Malesia low cost: dalla penisola al Borneo con lo zaino in spalla
Una grande città, la conoscenza di una cultura lontana, la natura incontaminata oppure la barriera corallina? Chini sulla cartina in cerca di una meta che non ci privasse di nessuna di queste esperienze le nostre dita si sono fermano sulla Malesia. Un’occhiata rapida a internet per fare qualche preventivo spazza via ogni dubbio: i prezzi contenuti fanno di questo paese del Sud-Est asiatico il luogo ideale nel quale vivere un’avventura completa senza spendere un patrimonio a patto, però, che si abbia una certa dose di spirito organizzativo, di adattamento e di avventura. Il tipo di viaggio perfetto, insomma, per me e il mo ragazzo, 26 e 29 anni.
Il primo passo è stato prenotare i voli: presi ad aprile i biglietti Qatar – con un brevissimo scalo a Doha – sono costati 629 euro a persona a/r. Quattordici ore tra le nuvole passano in fretta grazie ai frequenti spuntini, al vasto assortimento di film e, soprattutto, all’impazienza. All’aeroporto di Kuala Lumpur ci investe un’ondata di umidità che aumenta a dismisura il caldo percepito. In pochi minuti ci abituiamo al clima e ci incamminiamo verso il pulmann che in un’ora ci conduce alla stazione centrale della città (10RM a testa). Cambiamo solo una piccola parte dei contanti che abbiamo con noi prima di affrontare questo spostamento: i tassi di cambio all’aeroporto sono svantaggiosi (1 euro viene acquistato a 3,68 ringgit).
Giunti alla Sentral Station sperimentiamo subito la monorotaia; passa spesso, è ventilata, non troppo affollata ed economica, peccato che copra solo una ristretta area di KL. Nei cinque minuti a piedi che separano la fermata dalla guesthouse si scatena un acquazzone. Per fortuna ho a portata di mano il kiwei, che si rivelerà davvero comodo in diverse occasioni: la penisola, infatti, attraversa la stagione delle piogge e anche nel Borneo, dove invece è in corso la stagione secca, le precipitazioni sono frequenti e imprevedibili.
La pensione dove pernottiamo si trova dietro ad alcuni hotel di lusso, in una via sporca, dalle palazzine squallide, come tante altre della città. Tra un negozio di alimentari aperto 24 ore su 24 e una specie di bisca c’è la porticina del The Nest, che si rivela un’ottima scelta per il rapporto qualità prezzo. Pulitissima e curata, questa guesthouse offre camere matrimoniali con bagno privato a 89RM per notte, colazione inclusa. Provata la kaya spalmata sul pane tostato: è una specie di marmellata, con la consistenza della crema di marroni, a base di uova e latte di cocco.
Dopo esserci sistemati usciamo alla scoperta del Triangolo d’Oro. La pioggia è già finita: nei venti giorni passati in Malesia non abbiamo mai incontrato acquazzoni più lunghi di un’ora. Il primo obiettivo è riuscire a cambiare altri soldi a un tasso migliore. A BB (Bukit Bintang) Plaza troviamo la soluzione: Pengurup Wang acquista 1 euro a 3,95RM. Questa catena ha sedi sparse in tutta la città.
Le Petronas Tower sono impressionanti di giorno (ingresso 85RM a persona) e spettacolari di notte: insieme alla Menara Tower brillano nel cielo buio come dei gioielli. Il quartiere finanziario non ha molto da offrire a chi, come noi, non ama grandi palazzi e grattacieli, così proseguiamo la nostra passeggiata in direzione Chinatown. Alcune colorate e caotiche vie portano al mercatino storico di Petaling Street. Chi ama trattare qui trova pane per i suoi denti. Non immaginate bancarelle con prodotti tradizionali: buone imitazioni di vestiti, scarpe e accessori sbucano da ogni angolo a pochi ringgit. Tanti anche gli ambulanti che vendono frutta e spiedini di pesce e pollo fritti. Qualche passo in più e arriviamo a Brinchang, il quartiere indiano, dove i negozietti cinesi sono sostituiti da scaffali ricolme di quadretti dorati raffiguranti le più svariate divinità indù. Quest’area è piena di ristorantini che consentono di consumare un pasto completo a pochi euro: noi abbiamo cenato in due con soli 9RM all’interno di un locale cinese. Il cibo merita due parole: la popolazione della penisola è costituita da malesi, indiani malesi e cinesi malesi, quindi se siete amanti della cucina asiatica potrete sbizzarrirvi. Trattandosi di un paese islamico l’alcol in molti locali non è servito; il costo di una birra (la Tiger Bier è quella nazionale), comunque, va dai 5 ai 9RM. I cocktail sono disponibili quasi esclusivamente nei locali di stampo occidentale, dove i prezzi si alzano vertiginosamente anche per mangiare.
