È uno degli arcipelaghi più grandi al mondo, e nelle sue 18mila isole troverai incredibili tesori nascosti nella natura

Scritto da: mikitesi
È uno degli arcipelaghi più grandi al mondo, e nelle sue 18mila isole troverai incredibili tesori nascosti nella natura
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Un viaggio di 18 giorni alla scoperta dei tesori dell’Indonesia, terra lontanissima da noi per paesaggi, cultura e abitudini. Una vacanza che è anche un emozionante modo di confrontarsi con le realtà dell’Asia tra tradizioni e culti che si mescolano tra loro.

Diario di viaggio in Indonesia

Lunedì 10 Giugno – Addio Italia

Sveglia a Pistoia ore 9:00, con cento cose da sistemare prima della partenza, fra cui il bagaglio di Michelangelo che, a quattro ore dalla partenza, non è ancora neanche lontanamente pronto. Pranzetto dai genitori di Emmi che ci accompagnano caritatevolmente alla stazione. Pistoia-Firenze una passeggiata, sul treno Firenze-Milano Centrale scopriamo di problemi su tutta la linea milanese. Fortuna vuole che Emmi ha l’ansia di dieci persone ansiose e quindi siamo comunque in anticipo di quattro ore.

Poi Malpensa Express fino all’aeroporto, check-in, lasciamo gli zaini con la paura di non vederli mai più e procediamo a fare il controllo del bagaglio a mano. Tutto regolare e tutto molto presto. Giriamo l’immenso aeroporto di Malpensa alla ricerca di una cenetta che ci sconfinferi e ci lasciamo convincere da una classica cicceria Roadhouse per niente economica. Ci imbarchiamo per Doha in perfetto orario (23:00), aereo gigante per i nostri standard, con schermo privato per ogni sedile con un sacco di intrattenimento e telecamere esterne all’aereo. Filmetto cringe per Emmi (57 secondi è il nome del film) e dormitina super scomoda come solo sugli aerei si può fare (il volo dura quasi sei ore). 

Martedì 11 Giugno – Jakarta

Dopo due ore di volo ci servono una specie di colazione super dolce che, con le alette di pollo ancora sullo stomaco, forse un è po’ too much. Altra dormita tutti accartocciati e atterriamo a Doha verso le 5:30 (ora locale). Colazione da Starbucks con Michi che viene subito soprannominato Migaranjo. Sarà il suo nome Indonesiano da ora in poi. Tre ore di scalo passano velocemente, ci imbarchiamo su un altro giga-volo di Qatar Airways (aereo ancora più grande del primo), dura giusto otto ore e mezza. Visto Spiderman Homecoming e Wish in coordinazione con Migaranjo e giocato a Topolino e al Milionario. Il nostro compagno di fila ha dormito per l’intera la durata del viaggio. Non facile per noi svegliarlo per andare in bagno, povera stellina. Arrivati all’aeroporto di Jakarta capiamo subito che non tutti parleranno inglese ma non ci arrendiamo. Il visto turistico l’avevamo già fatto dall’Italia, al costo di 519.500 rupie a testa (https://molina.imigrasi.go.id/). Recuperiamo super velocemente i nostri bagagli. Facciamo la dichiarazione – obbligatoria – sui beni importati, poi facciamo la SIM con Telkomsel, preleviamo all’ATM e ci spostiamo nella sauna che c’è all’esterno dato che oggi lì ha piovuto (qui è dove cominciamo anche a notare i forti odori dell’Indonesia).

Mentre cerchiamo di far partire Grab o Gojek si avvicina un tipetto mediamente losco, che ci dice “Taxi?”. Senza logo, senza niente che indicasse la sua affidabilità, se non le infradito incredibili con cui volava sull’asfalto bagnato. Si chiama Dodo, ci rassicura sul fatto che le SIM inizieranno a funzionare tra un po’ e che ci può portare in 20 minuti all’albergo (abbiamo prenotato a The Risman Hotel perché è economico – meno di 400.000 rupie – e molto vicino all’aeroporto). Visto che è un tipo tenero ci affidiamo a lui anche per tornare in aeroporto la mattina seguente. Nel breve tragitto dall’aeroporto all’hotel, sarà probabilmente che ci troviamo in una zona periferica, lo scenario che ci si para davanti non è affatto quello di una Jakarta in vivace sviluppo economico-sociale (come forse ci aspettavamo?). Al contrario, numerose baracche (fatiscenti ai nostri occhi) di disparate attività commerciali, shop, officine, affollano i bordi delle strade. Arriviamo in hotel e ci fiondiamo in doccia, per metterci a letto tardissimo, verso mezzanotte. 

Mercoledì 12 Giugno – Tanjung Puting (1)

Addormentarsi non è facile, il viaggio è stato alquanto stressante e ci ha lasciato un sacco di agitazione addosso, e in più la sveglia è impostata appena quattro ore più tardi. Alle 04:00 ci vestiamo assonnatissimi e scendiamo alla reception dove Dodo ci aspetta. Chiacchierine sulla religione suscitate dal fatto che alle quattro di mattina si sentono i canti degli imam, e poi moltissimi auguri da parte sua per il nostro futuro matrimonio e tanti bambini. Tra andata e ritorno lo abbiamo pagato 300.000 rupie (solo dopo scopriremo che è un prezzo esageratamente alto, per turisti ingenui). Per le strade è pieno di gente che lavora, che tiene aperti baracchini e armeggia in piena notte. Non li invidiamo per niente. Arrivati all’aeroporto lasciamo di nuovo i nostri bagagli in mano alla compagnia aerea Citilink (volo pagato 2.785.089 rupie in due), sperando di essere fortunati come ieri. Colazione veloce e ci imbarchiamo per Pangkalanbun, l’aeroporto in Kalimantan. Accanto a noi sull’aereo siede Gede Eka, un funzionario del governo che si occupa di sicurezza sugli aerei (a quanto abbiamo capito) con cui iniziamo una tenerissima discussione sui rispettivi costumi e tradizioni. Conosce i calciatori italiani meglio di noi. (Terima kasih significa grazie, Sama sama significa prego).

Un’altra cosa che colpisce Emmi è che ci individua subito come pastari e si stupisce di quante opzioni abbiamo per condire la pasta quando rispondiamo alla sua domanda: “In the spaghetti do you put mayonese or cheese?”. Ritarda di un’ora l’atterraggio perché le nuvole erano troppo dense e non si vedeva la pista (il pilota gira a vuoto tipo avvoltoio, per 45 minuti, fin quando non migliora la visibilità). Arriviamo finalmente all’aeroporto di Pangkalanbun. Rispetto all’immenso areoporto di Jakarta, questo sembra davvero un posto dimenticato da Dio, dal sapore molto artigianale. Da quando siamo qui, aspettando la consegna dei bagagli, è saltata già la corrente due volte. Raccattiamo incredibilmente i bagagli, e la nostra guida è già ad aspettarci fuori dall’aeroporto (con un cartello che riporta il nostro nome). L’avventura che ci aspetta l’abbiamo organizzata con Jenie Subaru (jeniesubaru@gmail.com), suggerito dalla Lonely Planet. Il prezzo è di 7.500.000 rupie che include letteralmente tutto per un viaggio di due giorni e due notti. La nostra guida, assegnataci da Jenie Subaru, è un ragazzo timido e gentile di nome Deny. Insieme a lui, saliamo in macchina con un autista e scopriamo subito che agli autisti (di ogni tipo) piace il brivido della morte. Hanno la guida a destra ma in realtà non esistono davvero la destra e la sinistra, è un continuo zigzagare per le strade giusto per evitare le buche.

Arrivati a Kumai ci fanno subito salire sul nostro klotok privato, o meglio, ce ne fanno attraversare quattro o cinque a piedi (che allineati formano una sorta di ponte improvvisato) per arrivare al nostro. Oltre a noi e a Deny, sul nostro klotok abbiamo anche una cuoca, il capitano della nave e una specie di mozzo. Appena saliti a bordo ci portano la colazione, primo pasto Indonesiano! Riso, noodles e uova. Inizia il percorso lungo il fiume Sekonyer che segna uno dei confini del Tanjung Puting national park (perciò tutto ciò che si trova sulla nostra destra è parco nazionale). In questa prima parte del percorso, spiega Deny, la pressoché unica pianta che domina le sponde del Sekonyer è quella che chiamano Nipa palm. Non si riesce a vedere la terraferma sulle sponde del fiume ai piedi delle palme, e Deny spiega che l’acqua è molto alta a causa delle copiose piogge dei giorni scorsi. In effetti, è stato un anno insolitamente piovoso (Giugno è tipicamente stagione secca in Indonesia!), ci racconta chiamando in causa il cambiamento climatico.

