Molto molto tempo fa…Sumatra in viaggio di nozze

PROLOGO “Massimo e la Franca vanno in Thailandia”. Ecco: una frase del genere, mi chiedo, può cambiare parte della tua vita? A giudicare da quello che è successo dopo, direi di sì; ancora oggi, se chiudo gli occhi, rivedo un gruppo di amici seduti su alcune panchine, una sera di luglio, a parlare del più e del meno. Era il 19.., oh beh,...
Scritto da: steweboy
molto molto tempo fa...sumatra in viaggio di nozze
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 1000 €
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PROLOGO “Massimo e la Franca vanno in Thailandia”.

Ecco: una frase del genere, mi chiedo, può cambiare parte della tua vita? A giudicare da quello che è successo dopo, direi di sì; ancora oggi, se chiudo gli occhi, rivedo un gruppo di amici seduti su alcune panchine, una sera di luglio, a parlare del più e del meno. Era il 19.., oh beh, non importa: erano comunque parecchi anni fa. Non stava succedendo niente di importante, in quel periodo. Almeno, niente per cui sia valsa la pena di sprecare preziosi neuroni del mio cervello per intagliarmelo a profondi segni nella memoria.

La serata era passata come tante: qualche ora a discutere su cosa fare (di solito la proposta più accattivante era “andiamo da qualche parte a bere qualcosa”) e – quasi sempre – quando finalmente era emersa un’idea interessante, tutti ci accorgevamo che era troppo tardi per attuarla. E si rimaneva lì a parlare parlare parlare, e sempre molti parlavano ma pochi stavano ad ascoltare. Le vacanze, quello sì era un argomento interessante: chi andava in Sardegna, chi pensava ad un bel giro in Toscana, e chi – economicamente mazziato – optava per “due settimane a Spotorno con i genitori”, una vacanza che avrebbe fatto passare per interessante un giro per cimiteri. Anch’io, comunque, mi accontentavo di Corsiche e Sardegne varie: ventitré anni, appena entrato nel mondo del lavoro, qualche grande aspettativa del tipo comprocasamisposoevivopersemprefeliceecontento, qualche liretta in più in tasca rispetto ai coetanei studenti o disoccupati.

Qualcosa però mi lasciava insoddisfatto. Non può essere possibile – pensavo – lavorare tutto l’anno e considerare “riposo” e “vacanza” lo stare quindici giorni sdraiati su di una spiaggia più gremita dell’autobus delle 7.15, oppure il passeggiare per sentieri alpini più costellati di lattine vuote che di edelweiss.

Guardavo affascinato i documentari sulla natura e sui paesi lontani, i cui nomi – fantastici da girarsi e rigirarsi in bocca come dolcissime caramelle proibite – mi rimbombavano in testa quasi continuamente; fino a quel momento non avevo neppure preso in considerazione l’idea che, viaggiando, quei paesi fossero effettivamente raggiungibili; mi limitavo a guardare tramonti rossi su improbabili spiagge bianche (ma esisteranno davvero?, mi chiedevo), giungle impenetrabili con fantastiche cascate in lontananza, deserti multicolori, animali sconosciuti, popoli talmente diversi da noi da non sembrare quasi neppure possibili. E pensavo “Eppure, per riprendere queste immagini, qualcuno ci deve essere arrivato”, e la fantasia ripartiva creandosi figure di viaggiatori incredibilmente scafati, in grado di morsicare serpenti, nuotare ridacchiando tra le sanguisughe, sopportare temperature a “fondo scala”, ma sempre curiosamente vestiti con impeccabili sahariane multitasche, calzoni alla zuava e fantastici scarponi da trekking. E il pensiero tornava al traghetto Genova-Porto Torres.

Non ero contento di partire per la Sardegna. Anzi, peggio: ero completamente indifferente.

“Massimo e la Franca vanno in Thailandia” sbottò Paolo quella sera, il tono a metà tra la compiacenza e l’invidia. “Come – mi sorpresi a pensare – amici che conosco, persone con le quali parlo normalmente del più e del meno, vanno nel favoloso Siam? E i mesi e mesi di faticosi addestramenti e massacranti allenamenti? E la difficoltosissima preparazione dei bagagli, con l’esatto calcolo delle razioni di sopravvivenza? E i vaccini, le medicine, le precauzioni alimentari? Caspita, in ogni documentario che si rispetti viene sottolineata la fondamentale importanza di questi preparativi, e ‘sti due prendono e partono come se andassero in Sardegna? Sono impazziti?”.

O forse io fino ad allora non avevo capito un cazzo? Da quella sera d’estate cominciai a dormire meno tranquillo. Volevo partire. Uno zaino, Signore, non chiedo altro. Uno zaino bello grande ed un paio di scarpe che non facciano venire le vesciche. E oltre a questo, chiedo solo due sorrisi per le piccole avversità, una guida ben fatta, un paio di minestrine Knorr.

Partire come avevo letto. I miei libri di viaggi e gli inconfondibili dorsi gialli dei National Geographic, belli in mostra sugli scaffali della libreria, erano talmente consunti e spiegazzati da essere quasi indecenti. Non li avevo solo letti, li avevo annusati sperando di avvertire il profumo dei baobab della savana, avevo masticato dei piccoli pezzettini di carta strappati dalle loro pagine sperando di sentire il sapore delle sabbie australiane o delle rocce della Patagonia, li avevo accarezzati sperando di trovare tra le dita il liscio umidore delle foglie di felce delle foreste pluviali.

Viaggi, non vacanze. Viaggiare per conoscere. Conoscere persone, luoghi, leggende, cose, animali, momenti speciali. Una vacanza è sdraiarsi sulla sedia a sdraio, attendere il garçon per ordinargli il long drink delle 5, partecipare alla caccia al tesoro con ricchi premi e cotillon, giocare a beach volley sulla spiaggia in squadra con il commercialista di Monza contro l’avvocato di Centocelle e il rappresentante di biancheria intima di Rimini. Un Viaggio è partire con il solo biglietto aereo in tasca dopo aver trascorso notti e notti a leggere e rileggere le pagine della guida, arrivare all’aeroporto di destinazione, cercare un mezzo locale e crearsi un tragitto completamente adattabile a quello che succederà nei prossimi giorni. Un Viaggio è svegliarsi alle 4 del mattino per osservare l’alba nella giungla; un Viaggio è una partita a carte con i compagni sotto un tendone cerato mentre gocce di pioggia monsonica sconvolgono i dintorni; un Viaggio è trovare sotto il letto uno scarafaggio grande come un piccolo topolino e correre nella camera degli amici, scoprendo che sotto il loro letto ne hanno appena trovati otto. Ma un Viaggio è anche ascoltare i canti dei monaci induisti sotto il Taj Mahal prima dell’alba, quando l’umidità che sale dal fiume ti fa sentire bagnato anche in fondo alle mutande ma i brividi di questo momento ti fanno venire le lacrime agli occhi; un Viaggio è anche essere sballottati quattordici ore in un pullman afoso per poi scendere e trovarsi di fronte ad una spiaggia tanto bella che sembra dipinta sulla seta; è aprire gli occhi in una capanna tra i cocchi e svegliarsi tuffandosi in mare; è guardare le rocce del Grand Canyon o di Ayers Rock che cambiano colore al tramonto; è sentire in bocca la sabbia del deserto dello Yemen, spinta dal vento, che ti fa scrocchiare i denti e rende immangiabili i tuoi panini ma che ha lo stesso sapore che aveva mille anni fa: sapore di sole, di vento, di mercanti, di carovane di cammelli sulla via del caffè.

Mi svegliai, sudato, nel letto. Gli occhi spalancati, il fiatone ed ancora foglie di palma intorno. “Sìììì – urlai – un viaggio è Partire!”. Da quella notte, ogni volta che ho potuto (e qualche volta anche quando non avrei potuto, o dovuto), sono partito e ho viaggiato. E oggi, quando posso e non, viaggio. Non è difficile, anzi, è come scoprire un tesoro sotto lo zerbino di casa che abbiamo già calpestato migliaia di volte senza mai guardarci veramente sotto.

Queste pagine non pretendono di insegnare niente a nessuno. Ho cercato di raccontare i miei viaggi, travasandovi sopra qualche piccola, modesta esperienza. Un viaggio è anche imparare sulla propria pelle alcune fondamentali regolette di sopravvivenza. La prima regola (anche se “regola” non fa certo rima con “libertà”, passatemi il vocabolo. Grazie), che ho deciso di chiamare “Filosofia Basica di Viaggio”, si può riassumere con il motto “Pensa Locale”: far finta di essere un indigeno, nato e cresciuto lì, utilizzando gli stessi valori che – a tempo, denaro e problemi (con le dovute eccezioni) – darebbe un autoctono. Deprecati, quindi (nei limiti logici del possibile e non del fanatico), mezzi di trasporto riservati ai turisti, ristoranti internazionali, alberghi di lusso (una volta ho parlato con una persona appena tornata dall’India, che affermava che quel Paese “l’aveva cambiata”: aveva fatto dieci giorni iperorganizzati, dormendo in hotel internazionali – Hilton, Sheraton ecc. – e spostandosi con automobili con autista e aria condizionata. Sarei curioso di sapere quanto l’India l’avrebbe cambiata se avesse viaggiato in treno – 2° classe – dormito negli ostelli di Calcutta e parlato con i pellegrini di Varanasi che, non avendo abbastanza denaro per comprare tutto il legno che permetterebbe ai loro cari di bruciare completamente, sono costretti ad accontentarsi di far prendere loro una “scottatura” per poi vederli fatti a pezzi dagli intoccabili e quindi gettati nel Gange); caldeggiati di conseguenza mezzi locali (parlando – anche a gesti – con la gente che viaggia in bus si imparano a conoscere luoghi, aneddoti, persone), ristorantini-baracca (non cerchiamo – anche a casa nostra – le famose “trattorie dei camionisti”? E perché in viaggio no?) e guesthouse oppure ostelli (i cui proprietari sono sempre in grado di dare indicazioni e consigli ai viaggiatori “fai-da-te”); obbligatorio il contrattare, sempre e comunque spietatamente, indipendentemente dall’irrisorietà o meno del prezzo iniziale (tanto, alla fine, ce lo piazzano sempre nel sottocoda: pagheremo sempre di più degli indigeni!).

Dopo tutto questo, a sorpresa, eccovi la cosa più importante: per niente al mondo ci dobbiamo sentire migliori di chi viaggia “Alpitour”; non trasformiamoci in antipatici e supponenti “snob alla rovescia”; godiamo di quello che facciamo e di come lo facciamo, ma non pretendiamo che altri, che non se la sentono, debbano comportarsi come noi.

Adesso basta. Ho già scritto troppo, per essere una breve prefazione. Ora, giuro, si parte davvero. Zaino in spalla, guida in tasca e, mi raccomando, occhi curiosi, sempre.

AGOSTO 1987 – SINGAPORE, INDONESIA (Sumatra), MALESIA

Il primo, vero VIAGGIO al quale ho partecipato è stato… La mia luna di miele, effettuata in quattro! Dopo il viaggio in Thailandia, che ha destato in me l’insopprimibile voglia di partire, Massimo e la Franca avevano deciso di effettuare un altro giro in Oriente, questa volta con tappe a Singapore e in Indonesia (nella fattispecie le isole di Sumatra e Giava). Visto che la loro partenza coincideva – più o meno – con la data del mio matrimonio, ci siamo messi d’accordo per incontrarci in loco. Vi lascio immaginare la libidine di salutarci (loro partivano tre giorni prima di noi), di fronte a tutti gli altri amici dell’“andiamo a bere qualcosa” con la frase “Ciao, allora ci vediamo il 3 Agosto, alle due del pomeriggio, all’aeroporto di Singapore”.