La mattina seguente ritiriamo l’automobile presa in affitto (Paradise Car, 110RM al giorno per una citycar, la Viva) per dirigerci verso le Cameron Highlands. La benzina ha un prezzo fisso, 1.9RM a litro in ogni distributore. Il noleggiatore ci chiede altri 40RM totali per la consegna e il ritiro del veicolo presso la nostra guesthouse; glieli diamo senza far storie, ma col senno di poi avremmo contestato questa richiesta. La partenza slitta di un’ora: la batteria è scarica e la macchina non si mette in moto. La sostituiamo e finalmente riusciamo a metterci in marcia. Le Batu Caves, a 13 chilometri da Kuala, sono la prima tappa. Disorientati a causa della mancanza di indicazioni ci perdiamo un paio di volte: se potete noleggiate anche un navigatore. Dopo aver fatto su e giù sulla stessa strada per venti minuti imbocchiamo l’uscita giusta e troviamo le grotte meta del più importante pellegrinaggio induista della Malesia. Di fronte alla scalinata che conduce ai templi si trova una la statua dorata che raffigura la Divinità della guerra, la più alta scultura indù del mondo con i suoi 42 metri di altezza. Portate con voi tante nocciolini: la parte più divertente della visita alle Batu Caves sono i macachi. Le scimmie sono tantissime: maschi adulti, giovani e mamme con i cuccioli attaccati al petto si avvicinano alla ricerca di cibo. La visita alle caverne è breve: la grotta principale e le minori, con i rispettivi Templi/altari, richiedono un quarto d’ora. Notiamo un cartello con la scritta “No spitting”. Dopo un paio di giorni ne capiamo il motivo: sputare per terra, in Malesia, è un abitudine di tutti. Da qui proseguiamo prendendo l’autostrada fino a Tapah (18RM di casello) e poi avanti, su una via tutta curve che attraversa la regione delle piantagioni di té e delle fattorie. Il viaggio dura più del previsto: invece delle 3 ore messe in conto ne impieghiamo 5, con una lunga pausa nel mezzo. I camion e bus che si muovono a passo d’uomo rallenta la marcia. La strada è spettacolare: dietro a ogni tornante si nasconde una fitta vegetazione. A mezzora dall’inizio incontriamo le prime baracche di contadini che vendono pochi prodotti locali. A metà percorso, sulla sinistra, incontriamo una cascatella dove alcuni malesi stanno facendo il bagno. Facciamo una pausa qui e mangiamo qualcosa; i venditori di banane e di pollo e pesce fritti non mancano.
Raggiungiamo la nostra destinazione, Tanah Ratah, alle 17. Come la maggior parte delle cittadine malesi (soprattutto quelle che incontreremo in Borneo) è grigia e brutta, ma per noi è solo un posto dove dormire. Dormiamo due notti nella Father’s Guesthouse (una notte con bagno privato, 100RM e una notte con bagno condiviso, 70RM); anche questa struttura, semplice ma pulita, è da consigliare. Mille i localini dove mangiare a pochi euro in questo centro abitato, così come a Brinchang, ma ricordare che quasi tutti i ristoranti e i negozi aprono alle 10 di mattina. Se arrivate qui in automobile è inutile affidarsi a un tour organizzato: ogni attività si può svolgere per proprio conto e non è affatto necessaria una guida. In un giorno siamo riusciti a vedere tutto con calma. L’unica cosa che non abbiamo fatto è il trekking alla ricerca della rafflesia; in quel caso la guida può essere utile se non si è più che preparati. Abbiamo visitato le Boh Tea Plantation, nella loro sede più antica. La visita dell’azienda dura 8 minuti ed è gratuita. Si può andare in giro liberamente per le piantagioni di tè, arrivando a osservare da vicino come si svolge la raccolta. I turisti si fermano al ristorante e al negozio, dimenticandosi di poter passeggiare tra le piante; voi approfittate di questa occasione. Difficilmente dimenticheremo i paesaggi incantevoli e l’odore intenso delle foglie.