Poco dopo l’inizio del percorso, ecco che avvistiamo un coccodrillo (di acqua salata, spiega Deny, risalito dal mare) che nuota appena sopra il pelo dell’acqua. “E pensava che non lo vedessimo perché si era nascosto dietro a una foglia”. Migaranjo vede anche una scimmia arancione, probabilmente una nasica o proboscis monkey. Giungiamo al primo feeding point degli orangotanghi, Tanjung Harapan. Scesi dal klotok ed entrati nella giungla, Migaranjo inizia a tartassare Deny su tutte le piante che vede per la strada, inutile dire quanto Deny sia esausto e non sappia più difendersi dalle domande del botanical nerd. C’è un forte odore caratteristico. Migaranjo è inebriato (“mi ricorda l’incenso o forse la resina d’albero”), Emmi non altrettanto. Al feeding point gli orangotanghi non si palesano, saranno sazi dice Deny. In effetti in questo periodo fruttifica il Ketiau (Ganua motleyana), e gli orangotanghi ne vanno matti e spesso si saziano con quello. Dopo un’ora di attesa arriva un giga-bellissimo orangotango, potenzialmente capo branco. E Invece no, si chiama Erwin, ha trent’anni e lo osserviamo mentre si mangia la metà del cibo disposto al feeding point (seriamente kili e kili di banane e patate dolci). Torniamo al klotok alle 17:00, è già crepuscolo, e – colpo di scena – Deny ci rivela che quegli strani uccelloni neri che volano numerosi sopra al fiume sono, a guardarli meglio, volpi volanti. Siamo meravigliati. Nessuna guida o forum ci aveva preparato alla cosa. Questo perché in effetti non si vedono quasi mai, poiché stanno nella parte più interna della foresta, e si avvicinano soltanto nell’epoca in cui fruttifica il Ketiau, che cresce in prossimità del Sekonyer. Guardandoli volare, sembrano molto più grossi di quanto non ci aspettassimo, quasi demoni del crepuscolo. Ci riposiamo per un’oretta e poi trekking notturno (in realtà sono le 18:30 ma è già buio pesto) di un’ora in cui abbiamo visto: funghi bioluminescenti, insetti stecco enormi, una tarantola cortesemente avvistata da Emmi che prima si è cagata sotto ed è scappata e poi l’ha mostrata agli altri, ranocchiette, un red crown bird (ma aveva un nome locale, tipo Barbat) e un altro uccellino dolce giallo, una miriade di ragni orribili e velenosi, una vipera appostata su un albero in attesa di una malcapitata preda, un bruco buffo, formiche giganti, un insetto foglia, farfalle giganti, due lucciole, un paio di assassin bugs.

Dopo una deliziosa cenetta ci lasciamo cullare dall’acqua del Sekonyer ascoltando il canto di rane, cicale, uccellini e più tardi di una pioggia intensa.

Giovedì 13 Giugno – Tanjung Puting (2)

crazy head

Ci svegliamo alle 5:30 osservati da un orangotango che cerca di attirare la nostra attenzione. Colazione e si parte per il secondo feeding point, Pondok Tanggui. Lungo la strada vediamo macachi, una scimmia con la proboscide (nasica) che dorme col suo piccoletto abbracciato, dei tucani e qualche volpe volante. Arrivati a Pondok Tanggui lo troviamo allagato, Deny dice che è normale perché sta piovendo molto in questo periodo, quindi, arrivati alla base del percorso sommerso lui dice “now we swim”. Ci guardiamo intorno per capire effettivamente da dove passeremo. Peccato che non scherzava, e attraversiamo un tragitto di circa cento metri immersi nell’acqua nera fino alle ginocchia sperando di non essere morsi da qualche strano essere. Arrivati al feeding point troviamo già la foresta in movimento. Nell’arco di due ore vediamo un enorme orangotango maschio adulto, uno adolescente, due giovani che palesemente si conoscevano già, due mamme col rispettivo piccolo di cui il secondo soprannominiamo Coccoletto Crazy-Head perché ha dei buffi capelli, e quattro macachi che saettano sugli alberi e sulle liane come se volassero. Poi di nuovo sul klotok, pranzo (buonissimo come sempre) e poi siesta. Nel tragitto osserviamo anche alcune piccole palafitte sulle sponde, ci sono delle persone, ci sorridono.

Chiediamo a Deny, dice che loro vivono lì, sono pescatori. Eccoci arrivati al terzo ed ultimo feeding point, Camp Leakey. Ormai già quasi stufi di stare a guardare orangotanghi per ore, e soprattutto consapevoli che difficilmente avremmo potuto osservare una varietà di individui come quella della mattina stessa, siamo presi in contropiede dalla comparsa di Bo, un gibbone semi-selvatico, che si libbra rapidissimo da un ramo all’altro (“come Peter Parker” suggerisce giustamente Deny) e arriva in un baleno, pretendendo platani dai ranger del parco. Al confronto, i macachi di stamattina sembrano goffi e lenti (per non parlare degli orangotanghi).

La sera, dopo cena, Deny si siede per la prima volta al tavolo con noi e passiamo un’oretta a chiacchierare amabilmente di tutto ciò che ci passa per la mente. La vita a Kumai è molto noiosa (anche se proprio adesso è stato finalmente fondato il primo cinema locale!), dice, per questo ama il lavoro che fa. Poi seguono i confronti tra Italia e Indonesia sul clima, la politica, la religione, ecc ecc. 

Venerdì 14 Giugno – Da Semarang a Yogyakarta

Ultimo pasto sul klotok, ultimo tragitto sul fiume, e poi Deny ci accompagna da Kumai all’aeroporto di Pangkalanbun, con la sua solita introversa gentilezza, e ci salutiamo. L’aereo di Batik Air come previsto da Deny è in ritardo di un’ora, abbiamo tutto il tempo di sperimentare il disagio del piccolissimo aeroporto di Pangkalanbun in cui i controlli fanno ridere e più che controllare i passaporti contano i posti occupati sull’aereo e siamo a posto così. Oggi giornata di spostamenti, usiamo per la prima volta Gojek per arrivare dall’aeroporto di Semarang alla stazione principale Semarang Poncol.

Stampiamo i biglietti (tutti i biglietti dei treni li abbiamo acquistati sul sito web Tiket.com, prezzi generalmente molto economici per le nostre tasche, anche per la classe Business o Executive). In attesa del treno ci mangiamo un bel pranzetto locale. Due ore e mezza circa da Semarang a Solo più cinquanta minuti da Solo a Yogyakarta e le stazioni in generale ci fanno capire che nessuna compagnia ferroviaria farà mai schifo quanto Trenitalia. Qui i treni sono in orario, sono puliti (sarà forse che siamo in Business Class), si può davvero caricare il telefono e la gente non sbraita né tiene il telefono a tutto volume. Tutto molto apprezzabile.

Il tragitto da Semarang a Solo inoltre ci regala un suggestivo spaccato della campagna rurale di Java, coi suoi campi coltivati dai contadini (che portano davvero l’iconico cappello a cono!). Nei numerosi kilometri che abbiamo attraversato, non si è visto un singolo trattore! Arrivati a Yogyakarta, con Maxim raggiungiamo il nostro homestay, che si rivela una piccola chicca (Delta Homestay, 1.058.062 rupie per tre notti). Un cortile con piscina e con notevole cura botanica, su cui si affacciano tutte le camerette. Ceniamo in un piccolo ristorantino, dove assaggiamo un piatto tipico di Yogyakarta a base di tempeh. Infine bagnetto in piscina e poi a nanna.

Sabato 15 Giugno – Yogyakarta & Prambanan

water palace

Sveglia con calmissima stamattina, addirittura alle 7:40. Colazione in homestay e partiamo alla scoperta di Yogyakarta. Ci dirigiamo a piedi verso il Kraton e ci accorgiamo che il semaforo per i pedoni non esiste. Dopo cinque minuti passati in attesa al primo incrocio, capiamo che è necessaria un po’ di grinta per girare a piedi, ma non ci arrendiamo. Arrivati vicino al sultanato veniamo abbordati da Jon, un tizio molto simpatico da cui Emma ingenuamente si fa fregare pensando che non avesse interessi economici. Si sbagliava. Jon ci dice di conoscere un po’ l’italiano perché suo fratello l’ha studiato in Italia e ci intorta recitando trentatré trentini, ci accompagna fino al quartiere del sultano e ci butta subito in un negozio di marionette di cuoio. Delle marionette del teatro (wayang) fatte di pelle di bufalo intagliate a mano e dipinte a mano una per una, in appena sette giorni di lavoro. Dopo un po’ di contrattazione, per la modica cifra di 800.000 rupie ne compriamo una di Visnu perchè sono bellissime e perché i tipi ci stanno simpatici.

