Libia, WAW AL NAMUS: un viaggio per noi due
La prima parte del viaggio sarà su strade asfaltate. I centri abitati gradatamente finiscono e anche il traffico si attenua. La piana si interrompe a ridosso di un gradone roccioso sul quale puntiamo decisamente, è il Jebel (1) Nafusah, secco e sassoso. Sul ciglione si affacciano rari villaggi con il loro vitale corredo di palme da dattero. Qua e la pini sparsi, bassi cespugli cerulei, e una peluria verde, effetto delle recenti piogge. Siamo vicini a Gharyan, zona di case troglodite e di ceramiche. Lungo la strada sfilano tantissime bancarelle di terraglie, non molto belle per la verità. A parte le poche oasi tutto è desertico, ma qui, come in altre parti del paese, grazie ai recenti acquedotti e a regolari annaffiature vengono realizzate numerose nuove piantagioni. In questa zona puntano sulle palme, in altre sui cereali. Siamo in terra di berberi e andiamo alla ricerca delle loro vecchie abitazioni. Per millenni e fino a pochi decenni fa qui si abitava in case scavate nella terra, troglodite appunto, per stare più freschi d’estate e per essere meno visibili ai predoni. Queste particolari case, consistenti in un grande buco, mt 10×10 profondo 7/8, con una serie di stanze e magazzini attorno e in mezzo il pozzo, non sono per niente facili da individuare, solo alcuni mucchi di terra, dovuti allo scavo, ne tradiscono la presenza, nessun parapetto delimita la fossa e la casa si vede solo quando si sta per precipitarvisi dentro.
Per accedervi si supera una porta e si percorre una galleria buia e pendente.
Queste abitazioni stanno inesorabilmente scomparendo, per abbandono, crolli, infiltrazioni d’acqua. Alcuni le usano come magazzini, altri, pochissimi, le hanno trasformate in “musei” dove sono raccolte grandi anfore, attrezzi di uso domestico e agricolo. Le stanze sono essenziali e con scarsi arredi. Anche qui c’è un mondo che sta scomparendo, senza grande interesse per il recupero e per la conservazione della memoria e della storia. Le case troglodite sono accerchiate e soffocate dalle nuove costruzioni, simili in tutta la Libya, anonime, spesso incompiute, circondate da rifiuti, ma più confortevoli.
Fa freddo, molti uomini, soprattutto quelli anziani si proteggono avvolgendosi nel jard, una larga striscia di stoffa, generalmente bianca, indossata come una tunica romana.
Uomini, uomini, solo uomini ma, e le donne? A parte Tripoli, dove la presenza femminile è abbastanza rilevante, all’interno quelle visibili sono rarissime se non al mattino, quando le studenti vanno a scuola, altrimenti il loro spazio era ed è la casa. Nonostante gli intenti ed i programmi di Gheddafi il sistema sociale mantiene inalterate le ferree abitudini tradizionali.
La prima notte sarà a Yafran. Il paese è sdoppiato. La parte antica, costruita in sasso, è completamente in sfacelo, le vecchie abitazioni, semicrollate, stanno lentamente tornando alla natura. La parte nuova, è composta da case ad un piano con il tetto a terrazza, ognuna con il serbatoio per l’acqua, intonacate con il colore della terra. Bianca invece, spicca la moschea, dall’esile minareto. Nella parte più periferica le case sono circondate da appezzamenti di terreno per l’orto, il recinto per gli animali, le palme, gli olivi circondati da una bassa arginatura per trattenere l’acqua.
Pernotteremo all’albergo Funduq as-Siyahe che per fortuna è stato recentemente restaurato. Dalla terrazza, protesa sul bordo della scarpata, si domina un panorama straordinario che pervade di forza e serenità. Il tramonto è d’oro rosso e l’alba rosa cipria. I colori inondano le pendici del jebel, la luce radente mette in evidenza le mille gobbe, rientranze, asperità, forre scavate dall’acqua, boschetti di palme, minuscoli villaggi, fino a perdersi in un vago indistinto piatto orizzonte. Nei dintorni di Yafran zigzaghiamo alla ricerca di monumenti poco conosciuti.
Sopra il villaggio, isolata in cima ad un colle c’è una piccola moschea di mattoni di fango calcinati. Nonostante le ridotte dimensioni c’è anche il locale, ormai cadente, dove in passato i pellegrini potevano alloggiare. Un po’ più fuori c’è Soffit, un monumento funebre romano del III o IV secolo d.C. Che condivide la cima di una collinetta con un acquedotto e una brutta casupola in mattoni. E giù, infondo alla valle, Ksar (2) Bin Niran, un immenso e solitario granaio a pianta ovale, isolato in mezzo ad una piana che non fa certo immaginare campi verdi e fertili raccolti. Celle ormai inutili, vuote e sventrate dal lungo abbandono.