Secondo obiettivo: la Mossy Forest. Il fango dovuto alla pioggia della notte precedente non ci ha permesso di spingerci molto in là; ci siamo limitati a un trekking di un’ora in cui abbiamo visto molti esemplari dei fiori carnivori più famosi della Malesia. Il sentiero è ben segnalato e semplice anche per chi non è esperto; andando avanti avremmo raggiunto due picchi da scalare per raggiungere la vetta. Visitiamo la Big Red strawberry Farm e la Cactus Valley, una bee-farm e il mercato dei contadini; la delusione è grande. Sono attrazioni turistiche molto commerciali, dei negozi specializzati; non hanno nulla della fattoria o dell’azienda agricola.
La mattina dopo torniamo a Kuala Lumpur. Nel pomeriggio ci attende l’aereo in direzione Borneo, Sabah. Per 8RM a testa dalla Sentral un bus ci porta al terminal dei voli low cost. Abbiamo acquistato i biglietti Air Asia con un paio di mesi anticipo, pagando 35 euro (solo andata) per KL-Sandakan. A tre ore dal decollo atterriamo in questo minuscolo aeroporto. La sera è calata e gli autobus notturni non ci sono; prendiamo un taxi che ci porta al SeaFront Hotel. Sandakan, di notte, è desolante: le strade sono deserte, sui marciapiedi ci sono solo immondizia e ratti. Dalla stanza della nostra camera possiamo sentire la musica forte di una discoteca; il posto è bruttino e non troppo pulito, ma passiamo qui solo poche ore e per 69RM colazione inclusa non potevamo pretendere di più.
Il giorno successivo abbiamo appuntamento alle 9 di mattina con la Crystal Quest, l’unica agenzia che organizza la visita di Pulau Selingan, l’isola delle tartarughe. Saldiamo il pagamento prima di partire: in tutto è costato circa 75 euro a testa. Il prezzo è alto rispetto alla media, ma lo spettacolo al quale stiamo per assistere li vale tutti. Inoltre i prezzi dnella regione del Sabah sono in media più alti rispetto a quelli della Penisola. Siamo emozionati: ogni notte le tartarughe verdi ed embricate (hawksbill) depongono le uova a Selingan; ogni notte migliaia di piccoli escono dal nido e prendono il largo. Per raggiungere l’isola ci vuole mezzora. Pranzo alle 12.30 e poi in spiaggia fino alle 18, alle 19 visita al museo e video esplicativo, infine la cena e poi l’incontro in cui tutti speriamo. Pasti e stanza sono spartani, ma questo è un centro ricerche, non un resort. In 20 minuti giriamo tutta l’isola: è un dispiacere vedere che, nonostante il personale sia numeroso e inoccupato durante tutto il pomeriggio, si trovino bottiglie e altri rifiuti portati dalla marea. Per mantenere Selingan pulita alla perfezione basterebbero un paio di ore di lavoro al giorno. L’acqua è trasparente e qualcosa di interessante si può incontrare, anche se il fatto di poter nuotare solo in un’area ristretta limita molto le possibilità di chi fa snorkeling. Noi, a pochi passi dalla riva, abbiamo trovato un trigone blu. Alla luce del giorno sulla spiaggia si osservano le buche scavate dalle tartarughe e i gusci rotti delle uova sfuggite ai ricercatori. Durante la cena nella nursery un uomo si aggira con una