Dopo aver salutato Jon, che ci ha comunque chiesto un regalino, ci dirigiamo verso il Taman Sari o Water Palace. Praticamente le ex-piscine del sultano, molto fighe, e in ogni punto c’è una faccia di Kala, la divinità del “Tempo”, che tiene lontani gli spiriti maligni, col suo tipico sorriso folle e la lingua di fuori. Alle 11:30 siamo già stremati per il caldo e l’umidità, l’unica cosa che ci rinvigorisce è la scoperta del mercato di frutta e verdura in cui troviamo una serie di verdure di cui ci era pervenuta solo la leggenda, per non parlare del tempeh e del tofu freschi arrotolati nelle foglie di banano. A mezzogiorno dopo vari giri a caso riusciamo ad entrare al Kraton, la “casina” del sultano, ma siamo talmente cotti che non ci funziona più il cervello. Ciò nonostante, ci colpisce di più del Taman Sari, per via di alcuni dettagli, quali i gamelan e le statue d’argento. Alle 12:40 usciamo affamati in cerca di cibo e una ragazzina ci indica un banchino di cibo locale di una (crediamo) famiglia che aveva appena finito di pranzare. Ci preparano un piatto casuale con quello che hanno sul banchino, ci danno due sedie di plastica e ci fissano estasiati per tutta la durata del pranzo. Mangiamo riso bianco con tempeh fritto, uovo, e una zuppetta piccante con tofu e una verdura locale (forse foglie di cassava?). Decisamente spartano, ma saporito! 35.000 rupie in totale per un pranzo per due persone! (Prezzo più basso mai pagato in tutta la nostra vacanza indonesiana). Ormai sazi decidiamo di tornare all’homestay rischiando la vita su un Becak (ciclorisciò). Tuffo in piscina, pisolino e siamo pronti per il nostro autista che alle 14:30 ci passa a prendere per portarci a Prambanan (organizzazione del tour improvvisata soltanto la sera precedente tramite la Lonely Planet che suggeriva Java Heritage Tour! Prezzo due milioni di rupie, che include ingresso al complesso templare con guida, biglietto per il Ramayana Ballet e trasporto). Il autista si chiama Agus ed è un tipo molto socievole. Ci racconta di conoscere abbastanza bene l’Italia perché fino al 2011 lavorava sulla MSC Crociere. Ci racconta una storia terribile su un suo amico a Napoli e poi Migaranjo devia nuovamente la conversazione sul mondo vegetale.

Arrivati a Prambanan, Agus ci affida nelle mani di Eddy la nostra guida ai templi “un italiano reincarnato in un corpo indonesiano” che ci illustrerà la via della liberazione dall’illusorio benessere materiale oltre alle molte informazioni sui templi di Prambanan e in particolare sulle infinite raffigurazioni presenti. Abbiamo apprezzato molto il suo spiegone introduttivo – comunque sempre spiritoso – in cui ci ha parlato, tra le altre cose, del concetto di avatar (manifestazione terrena di una divinità). Alle 18:00 circa finisce il tour, Agus ci porta a mangiare il Gudeg, piatto a base di jackfruit e latte di cocco, tipico di Yogyakarta. Un po’ dolce, un po’ coccoso ma ci sta. Agus cena insieme a noi nel warung, ed è qui che ci invita ad andarlo a trovare nella sua casa il giorno dopo, facendoci capire che ci avrebbe fatto assaggiare un sacco di cibo locale e che non ci avrebbe chiesto una lira. La sua ospitalità ci scalda il cuore, ma il giorno dopo purtroppo desisteremo, all’idea di noleggiare un motorino e guidare quaranta minuti nel traffico di Yogyakarta.

Un vero peccato. Il tour si conclude con il Ramayana ballet. Lo spettacolo unisce diversi elementi della cultura locale: i variopinti costumi dei ballerini e le loro maschere, l’onirica musica gamelan e la cantante (che presumibilmente narra le vicende rappresentate). Purtroppo non abbiamo ricevuto la brochure che illustra la trama rappresentata, quindi non capiamo nulla della narrazione. Solo dopo scopriremo che si tratta della storia di Rama e Sita – la stessa che era raffigurata su uno dei templi di Prambanan e che ci era stata spiegata da Eddy. 

Domenica 16 Giugno – Borobudur

Il programma di stamattina è la visita a Borobudur. Già la sera prima ci eravamo un po’ agitati nel vedere che i biglietti di accesso per la struttura del tempio (ma non quelli per l’accesso al parco) erano sold out sul sito ufficiale. Nondimeno, ci siamo detti che avremmo raggiunto il tempio confidando che almeno una quota dei biglietti per l’accesso alla struttura sarebbe stata riservata per la vendita sul momento, o comunque che pagare una guida ci avrebbe garantito l’accesso alla struttura. Ci sbagliavamo, ma una cosa per volta! Con l’obiettivo di contenere i costi, visto che la Lonely indica l’esistenza di un bus per Borobudur, decidiamo di tentare questa possibilità. Il terminale del bus per Borobudur purtroppo è in periferia, quindi spendiamo 40.000 rupie solo per raggiungerlo con Gojek. Arrivati alla stazione bus, la situazione non sembra proprio a misura di turista. Riusciamo a trovare un centro informazioni, ma nessuno parla inglese. Inizialmente il tizio sembra dirci che il bus per Borobudur si prende da tutt’altra parte, cosa che ci sconforta molto. Poi invece riusciamo a capire che esiste anche un’altra soluzione che parte da lì. Dovremo prendere un bus per Muntilan (20.000 rupie a testa) e poi da lì un secondo bus per Borobudur (10.000 rupie a testa)… la Lonely non lo menzionava.

Le postazioni sul bus sono fatte su misura indonesiana, in altre parole noi due non ci entriamo perché abbiamo le gambe troppo lunghe! Poi passa il tizio che raccoglie i soldi del biglietto (anche se curiosamente non vi è alcun biglietto inteso come pezzo di carta o supporto fisico). Noi facciamo il gesto del due con le dita, lui ci risponde facendo il tre, e questo già ci fà innervosire. Poi ribadiamo che scenderemo a Muntilan, e non al capolinea, e gli mettiamo in mano un pezzo da 50.000 rupie perché non ce li avevamo precisi. Lui fà ok ok ma mica ci dà il resto. A Muntilan prendiamo il secondo bus, un furgoncino malridotto con due panchine nella stiva. Con vari gesti delle mani, stavolta ci assicuriamo subito che il prezzo procapite sia quello che ci avevano detto ovvero 10.000 rupie. Lui annuisce e noi gli diamo i soldi. Menomale! Nel tragitto verso Borobudur, siamo solo noi due e poi un’altra vecchina che sale alla fermata successiva. Poi la vecchina scende all’ennesima fermata, ma prima di scendere farfuglia qualcosa al conducente e poi entrambi si mettono a blaterarci qualcosa su Borobudur e su un certo “terminal” e ovviamente ci stanno chiedendo soldi. Non c’è verso di dirgli alcunché a causa della barriera linguistica, ma in sostanza vogliono darci da intendere che il punto in cui ci siamo appena fermati sarebbe il fantomatico “terminal”, e che quindi se vogliamo essere portati precisamente a Borobudur dobbiamo sganciare altre 10.000 rupie a testa. Ecco fatto, ci hanno fregati anche qui.

Fun fact: quando Emma apre Google Translate (modalità “conversazione”) da indonesiano a italiano, per quanto i due stessero parlando l’uno sopra all’altro e per quanto parlino javanese che è sicuramente diverso dall’indonesiano, l’unica frase che Google traduce è: “Ora è il momento di raccontare una bella barzelletta”, coincidenze? Ma vabbè andiamo avanti. Finalmente siamo arrivati a Borobudur. Avevamo messo la sveglia alle 6:30 per cercare di evitare le ore più calde della giornata, e invece siamo arrivati lì alle 10:30, quando con un gojek che ci avesse raccattati direttamente all’homestay probabilmente saremmo già arrivati a Borobudur da una o due ore. Certo, avremmo speso di più, ma col sennò di poi non molto di più, in effetti. Quando capiamo che non c’è alcun modo di ottenere il biglietto di accesso alla struttura del tempio, il nostro morale – già disturbato – precipita. Ma ormai siamo lì, e quindi facciamo il biglietto di ingresso al parco per 400.000 rupie (peraltro quasi alla stessa cifra del biglietto integrale, e con lo schiaffo in faccia di vedere che il costo del biglietto per gli indonesiani è letteralmente un ottavo del prezzo per gli stranieri).