Continuiamo verso Ksar Al Haji dove il granaio fortificato è ancora molto ben conservato essendo stato usato fino agli anni 1980. Il muro di cinta è alto e traforato da piccoli buchi per arieggiare l’interno. La porta è chiusa, bisogna aspettare il ritorno del custode, ma si mette in moto il tam-tam per la sua ricerca e in poco tempo siamo già dentro. In mezzo all’ampio cortile ci sono anfore e macine. Le celle accatastate su tre piani, sono addossate al muro di cinta. Le loro porte, con l’ingegnosa “chiave” a muro, sono basse e massicce, in legno di palma. Un sistema di carrucole per le merci, una ripida scala e un aereo passaggio immettevano ai piani superiori. Pur essendo deserto, il luogo non sembra abbandonato e da un momento all’altro ci si aspetta di veder entrare qualche asinello carico di cereali. Ma infilando la testa nelle celle, ormai in buona parte senza porta, l’illusione svanisce subito di fronte alle ragnatele e allo strato di polvere che ricopre gli oggetti abbandonati: vasi, attrezzi, cordame, qualche anfora. Da alcune delle celle più alte invece pende ancora qualche corda e il logoro cesto con cui venivano issate le merci.
Lasciamo questo luogo pieno di storia e di fatiche, abitato ormai solo dai piccioni e dai turisti per andare a Tarmeiza, un piccolo villaggio sul ciglio del Jebel che si protende nel vuoto come la prua di una nave. Su tre lati precipizi vertiginosi e vento. L’unico vicolo è stretto tra le mura delle case.
Affacciandosi sul burrone si viene colti da sferzate d’aria e da un senso di vertigine nel vedere gli enormi macigni sul fondo della scarpata e anche pezzi di muro crollato per effetto delle frane. Anche la sterminata pianura non è molto rassicurante coperta com’è del reticolo tentacolare creato dall’acqua nel suo scorrere irruento, anche se raro.
E’ da più di un giorno che giriamo ma non abbiamo visto molta gente in giro – sarebbe più giusto dire uomini visto che le donne escono rarissimamente da casa – come mai? Mi risponde Hafid, il nostro gentile, impeccabile organizzatore-guida-amico libico: … “E’ inverno, fa freddo, gli uomini restano in casa. D’estate si sta fuori, si beve the, si gioca a ramino, si chiacchiera fino a tardi, anche fino al mattino. Fa molto caldo e la notte porta un po’ di refrigerio. Escono anche famiglie intere, si va nei posti più freschi appena fuori dal paese”…
Nalut. Per arrivarci facciamo un lungo giro, c’è un wadi (3) che blocca l’accesso diretto. Vegetazione scarsa e bassa, si preannuncia già l’hamada (4).
La cittadina nuova è abbastanza grande, ma anche qui quello che ci interessa è nella parte vecchia, lo straordinario ksar. Completamente diverso dai precedenti. Non c’è la corte perché tutto lo spazio disponibile è pieno di celle sovrapposte, accatastate, affiancate le une alle altre, più simile ad un alveare che a un’opera umana. Dalle pareti sporgono pali contorti, gradini e “poggioli” per funamboli. Tutto ormai inutilizzato. Anche all’esterno, attorno al granaio, il vecchio villaggio è abbandonato e cadente: le case, il suq, il frantoio. La piccola vecchia moschea invece è bella solida, le sue forme sono semplici ed arcaiche e la luce rimbalza, azzurrognola, tra le basse “navate” e le tozze arcate.
Alle 17 partiamo per Ghadames. C’è un bel po’ di strada, arriveremo tardi.