Avevamo trovato un volo scontatissimo con l’Aeroflot, la compagnia di bandiera dell’Unione Sovietica, che effettuava il tragitto Milano-Mosca-Singapore. (1) Al mattino del 2 Agosto (ci eravamo sposati il giorno prima), la potente A112 di mio papà ci deposita di fronte alle Partenze di Milano Linate, e ci imbarchiamo belli felici sull’enorme aereo dell’Aeroflot, che dopo tre ore circa di volo ci deposita a Mosca; qui – non erano certo i tempi della glasnost – veniamo incolonnati e, sotto sorveglianza “sovietica”, condotti in una sala d’aspetto dall’aspetto (ahr ahr!) piuttosto blindato anzichenò. Nel tetro bar, dove caffè, the e latte costavano davvero un’inezia, vendevano anche cioccolata svizzera al prezzo “politico” di 10 U$ ogni tavoletta da cento grammi. Dopo l’attesa blindata e preventivata, veniamo ricondotti al cancello d’imbarco e fatti salire su di un Tupolev 190, un aereo strettissimo (tipo un DC-9) con quattro motori a reazione in coda, affiancati due a due; i nostri posti sono gli ultimi, e con l’orecchio – come sfiga vuole – sono attaccato a due motori. Inoltre, per guadagnare posti a sedere, lo spazio tra le file dei sedili è stato radicalmente ridotto. Grazie ai miei centonovantuno centimetri di altezza, mi trovo quindi con le ginocchia in bocca, inconveniente che non mi permette di rilassarmi come vorrei. Dopo circa cinque ore di volo (è mattino presto, ora locale) atterriamo per una tappa non prevista a Nuova Delhi dove – nonostante l’ora antelucana – il termometro segna 48° e la terra sembra fumare. Effettuiamo un paio d’ore di sosta, che ci consentono di poter apprezzare fin nei minimi particolari l’aeroporto della città indiana (per una visita del quale sarebbero bastati dai sei agli otto minuti), e si riparte. Strano a dirsi, arriviamo a Singapore in perfetto orario, e ci incamminiamo per i corridoi di quello che – secondo me – è uno degli aeroporti più belli del mondo. Nel Changi Airport fontane si susseguono a fontane, luccicanti duty free shop attirano i viaggiatori con offerte strabilianti, foreste pluviali con palme secolari vengono ricreate in ogni angolo; su tutto questo una cosa che avrei imparato a conoscere e ad amare: l’odore dell’Oriente.

Questo profumo, che ti entra nel naso ma non solo e che ti danna l’anima quando non lo senti per un po’ di tempo, che cambia lievemente da posto a posto ma che in ogni momento ti fa sapere che sei in Oriente, è un seducente cocktail di mille fragranze: l’aroma delle innumerevoli spezie, il fumo delle sigarette ai chiodi di garofano, il soffocante odore degli scarichi degli automezzi dai motori, il quasi insopportabile fetore delle fogne a cielo aperto, il profumo – esaltato dal caldo e dall’umidità – dei frutti tropicali, gli effluvi della terra e della vegetazione, gli afrori umani, il tutto condito, mixato ed esaltato dalla nostra fantasia e immaginazione. E l’imprinting che questo profumo ti lascia è talmente forte che – nelle sere d’inverno – basta accendere un bastoncino d’incenso ai chiodi di garofano e chiudere gli occhi, e sei di nuovo lì, seduto sul pagliericcio di una guesthouse o dentro un autobus, in piedi dentro un tempio o rapito dai rumori della giungla, sdraiato su di una spiaggia o immerso nel mare; se di nuovo lì, in Oriente.

Dopo ore ed ore di aria condizionata (aereo, aeroporto, di nuovo aereo, di nuovo aeroporto…), quando usciamo dalle porte del Changi Airport e ci dirigiamo verso la fermata degli autobus (luogo dell’appuntamento), l’impatto con il muro di umidità e di calore è quasi insopportabile. È un caldo che non può essere descritto e che va provato in prima persona per essere compreso: istantaneamente gli indumenti si incollano alla pelle, i polmoni si riempiono di umidità e il fiato si accorcia, la pelle diventa appiccicosa e trasmette un’insopportabile sensazione di sporcizia; in più, si diventa un po’ antipatici in quanto si è fisicamente a disagio.

Massimo ci sta aspettando alla fermata; suda già un po’ meno di noi (il corpo umano si adatta magnificamente a quasi tutto), ci corre incontro e ci abbraccia, facendoci le congratulazioni per il matrimonio e facendo mille domande, chi c’era, chi non c’era, chi ha litigato, con chi è venuto Tizio, cosa ha detto Caio, se poi alla fine Sempronio ci ha fatto il regalo o ha scroccato come al solito… taglio i convenevoli dicendo “Ma che caldo fa in ‘sto posto?” e lui sorridendo risponde, con aria saputa, “Ma ora si sta bene, ha appena piovuto e ha rinfrescato un po’… vedrete domani se non piove!”. Sopprimendo l’impulso alla fuga, ci dirigiamo verso l’autobus 391, e ci facciamo trasportare in centro, dove Franca ci sta aspettando in albergo.

“Vi abbiamo prenotato un piccolo bijou. – sorride Massimo – Noi dormivamo in un posto un po’ più brutto, ma visto che questa è la vostra prima, vera notte di nozze… “. Scendiamo all’inizio di Orchard Road, e ci dirigiamo a piedi verso Bencoolen Street, la via degli alberghetti a poco prezzo (2). Entriamo in una sorta di tugurio con le pareti azzurrine, ma l’interno sembra essere carino. La Franca ci sta aspettando nella “hall” (una camera scalercia con quattro poltrone sporche) leggendosi la Lonely Planet; dopo i convenevoli d’uso saliamo a vedere la camera. Sorridiamo, anche se tutti i racconti che ci erano stati fatti sulle guesthouse dell’Oriente non potevano farci immaginare simili topaie. La stanza è comunque pulita (per lo standard orientale significa che per terra non si vedono rifiuti, dai muri non trasuda troppa umidità e non si sente odore di cadavere), i letti fatti, qualche mobile in legno è fin troppo lussuoso, la finestra dà sulla strada principale ed il grosso ventilatore a soffitto cerca di fare il suo dovere, anche se muovendo solo aria calda non fa che buttarci altra aria calda addosso.

Usciamo per dirigerci verso un ristorante cinese dove – dopo anni di surrogati occidentali – riusciamo finalmente a mangiare cinese davvero. Non esistono posate oltre ai bastoncini, i piatti sono di plasticaccia consunta, così come i bicchieri – anneriti dall’uso – dove viene continuamente versato scurissimo the al gelsomino. Dopo la cena luculliana ad un prezzo talmente ridicolo che chiediamo il conto due volte, passeggiamo un po’ per Orchard Road, la via principale di Singapore, sede dei principali centri commerciali e dei migliori alberghi del mondo. Sbaviamo un po’ di fronte a qualche vetrina e, verso mezzanotte, decidiamo di rientrare “a casa”. Arrivati alle camere, accendiamo la luce e comincia il massacro: centinaia di scarafaggi enormi, veloci come lucertole e grandi tanto quanto, con antenne ancor più lunghe del loro corpo, si affrettano a scappar via velocissimi, uscendo da ogni dove: dagli zaini, dalla biancheria, dal beauty-case, dalle scarpe, dalle lenzuola. La razza è quella delle blatte, gli scarafaggi conosciuti in Italia con il nome di “fuochisti”: animaletti marroncini che normalmente proliferano nei bar, sotto le macchine del caffè, o in qualunque posto dove ci sia caldo perenne (forni, motori, ecc.); l’unico problema è che qui – aiutati dal clima, dalle condizioni ambientali e dall’abbondanza di cibo – sono lunghi poco meno di dieci centimetri, antenne escluse. Da quella sera, essi sono gli unici animali al mondo che si possano permettere il lusso di farmi rizzare i capelli sulla nuca; non ci sono topi, serpenti, pipistrelli (che adoro) o parassiti vari che mi diano un così forte senso di disagio come gli scarafaggi. Comincia così una battaglia che ci vede perdenti in partenza; proviamo a schiacciarne uno con le scarpe, ma il rumore che ne scaturisce è talmente agghiacciante da farci desistere. Questi animali assurdi sono in grado di arrampicarsi letteralmente ovunque, specchi compresi; riescono – con le loro alucce marroni un po’ atrofizzate – a compiere anche brevi voli, emettendo un ronzìo insopportabile. Chiamiamo il proprietario della guesthouse che arriva, si guarda intorno, sbuffa, e dice “Nessun problema: non mordono, non puzzano, non graffiano, non sono velenosi, non pungono, non mangiano escrementi (è vero, si nutrono prevalentemente di cellulosa: carta e suoi derivati, anche se non disdegnano frutta o altri alimenti).” “Ma fanno schifo!” gli urla Massimo sulla faccia; il patron alza le spalle e, sorridendo gli risponde “Then, mister, Mandarin Hotel!” come a fargli capire che, se non vuole problemi di questo tipo, gli alberghi a 5 stelle di Orchard Road saranno lieti di ospitarlo a 100 U$ a notte. Neanche a dirsi, la notte passa in bianco con le ragazze sedute su di un letto schiena contro schiena, e noi maschietti nella stessa posizione su di un altro giaciglio. La mattina dopo cerchiamo di riposarci mentre facciamo colazione da McDonalds, ma la necessità di pianificare e continuare il viaggio è troppo forte: per dormire c’è sempre tempo (quando?); ci infiliamo in un’agenzia viaggi e troviamo un volo per Medan – la capitale di Sumatra – che parte l’indomani mattina. Prenotiamo di corsa e ci precipitiamo in Orchard Road per effettuare gli acquisti già da tempo pianificati.

Prima di cominciare la grande avventura di fare shopping a Singapore (è un must, almeno una volta nella vita!) facciamo un rapido briefing: “Allora, ragazzi, ricordiamoci questo: girare, chiedere, contrattare alla morte, poi ce ne andiamo, chiediamo di nuovo da un’altra parte, contrattiamo da bastardi, poi torniamo da quello di prima e riproviamo a tirare giù il prezzo, e così via fino a che li prendiamo per stanchezza, ‘sti musi gialli”. Detto, fatto: entriamo nel primo negozio, sfavillante di elettronica e di gadget luminosi, e ne usciamo dopo tre ore, sudati come prostitute thailandesi (vedi prossimo capitolo…) e con, nell’ordine: un orologio subacqueo con profondimetro Citizen Aqualand; due dicasi due macchine fotografiche subacquee Nikonos V con flash dedicato SB103 e borsa Nikon (set completi, una per me e una per la Franca), tre Sony Walkman ultimo-modello-ancora-introvabile-in-Italia e un sacchetto contenente mezzo chilo (sic!) di calcolatrici a batterie solari. I prezzi – a costo comunque di spietati mercanteggiamenti degni di un suq marocchino – sono alla fine inferiori del 60% rispetto all’Italia. (3) Belli contenti, anche se abbiamo trasgredito a tutti i nostri intendimenti, torniamo alla guesthouse, facciamo i bagagli e torniamo nella bettola – senza scarafaggi, però! – dove Franca e Massimo avevano dormito le notti precedenti il nostro arrivo.

