erano già complete), ma alla fine la scelta si rivela azzeccata perché quella dannata corriera per compiere circa 230km ci impiega la bellezza di 6 ore! (alla invidiabile media di 38km/h!). A dire il vero non è tutta colpa sua, perché ad esempio la frontiera con la Malesia è presa piuttosto sul serio e quindi tocca smontare e passare l’immigrazione a piedi, due volte (una volta uscendo da Singapore, ed un’altra dopo il ponte che separa i due stati, entrando in Malesia), poi si ferma un’altra volta a far benzina, poi si ferma un’altra volta per…cambiare corriera, si esatto: tutti giù con i bagagli e si sale su un altro bus, poi 30 minuti di pausa in un posto dimenticato da Dio in cui ci sono solo una serie di bancarelle di cibo probabilmente amici dell’autista, alla fine stremati arriviamo a Malacca che sembra di aver attraversato mezzo mondo.

Malacca è una città molto particolare: intanto fa quasi un milione di abitanti, mentre io mi aspettavo un paesino, quindi tutto quello che è l’hinterland della città è decisamente caotico e per nulla suggestivo. Per fortuna abbiamo prenotato in un hotel tipico molto carino in centro (The Baba House); una vecchia casa di mercanti cinesi riadattata ad albergo. La zona centrale della città, che alla fine si riduce a giusto tre strade e poco più, è patrimonio Unesco ed effettivamente è molto carina con case dall’aspetto veramente antico, anche se l’impressione è che sia sfruttata non troppo bene: tanti negozi chiusi ma in compenso un numero impressionante di risciò addobbati, musicali e luminosi decisamente kitsch che sfrecciano avanti e indietro dappertutto.

Noi abbiamo programmato di essere qui proprio il sabato perché è il giorno della settimana in cui si svolge nelle strade un famoso mercatino alimentare e quindi dopo un giro in lungo e in largo nel centro storico, in mezzo ad una folla di turisti smodata cominciamo ad assaggiare un po’ di “porcherie” locali. La LP sostiene che vale la pena assaggiare una cosa che si chiama Cendol: ghiaccio tritato finemente + dei vermicelli verdi fatti con farina di riso + latte di cocco + caramello e sopra una bella cucchiaiata di….fagioli rossi; mah, io l’ho anche mangiato ma era veramente una cosa stramba. Con il calare del sole tutta la zona storica viene letteralmente invasa dalle bancarelle di cibo tipico dall’aspetto molto invitante; uno si siede nei tavolini pubblici allestiti in strada e immediatamente arrivano frotte di inservienti dai banchetti limitrofi, ognuno con il suo menù, e uno ordina dalla bancarella che preferisce. Per colpa dei prezzi molto contenuti, il pranzo saltato e della bramosia da diversificazione voglio assaggiare più roba possibile, e nonostante gli avvisi della moglie “guarda che poi stai male!” ingurgito una quantità di cibo assurda, e ovviamente poi sto male davvero (ma forse la colpa è anche del karaoke che ci fermiamo a guardare dopo cena, con un presentatore danzerino in tutina oro lucida, uno spilungone che non sarà pesato più di 40 kg, agghiacciante!)

La mattina dopo nuovo giro nella zona dei templi, che sono veramente molto belli e ben incastonati in un quartiere tipico con delle particolari case in legno su palafitta; Livia vuole entrare in una di queste abitazioni e rassicurata da un locale sul fatto che “si possono visitare” entra e trova il proprietario che dorme in mutande in un angolo, ahah.

Da Malacca nuovamente via in bus verso Kuala Lumpur, questa volta ad un prezzo piuttosto ridicolo, tipo 2€ per fare 150 km ( giusto per capire la differenza tra Singapore e la Malesia: il viaggio Singapore-Malacca ci è costato 13€, il viaggio inverso partendo da Malacca costava 2,5€ …mah!).

Arrivati a KL anche qui sperimentiamo cosa significa avere una guida non abbastanza aggiornata da queste parti: secondo la LP la stazione dei bus dovrebbe essere relativamente in zona centrale e mi sono preparato i cambi per arrivare in hotel senza difficoltà, visto che la rete dei trasporti urbani non è molto organica. Smontiamo dal bus, la stazione è enorme e nuovissima ma soprattutto in un posto completamente diverso dal previsto, a tipo 15 km dal centro. Dopo un momento di smarrimento ci orientiamo e per puro caso la linea della ferrovia che passa da lì è esattamente quella che ci serviva, quindi rapidamente arriviamo in hotel.( Tune Hotel Downtown, rimodernato completamente un mese prima, strategicamente ottimo e a prezzo ridicolo).

Abituati alle lunghe e piacevoli camminate a Singapore, crediamo di poter fare lo stesso anche a KL: ecco, non fatelo; perché se si escludono quelle 4 direttrici turistiche fondamentali che sono ben tenute e a misura di pedone, non appena si esce da queste isole felici la città è paurosamente caotica. Per raggiungere le Petronas Towers sulla mappa è un tragitto non troppo lungo partendo dal nostro hotel, ma nella realtà in pochi minuti siamo già esasperati: marciapiedi che da un momento all’altro scompaiono o vengono inghiottiti dalle radici degli alberi, il 90% dei semafori pedonali spenti e una serie di incroci stradali continui in cui ogni volta rischiare la vita. Il tutto mentre la monorail invece è comodissima, raramente congestionata di persone e decisamente economica anche andando avanti a corse singole a seconda della necessità. Apprezzabile inoltre il risparmio di carta dei biglietti, sostituiti da dei gettoni di plastica che vengono programmati ad ogni corsa e si restituiscono all’uscita della stazione, comodissimi.

Arriviamo comunque in vista delle Petronas, che dal vivo sono impressionanti sicuramente per le dimensioni, ma soprattutto per i particolari: gli intarsi di acciaio, i profili in rilievo e l’alternanza di colori tra il verde smeraldo e l’argento splendente; una cosa molto differente dalle “solite” torri in vetro-acciaio.