luce rossa; per caso lo scorgiamo e riusciamo a vedere i piccoli che raggiungono l’aria dopo la lunga scalata del nido. Una mezzora dopo ci chiamano: una tartaruga sta deponendo le uova. Siamo in quaranta e non ci dividono in due gruppi. Non ho invidiato per niente quella povera tartaruga stremata dal parto, rimasta accecata da mille flash nonostante i continui rimproveri dei ricercatori. Il momento, comunque, è stato stupendo. Centoquarantasette le uova deposte di fronte ai nostri occhi, mentre altre tartarughe arrivavano a terra. A spiegarci cosa stesse accadendo alcuni ricercatori molto disponibili. La fase successiva è quella della liberazione dei cuccioli, tenuti in osservazione per un paio di giorni dopo la schiusa e poi rilasciati: portati a riva seguono i riflessi della luna sull’acqua per raggiungere il mare. Dopo 35 anni, raggiunta la maturità sessuale, torneranno in quella stessa spiaggia per riprodursi. Se volete assicurarvi una notte qui vi conviene prenotare con qualche settimana di anticipo. La Crystal Quest chiede un acconto da fare con bonifico bancario. Quasi tutti i turisti a Selingan avevano prenotato un pacchetto con uno dei tanti tour operator, portando con loro una guida private: è assolutamente inutile, l’unico effetto è quello di aumentare il costo della visita. Sul posto i ricercatori sono disponibili a saziare le vostre curiosità, a partire dalla visita del museo, per tutto il corso della serata e sono gli stessi ricercatori a fornire le spiegazioni durante le varie fasi a tutti i presenti, guide comprese. Alle sette di mattina del giorno dopo si riparte. Da Sandakan dividiamo un taxi con i ragazzi olandesi per arrivare fino a Sepilok. Il viaggio dura 45 minuti e paghiamo 15RM a persona. Di fronte al santuario degli oranghi aspettiamo l’autista della struttura dove staremo, l’eco resort Paganakan Dii. Questa struttura è bellissima: per raggiungerlo si attraversa un parco pieno di uccelli e laghetti coperti da ninfee in fiore. Dopo qualche centinaio di metri in salita ecco il Paganakan Dii, interamente in legno, immerso nel verde. I bungalow sono puliti, spaziosi e con un affaccio incantevole sulla foresta pluviale e sul lago. Tra le foglie scattano tantissimi scoiattoli di tutti i colori. Paghiamo 150RM a notte, colazione inclusa. Questo posto è l’unico in cui abbiamo incontrato degli italiani. Il ristorante offre a prezzi competitivi ottimi piatti – buonissimo, per esempio, il barracuda a soli 10RM; è impossibile, d’altra parte, raggiungere da qui altri posti senza prendere un taxi. Ogni giorno delle navette gratuite accompagnano i clienti al santuario degli oranghi e al Rainforest Discovery Center. Il primo pomeriggio lo passiamo in questo centro, aspettandoci un parco rivolto ai bambini. L’ingresso costa 10RM, poi sta a voi, cartina alla mano, scegliere quali sentieri esplorare. Noi, oltre a quelli più battuti, ci siamo allontati – avvistando tantissimi uccelli, persino un picchio – per raggiungere il Giant Sepilok, un albero del quale ci è stato impossibile individuare la vetta.