Quando imbocchiamo il viale alberato che conduce all’ingresso del tempio, quella che ci si para davanti è una struttura titanica, un senso di enormità che nessuna foto prima di quel momento avesse potuto comunicarci. Sapere di potervi girare intorno ma non accedere è davvero frustrante e deprimente. A questo punto, né lo stupendo giardino, né l’interessante museo che illustra il bassorilievo del livello inferiore del tempio, ci offrono una consolazione accettabile. Usciamo dal parco, veniamo assaliti da venditori ambulanti e da quelli dei baracchini che cercano di venderci qualsiasi cosa a prezzi assurdi. È un caldo bestia. Per fortuna pranziamo in un warung spartano ad un prezzo da local e mangiando cose buone. Oggi siamo frustrati e non ci fidiamo più di nessuno. Con Gojek andiamo al tempio di Mendut, la Lonely diceva 3.500 rupie ma a quanto pare anche qui deve essere arrivata la politica di ingigantire il prezzo per gli stranieri, paghiamo 20.000 a testa. Questo tempio, che ovviamente non può che apparire minuscolo in confronto a Borobudur, in realtà si rivela molto affascinante, anche e soprattutto quando entriamo dentro e osserviamo la grande statua del buddha, alta svariati metri. Anche l’adiacente monastero buddhista, forse sottovalutato, è in effetti assolutamente degno di visita. Poi torniamo a Yogyakarta, e in particolare facciamo giro lungo Jalan Malioboro, dove vediamo un volto della città certamente diverso da quello della mattina, un volto più ricco e benestante. Infine torniamo in homestay, bagnetto in piscina, doppia cena e poi a nanna.

Lunedì 17 Giugno – Rainbow Village 

Sveglia alle 6:30, colazione con la box che ci hanno preparato la sera prima avvisandoci che oggi sarebbe stata festa nazionale (Idul Adha) e che prima delle 8:00 non avrebbero lavorato. Tutto freddo ma accettabile, anche se a Migaranjo la colazione qui al Delta Homestay non faccia impazzire in generale. Mentre mangiamo ci si avvicina un francese ospite della struttura dicendo di aver sentito che dovevamo andare alla stazione e chiedendo se fossimo riusciti a trovare un autista o se potessimo al massimo dividere un taxi con lui, perché essendo Idul Adha non lavora nessuno. Dopo vari tentativi di chiamare varie compagnie usando app o telefono della reception, senza successo decidiamo di partire a piedi per percorrere i tre chilometri e mezza che ci separano dalla stazione di Lempuyangan. Tempo stimato 56 minuti di cammino (con tanto di zaini da dieci kg in spalla).

Fortuna vuole che dopo aver percorso cento metri fuori dalla struttura troviamo un omino assopito su un Becak che per la modica cifra di 50.000 rupie (prezzo alto ma ovviamente non possiamo permetterci di fare gli schizzinosi stavolta), con le strade praticamente vuote ci porta alla stazione in una ventina di minuti. Treno in perfetto orario, carrozza Business, in cinque ore e mezza ci porterà a Surabaya. Sfruttiamo tutto il tempo del tragitto per fissare gli ultimi cinque giorni a Lombok. Due notti a Gili Gede e due notti a Tetebatu (spoiler: ci sarà infine un cambio di programma e prolungheremo il soggiorno a Gili Gede, senza andare a Tetebatu). Contattiamo la prima struttura che ci ospiterà, ed essendo su un’isoletta non troppo collegata chiediamo se forniscano imbarcazioni veloci da Bali direttamente all’isola, ci dicono che quel servizio è disponibile dal lunedì al sabato e noi, ovviamente, ci arriveremo di domenica. Le sperate cinque ore di tranquillità che ci aspettavano sul treno diventano ore di ricerca su tremila siti per capire come raggiungere il posto dato che la soluzione alternativa che ci proponeva la struttura era macchinosa e dispendiosa (fast boat 825.000 rupie per persona fino a Bangsal Harbour, poi macchina 550.000 rupie fino a Tembowong e infine barchetta 200.000 rupie). Emmi dopo un po’ si arrende all’idea del traghetto lento di cinque ore da Padang Bai (Bali) fino a Lembar (Lombok), ma Migaranjo continua a cercare trovando tutta una serie di informazioni sconfortanti sui traghetti. A malincuore, decidiamo dunque di optare per l’opzione offerta dalla struttura. Alle 13:55 arriviamo a Surabaya, ad aspettarci c’è già il nostro autista Roby. Abbiamo prenotato tutto dall’Italia, il servizio si chiama East Java Driver (su internet si trova il sito web e anche le recensioni su Tripadvisor). Il prezzo, che include il trasporto per cinque giorni e quattro notti, e anche le bottigliette d’acqua e anche il biglietto del traghetto per Bali, è di 5.650.000 rupie. Carichiamo i nostri zaini in macchina e torniamo in stazione per un pranzetto veloce. Verso le 14:30 ripartiamo, l’obiettivo è il Kebun Raya Purwodadi. Purtroppo però, una volta arrivati alle 16:45, siamo già troppo a ridosso dell’orario di chiusura. Roby allora ci porta al Kampung Warna Warni (Rainbow Village) a Malang, un villaggetto molto povero, letteralmente sotto un ponte che hanno riqualificato colorando ogni casetta con un colore diverso o riempiendole di graffiti e sculture, in modo da attrarre turisti. Si paga un biglietto di ingresso irrisorio e ci immergiamo tra le loro case e i loro giochi, questo posto è pieno di bambini, un pastore con le pecorelle e tanti ragazzetti che pescano nel fiume che passa lì in mezzo. Dopodiché Roby ci accompagna in hotel a Malang (Trio Indah 2, a 700.000 rupie per due notti) ci riprendiamo un attimo e poi usciamo per cena a cercare un posticino trovando un piccolo ristorantino vuoto che fa ramen. Tornati all’hotel dopo un gelato schifosissimo con sopra delle palline di gelatina nera, Migaranjo è il primo colpito da problemi intestinali. Una compressa di probiotici e tutto a posto. Si va a nanna.

Martedì 18 Giugno – Tumpak Sewu & Kapas Biru

cascata

Sveglia alle 6:30. Migaranjo, che sperava che quello della sera precedente fosse soltanto un disturbo intestinale passeggero, si accorge che potrebbe non essere così. Fortunatamente Emma dispone di quei probiotici inarrestabili che usano in ospedale (che scopriamo essere composti da un solo ceppo selezionato di Saccharomyces boulardii), e nell’arco di poche ore i sintomi sembrano spariti. Nel frattempo Roby ci passa a prendere all’hotel alle 7:30 e in due ore e mezza giungiamo al punto d’inizio del trekking per le cascate di Tumpak Sewu. Roby ci spiega che vi è un unico percorso ad anello lungo il quale troveremo quattro punti di interesse, e quasi presso ciascuno di essi ci sarà una somma da sganciare per poter proseguire, per un totale di 120.000 rupie a testa.

Il primo punto di interesse è la vista panoramica delle cascate dall’alto. È particolare in quanto la sezione della parete verticale è una sorta di enorme semicerchio, e lungo la parete si riversano un torrente locale ma anche e soprattutto le acque che sembrano sgorgare direttamente dalla foresta. Poi iniziamo il trekking in discesa per giungere alla base delle cascate. Una scalinata inverosimilmente ripida che si alterna a tratti in cui si cammina letteralmente attraverso le numerose cascatelle, con l’acqua fino alle caviglie. Finalmente arriviamo alla base delle cascate. La vista è spettacolare, anche se l’eccessiva folla di turisti rovina un po’ il momento. Poi il trekking prosegue su e giù attraversando varie altre cascate minori, fino alla grotta di Goa Tetes, e infine risaliamo. Roby ci porta a pranzo e subito dopo si riparte con un altro trekking che porta alla cascata di Kapas Biru, che si trova agli antipodi delle Tumpak Sewu in termini di affluenza di visitatori (il biglietto è molto più economico), e infatti ci godiamo molto di più la quieta discesa, soffermandoci su tutte le piante e i fiori che attirano la nostra attenzione.