Entrando vediamo un numero di persone decisamente elevato, sarà anche perché è domenica ma in giro ci sono migliaia di persone che girano, fino a che scopriamo che siamo capitati esattamente il giorno della visita del Primo Ministro Malese e quindi i giardini appena dietro le torri sono letteralmente invasi di scolaresche, ognuna con la propria divisa colorata diversa dalle altre: una folla smisurata di persone.

Ora siamo nella “zona ricca” della città e qui anche spostarsi a piedi è possibile facilmente lungo le passerelle pedonali sopraelevate, quindi ci dirigiamo verso il vicino “Triangolo D’Oro” che è la zona commerciale moderna della città. In giro moltissimi turisti di ogni dove, tutto anche abbastanza “occidentale”, con pub e cafè che si mischiano ai centri commerciali modernissimi, enormi e sfavillanti, con decine di piani e centinaia di negozi, robe da perdersi.

Partendo dalla Cristal Fountain ci facciamo tutta la strada definita Bukit Bintang Walk, incrociando frotte di giovani locali e resistendo alle avances di decine e decine di massaggiatrici professionali che abbordano i passanti direttamente in strada agghindate con i loro vestiti invece decisamente poco “professionali” (o Dio… tutto sta definire la professione). Mentre camminiamo in questa calura umida cominciamo ad incrociare 1, 10, 20 ,50…più o meno tutti con uno splendido ghiacciolo al lime; già saliviamo e procediamo come salmoni contro corrente. Assicuro che ce l’avevano tutti quel dannato ghiacciolo, migliaia di persone, vediamo una casetta della Algida ( che lì si chiama Wall’s), ci avviciniamo e io dico: “sicuro che arriviamo noi e finiscono”, ecco, quando siamo lì a un metro il tipo esce: finito tutto.

Allora decidiamo di andare a mangiarci un po’ di frutta; la Malesia è ricchissima di frutta di ogni tipo, la maggior parte neppure importata in Italia, ma in assoluto il frutto più apprezzato dello stato è il Durian. Per chi non lo conosce basta dire che a causa del suo odore intenso è vietato sia portarlo nei mezzi pubblici che nelle camere d’albergo, ci sono proprio i cartelli affissi! L’odore, anche da chiuso, è effettivamente parecchio fastidioso e non invitante: sa proprio di…boh…di cesso sporco ( bonjour finesse). In strada si vedono le bancarelle con decine di questi grossi frutti spinosi appesi, si chiede al venditore di farselo aprire con una accetta, fuori è duro, e dentro si vedono i grossi bacelli giallognoli: sembrano dei reni ( hihi), si indossano dei guantini di plastica e si butta in bocca. E’ una sorta di crema molliccia un po’ disgustosa al palato, ma dal sapore intenso tipo mandorla e fiori con retrogusto un po’ salato; secondo me non era affatto male e penso che mangiato non a temperatura ambiente ma freddo dal frigo sia veramente ottimo, ma posso capire perché alcuni hanno scritto che è “come mangiare un lampone in un cesso pubblico”.

Per cena ci spostiamo lì vicino in Jalan Alor, una via completamente invasa di ristorantini etnici economici con i tavoli direttamente in strada e specialità roba alla griglia; anche in questo caso basta girare l’angolo e si passa dai negozi di Louis Vuitton ai peggiori sobborghi di Pechino.

La mattina dopo altra piccola fregatura della Lonely Planet: vogliamo infatti andare appena fuori KL a visitare le Batu Caves, e ci dirigiamo dove la guida sostiene esserci la fermata dell’autobus più comodo per arrivarci. Inutile dire che arrivati lì la fermata non esiste più, per fortuna facendosi capire con dei passanti ci indicano il posto corretto e prendiamo questo scassone di autobus che in quasi 50 minuti ci porta alle grotte…e ovviamente appena scendiamo vediamo la nuovissima stazione della metro che ora arriva anche qui direttamente dalla fermata in centro posta a circa 100 metri dal nostro hotel (vabbè dai, questa era veramente nuovissima, sarà stata aperta da un mese!). Le grotte, leggendo i vari report, ad alcuni non sono piaciute. Credo anche di immaginare il perché: essendo infatti un luogo al contempo molto turistico ma frequentato anche dai fedeli locali, rischia di essere rapidamente una discreta bolgia. Noi invece arriviamo lì tutto sommato prestino e quindi possiamo goderci la visita con non troppa gente: la scalinata che porta al santuario è invasa di simpatiche ( anche dispettose) scimmie che saltano da una guglia all’altra e tra gli alberi a ridosso delle pareti e non si può rimanere indifferenti alla dimensione della grotta principale con i suoi templi all’interno. Alcuni aspetti è vero sono palesemente finti e ad uso e consumo dei turisti ma, ignorati quelli, a noi è piaciuto. In più Livia è rimasta contentissima perché con una somma ridicola ( 2,5€) si è anchefatta fare un tatuaggio con l’henna sulla mano, che credevo fosse cosa molto tipica e invece ha suscitato ammirazione per tutto il resto della vacanza, con anche gente che la fermava per chiedere dove lo aveva fatto.

Per il ritorno prendiamo ovviamente la metro, che ci riporta in centro stavolta in 20 minuti, e ci dirigiamo verso i Lake Gardens che visitiamo sempre a piedi incuranti del caldo che ormai comincia a farsi asfissiante. I giardini sono enormi e ricchi di attrazioni, noi visitiamo solo il Bird Park, che può fregiarsi del titolo di “più grande voliera al mondo”. In realtà non si tratta neppure di una voliera in senso stretto: hanno semplicemente recintato una parte della foresta e poi la hanno inglobata così com’è tutta intera sotto ad un enorme rete sospesa, comunque molto bello e uccelli di ogni genere.

