Loro sanno
[ Pierre Loti, romanziere versato sui temi dell’esotismo naturalistico ] Dopo averlo lambito sull’orlo in Marocco e in Egitto, quest’anno entro nel Sahara dalla porta principale: la Libia. Essendo l’unico paese nordafricano che non presenta barriere naturali invalicabili tra la costa e il deserto, rende l’esperienza sahariana (oggi in fuoristrada, ieri nelle carovane di cammelli) più praticabile. Ciò non toglie che la regione che ci apprestiamo a conoscere da vicino, il Fezzan – come fu rinominata dagli italiani conquistatori – situata nel sud-ovest, sia rimasta a lungo una delle zone meno conosciute della Terra, visto che le prime esplorazioni risalgono alla fine dell”800.
Come scrive Stefano Malatesta, il deserto oggi non è più quello che era un tempo; i sentimenti predominanti nell’affrontarlo non sono più l’orrore e il terrore. Oggi procediamo sicuri nelle Toyota condotte con abilità e maestria dalle braccia muscolose dei misteriosi autisti locali (dico io). Insomma, eliminati la paura, i rischi e il pericolo dell’impresa, ci resta tutto il tempo per goderci il paesaggio. Per considerarlo bellissimo, emozionante, affascinante, magico, suggestivo, una cartolina. E per descriverlo con una serie di luoghi comuni da far venire il voltastomaco, da cui io stessa non posso del tutto esimermi.
La Libia da poco si è aperta al turismo, in seguito alla normalizzazione dei rapporti con la comunità internazionale che ha recentemente posto termine ad un lungo isolamento. Man mano si stanno risolvendo gli ostacoli burocratici che rendevano ai visitatori l’accesso più arduo fino a pochissimi anni fa. Certo, è ancora necessario visitare il Paese con l’appoggio di un operatore turistico locale, ma è tutto più facile perché oggi si può ottenere il visto all’ingresso.
Già all’aeroporto ci accoglie imponente e protettivo l’onnipresente Colonnello, finemente drappeggiato e con i famosi occhiali a goccia, ritratto in ogni angolo del Paese su tele gigantesche, poster, dipinti ad olio, murales realizzati con tutte le sfumature del verde, colore dell’Islam e della Rivoluzione.
Sbrigate le procedure in entrata, sugli italiani in Libia si abbatte la cattiva notizia: il volo interno per Sebha è saltato e ci toccano 12 ore di autobus nel piattume sconfinato che separa la costa dal Fezzan. Regola numero 1: fare finta di nulla, non innescare polemiche sterili che si ribaltano notoriamente con effetto domino sugli altri partecipanti inizialmente non schierati. Dormirci su. Una parola: durante il tragitto nel cuore della notte un corpo contundente non identificato riduce in mille pezzi uno dei doppi vetri di una finestra del bus, evocando una scena del film Babel, ambientato in Marocco – per fortuna senza gli esiti tragici che esso ha nella pellicola del regista messicano. Film che, tra parentesi, viene proiettato al ritorno sui due schermi del bus in un dvd piratato in lingua originale sottotitolato in arabo: la coincidenza avrebbe inquietato anime meno avvezze della mia.
Facciamo sosta per la cena in un ristorante coloratissimo in mezzo al nulla, circondato da negozietti di alimentari e cd e fornito di sala preghiera all’aperto, relative vasche per le abluzioni e palme finte composte di mille lucine come le luminarie delle feste di paese. E io mi sento un po’ a casa mia e quasi mi commuovono le trasmissioni televisive, le luci intense, la parlata, gli sguardi, i gestori delle drogherie.
Giungiamo all’alba all’ostello di Feji dove dormiamo tre ore in corridoio. Dopo colazione arrivano i fuoristrada e con essi i meravigliosi autisti, la vera sorpresa del viaggio, con i quali si creerà un rapporto di grande affetto, condivisione e confronto. Secondo le leggi libiche è obbligatorio che ad essi si aggiunga il poliziotto turistico, lo stupendo e servizievole Kalid.