Per noi è incredibile osservare le piante di caffè, evidentemente coltivate in passato, che ora si sono inselvatichite e mescolate col bosco, cresciute fino a diventare piccoli alberi. Stupende anche le palme da cocco, dalla statura mastodontica. E poi quando finalmente dopo un’ora di discesa giungiamo a valle, ecco che ci si para davanti la cascata di Kapas Biru. Questa, contrariamente all’altra, è proprio una cascata prototipica. La parete verticale è piatta, ricoperta da una variegata vegetazione perlopiù strisciante o simile al muschio, su cui si riversa il torrente formando un’unica grossa colonna d’acqua che si schianta giù con possente fragore. Anche l’ambiente circostante è altrettanto iconico. Infatti, vi è intorno uno spiazzo con vegetazione rada che permette la vista da quasi un centinaio di metri, eppure vi sono svariati elementi che occupano la parte alta dello sguardo: un boschetto di bambù qui, poi là un paio di alberi particolarissimi simili a felci ma con il tronco, e così via. A concludere il quadretto, alcuni uccellini – rondini ai nostri occhi – che svolazzano in prossimità del corso d’acqua. Dopo esserci presi il nostro tempo, riprendiamo la via del ritorno, felici di essere stati portati qui. Nelle due ore di macchina di ritorno verso Malang, conversiamo con Roby e tra le varie robe gli diciamo che, quanto al mangiare, per noi vanno benissimo i warung che offrono cibo tipico indonesiano, memori delle spartane ma piacevoli esperienze a Yogyakarta. Lui giustamente ci prende alla lettera, e ci porta in un warung davvero spartano, per noi anche troppo. Infine torniamo in hotel e poi doccia e a nanna.

19 Giugno Mercoledì – Gunung Bromo

foglie di banano

Colazione in hotel e partenza alle 8:00. Dopo un’oretta arriviamo ai giardini botanici Kebun Raya Purwodadi (prezzo d’ingresso molto basso, che ci fa capire che non è un posto turistico). Con disappunto scopriamo subito che non vi è alcun tipo di informazione didattica ad eccezione delle targhette che indicano il nome della specie a fianco di ciascuna pianta. Ci mettiamo l’animo in pace e proseguiamo il tour, girovagando a caso attraverso il parco, che si rivela vastissimo. Facciamo un po’ di foto, alcune piante sono davvero mastodontiche, e poi ammiriamo le liane, una parte anatomica che è impossibile osservare nelle piante europee. A un certo punto, inaspettatamente, incontriamo un numeroso gruppo di macachi sul nostro cammino! Dopo due ore di passeggiata, capiamo di aver visitato solo una piccola frazione del parco, ma è ora di andare. Dopo altre due ore di macchina, pranzo in ristorante a Cemoro Lawang, il paesino che si trova in prossimità del Gunung Bromo. Dai brividi di freddo ci accorgiamo di essere saliti parecchio di quota: siamo intorno ai 1800 metri.

Qui è zona rurale: ogni centimetro di terra è occupato da coltivazioni, ma diversamente da quel che si vedeva in pianura, qui predominano ortaggi. Soprattutto vediamo campi di cipolle e cavoli. Curiosamente, lo stramonio abbonda da queste parti (mentre non ne avevamo visto giù in pianura): è ornamentale o cresce spontaneo? Roby ci spiega che la popolazione locale qui è a maggioranza Indù: sono i Tenggeresi. Le canne di bambù decorate con foglie di palma da cocco fanno parte dei preparativi per un’importante celebrazione locale (Yadnya Kasada) che si terrà tra un paio di giorni, in cui si renderà grazie al vulcano con doni composti da cibi vegetali avvolti in foglie di banano (vedi Foto 4). La leggenda vuole che i Tenggeresi siano i diretti discendenti dei sovrani del regno Majapahit, che dominavano l’Indonesia prima del dilagare dell’Islam.

L’ingresso nel parco nazionale del Bromo-Tengger-Semeru e l’ingresso per il cammino sul cratere del Bromo, presi insieme, sono 230.000 rupie (ma aumenta nel fine-settimana). Verso le 15:00 inizia il nostro trekking verso il cratere del Bromo (a questo giro è Emmi che si è presa la diarrea), in ritardo di un’ora sulla tabella di marcia, Roby ci fa avvicinare ad un punto panoramico sopraelevato in cui scorgiamo in lontananza il gunung Batok e il gunung Bromo, sembrano distare giorni di cammino. Probabilmente, ad amplificare la sensazione di distanza, è un elemento tipico del panorama del vulcano: l’oceano di sabbia che lo circonda.

A questo punto Roby ci dice: “bene si parte da qui, basta che seguite la strada, tranquilli, in due ore andate e tornate”. Abbastanza sconvolti per l’apparente immensità che ci separa dal vulcano e dalle alture che lo abbracciano, iniziamo la discesa prima attraverso una ripidissima strada asfaltata, poi, ci inoltriamo nel mare di sabbia. Nonostante l’altitudine e il frescolino sperimentato prima, c’è un sole cocente, sembriamo dei beduini che stanno attraversando il Sahara oppure dei Fremen in attesa di Shai-Hulud. Dopo una mezz’ora passiamo vicino a un tempio induista molto grande in mezzo al deserto e sentiamo in lontananza i tamburi Tenggeresi che ci accompagnano lungo il cammino.

Una volta ai piedi del Bromo inizia la scalata, prima di terreni sabbiosi quasi lunari, poi di duecento e più scalini ripidissimi fino al cratere vulcanico. Con qualche pausetta arriviamo in cima. Assurdo stare sul cratere, sull’orlo del precipizio mentre esala gas di zolfo dalle sue viscere. E dall’interno proviene un rumore tipo un rombo continuo. Insomma, è come essere sul Monte Fato per distruggere l’anello. Unica differenza? Niente lava (ora abbiamo finito con le citazioni, forse). Quando torniamo da Roby sono effettivamente trascorse poco più di due ore, ma ormai è troppo tardi per fare anche il trekking fino a Kingkong Hill. Roby ci porta quindi con la macchina in due punti panoramici per osservare il tramonto su questi colossi naturali. Ormai stanchini ci dirigiamo al nostro homestay (Kopikuin homestay, 288.000 rupie) in cui la famiglia che lo dirige è tenerissima, la camera super spaziosa e c’è un cortiletto esterno più cucina condivisi che danno sui campi coltivati sottostanti. Tè caldo, doccia, cena con coscia di pollo e zuppetta di verdure e ovviamente riso e finalmente ci rilassiamo un attimo (nonostante persistano i problemi gastrointestinali per Emmi). Domani ci aspettano sette ore di macchina per Banyuwangi.

Giovedì 20 Giugno – Banyuwangi 

Sveglia alle 7:00, oggi giornata poco entusiasmante, ci aspetta un lungo tragitto in macchina per avvicinarci al punto di partenza per l’escursione sull’Ijen. Durante il percorso, Migaranjo si annoia a morte, unica cosa che lo distrae è informarsi sulla comunità Tengger gli indù-animisti del Bromo, mentre Emmi cerca di riposare sperando di non sentirsi male in macchina. Migaranjo a pranzo prova finalmente i Satè di pecora (il corrispettivo degli arrosticini abruzzesi). Durante l’ultima parte del tragitto invece veniamo colpiti dalla bellezza della foresta pluviale, che attraversiamo nell’arrivare a Banyuwangi. La struttura che ci accoglie (Kampoeng Joglo Ijen, 346.000 rupie) è immersa nel verde, sopra un fiume ed ha una spa, ma oggi niente massaggio, è troppo tardi, ci concediamo un bagno in piscina al tramonto, una cenetta veloce e andiamo a letto alle 20:30 perché ci aspetta un’alzataccia alle 00:40 per dirigerci al punto d’incontro dove partono le escursioni sull’Ijen.

Venerdì 21 Giugno – Kawah Ijen & Bali

Sveglia alle 00:40, saliamo subito in macchina con Roby che ci porta in un’ora al punto di ritrovo per il trekking. Pare un festino, pieno di turisti, c’è un gran casino e un gran freddo. Non ce lo aspettavamo. Ci siamo vestiti a strati ma non abbastanza, tremando compriamo subito un cappello e una sciarpa, i giacconi a noleggio sono esauriti e Roby gentilmente presta a Emmi la sua giacchetta antivento, rimanendo a tremare in maglietta a maniche corte e sarong. Ci beviamo un tè caldo e aspettiamo Ari, la nostra guida. Paghiamo 600.000 rupie, prezzo che include la guida, l’ingresso per due persone e due maschere anti-gas. Alle due ci mettiamo in cammino, è un tragitto di cinque chilometri fino al cratere, ma la strada si fa velocemente ripidissima. Emmi non ha molte energie (i disturbi gastrointestinali non accennano ad alleviarsi) e salire è molto stancante, quindi procediamo con calma. Lungo il percorso è pieno di locals che ci seguono lungo il percorso con le loro “Lamborgini”, delle sdraio su ruote su cui trainano la gente più stanca o la gente più sfaticata. Ari ci dice che i turisti cinesi in particolare sono “lazy as f***” e vengono sul vulcano solo per farsi le foto. Con varie pause arriviamo alla parte del percorso più pianeggiante, da lì osserviamo un mare di nuvole sotto la luna piena enorme, bellissima.