Nel frattempo l’ora di pranzo è passata da un pezzo e complice il caldo e la camminata infinita che già abbiamo percorso, cominciamo a perdere colpi così ci dirigiamo speranzosi in cerca di cibo verso Merdeka Square , che scopriamo invece essere una splendida spianata d’erba, anche carino con dei bellissimi palazzi in stile Moghul, ma assolutamente deserto e assolato. Lì vicino per fortuna si trova anche la Chinatown di Kuala Lumpur, decisamente molto diversa da quella di Singapore: una bolgia di macchine e persone, con banchetti e bancarelle molto “selvagge” che fanno venire poca voglia di mangiare, così ci prendiamo un panino al Subway ( dannati, sono ovunque!). In più nel giro di pochi minuti il tempo cambia e così siamo costretti a riparare dentro un tempio buddhista mentre fuori imperversa un diluvio universale di acqua; non resta altro che mettersi belli comodi in un divano sotto il porticato in compagnia del custode ad aspettare che spiova.

Dopo quasi un’ora pioviggina ancora ma è accettabile così guadando letteralmente le strade trasformatesi in torrenti girovaghiamo belli belli sotto l’acqua nel resto del quartiere cinese, che ora con poca gente vediamo molto caratteristico e ricco di negozietti dalla merce strambissima. Ci avevano inoltre detto che qui era il posto giusto se volevamo anche comprare un po’ di abbigliamento contraffatto ed effettivamente si trova davvero di tutto a prezzi ridicoli; ma sinceramente la qualità era talmente scadente che neppure veniva voglia di star lì a fare ricerche, anche se ribadisco: c’era di tutto. Per completare più o meno la visita della zona turistica della città manca solo un passaggio a Little India, che anche in questo caso troviamo assurdamente affollata di gente, con persone che spingono carrettini, un numero imprecisato di negozi di stoffe e sari, altre bancarelle con gente che mangia ad ogni ora, una bolgia infernale tra palazzoni fatiscenti.

A questo punto siamo veramente stremati e torniamo in albergo a riposare un attimo prima di uscire a cena.

Con la monorail, che ormai conosciamo come le nostre tasche, torniamo dunque a Bukit Bintang per vedere che aspetto abbia di notte e devo dire che non è affatto male: la città è piena di vita con molti giovani in giro, i centri commerciali sono invasi di persone ed al Pavillion vediamo anche una sfilata di moda con vestiti abbastanza improbabili ma organizzazione impeccabile con security, stampa e hipster al seguito. La sensazione che si ha in questa zona è quella di chi cerca in qualche maniera di fare il verso al modo di vivere di una grande città occidentale, una specie di New York ma con meno buon gusto, il tutto aggiungendo, come se ce ne fosse bisogno, un ulteriore elemento di varietà a questo mondo in cui nell’arco di pochi kmq convivono già culture, religioni ed etnie enormemente diverse tra loro.

Torniamo poi al cospetto delle Petronas Towers, ora illuminate dalle migliaia di faretti bianchi: non ho ancora deciso se mi piaccia di più la versione da giorno o quella con il “vestito da sera”, resta il fatto che si tratta di un complesso veramente originale e imponente, e non ci stancheremmo mai di stare con lo sguardo verso l’alto.

A questo punto delle vacanza siamo già piuttosto provati dagli spostamenti, dalle lunghe camminate e dal caldo umido opprimente così vacilliamo di fronte al programma originale che avevamo previsto per l’indomani. Dovremmo infatti alzarci più o meno all’alba per andare a prendere i biglietti per la visita interna alle Petronas. Ovunque infatti: sulle guide e sui report di viaggio si legge delle code inusitate fin da notte fonda per accaparrarsi uno dei 1400 biglietti gratuiti giornalieri per la visita e non siamo molto convinti che valga la pena. Alla fine però al grido di: “Già che siamo qui! vuoi neanche salire sulle Petronas?” puntiamo la sveglia alle 6.30. La mattina dopo come zombie ci aggiriamo nell’atrio delle torri, sono circa le 7 e ci saranno al massimo altre 10 persone davanti a noi…. strano… già credevo di trovarne diverse centinaia. Invece…strano un accidenti! Dal primo giugno di quest’anno l’ingresso non è più gratuito, ma anzi è pure un discreto salasso, tipo 20€ a testa che qui vuol dire una mezza fortuna, e ovviamente le code sono un lontanissimo ricordo ( molti anzi alla vista del costo giravano i tacchi e tornavano a casa). Siamo costretti ad aspettare lì comunque fino alle 9 quando apre la biglietteria, ma saremmo potuti tranquillamente arrivare alle 10 e si entrava senza fare un secondo di coda, non una grande mossa. Unico aspetto positivo nel fatto che a differenza di quando era gratis ora non si sale solo fino al ponte sospeso tra le due torri, ma hanno anche allestito un osservatorio panoramico mi pare al 86° piano che consente una vista migliore sulla città. La visita non è male, anche se probabilmente non vale la cifra rispetto ad altri grattacieli che abbiamo visto in giro per il mondo, e dentro fa un freddo assurdo. In più Livia quasi fa a botte con una autoctona: un barilotto con burka nero fino ai piedi, rea di averla fotografata più volte come se fosse una cosa anormale; noi in compenso abbiamo fotografato lei a nostra volta (ahah).

Da lì seguendo la guida che sosteneva “ si può raggiungere il bellissimo tempio Thean Hou con una breve camminata dalla stazione della metro” partiamo in questa scarpinata sotto un sole feroce, costretti a chiedere info più volte dopo essere finiti per errore in un cimitero cinese, e affrontando alla fine una rampa assurda per raggiungere il tempio posto sulla cima di una collina appena fuori dal centro. Molto bello con fantastiche decorazioni policrome, statue di draghi e fenici: tutto molto recente ma fatto con buon gusto e la posizione è decisamente panoramica. Tornati alla metro ci pare di essere in piedi da ore…ma ehi…siamo davvero in piedi da ore! Così, resici conto di aver tutto sommato esaurito le attrattive principali di Kuala Lumpur, torniamo in hotel a riposare un po’.