Il giorno dopo abbiamo diviso un taxi con un’altra coppia italiana (60RM in due) per raggiungere Labuk Bay, dove si trovano le scimmie nasiche. Il proprietario di queste due piattaforme dalle quali viene servito il cibo ai primati è cinese; questo santuario non è un centro di ricerca, è un’attrazione privata, ecco perché il biglietto costa ben 60RM a persona. Dalle due passerelle a disposizione, durante gli orari dei pasti, si possono osservare intere famiglie di scimmie nasiche e di macachi coda lunga a distanza ravvicinata. Non pensate di non vedere più questa specie, presente solo nel Borneo: sul Kinabatangan gli avvistamenti sono assicurati; a Labuk Bay, però, si ha l’occasione di guardarle da vicino e a lungo. Il pomeriggio lo dedichiamo agli oranghi. Il biglietto costa 35RM (inclusa la tassa per la macchina fotografica). Non accorrono numerosi come le scimmie nasiche all’ora del pasto, ma quei pochi presenti all’appello sono bellissimi. Abbiamo ascoltato le lamentele di chi ha trovato noioso il santuario degli oranghi rispetto a quello delle nasiche; noi, invece, lo abbiamo trovato molto interessante. Questa specie, inoltre, si mostra più difficilmente e non sempre viene avvistata nel corso dei safari sul Kinabatangan. Il personale del resort ci prenota un bus per il giorno dopo: questa volta dobbiamo raggiungere il Kinabatangan River Bridge, dove abbiamo appuntamento con la Kopel. Il pullman supera le nostre aspettative, 20RM in prima classe, con sedili larghissimi e comodi. Due ore e siamo di fronte al cartello della Kopel, cooperativa che promuove lo sviluppo locale – vi lavorano solo e soltanto malesi – attraverso il progetto di turismo sostenibile Mescot. La voglia di vivere la foresta lontani dagli operatori europei e dalla folla mi ha spinta a scegliere questa soluzione, sebbene su internet avessi trovato solo poche opinioni di viaggiatori che già vi erano stati. Qui avremmo anche soggiornato presso una famiglia malese. Un cambio di programma ci porta a trascorrere la prima notte in homestay, nel villaggio che si affaccia sul fiume. Vi sono alcune regole da seguire: dalle classiche spalle e ginocchia coperte per le donne al divieto di qualsiasi contatto fisico tra uomo e donna, anche nelle presentazioni. Oltre alle norme di comportamento, se volete stare qui preparatevi a entrare in una vera casa malese. Ai nostri occhi appaiono come delle belle baracche; rialzate di qualche metro rispetto al suolo hanno i tetti in lamiera, nulla a chiusura delle finestre, raccolgono solo acqua piovana. Niente sciacquone nel water – ovviamente – e doccia in stile rigorosamente malese: un rubinetto getta l’acqua piovana nel secchio dal quale, con un mega-mestolo, si prende quanto basta per lavarsi un po’ alla volta. Lo spazzolino da denti è uno sconosciuto. Le abitazioni all’interno sono spoglie: poche stanze rispetto al numero di persone, saloni e cucine ampi, senza mobili. Unica presenza la televisione – con abbonamento tipo Sky – di fronte alla quale ci si siede a terra. Anche i pasti sono consumati a terra, con le mani. Niente tovaglioli di carta: le mani si lavano prima e dopo il pasto con un’apposita teiera. I pasti sono a base di riso in bianco, una zuppa di verdure, pollo o pesce e altre due pietanze da mangiare con il riso – pollo, pesce o uova. La famiglia che ci ha ospitati era composta da sei bambini, mamma, papà e nonno. Hanno lasciato a noi una stanza con due letti singoli, mentre loro hanno passato la notte nella camera a fianco, sul pavimento. I malesi sono estremamente cordiali e, quando parlano un po’ di inglese, disponibilissimi al confronto. Questa breve esperienza in una casa malese ci ha permesso di scoprire molto sulle abitudini della popolazione dei Sabah, molto diversa da quella della penisola e più legata alla religione islamica. Fin dal primo momento – anche durante il giorno passato in homestay – la Kopel ci ha affidati a una guida che ci avrebbe accompagnato in ogni attività, a nostra disposizione ogni momento.
Nella giornata passata in famiglia abbiamo visitato delle grotte, più piccole rispetto alle famose Gomantong Caves, dove sono state rinvenute numerose bare in legno, risalenti a migliaia di anni fa; anche qui vi sono pipistrelli e nidi di rondine in abbondanza. Uno spettacolo organizzato dai dipendenti della Kopel ci ha permesso di conoscere alcuni balli tradizionali e un arte marziale di origine indonesiata praticata anche nel Sabah. All’interno del villaggio si trova anche la tree nursery. Il progetto Mescot promuove anche la riforestazione del Kinabatangan: nei decenni passati alcune parti della foresta – che qui è secondaria, più giovane rispetto a quella primaria alla quale si accede da Sepilok – sono state rase al suolo per far spazio alle palme da olio. La Kopel ogni giorno pianta centinaia e centinaia di alberelli di differenti specie che nel giro di venti o trenta anni diventeranno dei giganti. Contribuire alla riforestazione di questa zona, oltre a goderne semplicemente, ci ha reso senza dubbio felici.