L’indomani il bus 391 ci riporta all’aeroporto, dal quale decolla l’aereo della Merpati (la seconda compagnia di bandiera indonesiana; per i maniaci della statistica, la prima è la Garuda e la terza – sedili che si staccano, cessi che perdono e tutto il resto – è la Bouraq) per Medan. Una volta atterrati, scendiamo dalla scaletta; apre la fila Massimo, che non appena mette la faccia fuori dalla porta dell’aereo chiude gli occhi e grida “Cazzo, facciamo presto che siamo dietro i motori! Qui ci cuociono!”; il lato triste della vicenda è che siamo davanti ai motori, ed il caldo che ha fatto bruciare gli occhi al nostro amico è il normale clima del posto. Strano come fatti all’apparenza senza significato si inculchino nella nostra mente in maniera stabile; io ho – a quindici anni e rotti di distanza – fisso e perfettamente a fuoco nella mente il minibus sul quale siamo saliti una volta usciti dall’aeroporto-baracca di Medan: blu scuro un po’ stinto, con i sedili in sky, anch’essi blu, che quando mi ci sono seduto sopra con i calzoni corti mi hanno ustionato il sedere da gridare. All’interno un fortissimo odore di sigaretta ai chiodi di garofano (gli autoctoni le chiamano Kretek, dalla marca delle più marce; un po’ più di lusso le Gudang Garam, ma il vero Odore dell’Oriente – vedi più sopra – è formato ineluttabilmente dalla Kretek: belle tossiche, senza filtro e un po’ stropicciate dalla lunga permanenza in tasca o in altri posti meno nobili, tra i quali il più ameno è dietro le orecchie). Non appena l’autista ingrana la marcia per portarci alla stazione degli autobus, il mio primo pensiero, tra una grattata di ingranaggi, uno sbuffo di fumo fetido, un sorriso arrossato dal betel, è “Io in questo posto ci lascio la pelle!”.

Arrivati alla stazione degli autobus, cominciamo a gironzolare per il piazzale caldissimo e ricoperto di fango secco (piove una volta al giorno e allaga le strade, ma quando esce il sole fa seccare tutto in pochi minuti) alla ricerca del veicolo che ci dovrebbe portare a Binjai dove, cambiando mezzo, dovremmo proseguire per Bukit Lawang. Che cazzo ci andiamo a fare, chiederete voi. Ebbene, a Bukit Lawang esiste un Centro di Riabilitazione degli Orangutan molto meno osannato di quelli del Borneo malese ma molto più interessante e, soprattutto, quasi disertato dai turisti. Tutte queste informazioni sono state reperite dalla Franca – ormai il mio idolo… – sulla Lonely Planet.

Rintracciato il bus, e saliti a bordo nonostante il caldo insopportabile e la puzza (non l’Odore d’Oriente, questa volta: proprio puzza di sudore, sporcizia, animali uomini cose persone piante minerali vestiti automezzi terra eccetera), attendiamo con fiducia che l’autista metta in moto. Passa un’altra mezz’ora, durante la quale continuano a salire persone su persone, cariche di bagagli di ogni tipo: taniche di plastica piene d’olio di cocco, cesti di vimini pieni di polli vivi (d’accordo, chi ha sperimentato una volta l’espresso Torino-Reggio Calabria mi dirà che non è il caso di volare per 12.000 chilometri…), sacchetti multicolori annodati tra loro con fantasia quasi sadica, lunghi bastoni di bambù raccolti in fascine. Naturalmente i posti a sedere sono esauriti da tempo, quindi gli ultimi arrivati, con una flemma degna di un inglese della City, si appoggiano ai sedili, fanno scivolare lentamente i loro bagagli sulle gambe dei “fortunati” e, ancor più lentamente, cercano di trovare un posticino dove sedersi; il tutto avviene mentre masticano quantità incredibili di betel (è una droga lievemente eccitante che viene consumata in gran copia; la sua preparazione è apparentemente semplice: la noce di betel viene fasciata dentro una foglia insieme ad un chiodo di garofano e ad un pizzico di calce; l’”involtino” ottenuto viene inserito in un lato della bocca e masticato lentamente. La foglia è lievemente piccantina, il chiodo di garofano aromatizza il tutto, la calce irrita il cavo orale – e questi benefici, sinceramente, non li ho ancora capiti – e la noce di betel dovrebbe consentire le sensazioni eccitanti di cui sopra. Ah, dimenticavo: la masticazione di questo piccolo prodigio aumenta la salivazione e la colora di un bel rosso carminio; per condividere questa gioia i “masticatori” sputano sistematicamente la saliva in eccesso ovunque: per terra, sui calzoni della gente, sulle loro – ed altrui – scarpe. Il prodotto di queste simpatiche espettorazioni è praticamente indelebile e i suoi produttori lo distribuiscono generosi, a raffica, ovunque). Ad un certo punto Massimo, seduto con lo zaino addosso e due passeggeri locali con mezza natica appoggiata ad un angolo del sedile, attira la mia attenzione e mi dice, sorridendo a denti stretti “Guarda questa puttana dove sta sputando!”; abbasso lo sguardo e vedo che la scarpa destra del mio amico è ormai quasi totalmente ricoperta da una spessa bava rossastra che la vicina di sedile di Massimo continua implacabile a sganciare. Per quanto la situazione sia ben lungi dall’essere comoda e rilassante, trovo ancora il coraggio di ridere. Dopo qualche minuto l’autista mette in moto, ed immediatamente accende la radio ad un volume tale che in pochi secondi cominciano a ronzarci le orecchie; canzoni popolari indonesiane si susseguono una dietro l’altra; facciamo finta di seguirne il ritmo con la testa, sorridendo agli indigeni che ci restituiscono il sorriso. Il parabrezza del veicolo è contornato da corolle di frutti e fiori di plastica, i luoghi di partenza e di destinazione sono scritti con la vernice direttamente sul vetro, lasciando all’autista ben poco spazio per vedere dove stia andando. Non sembra esserne comunque troppo preoccupato, visto che dedica quasi tutta la sua attenzione a suonare ininterrottamente il clacson, come del resto tutti gli altri sulla strada. Ad un certo punto, dal finestrino mi investe una zaffata nauseabonda (non l’Odore dell’Oriente, no, neanche stavolta…), che sembra composta da feci miste, corpi putrefatti, gas metano e verdura marcia; sbarro gli occhi e guardo gli altri con aria interrogativa; la Franca si illumina, aspira quello schifo con aria estasiata, mi guarda e dice “Durian!”; le rispondo che non è il caso di pensare al sesso in quel posto, e poi con Massimo lì a fianco; mi spiega che il durian è un frutto, grande come un ananas e più, dall’aspetto bitorzoluto e con piccole escrescenze a punta; una volta aperto, al suo interno si trovano quattro enormi semi ricoperti da una polpa cremosa e giallastra, che è la parte edibile. Il durian è considerato il “re dei frutti”, ha un costo elevatissimo (per lo standard indonesiano: un durian di dimensioni medie costava circa 700 lire) e una puzza pari al costo; lo strano della vicenda è che il gusto – naturalmente abbiamo dovuto assaggiarlo – è esattamente nauseante e vomitevole come l’odore. I venditori di durian li ammassano a decine ai bordi delle strade; grazie al caldo ben presto l’aria si riempie dei loro effluvi, che fanno sognare i gourmets indonesiani e vomitare tutti gli altri.

Dopo qualche sosta in mercatini locali, pieni di colori, di odori e di cose incredibili da comprare o anche solo da guardare, arriviamo a Binjai, dove per contro non c’è veramente nulla da fare se non aspettare che parta l’altro bus per Bukit Lawang. Una volta localizzato il mezzo – e non è per nulla facile se non si parla correntemente l’indonesiano, quindi non è per nulla facile, per noi – scopriamo che è già gremito di passeggeri locali; facendo buon viso a cattivo gioco e pensando locale come vuole la nostra Regola, ci infiliamo dentro spingendo e tirando, fino a conquistare due posti a sedere, sui quali si gettano le ragazze che si fanno carico degli zaini, e un posto in piedi vicino alla porta, dove si incunea Massimo (che rimarrà bloccato lì per quasi cinque ore); io non so proprio dove mettermi, quando l’autista mi suggerisce di sedermi sul tetto, tra i soliti bagagli ignobili. Contento di poter evitare la puzza, il chiuso e gli sputi di betel, salgo sul portabagagli e mi godo la prima mezz’ora di viaggio, tra risaie, piantagioni di alberi della gomma e paesaggi mozzafiato; ad un tratto l’autista si ferma e mi fa capire che stiamo per transitare in una zona piena di posti di blocco della polizia, e che è vietato sedersi sul tetto dei bus pubblici; per ovviare all’inconveniente, fedele al motto universale “occhio non vede, cuore non duole”, mi chiede di coprirmi con un telone di nylon spessissimo ogniqualvolta ci si avvicini ad uno dei posti di blocco. Vi lascio immaginare il godimento di rimanere chiusi sotto una siffatta copertura esposti al sole equatoriale di mezzogiorno; al primo “nascondino” scopro che – tra i bagagli – qualche burlone ha deciso di trasportare dei durian. Arrivo a Bukit Lawang con lo stomaco rivoltato, madido di sudore, puzzolente di durian e con gli arti atrofizzati a causa delle posizioni non ortodosse assunte durante il tragitto.

Il posto però è davvero magnifico: alcune piccole guesthouse sorgono in riva ad un fiume limpidissimo; per raggiungerle bisogna percorrere – unica strada – un ponte sospeso. Troviamo posto senza problemi a costi ridicoli: due belle stanze con letto matrimoniale a baldacchino (artigianale, of course!) e zanzariera; la camera di Franca e Massimo ha anche in dotazione un geco gigante che, ad ogni ingresso ed uscita, gratifica gli inquilini con il suo verso schioccante; dopo un po’ lo saluta anche Massimo, con dei sonori “Buongiorno”, “Arrivederla, Dottore” e “Buonanotte, neh!”. Conosciamo una guida che dice di chiamarsi Pietro (fossimo stati francesi si sarebbe senz’altro chiamato Pierre, inglesi Peter e alla via così: una copia omaggio a chi mi scrive il corrispettivo di “Pietro” in swahili) e si offre di accompagnarci prima a vedere gli orangutan e quindi a fare un po’ di strada nella giungla. Concordiamo prezzi e condizioni (al limite dello sfruttamento, ma bisogna pensare locale, remember?) e ci diamo appuntamento per l’indomani mattina; nel pomeriggio gitarella a piedi nei dintorni e bagno rinfrescante nel fiume. Il caldo qui è un po’ meno opprimente che a Medan, e riusciamo anche a farci – finalmente! – una bella dormita (e se ci sono gli scarafaggi non li abbiamo visti né sentiti).