Usciamo solo verso sera per toglierci uno degli ultimi sfizi cui non possiamo resistere: la FishSPA! Ci sono infatti un po’ dappertutto dei posti in cui con una somma contenuta ti fanno mettere i piedi dentro delle vasche traboccanti di pesciolini in quali non appena voi inserite i piedi si avventano voracissimi. In teoria dovrebbero fare una specie di pulizia delle pelli morte ( senza confutare i benefici maggiori e piuttosto fantasiosi che si leggono nelle pubblicità affisse..), ma credo che alla fine sia più una cosa di costume. Resta il fatto che è una sensazione stranissima, un misto tra il solletico, l’impressione e il lieve fastidio che vale sicuramente la pena di fare, abbiamo riso come pazzi.

Per cena ristorante thailandese e poi causa pioggia piuttosto intensa facciamo dentro e fuori tra i centri commerciali affollati di gente: menzione d’onore per quello con il rollercoaster all’interno, completo di giro della morte, che occupa più di 5 piani dello stabile, così come rimaniamo molto colpiti dallo Starhill Gallery con il suo lusso sfrenato mentre assistiamo abusivamente al concerto jazz che fa da contorno ad un pranzo di gala con ospiti in smoking e vestiti da sera.

Questa era l’ultima sera a KL così la mattina dopo riprendiamo per l’ultima volta la comodissima monorail, quindi treno espresso per l’aeroporto e infine ultimo tratto di bus per raggiungere l’aeroporto dei voli low cost, visto che abbiamo prenotato con Air Asia.

Lasciamo così questa città alquanto caotica, che ci è sicuramente piaciuta per certi aspetti, ma che si è dimostrata a tal punto variegata tra lusso e povertà estrema, tra modi di vivere occidentali e tradizioni quanto più conservatrici, da averci confuso come nessun’altra tappa di questo viaggio.

Il puntualissimo volo di Air asia ci porta rapidamente nella costa opposta della penisola Malese e in neppure un’ora atterriamo a Kota Bharu. All’uscita dell’aeroporto ci rendiamo conto che gran parte dei turisti che atterrano qui si dirigono immediatamente verso l’imbarco per le vicine Isole Perhentian. Noi invece abbiamo programmato di fermarci qui una notte per visitare questa cittadina che a detta della guida dovrebbe essere molto caratteristica e soprattutto ospitare uno dei migliori mercati notturni del paese.

Per l’hotel sbagliamo in questo caso completamente la logistica e prenotiamo in una zona decisamente lontana dal centro, con bellissima vista su un recentissimo cavalcavia dell’autostrada e un traffico spaventoso, una bellezza, per fortuna scarichiamo solo le valige e ripartiamo subito. Ci avviamo verso il centro lungo un vialone trafficatissimo completamente alla battuta del sole verso il centro informazioni che ad un certo punto vediamo giusto di fronte e noi ma dalla parte opposta della strada. Giuro: saremo rimasti un quarto d’ora cercando di attraversare quella strada fino a che non ce l’abbiamo fatta lanciandoci alla cieca tra le auto. Entriamo a chiedere informazioni e credo non vedessero un turista da settimane ed anzi ci confessano che ci avevano già visti cercare di attraversare la strada: appena entrati ci hanno accerchiati in 5 e praticamente seppelliti di informazioni su qualsiasi cosa. Tra le altre cose però ci consigliano dove andare a pranzare: tra tutti i locali ci dicono di andare “ di fronte alla fermata dei bus, si mangia molto bene”, così dicono.

Arriviamo lì ed è una topaia inguardabile, non ci sarei mai entrato; ma ci parevano così convinti quelli del centro informazioni, così entriamo lo stesso. A sorpresa avevano davvero ragione, mangiamo davvero benissimo, accompagnando il pranzo con un ottimo frullato di Oreo ( che qui va un casino!) e spendiamo la bellezza di 3€…in due!

Il resto del paese invece non è allo stesso livello: troviamo Kota Bharu una città sporca e trascurata, cerchiamo di visitare un paio di palazzi definiti storici ma sono chiusi per non si sa quale motivo, il lungofiume è agghiacciante e girare per la città a piedi un rischio continuo con auto e motorini ovunque. In più siamo credo gli unici turisti occidentali in giro, e qui siamo in una delle città della Malesia in cui è più radicato il fondamentalismo islamico. Non si vede in giro neppure una ragazza senza velo e, magari saremmo stati noi prevenuti, ma l’impressione era quella di vedere parecchie occhiate di biasimo. Entriamo anche nel centro commerciale più grande della città in cerca di un bancomat e sembra di piombare indietro nel tempo di 50 anni, una cosa deprimente.

Torniamo verso l’albergo con l’idea di fermarci per strada presso il cosiddetto “Centro Culturale” che secondo la guida dovrebbe ospitare due volte a settimana una sorta di dimostrazione di vari aspetti tradizionali della cultura del Kelantan, la regione in cui ci troviamo. Arrivati lì pare tutto abbandonato e invece a sorpresa e alla spicciolata arrivano gli “artisti” ed anche qualche turista! Assistiamo a dimostrazioni di musica, arti marziali, pittura batik; il tutto sotto la regia e la presentazione di un personaggio spassosissimo (che è citato anche nella LP!) che in maniera del tutto entusiasta ci spiega i loro usi e costumi, encomiabile. Provo anche a lanciare la tradizionale trottola di legno gigante e quasi frusto in faccia un turista tedesco che molto incautamente si era andato a posizionare alle mie spalle. A posteriori la parte migliore di tutta la visita di Kota Bharu (intendo la visita al centro culturale, non la frustata al tedesco!). Ci salutiamo con il presentatore, che ci dà appuntamento per la sera, quando hanno in programma una rappresentazione del teatro delle ombre e torniamo in albergo a rinfrescarci. Non appena rientrati si scatena però un temporale assurdo con vento e fulmini e temiamo che la serata, e soprattutto il famoso mercato notturno, siano compromessi. Quando spiove un pelo ci facciamo comunque portare in taxi in centro e c’è una atmosfera postapocalittica, acqua ovunque con bancarelle mezze allagate, in giro pochissime persone (ma moltissimi topi di dimensioni ragguardevoli) ed ancora più surreale è il continuo fischiettare degli uccelli che, essendo il simbolo della città, viene diffuso 24 ore su 24 da tutta una serie di megafoni disseminati per il centro. Rinunciamo al mercato all’aperto ed andiamo a vedere lo spettacolo delle ombre nel centro culturale; una cosa molto suggestiva ( soprattutto con lo sfondo del temporale e dei fulmini all’orizzonte), la persona che manovra le marionette è praticamente un mago che canta, interpreta diversi personaggi e muove le marionette nella scena, il tutto contemporaneamente. Lo spettacolo però è infinito e dopo un’ora e mezza senza capire una singola parola approfittando delle tenebre ci eclissiamo.