Il trasferimento al Tungog Rainforest Eco Camp è avvenuto il giorno dopo. Volevamo il massimo contatto con la natura e lo abbiamo avuto: per i quattro giorni successivi la nostra sistemazione è stata a metà strada tra una tenda e un bungalow. Insomma, una tenda in legno, completamente traforata. A separarci dalla foresta solo una zanzariera. Come in tutti i campeggi i bagni sono in comune, ma le pochissime presenze umane li rendono gestibili. L’Eco Camp dista dieci minuti a piedi dal fiume e si affaccia su un magnifico lago popolato da coccodrilli, varani e uccelli acquatici di ogni colore e dimensione. Le tende-bungalow sono sette: anche nei giorni di massimo affollamento le persone non sono più di quindici. Il vantaggio di avere una guida a disposizione solo nostra a ogni ora del giorno è stato notevole: organizzavamo trekking nella foresta a nostro piacimento e in continuazione, senza contare che in tre si fa poco rumore. Le nostre passeggiate nella giungla, anche di notte e le nostre crociere sul fiume sono state numerose. Abbiamo visto a pochi metri da noi oranghi, nasiche, macachi, scimmie dalla cresta argentata. Tantissimi gli uccelli: martin pescatori e buceroditi (hornbill) di diversi tipi, stupendi; aironi a non finire, uccelli che i locali chiamano snake bird (oriental darter), aquile e altri ancora. Tra i rapaci notturni ci hanno fatto visita, durante la cena, un gufo reale e un gufo comune. Abbiamo incontrato un coccodrillo marino di almeno 3-4 metri – enorme per noi, ma piccolo per gli standard della nostra guida, un tarsio con un cucciolo, una volpe volante, scoiattoli giganti e minuscoli, un common palm civet e un leopard civet cat, lucertole e insetti di tutti i colori e le dimensioni, tra i quali ragni enormi, scorpioni e farfalle tanto belle quanto velenose. Grandi assenti sono stati gli elefanti, che abbiamo inseguito per un pomeriggio; la caccia alle impronte, però, è stata divertente e ci ha fatto ricordare che gli avvistamenti, quando si è in uno zoo, non possono sempre essere sicuri. Abbiamo pescato dal fiume e imparato tanto sul rapporto di simbiosi che vi era tra la popolazione e la foresta, un tempo, grazie alla guida che non perdeva occasione per illustrarci l’uso che veniva fatto di ogni pianta e animale. Un’esperienza unica.
Abbandoniamo l’Eco Camp senza sapere cosa avremmo fatto nei due giorni successivi. Con il pullman raggiungiamo Lahad Datu, ennesima triste cittadina del Borneo. Da qui si raggiunge la Tabin Reserve e il Danum Valley Field Center. Stremati dai giorni precedenti passiamo il giorno in coma cercando di recuperare le energie e facciamo la spola dall’hotel al più vicino fast food. La città, un tempo base dei pirati, ospita un mercatino pieno di bancarelle che vendono pesce di ogni tipo. Purtroppo, parlando con la gente i nostri sospetti vengono confermati: non c’è modo di andare nella Danum Valley o a Tabin contenendo le spese. Alla Danum Valley si può arrivare solo per mezzo di un bus che passa due volte alla settimana e si hanno solo due opzioni dove pernottare: il centro di ricerca, che offre camere spartani a prezzi non proprio bassi, ma irrisori rispetto a quelli del resort alternativo. Per l’altra riserva, zona di elefanti, nota per un vulcano di fango, bisogna rivolgersi alla Tabin Wildlife, agenzia che mette a disposizione un resort e gite giornaliere, tutti molto cari. Resto convinta del fatto che, con un’organizzazione più accurata, saremmo potuti entrare nella riserva di Tabin in autonomia.