Per raggiungere Ghat, che dista 1300 km da Tripoli ed è l’avamposto da cui inoltrarci nel deserto dell’Acacus, dobbiamo percorrere ancora svariati chilometri, con una sosta per provvigioni e adempienze burocratiche in quel di Ubari. Per la notte ci accoglie un grazioso camping costituito da caratteristiche capanne di foglie di palma chiamate zeribe, nelle quali è necessario dormire in sacco a pelo invernale perché le temperature notturne sono proibitive. Solitamente si sceglie Ghat per pernottare perché si trova vicina al passo di Takharkori e alla cosiddetta “duna del non ritorno” che conduce all’ingresso del parco dell’Acacus da sud. Giunti a Ghat apprendiamo però che la suddetta strada è chiusa da circa un anno a causa delle tensioni con l’Algeria, il cui confine costeggia la strada. Solo degli sprovveduti, ignoranti della politica internazionale e tenuti all’oscuro di tutto dal laido corrispondente locale, al giorno d’oggi trovano sensato passare la notte a Ghat. Con la presenza dei turisti ridotta al lumicino la cittadina è allo stremo: il venditore di souvenir tuareg sta svendendo tutto, il camping rischia di chiudere, per servirci la cena i gestori devono andare in paese a fare la spesa. La serata è ravvivata dalle chiacchiere con Dominique, insegnante madrelingua britannico di stanza a Sebha, sede di un’università, giunto a Ghat per assistere alll’imperdibile Festival tuareg, che attrae turisti da tutto il paese.
Il giorno dopo dobbiamo tornare da dove siamo venuti ed entrare nell’Acacus dall’ingresso settentrionale: poco male, abbiamo la possibilità di attraversare una parte che altrimenti sarebbe rimasta fuori dal percorso. Prima però bisogna andare al mercato di Ghat a contrattare sul prezzo degli agrumi, dei pomodori e di altri cibi per completare le scorte alimentari. A giudicare dal colore scuro della pelle i cittadini non sono propriamente arabi e d’estate deve fare piuttosto caldo. Rispetto ad altri Paesi nordafricani, la gente non sembra importuna: non ti propongono tour guidati, non insistono per raccontarti la storia dei loro familiari, inoltre non vediamo molti bambini in giro e quei pochi non chiedono soldi o bon-bon. Il sistema scolastico è gratuito e obbligatorio, poiché l’importanza dell’istruzione rappresenta uno dei punti chiave del Libro verde di Gheddafi e infatti la Libia ha dei livelli relativamente bassi di analfabetismo. In definitiva, pur non avendo avuto modo di frequentare tantissimi posti affollati, l’impressione ricevuta dal popolo libico è di profonda gentilezza e discrezione: cordiali e pronti al saluto ma senza invadenza. Sicuramente i tanti anni di isolamento non li hanno abituati alla presenza di turisti e alla comunicazione con persone che, al contrario di loro, hanno viaggiato.
Visitiamo la medina, quasi completamente disabitata e in rovina, sormontata da un forte turco poi utilizzato dai nostri connazionali come alloggio militare. Il colore bianco abbagliante delle case dipende dall’impasto di polvere di calcare e acqua con cui venivano intonacate; vi sono inoltre il palazzo del sultano, quattro moschee e un tuareg shop da cui scappiamo inorriditi perché ha i prezzi di Tiffany.
Nel pomeriggio entriamo nel parco nazionale dell’Acacus, un altipiano trasformato in opera d’arte dalla natura e per questo dichiarato Patrimonio dell’umanità dall’Unesco dal 1985. Ci accolgono formazioni rocciose a forma di vecchine, funghi, tartarughe, uomini col cappello, fidanzatini che si baciano, pile di frittelle, pupazzi di neve, santi, conchiglie. Torri, monoliti, pinnacoli, grotte, archi, ossidati e scolpiti dal tempo, sembrano resti di statue greche senza braccia, piramidi precolombiane corrose, templi indiani coi bassorilievi sciupati, sfingi egizie levigate dalla sabbia, misteriosi obelischi con le iscrizioni ormai illeggibili.
È qui, in questo territorio lunare e misterioso, dai cui spiragli di rado si intravedono delle enormi dune rosa pesca, che scorrazzeremo per due giorni. Il primo campo lo montiamo nella zona dello uadi Auis. È la prova del nove: ognuno deve verificare se la propria attrezzatura è adatta, se il cognato per errore gli ha prestato i picchetti da terra e non da sabbia, se i sacchi a pelo sono abbastanza caldi, i pigiami sufficientemente termici, i teli di plastica del numero adatto per non intridere i bagagli di sabbia e benzina, le stoviglie della tipologia utile a consumare risotti Knorr, tortellini, tè e caffè bollenti, cous cous e spaghetti al tonno, i materassini comodi e isolanti e così via. Grazie alla preziosa collaborazione tra i compagni di viaggio i risultati sono pienamente accettabili.