La mattina dopo siamo alla stazione delle corriere con nessunissima nostalgia di questo posto assurdo, e prendiamo un bus scassatissimo con direzione Kuala Besut, il porto da cui ci si imbarca per raggiungere le Perhentian Islands.

Quasi tutti da Kota Bharu fanno questo tratto di strada in taxi, ed effettivamente il bus ci mette un tempo infinito facendo dei giri “turistici” per tutti i paesini che incontra, ma se avete timore dei tassisti folli che battono questo tratto di strada, l’alternativa c’è.

Espletiamo rapidamente il checkin presso il banco del Mama’s, il resort dove abbiamo prenotato, e muniti di lettera di presentazione siamo già sulla barchetta verso la più grande delle due isole ( Perhentian Besar, l’altra invece è Perhentian Kecil). Dopo questi ultimi spostamenti, comprendendo anche tutti i giri da una parte all’altra della Malesia: Singapore, Malacca, KL, senza praticamente un minuto di pausa siamo decisamente stanchi e quindi accogliamo con enorme piacere il dolce far niente che queste isole offrono in abbondanza, abbiamo deciso di ritagliarci 6 giorni pieni di riposo.

La serigrafia della maglietta del dive center proprio affianco al nostro resort spiega perfettamente tutto quanto si può fare qui a Perhentian: “EAT – SLEEP – DIVE”, altro da fare non c’è.

L’isola è meravigliosamente selvaggia: lungo la costa corre un sentiero di sabbia, da una parte c’è la spiaggia intervallata da sporadici scogli e promontori rocciosi, dall’altra una o due file di casette di legno poggiate direttamente sulla sabbia, dietro ad esse la jungla inaccessibile: finita l’isola.

Non ci sono auto, non ci sono motorini o biciclette, non ci sono negozi, né musica in spiaggia; l’unico luogo pubblico sono i ristorantini gestiti da ogni resort (e aperti a tutti) per variare almeno il menù ( che in realtà è praticamente identico ovunque), alla sera appena finita la cena, rigorosamente analcolica, le luci si spengono e alle 11 chiude praticamente tutto.

Ogni resort organizza i transfer con le barchette nelle varie spiagge dell’isola oppure verso i migliori spot per immersioni, ma l’isola è talmente compatta da poter essere girata a piedi con i vari sentierini. Si passa da una spiaggia all’altra camminando su passerelle tra i tavoli dei vari localini, sentieri nella jungla, tratti direttamente sulla sabbia e passerelle a picco sul mare attraverso gli scogli. In alcuni tratti di costa passiamo anche tutta la giornata completamente da soli sotto la nostra palma personale, alternando il sole ai tuffi con la maschera nella barriera corallina, magnifica e rigogliosa già a pochi metri dalla riva. Anche nelle insenature più belle è difficile avere intorno più di 3 o 4 persone: sembra di essere naufraghi su un atollo semideserto. Per raggiungere il lato opposto dell’isola ci inoltriamo in un sentierino appena accennato attraverso la foresta, impressionante nella sua compattezza e nel numero incredibile di piante, liane e alberi pronti a riprendersi la pista che qualcuno generosamente ha tracciato. Livia è anche parecchio spaventata perché siamo veramente “soli” in mezzo ai rumori della jungla, sommato all’umidità sicuramente vicina al 100% e alla salita per superare una piccola collina, nel giro di 15 minuti siamo del tutto sconvolti. Dopo circa mezz’ora di cammino arriviamo nella spiaggia ed è… una schifezza, la peggiore dell’isola, ahah! Dopo neppure un’ora ci facciamo riportare indietro, in barchino stavolta! Facciamo anche una puntata nell’isola piccola, Perhentian Kecil, che ha un’anima molto diversa da Besar. La piccola infatti è più adatta a turisti giovani zaino in spalla, quindi di conseguenza anche i resort sono un po’ più trasandati (la maggior parte almeno). Dalla sua ha il fatto che qui alla sera c’è vita: le spiagge vengono allestite con fuochi, tavolini e quindi le luci non si spengono al calare delle tenebre. Di conseguenza se cercate un po’ più vita qui forse è meglio; per quello che cercavamo noi, io invece continuo a preferire la grande, un posto davvero fuori dal mondo e dai suoi rumori.

Nella piccola cerchiamo di attraversare l’isola nel punto in cui si restringe a poche centinaia di metri per andare nella spiaggia sottovento, ma non trovando il sentiero chiediamo info sulla direzione a dei giovani in uno dei resort; questi ci guardano con tanto d’occhi: “volete attraversare l’isola, a piedi?!”, come se volessimo andare in Tailandia a nuoto. Boh, alla fine lo troviamo da soli e saranno 5 minuti a piedi, è pure lastricato di mattoni: io magari sono eccessivo nella ricerca di informazioni ma quelli vivevano lì e neppure sapevano dell’esistenza di tutta un’altra parte dell’isola, oltretutto una delle baie più belle in assoluto, stonati…

La sera tutti i ristorantini allestiscono i barbecue e si cena con pesce ai ferri, noi più per pigrizia che altro ceniamo più spesso al Mama’s,. Ci beviamo ogni giorno un numero impressionante di frullati di frutta un più buono dell’altro. Qui il tè freddo lo bevono sempre con il latte ( anche se provate ad ordinarlo senza latte), che è un po’ strano, ma anche questo contribuisce a sentirsi meno a casa. La sera chiudiamo ogni pranzo con un magnifico piatto di banane pastellate e fritte + pallina di gelato alla vaniglia ed alla mattina roti canai ( una specie di piadina dolce) come se piovesse. Assistiamo a tutta una serie di siparietti con i camerieri assurdi che gestiscono il servizio ai tavoli, il più sveglio è un ragazzino giovane che si lancia in conversazioni in praticamente tutte le lingue del mondo e ogni giorno ci saluta con il suo scccciiiiaaaaooo strascicato. Il meno sveglio del gruppo è un tipo con gli occhi a palla che non imbrocca una ordinazione a pagarla, lo vedevamo ogni volta uscire dalla cucina con la certezza che avrebbe girovagato tra i tavoli per 5 minuti prima di ricordarsi a chi doveva portare la comanda, che spessissimo era sbagliata; alla fine ci era sorto il sospetto che lo facessero apposta per metterlo in difficoltà.