Il mattino dopo ci svegliamo di buon’ora, acquistiamo un caschetto di microbanane da una bancarella e – borracce a tracolla – ci dirigiamo verso il Centro di Riabilitazione degli Orangutan. Dopo il gorilla, l’orangutan (il cui nome significa “uomo dei boschi” in Indonesiano/Malese: “orang” sta per “uomo” e “utan”… provate a indovinare) è la scimmia più grande: coperti di pelo arancione-rossastro, questi primati sono in grave pericolo di estinzione; i Centri di Riabilitazione si incaricano di riabituare alla vita selvaggia gli esemplari di orangutan requisiti da privati (che se li tenevano in casa tipo barboncini), da raid di bracconieri (che di solito li rivendono ai Cinesi, un popolo in grado di mangiare praticamente ogni cosa al mondo, e di sfruttarne gli scarti attribuendo loro proprietà medicamentose fantastiche) o da giardini zoologici illegali o inadeguati. Le procedure di riabilitazione sono lunghe e laboriose: viene costruita una piattaforma di legno nella giungla, e vi si deposita sopra del cibo; gli oranghi comprendono che, anche se sono liberi di girare per il loro ambiente naturale, a determinate ore sulla piattaforma troveranno di che sfamarsi; l’istinto animale – poco a poco – porta quasi tutti gli esemplari a cercare di trovare cibo per loro conto. Gli animali che riusciranno in tale impresa abbandoneranno sempre più spesso l’appuntamento con la piattaforma fino a riconquistare completamente la vita libera e selvaggia che spettava loro sin dalla nascita. Naturalmente, come negli esseri umani, ci sono esemplari più o meno rapidi, intelligenti ed istintivi. Nessun animale viene mai forzato né in un senso (rimanere vincolato alla piattaforma) né nell’altro (abbandonare il “cibo sicuro” per errare senza meta e mezzi di sostentamento nella giungla). La nostra prima tappa prevede una sosta vicino alla piattaforma durante l’ora dei pasti; per raggiungere il luogo attraversiamo un fiume su di una piroga ricavata da un tronco di legno, che si sposta da una riva all’altra grazie al “pilota” che – a braccia – si tira di qua e di là usando una corda stesa tra le sponde. Dopodiché, una simpatica camminata di un’oretta su di un sentiero ripido, fangoso, con qualche sanguisuga, ci conduce alla piattaforma. Ci sediamo in religioso silenzio sulle sterpaglie che formano il sottobosco (o “sottogiungla”?) ed attendiamo fiduciosi; dopo qualche decina di minuti cominciamo a sentire rumore di rami, ed alziamo istintivamente la testa: una decina di orangutan stanno arrivando alla piattaforma, utilizzando indifferentemente uno dei loro quattro arti per spostarsi, saltando da un ramo all’altro. I più veloci atterrano sul pavimento di legno della loro “sala da pranzo” privata e cominciano a cibarsi, imitati ben presto dai ritardatari. Lo spettacolo è davvero avvincente, i rullini fotografici si consumano senza ritegno e tutti tratteniamo il respiro, ammirando estasiati queste magnifiche creature e le loro incredibili movenze ed espressioni antropomorfe. Dopo circa un’ora, sazi ed appagati, gli oranghi cominciano ad abbandonare la piattaforma, e noi – di conseguenza – con il sedere bello atrofizzato dall’immobilità lasciamo a malincuore la nostra postazione. Nonostante il riparo offerto dagli alberi, il caldo e l’umidità ci stanno sfiancando, e – non appena l’ultimo orangutan ci lascia per ritornarsene sugli alberi – ci gettiamo stile naufraghi sulle borracce.

A questo punto una breve parentesi: letto e riletto sulle mille guide piene di consigli di viaggio che – in climi torridi – le bevande più dissetanti sono quelle calde, e non avendo ancora provato de visu la bontà di questi consigli, mia moglie ed io ci siamo fatti riempire la borraccia di sano the bollente. Dopo il primo sorso, che mi fa cominciare a sudare anche dalle orecchie, guardo di sottecchi la Franca che tracanna a piena gola il contenuto – acqua fresca – della sua fiaschetta. Da quel momento ho abbandonato ogni tipo di romantica ammirazione per i beduini del deserto e per gli altri popoli misti del mondo che bevono bevande bollenti per dissetarsi; nella mia borraccia c’è sempre roba fresca se non gelata (lo confesso, qualche volta anche Coca Cola…): mi toglierà meno la sete, ma ragazzi, quando va giù per la gola come si gode! Comunque dissetatici, cominciamo la seconda parte della nostra passeggiata, con Pietro che – equipaggiato da trekking pesante con T-shirt bucherellata, calzoni al ginocchio, ciabatte infradito di gomma e machete in mano – conduce la fila. I paesaggi che la nostra guida ci fa scoprire sono veramente indimenticabili: le risaie su terrazze hanno mille tonalità di verde differente, dagli squarci che gli alberi lasciano aprire ogni tanto si intravedono a perdita d’occhio colline e pianure ricoperte dalla giungla lussureggiante, i villaggi che si incontrano di tanto in tanto sono pieni di vita e di persone cordiali e gentilissime impegnate in mille attività, per descrivere degnamente ognuna delle quali non basterebbero dieci pagine (abitazioni costruite interamente di legno senza utilizzare un solo chiodo, ma solo sapienti e precisissimi incastri, decorazioni complicatissime intagliate a mano e secondo l’estro del momento, tessuti coloratissimi – i famosi batik – creati con attrezzi che definire “medievali” sarebbe troppo, fabbri immersi fino alla vita nella fuliggine dei loro forni, condutture idrauliche sopraelevate realizzate con canne di bambù tagliate a metà).

Ad un tratto, da un punto imprecisato nella boscaglia, che comunque sembra piuttosto (troppo) vicino a noi, proviene un grido belluino, che si ripete dopo qualche istante. Pietro sgrana gli occhi, si guarda alle spalle, impugna meglio il machete ed esclama “Beder go, gengis!”. Grazie alla convivenza forzata (e ad un’intelligenza non comune…), riusciamo a capire che “beder go” in inglo-pietrese può significare “We’d better go” (“sarebbe meglio andare”, per chi non mastica la lingua di Albione), ma su “gengis” ci dichiariamo sconfitti. Pietro riesce a farci capire che l’urlo è stato emesso da un orangutan ormai completamente rinselvatichito, che si è già distinto per agguati perpetrati indifferentemente a turisti ed autoctoni; ci racconta – o perlomeno ci sembra di capire che ci racconti – che una volta ha strappato il machete dalle mani di una guida e l’ha tagliata in due con un colpo solo; anche se il racconto ha subìto forse qualche alterazione a forza di essere raccontato di bocca in bocca, resta comunque il fatto innegabile che questi animali possiedono veramente una forza sovrumana (d’altro canto non sono umani…). La cosa che ci disorienta è il fatto che Pietro continui a guardarsi alle spalle, accelerando l’andatura e bisbigliando “gengis”; pensiamo che forse “Gengis”, come Gengis Khan, sia il soprannome dato all’orango per le sue imprese, ma quando la nostra guida terrorizzata esclama “oh, verrri gengis” un lampo mi colpisce: “Pericoloso! Questo idiota sta dicendo dangerous, ma non lo sa pronunciare!”. Rinfrancati dal fatto che Pietro non ha il morbo di Alzheimer, gli diciamo che sì, è veramente gengis tutto quanto ma che si sbrighi a riportarci al villaggio.

L’indomani saliamo sull’autobus per Binjai, e da lì torniamo a Medan, da dove – terzo bus, siori e siore! – proseguiamo verso sud fino a Prapat, un villaggio costituito in pratica solo da palafitte di legno che sorge sulle rive del Lago Toba. Questo lago, che si trova all’incirca 5 gradi sopra l’equatore, ospita nel suo centro un’isoletta deliziosa, Samosir. Arrivati a Prapat, ci fermiamo a dormire in una simpatica guesthouse del villaggio; grazie agli influssi del lago, il clima è estremamente piacevole e per nulla torrido e soffocante. Dopo una notte nella quale ci siamo veramente riposati (anche perché il giorno prima è trascorso interamente a bordo di mezzi di trasporto, e che mezzi!), cerchiamo un passaggio per l’isola. Lo troviamo solo nel tardo pomeriggio, nei panni di un pescatore di Samosir che sta tornando a casa. La piroga ha più fessure di un juke-box, e l’acqua del lago, più che trasudare dal fasciame, zampilla allegramente nella sentina dell’imbarcazione. Il fuoribordo ha conosciuto sicuramente tempi migliori, ma borbotta allegramente mentre ci sospinge verso l’isoletta. Qui, grazie ad una conoscenza del pescatore (al quale – per inciso – abbiamo donato il controvalore di 500 lire, anche se non voleva nulla) troviamo alloggio nel solaio di una vecchia casa batak (i batak sono i progenitori degli attuali indigeni di questa zona di Sumatra; le loro case hanno il tetto con una tipica forma “a barca”, ed anche i “giovani” – pur utilizzando lamiera ondulata e addirittura plastica in sostituzione del legno e delle foglie di palma – continuano a mantenere questa tradizionale forma anche quando costruiscono abitazioni nuove) per una cifra globale che si aggira intorno alle 2000 lire, con reciproci sfregamenti di mano, nostri e del nostro padrone di casa.

Il giorno dopo, dopo una notte trascorsa in gran parte ad osservare il lago e ad ascoltare i rumori di questo paradiso dimenticato, troviamo addirittura – nel villaggio vicino – alcune moto da affittare. Con un certo rammarico ci informano che è obbligatorio il casco e, con una serietà terrificante, ci forniscono quattro mezzi palloni da calcio in plastica che ci obbligano a calcarci in testa. Durante queste complicate operazioni di vestizione ed equipaggiamento incontriamo un turista solitario, Silvio, uno svizzero giramondo che ci chiede se può aggregarsi a noi in questa giornata di visita all’isola. Tre moto partono quindi alla scoperta dei tesori di Samosir: l’antico villaggio di Pangururani, le sorgenti calde termali (air panas; in Indonesiano “air” significa “acqua” e “panas” “caldo”) giustamente famose in un raggio di venti chilometri; i piccoli villaggi seminascosti dalla vegetazione dove l’attività principale è la tessitura di batik; i mille e mille bambini che cercano di toccarti la mano gridandoti il loro saluto “Horas!”; i “bulletti” del paese che si fanno fare una fotografia di gruppo, alcuni con pesanti maglioni di lana, altri con giubbotti tipo “bomber” chiusi fino al collo (ci sono sempre e comunque più di 35°); nel pomeriggio ci riposiamo in riva al lago, dove riusciamo anche a fare un bel bagno nell’acqua fresca e trasparente. Durante il tragitto di ritorno, comincia una serie di sfighe che accompagneranno Massimo fino alla fine del viaggio. Su di una strada sterrata la mia moto borbotta, scoppietta un po’ e quindi si spegne di botto; sulle prime mi allarmo (siamo veramente nei dintorni del buco del culo del mondo) ma poi mi accorgo che sono semplicemente entrato in riserva: giro il rubinetto della benzina sul “RES” e riparto sospirando di sollievo. Dopo cinque o sei chilometri è la volta di Silvio, moto borbottante e tutto il resto; fedele agli insegnamenti precedenti, lo svizzero gira il rubinetto sul “reserve” e la moto si riaccende. Altri pochi chilometri e tocca a Massimo; sorride e guarda il rubinetto: era già in posizione di riserva, quindi ha proprio finito la benzina. Dopo le bestemmie d’uso, Silvio si carica la Franca e, con Massimo davanti e le nostre moto affiancate dietro, cerchiamo di spingerlo con i piedi stile Holer Togni e i suoi acrobati motorizzati. Con le gambe anchilosate, ci fermiamo dopo poco tempo – meno male! – vicino ad una capanna di fronte alla quale campeggiano tre bidoni di metallo con su scritto “Shell”; il “benzinaio” riposa su di un’amaca; svegliatosi, ci guarda e sorride, poi afferra quello che sembra un apparecchio per spillare la birra (e forse – ahimé – lo era anche), lo monta sul primo bidone e riempie di benzina una bottiglia di plastica che conterrà – ad essere ottimisti – 33 cl. Con un paio di centinaia di questi laboriosi travasi riusciamo a fare il pieno tutti e tre, ripartendo poi alla volta di “casa” un po’ più risollevati. Il giorno successivo lasciamo Samosir, torniamo a Prapat e da qui proseguiamo, con un minibus a dir poco indegno, verso Bukittingi, un paesino sulla costa dal quale – abbiamo letto sulla Lonely Planet – dovrebbero partire dei traghetti per Nias, un’isola lunga più o meno 90 chilometri e larga 40 al largo della costa ovest di Sumatra, situata mezzo grado sopra l’equatore. Nias viene segnalata dalla Guida perché – nella sua parte meridionale – ospita alcuni villaggi quasi incontaminati che si possono raggiungere effettuando un giro più o meno circolare nella giungla; le guide non dovrebbero essere necessarie e per tutto il “tour” – circa quindici chilometri – persone abbastanza allenate dovrebbero cavarsela dall’alba al tramonto.