Rinunciamo con un po’ di amaro in bocca alla Danum Valley e a Tabin e decidiamo di spostarci a Semporna fin dal giorno seguente. Altro viaggio in pullman, altro arrivo in una tipica città del Sabah. Giriamo qualche hotel e scegliamo l’ostello Scuba Junkie che offre ai sub o a chi prenoti con loro un pacchetto la possibilità di pernottare in una camera matrimoniale con bagno condiviso a 60RM (70RM per il bagno privato, ma erano al completo). Pulito e comodo ci ha soddisfatti pienamente. Ci rifocilliamo nel pub, anch’esso Scuba Junkie, che ha un menù occidentale a prezzi bassi, contenti di poter assaporare piatti diversi dopo gli ultimi giorni a base di cucina malese.
Nuova giornata e nuovo programma da definire: decidiamo troppo tardi di prendere parte a un’escursione su Sibuan con SJ. Chiacchierando troviamo un signore di Semporna disponibile a portarci con la sua barca sull’atollo decantato come il più bello tra quelli raggiungibili. La cifra che concordiamo è minore (180RM in due) rispetto a quella che avremmo pagato con SJ (110RM a testa), ma non prevede i pasti né la maschera e le pinne, che prendiamo per pochi euro al supermercato. Con la barca facciamo tappa a uno dei villaggi di palafitte costruiti interamente sul mare. Gli abitanti accumulano le conchiglie portate dal mare e le puliscono per poi rivenderle ai turisti. In trenta minuti raggiungiamo Sibuan, che non rispetta le nostre aspettative: lo snorkeling è buono, ma l’isola che viene dipinta come un angolo di paradiso è sporca e ospita una natura non tanto rigogliosa. I sea gipsy che vivono sull’isola, purtroppo, contribuiscono a inquinare la spiaggia, rovinandola. Se potete scegliere, preferite isole meno battute (Mataking o Mantabuan per esempio). Dopo pranzo il tempo si mette male, con la pioggia e il vento in aumento. La nostra imbarcazione non è certo tra le più sicure. Altro che montagne russe: un salto dopo l’altro, senza un attimo di pausa per via delle onde provenienti da tutte le direzioni. Il peggio è arrivato quando, girati a guardare il nostro “capitano” fermo per accendersi una sigaretta, abbiamo visto una tromba d’aria sul mare, a poca distanza. Pons – il navigatore – se la ride e ci dice che è molto pericolosa, meglio ripartire; arriviamo sani e salvi a Semporna. Sibuan non ci è piaciuta, ma ne è valsa la pena solo per l’avventura a lieto fine del ritorno.
La mattina si parte, questa volta per Mabul. Depositiamo i bagagli sull’isola e poi subito a fare snorkeling in tre punti. Scuba Junkie si rivela poco professionale: le due guide presenti sulla barca non si tuffano e neppure danno spiegazioni su quanto andremo a vedere. Il risultato è che al termine della prima uscita impieghiamo mezzora a ritrovare un ragazzo andato perso; non migliorano le due uscite successive: una giapponese che non sa nuotare è lasciata in acqua da sola, con la ciambella, con l’indicazione di non avvicinarsi troppo alla barriera perché in quel punto la corrente è forte e la potrebbe far sbattere contro i coralli. Il bilancio è stato fin troppo positivo considerando che nulla è stato detto dalle guide sui potenziali pericoli. Il giorno successivo, comunque, abbiamo fatto capire in modo sottile che non avevamo gradito il trattamento ricevuto, di serie B rispetto a quello riservato ai sub e, in effetti, non ci siamo più trovati in una situazione simile. Il Mabul Beach Resort è una struttura molto carina, curata e – soprattutto – è l’unica via di mezzo tra quelle ultra lusso e quelle che offrono solo camerate che dispone dei permessi per visitare Sipadan. Mabul è popolata da un etnia nomade che passa quasi tutta la sua vita in mare. Questi sono i veri Sea Gipsy: non scendono quasi mai dalle loro barchette, non hanno patria, non hanno documenti. Hanno costruito alcune piccole baracche sulla spiaggia e fanno i loro bisogni sulla sabbia, senza ricoprirli. Non c’è nulla di pittoresco, come alcuni vogliono far credere. Purtroppo questo gruppo non ha idea di cosa sia l’inquinamento; i rifiuti, comprese le buste di plastica, sono gettati in mare causando gravi danni all’ecosistema. Dietro alla fetta di spiaggia abitata dai Sea Gipsy si estende il resto del villaggio, dove vivono persone provenienti dal sud delle Filippine. Questa parte del paesino è più pulita e vi sono alcuni piccoli empori che vendono snack e sigarette di contrabbando (le Astro, 2-3RM). Anche loro contribuiscono a sporcare il mare e, quando riescono a sfuggire al controllo dei vicini resort, pescano con la dinamite o il cianuro.