Il meteo nelle isole è piuttosto strano: durante il giorno normalmente è assolato e molto caldo, mentre quasi ogni sera guardando verso la terra ferma ( che è a circa 20km di distanza) vedevamo le nuvole addensarsi in cumuli nerissimi solcati da fulmini continui. Quasi mai però arrivavano fino a noi, di conseguenza era necessario affidarsi all’esperienza dei ristoratori: non appena vedevano in lontananza la perturbazione li vedevi correre fuori in spiaggia e “annusare l’aria”; potevamo stare certi che se davano l’ordine di sbaraccare tutto, nel giro di 10 minuti si scatenava una tempesta di vento e acqua da chiudersi in casa; se rientravano tranquilli, la perturbazione non arrivava.

Uno degli ultimi giorni sentiamo uno strano scalpitio sul tetto del locale, ci affacciamo e sopra c’è una scimmia enorme che si fa i fatti suoi di passaggio da un ramo all’altro, purtroppo la vediamo solo quella volta. Ogni sera invece al calare delle tenebre assistevamo al volo dalle cime degli alberi più alti delle volpi volanti, una specie di pipistrelli giganti e pelosi decisamente impressionanti, soprattutto quando accompagnano il volo con le loro grida quasi umane.

Arriviamo così all’ultima mattina sull’isola e dopo aver osservato i giorni precedenti quelli che mestamente stavano seduti sulla panchina ad aspettare il barchino per la terraferma, stavolta siamo noi in quella triste situazione e salutiamo per l’ultima volta i nostri camerieri di fiducia.

Il mare è anche mosso e quindi il viaggio di ritorno balliamo parecchio sulle onde, con secchiate di acqua salmastra che ci “caramellano” pelle e vestiti.

Per tornare all’aeroporto stavolta abbiamo organizzato un taxi, solo che alla fine saliamo direttamente sull’auto personale del taxista perché il taxi è guasto. Stavolta vediamo se è vero che qui corrono come folli: entriamo in auto e appena sotto al parabrezza ha incollato tutta una serie di modellini di auto da corsa, promette bene. Partiamo e già alla prima rotonda taglia clamorosamente la strada ad un tipo, reo di essere stato poco convinto nella svolta, si infila al centro e lo passa insultandolo; quello si attacca al clacson e il nostro per tutta risposta abbassa il finestrino e gli fa il dito medio, magnifico. Arriviamo velocemente a Kota Bharu e ci imbarchiamo questa volta su un aereo della Malaysia Airlines, con le loro hostess dai vestiti tipici coloratissimi, una più bella dell’altra, faranno una selezione prima di assumerle!

Atterriamo a Kuching nel Sarawak, la parte malese dell’isola del Borneo (il resto è Indonesiana) verso sera …e piove. In attesa dei bagagli facciamo conoscenza di due italiani ( Stefano e Giovanni) : due dei pochissimi italiani incontrati nel viaggio aggiungerei. Loro non hanno prenotato alberghi così decidiamo di dividere il taxi intanto fino a dove abbiamo prenotato noi, poi alla fine era comodissimo e si sono fermati a dormire anche loro lì ( Tune Hotel Waterfront Kuching, in centrissimo proprio di fronte all’Hilton, pagato una cosa tipo 13€ a notte!).

Ci diamo appuntamento per la mattina successiva perché anche loro avevano in programma di andare a Bako National Park e dopo due settimane di “isolamento di coppia” fa anche piacere avere un po’ di compagnia.

La mattina successiva siamo pronti e pimpanti e, come al solito rinunciando alle gite preconfezionate offerte dalle agenzie di viaggio, ci dirigiamo verso la stazione dei bus. Kuching è anche un centro molto bello, tutta la zona del lungofiume è stata messa a posto benissimo con una lunga passeggiata alberata, il centro storico è carino anche se piccolo ed a sorpresa fa anche un po’ meno caldo delle altre città visitate. Cerchiamo di fare shopping nella zona di Chinatown, ma siamo presto e quindi i negozi ancora tutti chiusi, ripasseremo dopo. Arrivati al bus per il parco veniamo abbordati da dei tipi con pulmino che con un piccolissimo sovrapprezzo rispetto al bus di linea ( tipo 1,5€ al posto di 1€) ci portano alla biglietteria del Bako. Lì si paga il biglietto, anche questo era raddoppiato circa un mese prima (sfiga), e ci si accorda per il trasporto in barchetta verso il vero ingresso del parco, che avviene dal mare, dato che il parco è su una penisola. Una coppia di spagnoli vorrebbero dividere con noi la traversata, ma il caronte è irremovibile sul numero massimo per barca ( 5) così loro aspettano il successivo ( questo aneddoto pare inutile ma si capirà dopo).

Durante il trasbordo corriamo veloci su un mare color melma a causa dei molti fiumi che qui sfociano, guardando verso la jungla che pare fittissima. Parlando di Sarawak penso che deluderei qualcuno se non accennassi a Sandokan, sicuramente mia moglie che è stata grande fan di Salgari in gioventù, ed effettivamente il panorama che ci attornia sembra proprio il set ideale del famoso pirata della Malesia.