La già stentata vegetazione finisce completamente. Per alcune ore corriamo nell’hammada, dove il vento scorazza senza trovare ostacoli. Unico elemento verticale, la linea elettrica, che si perde in un orizzonte infinito. Per un po’ costeggiamo il nuovo gasdotto che va in Italia. Ed eccoci arrivati alla bella Ghadames. Una breve passeggiata fino alla moschea, un’occhiata ai negozietti, sempre aperti. Ma di notte la visita finisce presto. Per prolungare la serata non resta che un internet point o la tv in albergo. Niente discoteche, cinema, teatro, zero traffico, nulla che si possa fare se non immergersi nel ritmo e nei silenzi del deserto e delle abitudini locali fatte di chiacchiere seduti su un muretto o di una bibita al bar. Di giorno invece la visita alla città può durare molte ore: la parte vecchia riserva continue suggestioni e scoperte. Se si è accompagnati da una guida si può salire sui tetti, l’altro volto della città. Sotto, la città chiusa, buia e fresca era per gli uomini, sopra, aperta e luminosa era il regno delle donne, visto che non potevano scendere in strada si aggiravano a un passo dal cielo. Gli orti non sono curati come un tempo e molte palme sono moribonde. Incredibile questo degrado, eppure queste piante erano considerate “la seconda madre” visto che della palma non si butta via niente: datteri (con 7-10 datteri al giorno, nei periodi più difficili riuscivano a sopravvivere), legno per travi e porte, foglie per corde e cesti.
Pranziamo in una casa tradizionale strutturata in tre piani: a terra il magazzino, al 1° piano il soggiorno, con molte decorazioni e addobbi alle pareti e camere, all’ultimo cucina e terrazza. I materiali per edificare venivano scelti accuratamente: per le fondamenta e per i muri fino a mt 1,5 pietra dura e impermeabile, il restante muro con pietra meno pregiata, per archi e cupole nidi fossili di termiti (somigliano al tufo). I tronchi di palma per le travature venivano stagionati sottoterra per 1 anno, poi cosparsi di pasta di dattero e successivamente con una lozione piccante per disinfettarli, con questo trattamento e per la mancanza di umidità questo legno durava anche 5 secoli.
Poco lontano dalla città, verso est, c’è una vasta piana incrostata di sale con in mezzo una sorgente che per effetto dei depositi ha formato un laghetto pensile circondato da una corona di alberi. In zona visitiamo anche i ruderi di un vecchio forte turco usato anche dagli italiani durante la colonizzazione. A ovest invece c’è un basso rilievo, Ras Al Ghoul (Montagna dei fantasmi) intrisa di storia e leggende. Battaglie, assedi, cunicoli sotterranei. Sulla cima ci sono delle rovine, pare addirittura romane. Il posto è isolato e molto suggestivo, ventato e panoramico. Dalla sommità si vede il confine con l’Algeria e le dune in lontananza preannunciano il deserto sabbioso.
Ghadames, ore otto, pieno centro, finalmente vedo un po’ di donne, sono perlopiù studenti che vanno a scuola. Noi invece partiamo per Sebha. Il paesaggio è assolutamente desertico. Traffico pochissimo. Vari posti di controllo, generalmente agli incroci. Ci fermiamo, ogni volta dobbiamo consegnare la fotocopia del nostro permesso, per tutto il giro ne serviranno una quarantina. Ci sono sempre vari poliziotti, a volte è difficile decifrare il loro ruolo, nell’attesa fanno fuoco, bevono the, giocano a ramino.
Per un paio di giorni restiamo nell’Uadi Al-Hayah la valle centrale del Fezzan. Siamo in “esplorazione”, vogliamo vedere alcuni posti fuori rotta, ma le nostre informazioni sono imprecise e non è facile trovare quello che cerchiamo. Alcune volte vaghiamo senza scoprire nulla, altre volte invece unendo le nostre informazioni con quelle che troviamo in zona ecco che impariamo a decifrare alcuni segni. Riconosciamo, in quegli strani mucchietti di pietre ammonticchiate, le tombe dei Garamanti. Ce ne sono 60.000 lungo tutta la vallata. Poi ZENCHECRA, che è certamente la “scoperta” più interessante. Si tratta del luogo dove sorgeva la prima capitale dei Garamanti, l’etnia sgominata dall’arrivo dei romani. Un piedistallo, l’alto e appuntito sperone roccioso la poneva in