Durante una delle numerosissime soste che il nostro mezzo ci propina durante il tragitto, scopriamo di essere fermi al centro di un ciclopico viluppo di fichi strangolatori che scendono dagli alti alberi che ci circondano; l’immagine è fantastica: i raggi di sole filtrano tra le liane, rivestendo tutto l’interno di questa incredibile “grotta vegetale” di punti e linee di luce caldissima. Senza por tempo in mezzo afferro la macchina fotografica che mi pende dal collo e, scavalcando la Franca, mi precipito verso la porta del bus. Lei, pur di non farsi superare, si getta a capofitto sulla borsa fotografica che giace sul sedile a fianco di Massimo, ma perde l’equilibrio e, per non schiantarsi sullo schienale con la faccia, allunga le braccia per proteggersi, piazzando un diretto esattamente sul setto nasale del nostro sfortunato amico, schiacciandogli gli occhiali dentro la carne ed una lente dentro un occhio. Per quanto ci sforziamo di compenetrarci nel dolore di Massimo, il lato comico della vicenda ha ben presto il sopravvento, e la cosa più difficile è ridere a crepapelle senza che il nostro compagno di viaggio – già imbestialito per l’accaduto – se ne accorga.

Con una frase che tradisce il suo enorme, atavico altruismo, la Franca zittisce Massimo con un “E non rompere i coglioni che non ti ho fatto niente…Tra dieci minuti ti passa tutto!”, lo scavalca di brutta maniera, afferra la macchina fotografica, mi si affianca e scatta le sue belle fotografie. Manco a dirlo, dopo mezz’ora Massimo sembra reduce da uno screzio con Mike Tyson: naso sanguinante color melanzana, occhio nero-bluastro con sfumature giallognole ai bordi, palpebra gonfia e tumefatta; siede imbronciato in fondo al sedile mormorando – penso – orribili anatemi contro la sua fidanzata.

Raggiunta Bukittingi, scopriamo che l’unico traghetto ufficiale parte una volta ogni tre giorni, e naturalmente ha mollato gli ormeggi poche ore fa. Piuttosto depressi ci dirigiamo comunque verso il porto dove, tra due parole in inglese, una in indonesiano e molti gesti all’italiana riusciamo ad imbarcarci come “clandestini” su di un cargo che parte in serata per Teluk Dalam, il porto situato nel sud di Nias. Sulla nostra stessa barca – è il caso di dirlo – viaggia un’altra coppia di sciamannati, un medico di Milano con la sua compagna. Saliti sull’imbarcazione – bella rugginosa e traballante come uno si immagina sia un cargo indonesiano, anzi forse un po’ peggio… – scopriamo che trasporta fusti di petrolio (sporchi dentro e fuori) e palloni da calcio di plastica e, come ciliegina sulla torta, non dispone neanche di una brandina per coricarsi durante la traversata che richiede oltre dodici ore.

Si parte appena cala la sera e a luci spente, il che ci fa presumere che – forse – la navigazione di questa imbarcazione non è del tutto lecita. La serata è fantastica, e il paesaggio (skyline di palme al tramonto con mare calmo e luna che si specchia sull’acqua, piccole imbarcazioni di pescatori all’orizzonte e plancton luminescente sotto il pelo dell’acqua) merita di essere ricordato per sempre; stona un po’ il borbottio fumosissimo del relitto-in-pectore sul quale ci troviamo. Sopraggiunta la notte, e la conseguente stamchezza, cerchiamo di sdraiarci da qualche parte in coperta, rimediando solo puzzolenti macchie di petrolio quasi ovunque; verso le tre – per terminare il quadro tragico – veniamo sorpresi da un acquazzone tropicale simil-uragano che, oltre a bagnarci fin dentro le mutande, ci fa temere seriamente per la galleggiabilità del natante.

Panta rei, ed al mattino ci godiamo un’alba stupenda, proprio mentre all’orizzonte si profila Nias; dopo qualche oretta il capitano (sulla cui descrizione non mi soffermo: fate conto un clone malriuscito di Corto Maltese, puzzolente, con la pelle rovinata dall’acne e vestito come uno spaventapasseri povero) attracca alla banchina di Teluk Dalam, scaricandoci senza un saluto. Siamo ridotti una chiavica tutti quanti: marci, sporchi, puzzolenti di petrolio, i vestiti un ammasso umidiccio, i capelli uno spazzolino da cesso, le unghie che hanno raccolto tutto il lerciume della coperta: ci sarebbe quasi da deprimersi, se non fosse che l’isola è bellissima. Troviamo un passaggio su di un camion scoperto che ci porta fino alla spiaggia, dove sorgono alcune guesthouse piuttosto nuove. Ne scegliamo una, attirati dall’espressione dolce del proprietario, un indo-cinese con un sorriso che tradisce qualche tipo di calma meditativa interiore tipicamente orientale. Ci assegna due bungalow a cinque metri dalla spiaggia, comodissimi, enormi e puliti oltre ogni aspettativa. Ci spogliamo in un baleno e, ancora lerci, ci gettiamo in mare. L’acqua è paradisiaca: tiepida e pulitissima; ritorno di corsa in camera a prendere la maschera da sub e mi perdo a guardare il fondale: coralli multicolori, pesci che finora avevo solo visto – sbavando – sul National Geographic, conchiglie giganti, sabbia di un bianco abbagliante; certi pesci sembrano volare, tanta è la trasparenza dell’acqua. Mi lascio galleggiare con gli occhi chiusi, respirando lentamente dallo snorkel e lasciandomi trasportare dalla debole risacca; perdo quasi coscienza del posto nel quale mi trovo e cerco di fondermi con il mare, di sentirne gli aromi, il calore i rumori ed i silenzi, i piccoli morsi dei pesciolini curiosi, le carezze delle alghe, il rumore del vento che sfiora le onde…Poi sbatto un ginocchio contro un ramo di corallo e sono costretto a ritornare – dolorosamente – alla realtà. Chiediamo al nostro albergatore prima di tutto se può farci lavare un po’ di capi di vestiario, e quindi come si può fare per organizzare il giro nei villaggi; lui – disponibilissimo – risponde affermativamente alla prima domanda e, riguardo alla seconda, ci fornisce ogni tipo di indicazioni. Decidiamo di partire l’indomani mattina presto, e di bighellonare per il resto della giornata di oggi per Teluk Dalam; prima di ritornare al villaggio chiediamo ancora al tipo se è possibile mangiare da lui in serata, magari un po’ di pesce. Ci dice che suo fratello è proprio andato a pescare, e se quando torna ha preso qualcosa di interessante ce lo cucinerà volentieri. L’appuntamento per la cena è quindi fissato per le sette in punto. Teluk Dalam è un tipico villaggio di pescatori, con tutti gli accessori del caso: fortissimo odore di pesce in decomposizione, lunghe rastrelliere di legno dove il pescato viene fatto seccare (o marcire a seconda del clima), moli di legno traballanti con ormeggiate delle barche al confronto delle quali il nostro “traghetto” era la Queen Elizabeth, uomini e donne anneriti dal sole e dal sale intenti a rappezzare le reti (molto rappezzate e poco reti, per la verità…), gatti spelacchiati che vengono agevolmente superati in dimensioni dai topi che fuoriescono da ogni buco; su tutto, comunque, il modo di vivere tranquillo e rilassato che ho imparato a conoscere per la prima volta in questo viaggio.

Gli indonesiani, fuori dalle grandi e caotiche città, sono un popolo delizioso; nulla li scuote, nulla li turba: l’autobus è in ritardo di dieci ore? Pazienza, si siedono e aspettano. L’autista del minibus, prima di partire, fa il giro del villaggio a salutare parenti e amici, e ognuno gli chiede se può portare questo e quello a Tizio o Caio? Meglio, salutano anche loro persone che non vedevano da tempo, si scambiano piccoli omaggi e – probabilmente, visto che non si capisce un cazzo quando parlano – fanno anche qualche pettegolezzo (per la serie “tutto il mondo è paese”). Una strada è bloccata per due giorni perché c’è stato un incidente, oppure c’è un camion in panne che blocca il passaggio? Nessun problema: si aspetta seduti sul bus, oppure ci si siede sul bordo della strada, si accende un fuocherello per cucinare, ci si riposa accoccolati in posizione fetale o seduti sui talloni come solo loro sanno resistere per ore. Chiaro, c’è anche il rovescio della medaglia: ogni tanto questa popolazione pacifica è soggetta ad attacchi di quello che – termine indonesiano – viene riconosciuto come amok: una sorta di furia omicida di massa che può essere scatenata anche da fatti apparentemente irrisori; quando scatta l’amok è meglio non trovarsi in mezzo alla moltitudine urlante che brandisce ogni tipo di arma bianca; probabilmente in quel momento le memorie ancestrali degli avi cannibali e tagliatori di teste hanno la meglio sull’evoluzione sociale. Terminata la frenesia, tutto ritorna come prima (con la popolazione di solito lievemente ridotta…).