La traversata non è brevissima e c’è una bell’arietta: Stefano ad un certo punto dice: “Ehi, sapete che ho quasi freddo?….è bellissimo!” …ecco, quello è stato in assoluto l’unico momento in cui siamo stati bene.

Arrivati nel parco abbiamo infatti iniziato un sentiero nella jungla, il Lintang Trail, che dalla mappa pare abbastanza breve ma in realtà ci porta via parecchio tempo e fatica. Nella foresta c’è una umidità spaventosa, mai sentita una cosa simile, e ci sono anche delle discrete salite ( una la aggiungiamo noi per una quasi inutile deviazione verso un punto panoramico). Si attraversano zone molto diverse del parco: foreste di alberi altissimi, zone umide con mangrovie e ruscelletti di acqua giallognola, aree brulle con delle stranissime spianate rocciose. Sudiamo in maniera indecente e non vediamo neppure un animale (presenti esclusi) e quindi ad un certo punto anche a causa del sopraggiungere dell’ora di pranzo ci lanciamo con i due amici, che sono Siciliani, in una lunghissima dissertazione di cucina che, senza scherzare, sarà durata non meno di due ore: “io la parmigiana la faccio così… a me piacciono i cannoli con le gocce di cioccolato, no io preferisco i canditi… da noi si fa una cosa col formaggio che si chiama Frico… mia zia fa una zuppa di pesce colà…. ecc. ecc..” ad libitum. Per fortuna che non abbiamo incrociato nessuna scimmia nasica, altrimenti ce la grigliavamo lì sul posto. Il trek dopo una lunga discesa arriva ad una spiaggia, Teluk Pandan Kecil, che è meravigliosa, chiusa da scogliere a picco ricoperte di foresta con cascatelle di acqua dolce ed un rigagnolo di acqua fresca che arriva fino in mare e ci godiamo un lungo bagno ristoratore.

Lì troviamo anche un altro gruppo di giovani di Napoli, con i quali ci fermiamo a condividere i giri effettuati e che ci consigliano per cena un posto dove erano stati la sera prima a mangiare pesce a prezzo irrisorio, il tutto con un accento meraviglioso, sembrava di sentir parlare Siani (l’attore di Benvenuti al Sud): “ci siamo accattàti nù pescione e celo siamo mangiati in 6!”.

Alla sera ovviamente eravamo anche noi là, era anche a 500 metri dal nostro hotel, sul tetto di un garage multipiano, e si chiama “TopSpot”. In pratica ci sono un milione di tavolini all’aperto, un casino di gente già lì che mangia e tutto intorno una cosa tipo 30 bancarelle di pesce crudo di ogni tipo e verdure in esposizione. Uno va direttamente lì, si indica al cameriere quello che si vuole mangiare e come lo si vuole preparato (fritto, griglia, salse varie) e poi ti portano tutto pronto al tavolo. Ci proponiamo io e Giovanni come “ordinanti” ma siamo un po’ bloccati oltre dal fatto che non conosciamo metà dei pesci, anche dalla assoluta assenza di prezzi. Avevamo però praticamente saltato il pranzo e quindi alla fine ci guardiamo e concordiamo: “senti, siamo qui in vacanza, prendiamo un po’ di tutto e quel che viene viene!” Andata! Ordiniamo granchi oceanici in salsa al pepe, capelonghe alla griglia, gamberoni fritti, aragosta ai ferri e anche un pescione sempre ai ferri, il tutto accompagnato da una carrettata di riso cantonese che da sola ci avrebbe sfamato ed una insalata assurda chiamata “pako salad” composta da una specie di felci tutte arrotolate a spirale, anche buone. Al momento di aprire il conto tremiamo un attimo, totale: 12€ a testa, mi trasferisco lì. Per digerire ci spariamo anche un ottimo sugar cane ( canna da zucchero) al lime, che ti spremono direttamente lì sul posto con una specie di frullatore gigante.

Il giorno dopo il gruppo prende strade diverse, loro hanno programmato più giorni qui a Kuching e si riposano un attimo, mentre per noi è l’ultimo giorno intero della vacanza, e dobbiamo sfruttarlo. Così ancora una volta ci rechiamo alla stazione dei bus, e ancora una volta invece contrattiamo con un guidatore di van. Alla fine concordiamo un prezzo forfettario per farci portare al Semenggoh Wildlife Centre, dove si trovano gli orang utan. Ci rimaniamo anche un po’ male perché per far salire noi fa smontare una vecchietta con le borse della spesa che era già seduta in taxi ma evidentemente non andava nella nostra direzione: arroganza occidentale.

Il parco è verso sud, abbastanza lontano dal centro e quando arriviamo, nonostante la folle corsa del taxi, l’orario in cui gli danno da mangiare ( dalle 9 alle 10) è quasi finito. Io credevo che essere lì per il feed time fosse utile per avere la certezza di vederli, invece non è utile, ma proprio fondamentale! perché alle 10 ti sbattono proprio fuori dal parco dato che non è uno zoo, ma proprio un centro di riabilitazione! Per fortuna nel poco tempo che ci resta riusciamo a vederne due in alto tra i rami e soprattutto una madre con il piccolo proprio a pochi metri, accerchiati dai turisti ma sempre sotto la sorveglianza dei custodi, perché gli adulti sono proprio grossi e muscolosi, e soprattutto mordono se molestati. Comunque degli animali bellissimi con un pelo rosso veramente particolare.

Spariti gli oranghi, nel giro di pochi minuti c’è un fuggi fuggi generale e ci troviamo noi e altri quattro cinque fessi sotto la pensilina del bus a decidere dove andare, tra questi anche la coppia di spagnoli del giorno prima al Bako. Anche loro come noi, visto che è presto, vorrebbero spingersi ancora più verso sud nella foresta del Borneo per andare a visitare una delle case tipiche Malesiane, definite “longhouse”, ma pare non ci siano mezzi pubblici diretti per arrivarci. Dopo un po’ passa infatti un bus di linea ma torna semplicemente a Kuching. Saliamo comunque ma ci brucia molto la sconfitta e molto indecisi sul da farsi ci pare di capire che smontando ad un paesino più indietro, da lì in qualche maniera forse arriviamo dove desideriamo.