posizione dominante e facilmente difendibile. Rimangono solo alcuni basamenti di edifici, una serie di coppelle di varie misure, il grosso muro difensivo e alcune incisioni rupestri. Partiamo per Murzuq. Passiamo per Macnusa dove c’è un importante Progetto Agricolo composto da 90 campi a cerchio. Per ogni campo un pozzo ed un impianto di irrigazione – come quelli che si vedono in Polesine – e in pieno deserto crescono rigogliosi cereali e foraggio. Gli uccelli si levano a frotte inebriati da tanta acqua e da tanto verde. Anche stasera manca il tramonto, non ci sono le stelle e piove, ma che deserto è? Eppure andiamo sempre più a sud e ci stiamo inoltrando sempre più nel deserto ma il tempo non tende a migliorare, finora cielo coperto e temperatura bassa. Dopo chilometri di niente arriva Murzuq. Capita sempre così, si corre per ore e ore e poi improvvisamente appare un villaggio o un’oasi o una città. Murzuq non è un posto qualsiasi, è stata città importante, alla pari di Ghadames e Timbuktu, ma oggi la sua storia è compiuta, tagliata fuori com’è dalle rotte commerciali. Come testimoni rimangono la desolata cittadella murata, con all’interno, sopra un rialzo, il cadente forte turco, a fronteggiarlo nel bel mezzo del cortile l’antica moschea con il più particolare minareto della Libya. Oramai la vita è fuori da questi luoghi, molto più vivace il mercato, ed essendo l’ultimo centro prima del deserto ci fermiamo per fare scorte prima di partire per la lunga traversata verso il Waw al Namus. Gironzoliamo con piacere tra i banchetti, le mercanzie disposte a terra e le venditrici dai bei vestiti colorati ma per niente disposte a farsi fotografare. Dopo 140 km, Zwila, altro pezzo di storia che si riduce a 7 tombe monumentali dei sultani Beni Khattab che per 2 secoli ne fecero un importante e ricco punto di passaggio per i commerci sahariani. L’asfalto finisce a Tmisaaah. Qui ho il piacere di essere invitata (io soltanto, ai maschi è assolutamente vietato di incontrare le donne) a casa di Zidan, il nostro autista. Sua madre, incuriosita dalla mia presenza, chiede di incontrarmi. Ben volentieri vado a farle visita, entro in casa, in una stanza poco illuminata, la donna, piccola e velata, è seduta su un tappeto con a fianco una piccola stufetta elettrica per scaldarsi. La visita dura poco. Le nostre condizioni sono estremamente diverse e molto vorremmo chiederci reciprocamente, purtroppo non ci capiamo e dopo una serie di sorrisi mi commiato da lei. Il vento non cessa e questa dovrebbe essere la prima notte in tenda, però si presenta un’alternativa, troviamo alloggio in una fattoria. Una sistemazione molto spartana, ma meglio della sabbia tra i denti e lo sbattere del telo.
Questo viaggio si sta rilevando molto interessante, da assaporare con attenzione, lasciato un po’ al caso, ricco di situazioni nuove e imprevedibili, tagliato apposta per noi due. Non la Libya più famosa e conosciuta, ma una Libya “minore”, per soddisfare le nostre curiosità e la nostra voglia di esplorare. Ma, muoviamoci, il vulcano ci aspetta. Stiamo finalmente partendo per il remoto vulcano Waw al Namus. Pur essendo il luogo che in questo viaggio più desideravamo vedere, fino all’ultimo la possibilità di raggiungere la meta andava e veniva come un miraggio. Perplessità prima (eravamo una sola macchina) e difficoltà dopo (non è facile trovare un autista che conosca bene la zona) ce l’hanno fatta desiderare un bel po’. Appena fuori Tmisaaah troviamo una fascia di sabbia morbida, poi terreno più solido. Riferimenti pochissimi, eppure Zidan fila veloce e senza esitazioni. Ci spostiamo dalla pista per cercare un po’ di legna. Il carico è misero ma ci basterà, del resto la legna ormai sta diventando sempre più rara e presto arriverà il momento di dover rinunciare al fuoco del campo. Puntiamo a sud-est. La distesa grigia e piatta è coperta di piccoli sassi, saltuariamente compaiono macchie più rosse o rocce scagliose. In lontananza si percepiscono dei rilievi. Vento freddo e cielo nuvoloso. Per la sosta Hafid cerca riparo in un leggero avvallamento, ottima scelta, non c’è un granello di sabbia nel cibo.