Uno dei motivi per visitare il Tadrart Acacus, oltre agli incredibili scenari naturali, è la presenza di una quantità enorme di testimonianze artistiche rupestri, ossia graffiti e pitture risalenti al periodo in cui il Sahara era un’immensa savana, percorsa da enormi fiumi e popolata da giraffe, rinoceronti, elefanti, gazzelle. Attualmente gli studiosi stanno valutando l’ipotesi che la civiltà che abitava questi territori abbia addirittura influenzato culturalmente la grande civiltà egizia. È solo da pochi anni che gli storici hanno iniziato ad approfondire le conoscenze relative a quel perodo preistorico: basti pensare che la prima spedizione nell’Acacus fu compiuta solo negli anni ’50 dall’italiano Fabrizio Mori, che scoprì i tesori delle pitture rupestri e dei graffiti nascosti negli uadi dell’Acacus, i letti dei fiumi risalenti alla preistoria che hanno scavato giganteschi canyon e scolpito le rocce di arenaria. Lì, negli anfratti ricavati sotto le pareti, trovavano rifugio i nostri antenati che forse più di 10mila anni fa cominciarono a incidere o dipingere immagini a loro familiari come scene di caccia, animali selvaggi e domestici, figure umane impegnate in gesti quotidiani, ruote ed altri utensili.
Durante la prima mattinata percorriamo lo uadi Auis, dove osserviamo incisioni che rappresentano una grande lucertola, varie figure bovine, struzzi, elefanti, giraffe, e pitture rosso scuro in cui riconosci carri con le ruote, buoi, uomini a caccia che impugnano lance, archi e frecce. All’ora di pranzo – denominato dagli autisti, come tutti i pasti, mangiaria – non ce l’aspettavamo che i suddetti dovessero accendere il fuoco e cucinarsi i macaroni. Noi invece, dopo aver prodotto un grosso cumulo di spazzatura non riciclabile a base di scatolette, abbiamo vagato occhi al terreno per raccattare delle pietre a forma di portapenne, palle, dolcini alla frutta secca ricoperti di cioccolato, rospi, ampolle, birilli, palle da cannone, mani, ossa, piattini. Come le più maestose formazioni rocciose anche queste piccole pietre sono nere all’esterno e chiare all’interno. Nel pomeriggio sostiamo nei pressi di uno straordinario arco in pietra naturale, che spicca in uno spazioso uadi. Ci troviamo in una zona sabbiosa e oggi è il caso di divertirsi un po’ a prendere la rincorsa, arrivare in cima alle dune e poi delicatamente scendere, con tanto di gridolini nostri e sonore risate dei drivers.
Nel nuovo campo appena montato un grandioso tramonto giallo rosa e viola ci avverte che sta per finire la giornata. È la seconda notte nell’Acacus, accolti dalla sabbia chiara che come una colata di oro liquido glassa il terreno lasciando spuntare qua e là cioccolateschi strati basaltici. Per cena i nostri portentosi guidatori si cucinano succulente bistecchine di agnello, che per due giorni venivano stese al sole sul cofano ad ogni sosta. Il mistero prima o poi viene svelato: quest’anno la festa dell’Eid’ Al-Adha, la più importante festa islamica, capita oggi 30 dicembre. Per tradizione in questa occasione i musulmani mangiano carne di agnello e sarà un caso ma è la terza volta che mi trovo in un paese musulmano in occasione della festa: nel febbraio 2003 in Marocco, nel gennaio 2006 nello Yemen e adesso in Libia.