L’isola, un po’ per colpa del villaggio, un po’ per colpa dei resort che sono troppo numerosi, non è affatto bella. La barriera che la circonda, però, è interessantissima. A Mabul e Kapalai abbiamo avvistato pesci tropicali di ogni tipo in grande quantità, anche uscendo da soli: serpenti a bande, pesci scorpione, leone e pietra enormi, arlecchino, balestra, titani e pappagalli, barracuda, tartarughe, pesci scatola, palla e via dicendo. Ce n’è per tutti i gusti; ancora di più per chi si immerge. Il terzo giorno lo dedichiamo a Sipadan. Ci aspettavamo tanto da questo posto magico: prenotato il permesso con mesi di anticipo – ogni giorno il Governo mette a disposizione 120 permessi – temevamo di restare delusi. andare a Sipadan costa un bel po’: il prezzo dei permessi è basso, ma il fatto che siano limitati mette i dive center in condizione di poterci speculare sopra. Noi abbiamo pagato 600RM a persona per visitarla. E’ magnifica. I militari sono pochi e non incutono certo timore, non si ha l’idea di trovarsi su un’isola militarizzata. Purtroppo non è possibile superare i limiti stabiliti dal Governo e visitare l’isola per intero, ma il meglio, in ogni caso, si trova in acqua. A pochi metri dalla spiaggia c’è il famoso dropp off: da un metro e mezzo di profondità si passa a seicento. Ci immergiamo nel South Point, negli Hanging Gardens e nel Barracuda Point due volte. La visibilità è buona e anche per noi che facciamo solo snorkeling è un’esperienza fantastica: squali grigi, pinna bianca e pinna nera ogni due minuti, banchi di jack fish e di barracuda, pesci napoleone, cernie e pesci pappagallo col corno davvero giganti. Anche i coralli sono incantevoli: rosa, rossi, blu, celesti, verdi e gialli sembrano disposti dalla mano di un artista. Tartarughe enormi a decine. Nei quattro giorni passati a Mabul ne abbiamo viste centinaia; non per modo di dire, letteralmente. Non abbiamo avvistato gli squali martello, che non sono apparsi neppure ai sub usciti insieme a noi. Sipadan è irrinunciabile per chi ama il mare – il mare, non la spiaggia.
Da Mabul andiamo direttamente all’aeroporto di Tawau (volo prenotato con due mesi di anticipo, Air Asia, 65 euro a persona) e arrivati a Kuala ci trasferiamo di nuovo al The Nest. Spendiamo l’ultima giornata nei Lake Gardens, la parte più bella della città a nostro avviso, farfalle e orchidee. Interessante il Central Market, dove ogni sera si esibiscono gratuitamente artisti che interpretano danze e arti marziali tradizionali.
Finisce così la nostra avventura malese. Tornati a Roma i ritmi del Borneo sono rimasti attaccati al nostro corpo per qualche giorno, mentre i ricordi, per fortuna, faticheranno di più ad allontanarsi. Un unico rimpianto: non aver visitato alcune parti del Sarawac, per mancanza di tempo e di denaro.