Verso le 15 arriviamo ad un posto di polizia. Dall’unico, misero edificio, una vera catapecchia, tanto è raffazzonato e sgangherato, escono 3 poliziotti. Due chiacchiere, una sigaretta, una stretta di mano. Lasciamo la fotocopia del permesso e si riparte. Il posto, nonostante l’immenso spazio, sembra una prigione e in effetti qui vengono mandati i soldati indisciplinati. Dopo circa un’ora arriviamo a Waw al-Kabir. Quella che era una caserma ora è una specie di ostello gestito dai militari. Un posto squallido e sporco. Unico vantaggio, la doccia. Il giorno dopo, in tarda mattinata, quando il Namus sembrava a portata di mano, ancora una sorpresa, la macchina si rompe in modo veramente serio e quello che temevamo si è avverato, restare in panne in pieno deserto. Il nostro azzardo e la nostra sicurezza però venivano dal possedere un telefono satellitare. Una serie di telefonate per trovare un pezzo di ricambio e trovare chi lo potesse portare. E poi l’attesa. Ore e ore ad aspettare. Gironzoliamo un po’, ma fa troppo caldo e non ci resta che ripararci all’ombra dell’auto. Ognuno con la propria ansia e i propri timori. Microscopici puntini in mezzo al deserto per un tempo interminabile aspettiamo un rumore che annunci l’arrivo dei soccorsi. Dopo otto ore, è ormai buio, arriva finalmente il pezzo, altre due ore per la riparazione e tutto è di nuovo apposto. L’efficienza, la solerzia e la bravura di questa gente è strabiliante. La mattina dopo il Namus non ci sfuggirà.
Lo spettacolo è grandioso e veramente speciale.
Il vulcano si preannuncia con molto anticipo. Ad una grandinata di grossi sassi neri deve essere seguita una esplosione di cenere altrettanto nera che in alcuni tratti si contrappone alla sabbia chiara con formidabili effetti cromatici. Alla desolazione della nera pietraia si contrappone l’ambiente dell’enorme cratere, che racchiude una serie di laghetti dalle acque talora turchine e altre volte rosse, circondati da una bordura di canneto e intervallati da qualche palma. Tracce di sciacallo. In mezzo, un altro cratere, più piccolo ma più alto, sul quale saliamo per ammirare tutta questa stranezza e l’immenso vuoto dove ci siamo cacciati. La visita è durata un lampo purtroppo, in tre ore tutto si è compiuto. In questa zona non si possono fare campi e il rientro incombe, molte ore ci separano da Waw al-Kabir. Un’altra notte e un’altra cena in quel posto non ci esaltano, avremmo mille volte preferito un bel campo in mezzo al deserto, ma questa zona non è molto sicura, è meglio non correre ulteriori rischi.
Ripassiamo per Tmisaaah, questa volta veniamo invitati a pranzo a casa di Zidan. Ne siamo felici. Veniamo ospitati in una stanza luminosa con cuscini-divano lungo le pareti. Un enorme tappeto copre il pavimento, c’è una libreria e la tv. Veniamo a conoscenza dei fatti di Bendasi. 15 morti e moltissimi feriti. Siamo increduli e imbarazzati, non possiamo che scusarci e scostarci dalle affermazioni che hanno dato l’avvio agli scontri. I fratelli, i cugini e le donne giovani della famiglia vengono a salutarci e più tardi mangeranno con noi. Della madre di Zidan e della sorella, neppure l’ombra, anche il pranzo ci viene servito dai maschi. All’inizio e alla fine del pasto vengono portati acqua e sapone per lavarsi le mani. Prima di partire vado a salutare le donne che se ne stanno nei loro spazi, ben protette da sguardi indiscreti.
Per tornare a Sebbha, invece della lunga strada asfaltata, prendiamo una pista veloce che punta a nord, una sosta nell’appartamento del fratello di Zidan. Da fuori il quartiere impressiona, è sporco e decrepito. I condomini sono cadenti, con inferriate alle finestre. Dentro invece è tutta un’altra cosa, pulizia, luce, fresco. Ci offrono squisiti dolcetti e the alla menta. Ancora immagini degli scontri di Bengasi. Ne parliamo, sono profondamente offesi dal gesto di Calderoli e ci dicono che anche il console italiano a Bengasi ha detto cose sconvenienti.
Dovremmo preoccuparci? Non avvertiamo ostilità nei nostri riguardi anzi le persone con cui veniamo in contatto ci trattano bene e addirittura si scusano per quello che sta succedendo. Sia a Sebbha che a Tripoli tutto è assolutamente normale e non c’è nessuna tensione, però quando tentiamo di andare in Cirenaica con un volo da Tripoli, ci viene gentilmente negata la possibilità di partire. Un gruppo di italiani partiti la sera prima era stato precauzionalmente tenuto bloccato all’interno dell’aeroporto.