Verso le sei e mezza, dopo aver fatto merenda con magnifici frutti tropicali (qui ho riassaggiato il durian – pentendomene immediatamente – ho apprezzato il mango e il frutto della passione, ho stabilito che la papaya matura sa di merda – e ne sono convinto tuttora – ho goduto con gli ananas dolcissimi e con le profumatissime bananine), ci dirigiamo verso “casa”, dove troviamo una tavola già imbandita (si fa per dire; soliti piatti di plastichina colorata e bicchieri in stile, posate di alluminio storte e spaiate: che bello!) approntata sulla spiaggia. Increduli, ci sediamo e il nostro amico ci accoglie con la prima portata: cinque granchi grandi come angurie cotti nella brace; li affrontiamo con dedizione ed impeto, ed abbiamo la meglio, succhiandone anche le gambette più piccole; seguono tre astici bolliti delle dimensioni di un barboncino medio, che addestriamo a saltarci in bocca a pezzettoni. Mentre crediamo che arrivi la frutta, il bieco albergatore ci propina una ventina di fette di squalo fritto, una fantasia di conchigliame vario da succhiare e – per ultimo – un trionfo di king fish alla griglia. Al termine dell’abbuffata indegna stiamo rantolando con lo stomaco estroflesso, le mani sporche di pesce fino alle ascelle, il corpo coperto da pezzetti di guscio di crostaceo, la bocca unta fino alle orecchie. Da un frigo seminascosto l’indo-cinese ci foraggia continuamente di ottima birra locale gelata. Ad un tratto Massimo crolla di lato come colpito da un pugno e si accascia russando sulla panca; decidiamo di stoppare la cena senza aspettare il dessert, ma quando vediamo le banane fritte nel miele ce ne freghiamo anche dell’amico sopraffatto. Ad un passo dal vomitare tutto, riusciamo ad articolare le poche parole che ci consentono di chiedere al nostro albergatore quanto gli dobbiamo per quel capolavoro di cena; lui arrossisce, comincia a dire che “i granchi erano i più belli dell’Oceano”, “gli astici così si vedono una volta ogni tre anni”, “per pescare quello squalo mio fratello ha rischiato una mano” ed altre inezie che vorrebbero contribuire a giustificare il conto da incubo che ci presenterà; alla fine della sua omelìa prende fiato e spara la cifra: in tutto – dessert e coperto compresi – più o meno il controvalore di venticinquemila lire. In quattro! Al mattino, con lo stomaco ancora anchilosato per le libagioni della sera, partiamo di buon’ora per il nostro trekking. Un’anima buona con un furgone pick-up ci dà uno strappo fino all’inizio del sentiero (che, per la verità, non è segnalato in maniera eccelsa) e – ringraziato l’autista – ci avviamo verso le montagne. I villaggi che andremo a visitare sono Bowomataluo, Laosha e Ilismaetano; raggiungiamo il primo dopo un paio d’ore di marcia abbastanza tirata, e veniamo accolti da un branco di innumerevoli bambini di ogni età che ci assaltano all’urlo di “nasi gula-gula!” (“nasi” significa “riso” e “gula” vuol dire “zucchero”; per esprimere il plurale di una parola gli Indonesiani si limitano a ripetere due volte la stessa parola al singolare), cioè “caramelle!”. Il villaggio è in pratica una strada fangosa, ai bordi della quale sorgono capanne – in perfetto stile batak – e sedi di attività artigianali: fabbro, falegname, sarto, parrucchiere… naturalmente rivedute ed adattate in funzione del posto alquanto primitivo. In fondo alla strada campeggia una chiesa cristiana in lamiera ondulata. Leggiamo sulla guida che i missionari si sono presentati qualche decina d’anni fa, hanno costruito – o fatto costruire – chiesette quasi dappertutto, per sparire e dirigersi verso altri posti sperduti ed “assetati” di fede cristiana. Hanno anche regalato molti capi di abbigliamento, dimenticandosi però di dire ai loro “protetti” che – per lavarsi – se li dovevano togliere. Non è raro quindi vedere piaghe anche piuttosto profonde sulla pelle degli abitanti di questi villaggi, causate dal ripetuto strofinare dei vestiti contro la pelle ammorbidita dall’acqua; se ci aggiungiamo che la pulizia personale non riveste senz’altro il primo posto nelle precedenze qui attribuite, è facile capire come – se fossero stati lasciati nudi o coperti con abbigliamento naturale – gli indigeni sarebbero stati senz’altro meglio. Ma questa, come al solito, è un’altra storia… Dopo un giretto per il villaggio, dove ci intratteniamo davanti alla bottega del fabbro, decidiamo di proseguire per Laosha, per raggiungere il quale dobbiamo inerpicarci ancor più sulle colline ricoperte di giungla; il sentiero è comunque ben marcato, non eccessivamente impervio e – soprattutto – quasi totalmente privo di bivi. Calcoliamo di aver percorso quasi la metà del tragitto totale quando Massimo, cercando di fotografare camminando, mette il piede in un fossetto ai lati del sentiero e cade malamente con il ginocchio – già massacrato da incidenti motociclistici in età adolescenziale – in posizione innaturale; si rialza cercando di minimizzare, ma come minimo si è stirato un muscolo o irritato un legamento: zoppica vistosamente e la sua smorfia di dolore non viene nascosta neppure per un attimo dal sorriso forzato. Confortati comunque dal nostro amico, che insiste a dire che non è davvero niente, decidiamo di andare avanti, e raggiungiamo Laosha dopo circa tre ore. L’accoglienza è un po’ meno forsennata rispetto al primo villaggio, anche se ci sono decine di bambini di ogni età pure qui (d’altro canto, senza televisione alla sera…); ci si avvicina quello che sembra essere l’anziano del villaggio e ci chiede se vogliamo fare una doccia. In effetti, tra sudore, moscerini, fango e menate varie sembriamo un po’ reduci del Vietnam; accettiamo quindi con piacere, e veniamo condotti in una radura ombreggiata dalla quale si dipartono due sentieri. Ci viene quindi spiegato (con i soliti gesti e mezze parole sdentate in indonesiano stretto e macchiato di betel) che uomini e donne in questo villaggio hanno bagni separati; le ragazze vengono a questo punto prese in consegna da una decina di giovani fanciulle locali, e noi ci dirigiamo verso il nostro “reparto” seguiti da un codazzo di adolescenti curiosi. Quando ci spogliamo (nudi, che altro?) cominciano tutti a ridere; il fatto è che gli indonesiani sono quasi completamente glabri, ed il vedere il nostro corpo giustamente “pelosino” suscita in loro un’ilarità quasi isterica. Non perfettamente a nostro agio (avete mai provato a lavarvi con trenta persone che vi guardano fisso a meno di un metro di distanza?) riusciamo comunque a ripulirci in maniera accettabile; ci rivestiamo ancora umidi e recuperiamo le ragazze, che sono state – ci raccontano – sottoposte allo stesso trattamento.

Ringraziamo il capo per l’onore concessoci, gli lasciamo un pacchetto di Marlboro ad imperituro (venti minuti circa) ricordo, e ci dirigiamo verso il terzo e ultimo villaggio della nostra passeggiata. Sarà la doccia, sarà il movimento, ma a Massimo il ginocchio non fa quasi più male, tant’è che, quando raggiungiamo Ilismaetano, accolti da una banda di ragazzini che stanno giocando a pallone nello spiazzo antistante il villaggio, il nostro amico decide di unirsi a loro e scambiare quattro passaggi; ad un tratto, il “portiere” rinvia la palla alta e Massimo, gridando “Mia!” con la stessa veemenza di un campione mondiale, la colpisce di testa, crollando di scatto – semisvenuto – per terra. Ridendo a crepapelle, ma un pochino preoccupati, ci avviciniamo al malcapitato e scopriamo che la palla è realizzata con robustissime fibre di bambù intrecciate, pesa quasi un chilo ed ha la stessa durezza di uno scoglio di granito. Rianimato l’esanime, al quale ha ripreso a dolere il ginocchio, gironzoliamo per il villaggio – il più grande dei tre ma anche quello peggio conservato – per una mezz’oretta, e decidiamo di raggiungere la strada carrabile. Il motivo del maggior deterioramento di Ilismaetano ci balza all’occhio dopo pochissimo tempo: è estremamente vicino alla strada, ed è quindi facile obiettivo anche di chi non ha intenzione di sottoporsi a marce forzate per visitare qualche villaggio. Ritorniamo a “casa” giusto verso l’imbrunire, e quando il nostro affittacamere ci presenta – gongolante – una grigliata mista, ululiamo di nausea e ci barrichiamo in camera a succhiare latte condensato dal tubetto.

Al mattino dopo, partiamo di buon’ora e facciamo autostop sulla strada principale per raggiungere Teluk Dalam; dopo pochi minuti si ferma una moto: decidiamo di far salire Massimo che – arrivando per primo in paese – avrà l’incarico di cercare un mezzo che ci porti verso nord, fino a Gunungsitoli, l’altra “città” importante dell’isola, dalla quale abbiamo pianificato di prendere un aeroplanino che ci riporti a Medan. La moto con il nostro amico parte alla volta del villaggio, e noi aspettiamo di trovare un’altra anima buona, la quale si manifesta dopo un attimo nei panni di un anziano signore a bordo di un pulmino preistorico. Mentre percorriamo la strada che conduce a Teluk Dalam, vediamo una moto ferma sul lato della carreggiata, con il guidatore che – in piedi al suo fianco – la prende a calci; ci avviciniamo fino a scoprire che è la moto sulla quale viaggiava Massimo (che è seduto sconsolato sullo zaino, pochi metri più in là), e che ha la gomma posteriore completamente a terra. Facciamo segno al vecchietto di fermarsi a raccogliere il nostro amico, che sale sul pulmino salutando il motociclista, il quale gli borbotta qualcosa che – ad unanime parere – assomiglia più a “Vaffanculo” che a “Grazie per la simpatica compagnia”.

Da Teluk Dalam sta per partire un minibus “diretto” per Gunungsitoli, e ci sono dei posti liberi! “Che botta di culo!”, esclama Massimo, “C’è anche un posto dal finestrino, e stavolta me lo pappo io!” e così dicendo si piazza sul sedile a fianco del finestrino, bello aperto. Strano ed incredibile, partiamo quasi in orario (tipo un’oretta di ritardo), ed in un batter d’occhio ci troviamo in aperta campagna dove la strada asfaltata si trasforma ben presto in una pista beduina piena di fosse e pietrisco, che causano enormi ed inaspettati sobbalzi del veicolo. Durante uno di questi scossoni, una tanica piena di olio di cocco, stivata sul tetto del veicolo, decide di non farcela più e si spacca longitudinalmente da cima a fondo, lasciando colare il suo untuoso contenuto sul fianco dell’automezzo, guarda caso proprio in corrispondenza del finestrino a fianco del quale siede Massimo; lentamente ma inesorabilmente il fetido fluido si riversa sul nostro amico, ungendolo dalle spalle alle caviglie e costringendolo – terminate le bestemmie – a piagnucolare silenziosamente. Passata una mezz’ora dall’incidente, il bus si ferma di colpo: abbiamo forato due gomme in un colpo solo; naturalmente il concetto di “ruota di scorta” non esiste neppure, e l’autista e i suoi collaboratori si ingegnano a riparare le forature con mezzi artigianali. Si riparte dopo una sosta di oltre un’ora, per fermarci quindici minuti dopo di fronte ad un ponte costituito di tronchi di palma, due dei quali si sono spostati generando un buco nel quale passerebbe tranquillamente un ippopotamo obeso.