Alla fine smontiamo solo io e Livia e loro rientrano in città, codardi! In realtà questo “cambio” che sulla cartina era chiarissimo si trasforma in effetti in una odissea: appena smontati chiediamo indicazioni ad una ragazza, la quale molto gentilmente ci indica il numero del bus da prendere; il bus arriva, saliamo e chiedo conferma all’autista, che invece mi dice che non va dove dobbiamo andare noi, alla fine quasi si mettono a discutere lui e la ragazza su chi avesse ragione, mah. Appurato che nessun bus faceva la nostra tratta, fermo un paio di taxi e costi quel che costi chiedo a loro: nessuno sapeva la strada per arrivarci, doppio mah! Dopo più di mezz’ora alla fine pare che ci sia qualcuno che sa come arrivare a ‘sta longhouse e disposto a portarci con la sua auto, praticamente un taxista semi abusivo, e ci indica di salire nella sua auto, dove sono già in 3, massì, via in 6! Ci infiliamo in una strada nella jungla con questo personaggio che mi parla in un inglese assurdo, avrò capito il 10% dei discorsi, ma finalmente dopo un bel pezzo di strada, quando ormai disperavamo di combinare arriviamo alla longhouse, eccicredo che sapeva dove era, sua madre abitava lì!

La longhouse in pratica è un grosso conglomerato di abitazioni costruite su palafitte, una attaccata all’altra e fatte interamente di bambù e legno ed era l’unico modo di vivere in mezzo alla jungla: tutte le famiglie insieme anche a gruppi di 100-200 persone sotto lo stesso tetto a sostenersi l’un l’altra nelle necessità di ogni giorno. Ora ne sono rimaste abbastanza poche, svuotate dall’emigrazione verso le città e alcune alla fine campano solo di turismo ma è veramente un modo di vivere antico e suggestivo, non molto diverso da quello che poteva essere già 1000 anni fa ( magari senza le parabole della tv satellitare sui tetti..). Nella sala principale, quella con il focolare, ancora utilizzata nelle occasioni di ritrovo della comunità si vedono ancora appesi i teschi umani dei tagliatori di teste del Borneo, che una volta erano la normalità della regione ed erano il vanto di ogni longhouse.

Tornati a Kuching siamo molto soddisfatti dell’obiettivo minimo raggiunto ma anche abbacchiati dal fatto che il giorno successivo dovremo lasciare questa regione che per il poco che abbiamo visto necessiterebbe una visita ben più approfondita, avendo da offrire esperienze a non finire.

La sera cena ovviamente di nuovo da TopSpot e camminata malinconica lungofiume discorrendo amabilmente con gli amici di viaggi passati e futuri, sorseggiando l’ennesima 100 ( questa la capisco solo io…non importa) della vacanza: siamo dalla parte opposta del mondo.

La mattina dopo l’hotel ci organizza anche il trasferimento in aeroporto, ma aspettiamo che mancano ancora due persone: ovviamente sono sempre i soliti spagnoli del giorno prima! In aeroporto brutta sorpresa da parte di Malaysia Airlines: avevamo infatti incastrato i voli per avere un’ultima mezza giornata a Singapore prima di partire definitivamente per l’Italia e invece non solo ci ritardano la partenza di due ore, ma al posto di volare direttamente su Singapore ci fanno fare una comodissima deviazione a Kuala Lumpur, in pratica entriamo in aeroporto alle 12 a Kuching e non usciremo più da aeroporti e aerei per 23 ore fino a Venezia: comodo!

Ancora più comodo lo scalo di 8 ore a Doha, dalle 24 alle 8 di mattina, in un aeroporto che speravo deserto e invece anche a quell’ora era una bolgia assoluta in cui era difficile perfino trovare da sedersi.

Impeccabile tuttavia Air Qatar che alla fine ci deposita al Marco Polo con addirittura quasi un’ora di anticipo sull’orario di arrivo.

Tirando le somme, io sono rimasto molto soddisfatto del viaggio; eravamo partiti per la Malesia cercando di vedere ancora qualche aspetto abbastanza autentico di un paese del sudest asiatico, trovare anche una natura incontaminata, persone e modi di vivere non ancora del tutto occidentalizzati. E’ vero che spesso “autentico” vuol dire anche: arretrato, con servizi scarni o assistenza ridotta all’osso ma l’impressione che si trae dalla Malesia è che proprio ora siamo al giro di boa. Non abbiamo infatti visitato un paese arretrato, ma anzi anche da soli era possibile muoversi agevolmente in totale sicurezza; ho paura però che già nei prossimi 5 anni il tutto subirà una accelerazione vertiginosa verso la commercializzazione e la globalizzazione, a discapito quella “ingenuità” e leggerezza che ancora si vede in alcuni degli aspetti di questo paese.

Singapore ovviamente fa discorso a se; per certi aspetti si potrebbe considerare come una Las Vegas con un po’ più buon gusto e molti più alberi. Qui di certo non si va a cercare l’autenticità, ma proprio la sua anima variegata e cosmopolita. Sicuramente però il modo in cui si sta ancora oggi sviluppando la rende a mio parere una meta da visitare anche ogni anno, visto che realmente da un anno all’altro la città cambia moltissimo, l’idea è quella di tornarci prima o poi ( spero).

Come al solito mi chiedo quanti siano quelli giunti al termine di questo mio infinito diario; e come al solito invito chiunque abbia qualche domanda ( anche dal punto di vista prettamente pratico, visto che non ho approfondito più di tanto questo aspetto) a contattarmi, anche su Facebook (nome in firma), dove ho caricato anche un numero inusitato di foto di tutti i luoghi citati nel racconto ( qualcuna di buona c’è).

Come chiudere questo diario? ah si:

Il profumo della terra sale fino a noi

E bianca è la sabbia che con l’onda giocherà…

Rosso il fuoco della brace, ci riscalderà

Il mare infinito intorno a noi per l’eternità…

Mompracem vivrà!

Paolo Mariuz



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