Abbandoniamo la possibilità di visitare la Cirenaica, anticipiamo la visita a Sabratha, bella e suggestiva. Porto fenicio, data di fondazione incerta, tra il V e IV sec. A.C. La giornata è splendida e tutto scintilla, le onde e i marmi candidi. Il sole accentua anche i verdi serpentini, i rossi egiziani e le terragne arenarie morsicate dal tempo. Stupendi i mosaici. Spettacolare il teatro, anche se forse un po’ troppo restaurato. Le sculture. Il museo. Tutto da ammirare, bellissimo e pieno di fascino, soprattutto se ci si trattiene fino ad aspettare la magia del tramonto. I pochi giorni che ci rimangono li dedichiamo alla ricerca di “aghi nel deserto” e della “città pietrificata”, a sud est di Tripoli. Cominciamo passando per Zliten, città santa dove visitiamo l’imponente moschea decorata sontuosamente con ceramiche e stucchi e coronata da molti minareti. Attigua c’è l’animata università coranica. Proseguiamo per Misurata, famosa per le oreficerie, tante e traboccanti di gioielli. Mastodontiche parure per ogni gusto e per ogni tasca riempiono le vetrine. Lasciamo la costa per addentrarci nella desertica pianura a sud di Misurata. Incrociamo alcuni greggi di dromedari con i piccoli nati da un giorno o due, con il pelo morbido e ondulato, teneri e traballanti.
E’ in questa pianura che cominciamo a cercare i msallatim cioè “aghi” che, ne più ne meno dei più familiari aghi nei pagliai, stentiamo a trovare. Non è stato facile, ma alla fine li troviamo. Si tratta di alti e slanciati monumenti funebri romani (II, III sec. D. C.). Dovevano essere 18, ma ne rimangono solo 5 sparpagliati in questa parte della Lybia. Siamo soddisfatti ma la ricerca non è finita ci manca Qirzah o Ghirza, “la città pietrificata”, remota e solitaria. Anche in questo caso, per arrivare è indispensabile la guida. Il percorso si snoda tra tratti asfaltati o indefinite piste serpentiformi che seguono wadi, intersecano altre piste, vagano verso un orizzonte senza apparenti riferimenti. Ogni tanto lasciamo la traccia evidente per infilarci in mezzo a boschetti di rade acacie polverose. Come riferimento un paio di pietre o vecchi copertoni. Per un po’ costeggiamo il “Grande Fiume”, infine, dopo aver incrociato una tanica di benzina con una sbiadita scritta in arabo, svoltiamo ancora una volta. Dopo varie ore e alcune centinaia di chilometri di questo labirintico percorso ecco, dopo ripetute disillusioni, in lontananza, questa volta qualcosa si delinea veramente.
Le prime cose che vediamo sono i muri sbrecciati di alcune case, tracce di una diga, una macina. Si tratta di quello che resta di Qirzah un importante villaggio romano-libico (III-IV sec. D.C.), un avamposto a ridosso del deserto. Vi si coltivavano cereali e fichi, uva e datteri. Complessivamente rimangono tracce di una quarantina di edifici, alcuni fortificati. Un po’ a sud, rialzata sulla collina e quasi sul bordo di un profondo wadi, sorge una delle necropoli trovate in zona. Molti reperti giacciono sul terreno, e soltanto 3 dei 7 tempietti si ergono in buone condizioni, testimoni di quella comunità che seppe presidiare un territorio ostico e innalzare queste belle ed eleganti opere. Sugli architravi i bassorilievi raccontano la vita del defunto ma raffigurano anche le vicende quotidiane: il transito delle carovane, scene di caccia, immagini di animali e vegetali. E con questo ultimo tassello completiamo il puzzle di questo nostro secondo viaggio fuori rotta in Lybia, che ci ha portato dalla costa al remoto Waw al Namus nel Febbraio del 2006. Durata complessiva del viaggio 14 gg.
Ma rimane ancora una cosa da fare. A Tripoli, la sera prima di rientrare, siamo invitati ad una ricca e saporita cena di pesce, con due particolarità. La prima, il pesce si sceglie all’esterno del ristorante nelle bancarelle dei pescatori. I pesci hanno colori iridacei e l’occhio vivo. Ci aggiriamo tra i banchetti nell’imbarazzo della scelta e incuriositi dalla vivacità del posto. Hafid finirà per scegliere anche per noi, poi con il nostro sacchetto entriamo nel ristorante per far cuocere i pesci. La seconda è che con il pesce viene servita spremuta d’arancia, e dopo il primo sconcerto l’abbinamento ci è sembrato veramente gradevole Per vedere alcune foto www.Arcam-mirano.It rubrica “viaggi popoli culture” Per ulteriori informazioni e/o contatti Maria Grazia Brusegan mariagrazia@arcam-mirano.It