Oggi bazzichiamo gli uadi Tanshalt e Anshal. Ci aspettano, tra le altre, pitture di figure umane dalle forme arrotondate e le mani grandi con le dita visibili, cavalli e cammelli dipinti con tinte rosse e bianche, e queste bestie rendono le pitture facilmente databili poiché questi animali giunsero qui dall’Asia minore non prima del XVII secolo a.C. Inoltre possiamo ammirare gli esempi più straordinari di quello che la natura ha potuto creare nell’Acacus con la roccia: un arco largo e basso che scaliamo per fare una foto di gruppo, poi il trionfale arco naturale di Fozzigiaren, più massiccio e imponente, e infine lo snello colonnato di Tin Ghalega, costituito di arenaria, che sembra quasi un tempio incurvato e deformato dal tempo. Qui sostiamo per il pranzo, in un ampio slargo del uadi Teshuinat spazzato dal vento: stese le stuoie e tirati fuori i viveri, scopriamo cosa voglia dire mangiare pane, formaggio e sabbia.
Dopo pranzo raggiungiamo alcuni siti ricchissimi di pitture rupestri nello uadi Teshuinat, dove osserviamo soprattutto animali della savana e scene di caccia di colore rosso bianco e giallo. Infine raggiungiamo due siti che sono stati transennati da poco, novità che stupisce anche gli autisti. D’altra parte mi chiedevo come fosse possibile che praticamente tutte le pitture dell’Acacus siano prive di protezione, chiunque potrebbe rovinarle. Il primo sito è Uan Amil, dove si trovano i dipinti più interessanti che raffigurano scene di vita quotidiana, di battaglia e di caccia e che, essendo in sequenza tra loro, dimostrano per la prima volta la precisa intenzione da parte dei nostri antenati di testimoniare qualcosa per i posteri. Il secondo è Wan Amalun, famoso perché il prof. Mori qui ha ritrovato una mummia infantile.
La notte di capodanno troviamo riparo tra le soffici e budinose dune di Wan Kasa, il deserto sabbioso che separa l’Acacus dal Messak Settafet. È affascinante osservare le forme delle dune che impercettibilmente si modificano grazie al vento che soffia, cancella i passi umani e i segni dei pneumatici, affila gli spigoli. Il campo è stato costruito piuttosto tardi perché non trovavamo nulla di davvero adatto e non ci soddisfacevano i luoghi scelti dal capo autista Massud. Inoltre sul più bello (scenari mozzafiato di dune color oro al tramonto) uno dei fuoristrada è rimasto senza benzina e dunque sono state necessarie un po’ di acrobazie per riuscire a trasferire il carburante dalla tanica di un’altra Toyota nel serbatoio di quella a secco. Dopo una cena a base di cous-cous vegetariano (e dunque disdegnato dagli autisti) riusciamo a brindare 3 volte (alle 23 per timore di non farcela, alle 24 ora locale, alle 24 ora italiana), pur non avendo praticamente niente da bere. Tra gli ultimi due brindisi parte il trenino sulla sabbia sotto la luna piena e una sfida a ruba-bandiera con la kefiah. La temperatura è relativamente accettabile, tanto che prima di rinchiuderci nella tenda concludiamo la magica serata seduti sulla gobba di sabbia sotto la luna piena. Happy new year! Il primo dell’anno è una giornata di trasferimenti noiosi in territori piatti e petrosi spazzati dal vento attraverso il Messak Settafet, per giungere a fare campo tra le dune dell’Erg Murzuq nel pomeriggio. Attraversiamo la piana del reg Taita e il passo di Abahoa per entrare in questo vasto altopiano ricoperto da detriti resi lucidi e scuri dalla sabbia e dal caldo. Nelle soste giochiamo a pallone con le colaquinte, una specie di cocomeri delle dimensioni di una palla da tennis, giallo chiaro striato di verde, adatte per giocare a bocce.
Nell’erg – qui chiamato edeyen – Murzuq, dove montiamo il campo, scaliamo la grande duna sperando invano di toccare l’immensa luna bianca che ci aspetta seduta in groppa. La sera davanti al fuoco, indispensabile per resistere al gelo, come ogni sera accettiamo i bicchierini di tè, forte e zucchieratissimo, che i nostri autisti ci offrono. Ogni tanto Massud tira fuori anche una preziosissima bottiglietta di plastica che contiene un distillato di datteri, probabilmente illegale. Viene naturale il tentativo di comunicare tra noi con la musica leggera, dando vita ad una compilation della canzone italiana adatta piuttosto ad una sagra paesana. Tentiamo anche di affrontare discorsi di ampio respiro, utilizzando tutte le lingue a noi note. Stasera ad esempio si discute di matrimoni: come al solito gli uomini con cui veniamo in contatto in un paese extra-europeo a caso, si stupiscono di quante donne vivano sole in Italia. Ci spiegano dunque in una torre di babele di linguaggi e gesti come festeggiano il matrimonio in Libia e soprattutto vogliono convincerci a trasferirci lì perché la vita costa meno cara.