Una volta sulla sommità del cratere, dobbiamo iniziare a scendere di nuovo, nella gola fumante di zolfo del vulcano. La strada è nuovamente ripidissima, tortuosa e piena di sassi che si muovono sotto i nostri piedi o di tratti sabbiosi scivolosissimi. Tutto tranquillo, tanto sotto di noi c’è solo un dirupo di trecento metri e nessun tipo di sicurezza. Ci fidiamo solo del nostro Ari che zompa velocemente da un masso all’altro neanche fosse uno stambecco, superando l’enorme massa di turisti, per farci arrivare per primi ai fuochi blu. Arrivati in fondo indossiamo le maschere anti-gas perché vicino ai fuochi la nebbia di zolfo (a seconda di come tira il vento) è fortissima e l’odore/sapore acido ti rimane in bocca. Lo spettacolo però è incredibile. C’è una sorta di cascata di fuoco di qualche metro e dei piccoli fuocherelli fatui di contorno. Dopo qualche foto ci spostiamo un po’ più in alto dove troviamo i minatori di zolfo al lavoro. Ari ci spiega che purtroppo nonostante si spezzino la schiena risalendo il cratere con 50-75 kg di zolfo per volta, e rischino di morire per via delle esalazioni tossiche del vulcano, per ogni kilo di zolfo gli danno sono pagati solo 1.000 rupie. Letteralmente niente. Dopo aver visto lo zolfo virare colore quando passa dallo stato liquido (arancione scuro) allo stato solido (giallo fluo), cominciamo a risalire.

Spostarsi è molto difficile, ci sono troppe persone che scendono, la salita è inquietante, faticosa e sembra non finire mai, è qui che a Emmi con questi pensieri in testa più quello di un attacco di asma o di una caduta nel vuoto, viene un attacco di panico. Ma il nostro attrezzatissimo Ari fornisce subito una bomboletta di ossigeno. Sembra vuota, ma ce la facciamo andare bene, seduta in terra per un quarto d’ora con l’amica bomboletta a spruzzi Emmi si riprende piano piano. Saliamo una trentina di metri per sederci in uno spiazzo in cui poter osservare l’alba. Lo spettacolo è ancora una volta incredibile. Davanti a noi il lago nel cratere del vulcano è verdeacqua fluorescente, sotto di noi vediamo le cave di zolfo, in alto iniziano a vedersi i colori dell’alba. Tutto ciò ci viene rovinato dai turisti cinesi che pur di farsi mille foto uguali si piantano davanti a noi o ci spingono o ci pestano. Torniamo dunque sulla sommità del cratere dove continuiamo a percepire la maestosità di questi posti. A destra il lago, a sinistra un mare di nuvole immerso in un cielo rosa e blu.

Mentre torniamo con calma al punto di ritrovo Ari ci racconta ridendo che negli ultimi mesi è aumentata tantissimo l’affluenza dei cinesi e che il mese scorso una ragazza è morta precipitando mentre stava cercando di farsi una foto da influencer, nonostante le fosse stato detto che il punto in cui era non fosse sicuro. Dopo questo bel racconto ridendo dice “Do you wanna see the video?”. Tornati alla base Roby ci aspetta infreddolito. Ci riporta all’hotel per una doccia calda e poi ripartiamo alla volta del porto di Ketapang dove prenderemo il traghetto per Bali. Qui inizia un’odissea infinita: traghetto di un’ora con tanto di musichetta sparata a palla neanche fossimo in discoteca più la bellezza di quattro ore di autobus (perlomeno in questo ci entravano le gambe) più un’altra ora di macchina da Mengwi bus station fino a Ubud. Arriviamo verso le 18:00 da Astiti Guest House (450.000 rupie per due notti), molto spossati, e ci rendiamo conto subito di essere immersi in un ambiente tipicamente occidentale di negozi e ristoranti, una piccola molecola di Australia che stona col contorno di templi e risaie. L’homestay invece ci sembra diverso da tutto il resto, la camera è accogliente e carina, forse un po’ sporca. Dopo una mezz’ora conosciamo la proprietaria che sembra inserita in un network di servizi capace di offrire: camere, scooter, compagnia di taxi e di fast boats, centro informazioni, negozio souvenir, salone estetista, parrucchiere e centro benessere. Ci dà un sacco di informazioni utili, ci noleggia lo scooter per il giorno dopo e poi ci affidiamo alle sue mani per un massaggio balinese full body super intenso. Cenetta veloce in un “warung” occidentalissimo e a letto stremati e deprivati dal sonno cadiamo subito addormentati nonostante il casino in strada dovuto alle celebrazioni per la luna piena (ma anche agli australiani che cantano a squarciagola).

Sabato 22 Giugno – Ubud

ubud

Ci svegliamo alle 6:30, facciamo colazione in una “pasticceria francese” prendiamo il nostro motorino Scoopy e partiamo alla scoperta di Ubud e dintorni. La strada è libera a quest’ora e Migaranjo ci prende subito l’occhio, non si fa spaventare dalla guida a sinistra. Dopo una decina di minuti becchiamo un’acquata ma per fortuna qui il tempo cambia molto velocemente. Tiriamo fuori i nostri k-way e continuiamo sotto quella che è diventata una pioggerella. Lungo la strada osserviamo come letteralmente ogni gruppetto di case abbia un tempio privato. È splendido osservare come siano tutti così particolari e ben tenuti.

Arriviamo al primo tempio della giornata: il Pura Tirta Empul o Holy Spring Water Temple. Appena entrati troviamo un banchino con dei sarong coloratissimi, è obbligatorio indossarlo prima di accedere al tempio. Ci sono altre regole strane tipo che devi avere i capelli legati o che, se sei una donna, col ciclo non puoi entrare per non rovinare la sacralità con la tua impurità (più o meno). Il tempio è bellissimo, verso le 9:00 nelle vasche della purificazione arrivano una serie di famiglie balinesi che si sottopongono a questo rito con allegria, ridendo e scherzando insieme, come un bel momento comunitario. Nella sezione a fianco invece, in religioso silenzio, una decina di persone sono assorte in preghiera davanti a un altare pieno di offerte. Le decorazioni e i colori sono stupefacenti e qui ci rendiamo conto che una sola giornata a Bali è veramente troppo poco.

Il tempio successivo che visitiamo è il Pura Gunung Kawi Sebatu, anche questo è un water temple. La sua particolarità sta nell’avere la giungla come suo sfondo naturale. Qui compriamo due sarong meravigliosi con dettagli dorati che ci accompagneranno tutta la giornata di visite nei vari templi. Il terzo che visitiamo è il Pura Samuan Tiga, ad accoglierci c’è Surati, il guardiano del tempio che ci chiede solo un’offerta come biglietto di ingresso e ci spiega che non sono in molti a visitarlo. Chiediamo dunque a Surati di accompagnarci alla scoperta del tempio e lui lo fa volentieri. Punto chiave della visita quando passiamo accanto a un albero di baniano (attenzione, è baniano, non banano!) enorme pieno di liane e lui ci dice che da bambino si appendeva e si lanciava stile Tarzan con altri due o tre amici ma che ora i ragazzetti non lo fanno più perché hanno sempre il telefono in mano. Allora col suo permesso proviamo noi stessi ad oscillarci con le liane sotto i suoi occhi divertiti.

Come ultima destinazione della mattina abbiamo Goa Gajah o Elephant Cave. Scendiamo in questo posto suggestivo scavato nella pietra, fino ad arrivare all’Elephant River molto in basso rispetto all’ingresso e qui veniamo benedetti da un tizio (il guardiano del tempio?) che ci bagna con l’acqua sacra e ci appiccica il riso in fronte. Pranziamo in un warung mediamente spartano sulla via del ritorno per Ubud e andiamo a lasciare il motorino da Astiti. Nel pomeriggio la nostra prima destinazione è il Pura Dalem, un tempio della morte. Pieno di raffigurazioni di Rangda, demone strega, che rapisce bambini indifesi. Molto bello, un po’ inquietante ma purtroppo scopriamo che c’è una parte del tempio chiusa ai visitatori. Decidiamo però qui di prendere il biglietto per uno spettacolo che si terrà dentro il tempio la sera stessa, una performance chiamata The Spirit of Bali.