Mentre i “piloti” si stanno facendo un mazzo enorme a cercare di piazzare i tronchi in maniera da consentire il transito del mezzo, tutti i passeggeri – anche uomini robusti ed in grado di dare una mano – se ne stanno seduti pacificamente ad aspettare che le cose si evolvano. Io e Massimo (per quanto, così unto, assomigli più ad un arrosto pronto per il forno… gli manca giusto la mela in bocca e il famoso carotone) scendiamo a dare una mano ai locali, guardati in maniera un po’ strana, quasi fossimo extraterrestri, dagli altri passeggeri. Dopo un bel po’ il bus riesce, lentamente e con qualche manovra da brivido, a superare il ponte, e andiamo avanti. Prima di raggiungere qualsiasi altra forma di conglomerato abitativo, foriamo un’altra volta; dopo la riparazione si riparte nuovamente; per un paio d’ore non succede nulla, a parte un cane investito e una tipa che pensa bene di vomitare dal finestrino; dal lato di Massimo, naturalmente. Finalmente arriviamo in un villaggio un po’ più “importante”, e ci fermiamo a mangiare qualcosa in un ristorantino che offre una simpatica veranda sulla strada.

Senza alcun preavviso, in pochi istanti scoppia un semi-tifone: pioggia torrenziale che trasforma subito le strade in fiumi fangosi, vento incredibile, temperatura che cala repentinamente di una decina di gradi; ci rifugiamo all’interno del ristorante, ma anche lì arrivano spruzzi di acqua fredda. Gli autoctoni continuano a mangiare imperturbabili, mentre la quantità di acqua sulla strada comincia a lambire il semiasse del nostro bus. Come è scoppiato, il tifone finisce; senza soluzione di continuità spunta il sole caldissimo, che comincia a far evaporare l’acqua, innalzando il tasso di umidità a livelli insopportabili. Il torrente stradale defluisce lentamente e, nel tempo che impieghiamo a dire “Nasi Goreng”, siamo pronti per ripartire. Succede a questo punto una cosa strana: due degli aiutanti dell’autista corrono via sulla strada, mentre il “capo” mette in moto il veicolo e comincia a sgasare di brutto; saliamo velocemente, istigati dal terzo aiutante, che ci stipa all’interno del mezzo stile metropolitana di Tokyo. Appena siamo a bordo, continuando ad accelerare come un pazzo, l’autista parte sgommando nel fango, affronta la strada sbandando di qua e di là come in una tappa di rally, continuando ad aumentare la velocità; dietro una curva, il terrore: la strada è interrotta da un impetuoso fiume marrone – sicuramente un normale torrentello guadabile che a causa dell’acquazzone si è trasformato nel Rio delle Amazzoni – nel quale, immersi fino al petto, gli aiutanti segnalano sbracciandosi la posizione del guado. “Cazzo, qui ci facciamo fuori come i topi!” urla Massimo strabuzzando gli occhi, con le vene del collo tese come gomene. Il pulmino entra nel fiume causando un’onda anomala, perde aderenza, sbanda paurosamente di lato, riconquista il fondo del fiume con due ruote, si inclina, rischia di investire uno degli aiutanti, si impenna, si raddrizza e, con un’ultima accelerata, approda sull’altra sponda in un trionfo di schizzi di fango. Ci guardiamo tutti e quattro con l’espressione incredula di chi ha visto la propria morte in Panavision Technicolor; gli altri passeggeri hanno la stessa espressione di quando siamo partiti: non un grido, non un “gasp!”, neppure una risata o un commento, neanche fossimo su di un autobus delle linee urbane di Londra.

Ancora un paio d’ore di scrolloni, sobbalzi, forature, vomiti, investimenti e buche (ma dopo il guado non ci muove neanche un pelo), e il nostro simpatico autobussino ci deposita alla stazione “centrale” di Gunnungsitoli. Ci avviciniamo ad un guidatore di “ciclo-risciò” e gli chiediamo di portarci all’aeroporto, dove abbiamo in mente di prenotare quattro posti per il volo Gunnungsitoli-Medan dell’indomani. Prima di intavolare una siffatta richiesta abbiamo consultato il dizionarietto tascabile: “aereo” si dice “kapal terbang”, ed è con questa parola che indichiamo la direzione al guidatore del risciò. Lui annuisce, fa salire a bordo me e mia moglie, coinvolge un suo collega che carica Massimo e la Franca, ed i due mezzi si dirigono lentamente fuori città.

Dopo una buona mezz’ora, i risciò si fermano vicino ad una banchina sul porto, di fianco ad una barca ormeggiata. Il nostro “autista” sorride e ci dice “Boat, Mister?”. Gli rispondo “No boat, airplane…Airport, O.K.? Kapal Terbang, O.K.?” e mimo anche – braccia larghe e ronzìo con le labbra – un aeroplanino. “o.K. Mister, airplane!”, borbotta il pedalatore, e si riparte. Dopo un’altra ventina di minuti, ci ri-fermiamo di fronte ad un’altra banchina – un po’ più grande – dove è ormeggiata un’altra nave – un po’ più grande – ed il nostro autista, imperturbabile, ce la indica con il solito “Boat, Mister?”. Scendo dal risciò un po’ incazzato, e gli dico “No boat, cazzo, airplane!! Kapal Terbang, porca troia!!” e riparto con il mimo, questa volta faccio anche un mezzo tonneau simulando uno stallo. Mi guarda sorridendo come se fossi pazzo; in quel mentre arrivano alcuni ragazzini vocianti appena usciti da scuola; ne fermo un paio e chiedo loro se sanno un po’ d’inglese; alla risposta affermativa dico al fanciullo “Spiega a questo deficiente che voglio andare all’aeroporto a prendere l’aereo per Medan, e che se mi porta di fronte ad un’altra barca lo uccido lentamente”. Il ragazzino spiega il tutto al guidatore di risciò, che annuisce come se avesse capito tutto, ci fa risalire sul mezzo e ricomincia a pedalare verso la città. Fa un caldo improbo ma siamo più sudati noi di questo poveretto che sgamba da oltre un’ora; pedala pedala, ci riporta a Gunnungsitoli, percorre due o tre stradine ed alla fine si ferma di fronte alla stazione degli autobus, ci guarda, sorride ed esclama “Bus, Mister?”; a questa domanda mia moglie – finora silente e rassegnata come un gatto di marmo – gli salta al collo cercando di strangolarlo con una presa di kung-fu ed urlando “Nooooooooo, figlio di puttanaaaaa! Ti ammazzo bastardoooo!”.

I due contendenti – il guidatore con un sorriso sul volto e la sua assassina-in-pectore con un’espressione ormai non più umana – rotolano a terra in una nube di polvere; dopo qualche istante di disorientamento riusciamo a dividerli, ma ormai Roberta sembra un pit-bull con le palle stritolate da un morsetto: digrigna i denti (e sbava anche un po’). Arriva a far da paciere un indonesiano che parla un lieto inglese, e ci spiega che l’aeroporto è lontano, troppo per un risciò, e quindi il pedalatore voleva che prendessimo un battello oppure l’autobus, solo che non sapeva come spiegarcelo senza farci arrabbiare. Spieghiamo a nostra volta che – invece – ci siamo molto arrabbiati, ma comunque tutto è bene quel che finisce bene, ed ora come cacchio facciamo ad andare all’aeroporto. Si fa avanti un altro autoctono che si presenta come albergatore e responsabile della biglietteria aerea per la tratta Gunnungsitoli-Medan. Ci accompagna alla sua guesthouse – carina (palafitte pulite e spaziose ai bordi della giungla) ed economica – ci assegna le camere “più belle” (le prime due di cui ha trovato le chiavi nel sempiterno casino della scrivania) e ci vende quattro biglietti aerei per Medan – che compila a mano! – con partenza l’indomani mattina; per raggiungere l’aeroporto – dice – sarà suo piacere accompagnarci in macchina. Sorridiamo, finalmente.

Durante la notte, verso le due, mi alzo con la fronte sudata e gli intestini annodati; con uno sforzo disumano reprimo un urlo e, piegato in due con le mani sullo stomaco, mi dirigo verso il bagno; mia moglie si sveglia e mi dice “Non vorrai mica andare a cagare qui, ché non c’è la porta e fai tanta di quella puzza che non dormiamo più? Vai fuori e falla di sotto”; incapace di reagire, tanta è la pressione che spinge dentro le mie viscere, mi accascio lungo le scale e, sempre più ad angolo retto, mi dirigo verso la giungla. Dopo alcuni passi trovo un albero che sembra fare al caso mio; faccio per chinarmi ma, con il terrore che ciò che uscirà possa sporcarmi le gambe, adotto una posizione che definirei “innovativa”: mutande infilate in un braccio, carta igienica saldamente in bocca (tra le labbra, maiali!), piedi ai lati del tronco, mani che afferrano lo stesso ed alle quali affido il peso del mio corpo; fuoco alle polveri! Espletata quasi la maggior parte del mio “dovere”, sento un tocco delicato dietro la schiena. “Sarà una pianta o un insetto” penso, assestando una solenne sberla nel punto dove mi sembra avvenga il contatto; urto un corpo solido, che dopo un istante ringhia sommesso; con la stessa faccia di Willy il Coyote che paventa il masso che lo schiaccerà, mi giro lentamente fino ad incrociare lo sguardo con quello del cane dell’albergatore – una sorta di sciacallo spelacchiato grande come un pony – che non sembra per nulla contento di essersi preso una sberla sul muso. In una frazione di secondo mi immagino la scena: io, nudo come un verme, sporco di merda fino agli occhi, le mutande in un braccio, che corro gridando “Aiuto!” con la bocca piena di carta igienica per le vie di Gunnungsitoli, inseguito dalla brutta copia del Lupo Mannaro Americano a Londra. Probabilmente per empatia o semplice pietà, l’animale ringhia ancora una volta, mi annusa (e forse qui perde i sensi per qualche istante) e decide che sono troppo sporco anche per lui, abbandonandomi quindi al mio destino. Torno a dormire dopo aver ringraziato buona parte delle divinità mondiali.

Al mattino dopo, svegliati e colazionati (per me una doppia limonata tiepida senza zucchero e qualche banana, grazie…), saltiamo in macchina e veniamo accompagnati all’aeroporto. Ci accomiatiamo dal nostro ospite profondendoci in mille ringraziamenti, ed entriamo nella hall dell’edificio, che è grande più o meno come metà del salotto di casa vostra. In fondo, un ciccione in uniforme ci fa segno di avvicinarci; controlla i biglietti, ce ne strappa un pezzo in maniera forse troppo vigorosa, e ci dice che dobbiamo pesare i bagagli per il check-in; gli porgiamo gli zaini ma lui ci impone di seguirlo fin dentro uno stanzino, dove fa bella mostra di sé una magnifica bilancia pesapersone (la stessa che avete in bagno, solo molto più distrutta e sporca); ci fa appoggiare i nostri bagagli – uno per uno – sull’attrezzo, osservando il peso ed annuendo, poi ci indica la porta, come a significare “Fuori di qui, ora dovete solo aspettare l’aereo”. Naturalmente non esistono tabelloni né orari, ma solo una panca, sulla quale ci accomodiamo già sfiancati dal caldo e dall’umidume. Entra un tizio molto compunto con un thermos sotto il braccio ed un enorme sacchetto di plastica nell’altra mano; si dirige rapidamente verso un tavolo posto in un angolo del salone, vi appoggia sopra il thermos, estrae dal sacchetto due contenitori pieni rispettivamente di caramelle e di minisnack, apre un cassetto del tavolo e preleva un cartello, che appende al collo del thermos; sul cartello c’è scritto, in bella calligrafia, “Duti Free” (sic!). Dubitiamo che accettino carte di credito, e comunque i duty free goods non ci attirano più di tanto.