Usciti dal Pura Dalem e belli stanchini ci fermiamo una mezz’ora a riprenderci e poi ripartiamo alla volta dell’Art Market per prendere qualche souvenir. Qui se guardi qualcosa per più di due secondi i negozianti cercano immediatamente di accalappiarti, da tutte le parti urlano “one more sarong!” o si avvicinano per portarti verso il loro banchino. Dopo aver girato un pochino puntiamo subito le maschere di legno che rappresentano Garuda, la divinità alata. Il ragazzo che le vende spara una cifra alta, tipo 300.000 rupie per la singola maschera. Al che, noi ci mettiamo a ridere perché qui dovrebbe iniziare la contrattazione ma non siamo esperti e non sappiamo come fare. Al nostro indugio lui ricambia con un “c’moooon you can do it!!” quindi dopo qualche contrattazione molto buffa e incerta riusciamo a far scendere un po’ il prezzo. Mentre ci impacchettano le maschere ci mettiamo a chiacchierare col tipo e Emmi gli dice che non siamo abituati a contrattare in Italia e lui mega stupito risponde: “Reeeeally??? So they tell you the price and you just pay it??” Dopo aver divertito il nostro amico continuiamo a fare compere, finché alle 19:15 torniamo al Pura Dalem per assistere allo spettacolo. Si susseguono diverse scene con balli e musica gamelan della cultura balinese e indonesiana (vedi Foto 7). Ballerini incredibili, la musica è travolgente e alla fine persino il nipote del regista (un bimbo di soli cinque anni) interpreta una piccola danza guerriera. Ormai troppo stanchi persino per cenare, rientriamo ad Astiti Guesthouse e prepariamo i nostri bagagli prima di ripartire l’indomani.

Domenica 23 Giugno – Gili Gede (1)

La sveglia alle 6:00 a questo punto della vacanza si fa sentire, in più non possiamo fare colazione perché a Bali non apre niente prima delle 7:00. Saliamo in macchina con il marito di Astiti che oltre ad essere un autista scellerato che viaggia quasi alla velocità della luce, ha una compulsione inquietante per suonare il clacson esattamente ogni tre secondi, che rende il nostro tragitto di cinquanta minuti una vera gioia. Arrivati al porto di Serangan aspettiamo un’oretta l’imbarco dato che il tragitto in macchina è stato molto più breve del previsto). Il fatto che al check-in ti invitassero a prendere gli antiemetici (che offrivano come caramelle) doveva darci qualche indizio su come sarebbe andato il viaggio in fast boat. Il mare è mosso e va bene ma la barca va talmente veloce che prende degli schianti fortissimi contro le onde e sembra di essere in un mare in tempesta.

Niente paura, ma sale un po’ di nausea per Emmi, che si doveva fidare della tizia al check-in. Tre ore non passano molto velocemente in queste condizioni, l’unica consolazione è che allo schermettino della nave danno Avengers Endgame, che figata. Arrivati al porto di Bangsal, l’autista (che ci è stato prenotato dai tizi della struttura a Gili Gede) ci aspetta, partiamo alla volta del porto di Tembowong. Altre tre ore di macchina, il viaggio della speranza. Durante il viaggio, peraltro, capiamo che siamo troppo stanchi a questo punto della vacanza, e cominciamo a realizzare che forse l’idea di andare a Tetebatu dopo Gili Gede è un po’ eccessiva, infatti poi andrà a finire che resteremo due notti di più su Gili Gede, rinunciando a Tetebatu. Il nostro autista sembra simpatico e disponibile, gli chiediamo di fermarci a mangiare e lui tutto contento ci propone un warung “leggendario”. Noi acconsentiamo, però finisce che lui ordina un botto di robe per noi ma senza chiederci niente e in più il pranzo per sé che pagheremo noi. Ma lasciamo stare.

Arrivati a Tembowong ci aspetta una barchetta strana che ci porta direttamente alla nostra struttura, Papalagi Resort sull’isola di Gili Gede (poco più di un milione di rupie per due notti). Una volta arrivati vediamo che non è proprio un resort e la camera senza zanzariere lascia un po’ a desiderare ma tutto sommato c’è la piscina, la struttura è carina e il personale pure. Ci accolgono Ilham (receptionist che parla inglese, molto timido e inesperto, ha iniziato solo da dieci giorni) e Jul (la cuoca che non parla inglese ma cucina da dio) con suo (penso) figlio Tomi di cinque o sei anni.

Frastornati dal viaggio decidiamo di fare un tuffo in mare ma scopriamo subito che a Gili Gede nel pomeriggio c’è bassa marea e il bagno non è proprio possibile farlo (vedi Foto 8), al massimo una passeggiata sulla spiaggia, che è ciò che faremo. Troviamo granchietti minuscoli trasparenti che ci passano tra i piedi, coralli secchi, e conchiglie giganti, e una foresta di mangrovie. Una volta tornati al Papalagi ci spiaggiamo sotto una tettoia a leggere aspettando il tramonto, finalmente un po’ di relax.(Qui conosciamo Gabriele e Caroline con cui chiacchieriamo tutta la sera parlando delle rispettive vacanze quella presente ed esperienze passate. Ceniamo in struttura scoprendo che i pasti sono un po’ cari (quella cena la pagheremo 300.000 rupie, il pasto più costoso di tutta la nostra vacanza) e prenotiamo qualche ora di snorkeling con la barca per il giorno dopo. Poi a nanna stremati.

Lunedì 24 Giugno – Gili Gede (2)

Sveglia con calma alle 8:00, colazione con pancake alla banana super buoni e alle 9:40 arriva la barchetta che ci porterà a fare snorkeling, non solo a Gili Gede, ma anche nelle vicine Gili Ringit e Gili Layar. Il tempo non è dei migliori e il mare è mosso, ma una volta tuffati scopriamo un mondo subacqueo talmente variopinto e variegato da lasciarci a bocca aperta. Cioè a bocca chiusa per via del boccaglio ma avete capito. Pesci di tremila tipi, coralli di tutti i colori, (in particolare a Gili Gede si vedono i coralli blu), simil-coralli stranissimi dalle forme più disparate, insomma è strabiliante vedere tutta questa fauna marina.

Dopo i primi due punti di interesse veniamo portati con la barchetta a Gili Layar, isola ancora più piccola e disabitata di Gili Gede. Pranziamo con un bel pescetto alla griglia e un sacco di altre zuppette e tempeh e tofu fritti, osservati ogni tanto dalle mucchine del posto, a cui dopo pranzo diamo da mangiare la parte fibrosa delle noci di cocco verdi (spesso le consumano prima della piena maturazione) che sembra piacergli un sacco. Quando ripartiamo per il terzo giro di snorkeling il capitano della barca viene con noi e dopo qualche giretto ci porta di fronte ad un’enorme tartaruga marina che si sta pappando un’insalata marina. La osserviamo meravigliati e le facciamo due carezze ma lei continua a mangiare indisturbata, non teme per niente noi stupidi umani. Con gli occhi pieni di pesci e gioia, torniamo al Papalagi. Facciamo una doccetta e poi partiamo a piedi alla scoperta dell’isola, su indicazione dei nostri vicini di stanza neozelandesi che sono qui da quattro giorni e ormai conoscono perfettamente tutta l’isola. Loro ci hanno detto che il giro completo si fa in un’ora e mezzo ma in un’ora e mezzo, noi abbiamo visto praticamente solo la parte nord. Ci sono solo paesini di pescatori, sono villaggi molto poveri ma qui sono tutti molto socievoli, cercano di fare conversazione con noi anche col poco inglese che sanno. Il paesaggio circostante è molto bello, pieno di pecore, capre e mucche che pascolano liberamente. Dopo quasi due ore raggiungiamo il Kokomo Resort per una bevuta e attraversiamo l’isola in orizzontale per tornare al Papalagi trovando poi nella struttura a fianco i nostri amici neozelandesi che ci pensavano dispersi. Ci fermiamo anche noi lì a cena, essendo meno cara (ma meno gustosa) della nostra. Torniamo al Papalagi e li troviamo Ilham e il suo amico a cazzeggio, ci mettiamo a chiacchierare di sigarette e marijuana, feste e vini costosi, gli facciamo provare un cicchino fatto col nostro tabacco ma non lo apprezzano molto perché non c’è lo zucchero sul filtro. Tra le varie cose, ci spiegano che quel verso particolarissimo che fa da tenera colonna sonora alla nostra serata, che noi davamo per scontato fosse di uccello, è invece il verso del geco. Ebbene sì, in Indonesia i gechi fanno un verso. Dopo altre chiacchierine andiamo a dormire verso le 20:30 siamo a letto.

Martedì 25 Giugno – Gili Gede (3)

Ci svegliamo con calma, mantenendo la promessa reciproca che gli ultimi due giorni sull’isola sarebbero stati di completo relax. Colazione gustosa e abbondante proprio come il giorno precedente, mentre facciamo le ultime chiacchiere con l’amabile coppia di turisti neozelandesi (stanno facendo check-out). Facciamo un rapido conto dei contanti che ci sono rimasti. Mancano 900.000 rupie dal marsupio di Migaranjo. Che strano! Abbiamo contato i soldi la sera dell’arrivo su Gili Gede e Migaranjo, da lì in poi, non ha più pagato alcunché, lasciando semplicemente il marsupio appoggiato sul ripiano in camera, senza mai spostarlo da lì. Un brutto pensiero inizia a serpeggiare. Ieri, quando siamo usciti per fare il giro in barca, le chiavi le abbiamo consegnate a Ilham, che ce le ha restituite quando siamo tornati intorno alle 3:30. Sembra impossibile, eppure non sembra esservi altra spiegazione plausibile. Rifacciamo tutti i conti guardando alle spese e prelievi dei giorni precedenti, ma niente, è impossibile che Migaranjo abbia sbagliato i conti per un importo così grande. Cominciamo a capire che non vi è altra spiegazione possibile. La delusione si mischia alla rabbia.

Chiamiamo Ilham e gli spieghiamo cos’è successo. Gli chiediamo dove ha depositato le chiavi ieri, quando gliele abbiamo consegnate. Lui ci dice che le ha lasciate “in the restaurant”, su un ripiano, come fanno sempre. Noi gli diciamo esplicitamente che qualcuno deve aver preso le chiavi dal “restaurant”. Lui, e il suo amico, che sembrano in effetti due ragazzini piuttosto sprovveduti, sono molto imbarazzati e senza parole. Noi, infastiditi, gli diciamo che le chiavi dovrebbero essere riposte in un luogo sicuro, quando vengono consegnate. Loro, anziché proporci una soluzione, ci chiedono quindi cosa vogliamo fare. Noi diciamo che ovviamente vogliamo andare via il prima possibile, e che probabilmente cercheremo un’altra struttura sull’isola. Facciamo i bagagli. Capiamo che Ilham, per paura di prendersi una ramanzina, in tutto ciò non l’ha mica avvisato il capo. Pretendiamo di parlare col capo. Per telefono, spieghiamo la situazione, minacciando anche di lasciare la peggior recensione possibile su Booking.com nel caso in cui non ci avessero proposto una qualche soluzione. Dopo aver ascoltato la nostra ricostruzione degli eventi e quella dello staff (chissà cosa le avranno detto) la capa ci dice che in dieci anni di attività non è mai successa una cosa del genere, un po’ come a suggerire che sia impossibile, e poi ci chiede qual è quindi la soluzione che proponiamo. Noi le diciamo che ci sembrerebbe corretto che ci concedessero di stare gratis per le prossime due notti (il prezzo sarebbe di 1.200.000 IDR, poco più della somma che ci è stata rubata), ma lei non ne vuole sapere “You don’t even have a proof” ci dice, e quindi la chiudiamo lì, promettendo che avremmo fatto la peggior recensione possibile su Booking.com.

Prenotiamo un’altra sistemazione, Yellow Coco, molto vicina e un po’ più spartana, e bye bye. Arriviamo con troppo poco preavviso alla nuova struttura quindi i proprietari non ci sono. Rimaniamo confusi e sbandati tutto il pomeriggio, dopo qualche ora decidiamo però di visitare perlomeno la zona sud dell’isola, dato che quella che avrebbe dovuto essere un’altra giornata di snorkeling è andata in malora. Nella più totale depressione e ormai senza fidarci più di nessuno e iniziando ad avere paura anche dei bambini girovaghiamo per l’isola, pranziamo tardissimo e torniamo alla nostra nuova struttura. Se quella di prima era un “resort” questo – gestito da Sofi e Gun che sono super giovani e simpatici – è più un accampamento: la stanza è carina su una specie di bungalow sopraelevato ma è minuscola (perlomeno c’è una zanzariera a coprire il nostro letto), il bagno invece più spazioso ma senza lavandino, senza sciacquone (come sul klotok va svuotato a secchiate) e la doccia c’è, ma la puoi fare solo fredda. A noi ormai va bene tutto, mangiamo pochissimo a cena e andiamo a letto angustiati, passando una notte nel terrore che qualcuno possa nuovamente entrare e frugare tra le nostre cose.

Mercoledì 26 Giugno – Gili Gede (4)

Sveglia alle 8.30 con calma nonostante ormai siamo abituati alla sveglia dell’Imam alle 4:30 e a quella del gallo verso le 5:00. Colazioniamo e ci incamminiamo verso la punta nord-ovest di Gili Gede in cui avevamo già fatto snorkeling con la barca. Sembra nuovamente di essere in un acquario, ma l’attrezzatura che ci hanno dato stavolta fa letteralmente acqua da tutte le parti. Dopo un’oretta di nuoto un po’ sofferta ci arrendiamo e torniamo sulla “spiaggia”. Purtroppo qui ovunque ti giri trovi plastica, in più nel minuscolo lembo di terra che rimane un po’ più “pulito” è pieno di formiche e altri insetti che ti saltano in continuazione addosso. Non il massimo per rilassarsi. Poco dopo infatti decidiamo di ripartire. Pranziamo al Khabita (accanto a Papalagi dove ci confermano anche loro di essere al corrente di vari furti in quella struttura) e torniamo al Yellow Coco. Passiamo il pomeriggio a non fare assolutamente niente, ceniamo in compagnia dei nuovi host francesi (ma che vivono in Australia) molto carini e simpatici, qualche chiacchierina e andiamo a nanna. Dopo gli ultimi giorni così stressanti non vediamo l’ora di tornare a casa.

Giovedì 27 Giugno – Lombok Airport

Sveglia alle 8:00, Gun ci passa a prendere alle 9:30 con la sua barchetta e poi in macchina ci porta direttamente all’aeroporto di Lombok. Super in anticipo, ma non c’è problema, attendiamo pazientemente il nostro volo mentre Emma smoccica a non finire (sì esatto, ai disturbi gastrointestinali segue adesso il raffreddore). Il volo di Garuda Airlines (3.630.000 rupie in due) è perfettamente in orario, unica nota negativa è che Emmi durante l’atterraggio pensa di morire perchè le esplode la testa a causa della improvvisa variazione di pressione che non va tanto d’accordo con il raffreddore. Dopo due ore siamo a Jakarta. Abbiamo preso un hotel che sembra un bunker dentro l’aeroporto, al terminal 1 che raggiungiamo velocemente con lo skytrain. Facciamo la recensione negativissima che avevamo promesso al Papalagi Resort, ceniamo velocemente e andiamo a dormire dopo aver visto la prima puntata di Sex and the City.

Venerdì 28 Giugno – Rientro in Italia

Brutto risveglio alle 6:00 con la tizia pazza di Papalagi che ci minaccia di andare alla polizia se non cambiamo la nostra recensione su Booking.com. Arriviamo in aeroporto e, ai controlli purtroppo fanno fuori la nostra boccetta di Kecap Manis (135 ml anziché 100), che doveva andare in stiva, ma siamo troppo presi dal panico per rimanerci male. Alle 9:10 abbiamo il primo volo di circa otto ore e cinquanta minuti, perdiamo presto la cognizione del tempo, ci vediamo Spiderman No Way Home, mangiamo un botto di roba che ci portano a intervalli di poche ore, e la cosa che ci confonde ancora di più è che quando arriviamo a Doha per noi dovrebbero essere le 18:00 e invece sono le 14:00. Abbiamo viaggiato indietro nel tempo. Questo non fa che allungare il nostro viaggio. Totale da Jakarta fino a Pistoia: ventisette ore di veglia. Dopo due ore e qualcosa ci imbarchiamo per Roma. Cinque ore e mezza circa. Finalmente l’ultimo volo. Vediamo Wonka a questo giro, e quando Migaranjo decide di andare in bagno tira una gomitata pazzesca in testa ad Emmi. È letale.

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