Andiamo al gate di imbarco – che non vi descrivo per pietà cristiana – e chiediamo al responsabile (un altro indonesiano in alta uniforme da aeroportuale) quando arriverà il nostro velivolo. Sorride. Ci sforziamo di interpretare questa gestualità come “Non manca molto al decollo, accomodatevi pure”, ma dopo un paio d’ore cominciamo a preoccuparci. Ci riavviciniamo al tipo (che, fedele al codice comportamentale dell’Oriente, è rimasto seduto immobile per tutto il tempo) quando, in lontananza, sentiamo il rumore di un motore; l’aeroportuale ci guarda, sorride e apre la bocca (un subitaneo pensiero mi paralizza: “se ora dice ‘Boat, Mister?’ lo ammazzo con le mie mani”) per dire “Erplen camin”; ci fa accomodare all’imbarco, che si traduce poi nel varcare una porta di legno e trovarci sulla pista. L’aereo, un bielica bianco-blu che, molti anni fa, ha conosciuto tempi migliori, atterra un po’ ballonzolante e si avvicina fino a spettinarci. Lascia i motori al minimo, permette ai sette passeggeri di scendere e ritirare direttamente dalla coda il loro bagaglio, quindi effettua una conversione a 180°; il secondo pilota si affaccia alla porta e sorridendo ci fa cenno di salire. Dietro di noi, nel frattempo, si sono aggiunti altri due passeggeri. Depositiamo gli zaini nel buco in coda – ben protetto da una rete di corda – e prendiamo posto. Il cockpit è separato dalla zona passeggeri da una tendina di stoffa. Le hostess sono, ovviamente, assenti, e il pranzo a bordo (una scatoletta di cartone con una gelatina di cocco e tre biscotti, pure al cocco) ci viene servito dal comandante in persona, che ritorna al suo posto e, senza preoccuparsi minimamente di cagare una qualsiasi torre di controllo, dà tutta manetta e decolla senza preavviso alcuno. Durante la manovra di distacco dalla pista, inoltre, pensa bene di girarsi verso di noi per chiederci, urlando per superare il rumore dei motori, “Do you like Indonesia?”; Massimo si incarica di rispondere “Very much, ma guarda davanti che ci schiantiamo nelle palme, deficiente!”. Il volo – di circa un’ora – non crea problemi, e per la prima e unica volta finora mi godo un atterraggio stando in piedi dietro il sedile del secondo pilota.

Ritornati a Medan, abbiamo l’occasione di girarla un po’ meglio e di poter stabilire con quasi totale certezza che, a parte l’enorme moschea, fa proprio schifo. L’indomani ritorniamo a Singapore e – direttamente in aeroporto – Massimo e la Franca trovano un volo per Jojakarta, nell’isola di Giava; le loro ferie durano ancora una quindicina di giorni, le nostre – ahinoi – solo cinque. Ci separiamo quindi con lacrime e abbracci, dandoci appuntamento non più a Singapore ma – ben più tristemente – “dalle piscine, sabato l’altro verso le 21.30, così magari andiamo da qualche parte a bere qualcosa con gli altri”. Ora siamo soli, e per la prima volta non c’è qualcuno a suggerirci cosa fare, che strada scegliere, cosa dire, dove dormire, cosa vedere, dove andare e cosa mangiare. Prima di separarci, ho leggiucchiato qua e là la Lonely Planet della Franca: a poche ore di autobus da Singapore c’è, già in Malesia, il paesino di Mersing, dal quale partono numerosi traghetti per l’isola tropicale di Tioman, una sorta di paradiso lussureggiante, con tutto quello che ci si può aspettare da un paradiso lussureggiante: giungla, spiagge bianche, fondali da urlo, milioni di pesci multicolori, clima curiosamente fresco. (4) Pianifichiamo quindi il viaggio; senza perdere tempo ci rechiamo alla stazione degli autobus di Singapore dalla quale – dopo poche ore – partiamo alla volta di Mersing. Arriviamo verso le due di notte, e troviamo alloggio in una simpatica guesthouse dove il proprietario è informatissimo sugli orari dei traghetti per Tioman; ci risvegliamo piuttosto riposati e ci facciamo trasportare al porto da un bemo (una sorta di minibus-taxi dalla capienza dichiarata di sei persone, normalmente stipato da ben oltre dieci, la cui perfida particolarità è che – a bordo – pagano solo i turisti; nei miei numerosi viaggi in Oriente non ho mai visto indigeni metter mano al portafoglio per pagare un bemo, se non gettare poche rupie spicciole nel portacenere dell’autista: probabilmente, con quello che paga un turista – pur contrattando – il “taxista” si rifà di una dozzina di corse standard); il traghetto molla gli ormeggi dopo neppure mezz’ora e si dirige verso il mare aperto. Ora, mia moglie soffre da sempre di cinetosi; ha vomitato su ogni tipo di mezzo di trasporto conosciuto all’uomo: aerei, treni, automobili, barche (specialmente), traghetti, gommoni, cammelli, elefanti, paracaduti ascensionali, skateboard, pattini a rotelle, motoslitte, seggiovie, funivie, ed una volta anche in Vespa mentre guidavo sulla Via Aurelia tra Rapallo e Recco. Anche oggi decide di non conservare i suoi succhi gastrici e, non appena in mare aperto, comincia a regalare la sua colazione del mattino – sotto forma di pastura – ai pesci dell’Oceano Indiano. Durante una di queste donazioni, mentre come al solito le reggo la testa (uno spettacolo fantastico, vi consiglio di provare…), a pochi centimetri dal suo orecchio appare una “cosa” nera e lucida, enorme, che apre la bocca sul pelo dell’acqua, inghiotte mezzo panino al sesamo e – credo – due bocconi di papaya, e si rituffa negli abissi. Lo riconosco come un globicefalo, innocuo ma corpulento, e cerco di tranquillizzare la mia consorte, che giace a occhi sbarrati sulla tolda del traghetto. “Poteva andar peggio (meglio?) – le dico – poteva essere uno squalo”.

Giungiamo finalmente in vista di Tioman; a quei tempi (lo so, sembrano i discorsi di Matusalemme…Figuratevi però che oggi – per raggiungere quest’isola – se avete il grano, un aliscafo turbo-catamaranizzato che parte da Singapore vi deposita in quattro ore scarse di fronte all’albergo che avete scelto tra la dozzina di disponibili) il posto era pressoché sconosciuto, e prosperavano solo un albergo, troppo caro per i nostri standard, e alcune guesthouse (in pratica bungalows di legno sulla spiaggia gremita di palme); anche il traghetto fungeva da autobus con fermata a richiesta: bordeggiava le spiagge e quando qualcuno vedeva un posto che gli piaceva doveva solo chiedergli di fermarsi; il capitano raggiungeva il fondo sabbioso fino a grattare la chiglia sulla spiaggia, faceva scendere i passeggeri e ripartiva salutando. Noi – assecondando le usanze in vigore – identifichiamo un angolino di paradiso e chiediamo di scendere; troviamo un bungalow sulla spiaggia, carinissimo e molto “robinsoncrusoeiano”, che ha proprio di fronte alcune amache intrecciate con fibre di palma. Il prezzo richiestoci, dopo le usuali contrattazioni, sfiora il ridicolo: in pratica il controvalore di circa 4.000 lire, in due e con la prima colazione. Tra bagni, fotografie subacquee, passeggiate sulle spiagge, minitrekking nella giungla e disgustoso ozio sulle amache, i tre giorni a nostra disposizione passano in un battibaleno. Unica nota “selvaggia” in questa parentesi turistica sono i pipistrelli giganti (le famose “volpi volanti”: in pratica un chihuahua con un paio d’ali di pelle nera), diurni e vegetariani, che ci deliziano con i loro voli radenti e le loro urla acutissime. Ogni tanto qualcuno si pianta contro l’unico cavo elettrico dell’isola, e crolla a terra bruciacchiato (pare che li mangino, qui, ma sinceramente abbiamo preferito non approfondire). Nonostante la prima parte della vacanza non sia stata per nulla riposante, e un po’ di dolce far niente abbia ritemprato i nostri muscoli, riconosco che l’accidia non fa al caso mio; è bello muoversi, girare, conoscere, parlare, studiare nuovi itinerari, cercare posti sperduti, bearsi di fronte ad una cascata nascosta tra gli alberi, tuffarsi in un laghetto dimenticato, guadare un torrentello per arrivare in cima ad un monte dal quale si vede il sole che – tramontando – sparisce dietro un vulcano. È bello viaggiare: i soggiorni “tutto compreso” su spiagge da cartolina o i safari con gli animali addormentati e talmente abituati alle jeep da non svegliarsi neppure quando passano non mi attirano per niente. D’ora in poi viaggerò così, mi dico, ma non faccio altro che chiarirmi una volta per tutte quello che da sempre sentivo dentro.

Il ritorno a Mersing non crea alcun problema; l’unica nota di colore viene dall’ultima sera a Singapore dove – per celebrare finalmente in maniera degna il matrimonio – decidiamo di non badare a spese e di passare la notte in un albergo di Orchard Road. Ci infiliamo prima nel Wisma Atria e quindi al Mandarin (spesa media per una matrimoniale circa 100 U$, quando il dollaro valeva 1.200 lire), e chiediamo una stanza, dietro l’assicurazione definitiva che non troveremo scarafaggi in camera. I solerti addetti alla reception, in un inglese finalmente impeccabile, ci spiegano che loro sorvegliano le stanze con attenzione maniacale, ma in una città come Singapore non possono garantire nulla. Ci guardiamo in faccia, salutiamo rispettosamente, e prima di chiudere gli occhi nella nostra bettola cinese di Bencoolen Street – nella stanza che era stata di Massimo e Franca – pensiamo a quante cose potremo comprarci al duty free con i cento dollari risparmiati. Il volo di ritorno conosce un attimo di panico sulla tratta Singapore-Bombay quando, dopo aver girato più di un’ora sulla verticale della città indiana per evitare un forte temporale monsonico, il pilota – ex-militare sovietico – si scoppia una picchiata di cinquemila metri, raddrizza l’aereo a cento metri di quota, tocca terra a metà pista e inchioda di botto. Quando riapro gli occhi, mia moglie è sotto il sedile davanti, con la cintura di sicurezza che la ghermisce sotto la gola. A Linate, mio papà ci aspetta fuori, e si stupisce quasi quando ci vede arrivare con tutte le nostre braccia e gambe, con gli occhi, senza cicatrici o malattie incurabili. Saliamo in macchina, e ci sembra di leggere i titoli di coda di un film che ci ha stregato: non si riesce a credere che sia finito, fin quando le luci si accendono e gli unici colori in sala sono quelli della gente che si accalca alle uscite. Al primo semaforo ho quasi una crisi di pianto, mi vien voglia di correre indietro all’aeroporto e risalire sul primo aereo in partenza per ovunque, poi mi calmo e comincio a riflettere “Dove mi piacerebbe andare la prossima volta?”, e quell’Odore di Oriente che non abbandona le mie narici… “Massimo e la Franca vanno in Thailandia”, aveva detto Paolo un milione di anni fa… Arrivato a casa, con ancora lo zaino in spalla, prendo il telefono e chiamo il mio amico Pierluigi: “Ciao Pier… si, tutto bene, poi ti racconto… senti, l’anno prossimo ci vieni in Thailandia con noi?”.



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