In fondo, come stanno cercando di comunicarci, italiani e libici sono uguali: tutti facciamo un gran casino quando parliamo e le nostri voci si sovrappongono con toni concitati. Ora, loro sono autisti e lavorano per i turisti, molti dei quali italiani. Con cui si trovano bene perché sono espansivi e allegri come loro. Poi cosa possano pensare i libici nel complesso degli italiani che hanno colonizzato il loro Paese per anni, considerandoli non più che selvaggi incivili, allestendo campi di prigionia in cui trovarono la morte in diverse decine di migliaia… Non saprei dire. So solo che oggi l’Italia è il loro partner commerciale principale.
L’alba è un gregge enorme tutto viola e fucsia che copre la distanza immensa tra duna e duna e fa dimenticare il freddo e finisce subito. Oggi raggiungiamo lo uadi Matkendush dove saltelliamo come caprette tra le rocce che un tempo costituivano il letto del fiume, per giungere a quello che sta per diventare un sito archeologico con tanto di biglietti d’ingresso. Per il momento l’addetto allo sbigliettamento non si vede e le recinzioni sono nuove di pacca per cui si entra gratis. Dopo esserci liberati dai finti tuareg nigerini che ci vendono ciondoli con la croce dell’Acacus, bracciali rigidi in finto argento, porta-tabacco di pelle colorata e altra paccottiglia, andiamo ad ammirare i famosissimi gatti mammoni (battezzati così dall’archeologo Leo Frobenius) incisi in una roccia piatta. Qui nel Messak sono stati ritrovati solo graffiti, forse a causa della particolare conformazione delle rocce che non offrivano grotte naturali. Lo uadi Matkendush in particolare contiene la maggior parte delle stazioni rupestri: oltre ai gatti mammoni, si possono ammirare diverse giraffe, alcune affiancate da cerchi concentrici che secondo molti studiosi sono arcaiche trappole per gli animali, un coccodrillo e altri animali.
Dopo il pranzo attraversiamo un’ampia e desolata porzione di terreno piatto, ricoperto da piccoli arbusti e cosparso di colaquinte. Il nostro autista più scalmanato, il Gatto, sempre in gara con il suo compagno di avventure, la Volpe, in una delle sue famose stravaganti manovre perde pezzi dal portapacchi della macchina: la legna per la notte e i sacchi della spazzatura si disperdono nella prateria desertica. Siamo costretti dunque ad andare a fare il carico di legna e ci diamo tutti da fare convinti dell’equazione: più legna=più fuoco=più caldo. D’un tratto appare una stupefacente distesa verde: è la fattoria di Berjuj dove si coltivano cereali in maniera intensiva, irrigati da enormi pompe a forma di idrovolanti, chiamate giraffe (da non confondersi con quelle dei graffiti). Ci fermiamo lì vicino per la notte, ai margini dell’erg Murzuq, con il lontananza le luci della fattoria che stimolano riflessioni frutto di opposte vedute. Il tramonto è epocale, disegna porzioni geometriche di luce e ombra, soffonde ed appiccia.
Dopo cena giro di grappa di datteri, canzoni italo-arabe registrate su telefonini italiani e libici, conversazioni campate in aria sul tema del lavoro. Pare che in Libia lo stipendio di un insegnante statale sia di 250 dollari, non è tanto ma non è nemmeno paragonabile a quello di Paesi vicini, come ad esempio l’Egitto. Come avevamo verificato al mercato, all'”autogrill”, in campeggio, non siamo a livelli di miseria e infatti la Libia è uno dei Paesi con il più alto reddito pro-capite di tutta l’Africa, soprattutto per la ricchezza di giacimenti di petrolio.
La notte la temperatura scende sotto lo zero e al mattino troviamo le tende ricoperte da un sottile strato di ghiaccio; ‘duna saga’ aveva detto ieratico come al solito Massud, probabilmente intendendo che dove ci sono solo dune fa sempre un freddo della malora. E tanto lui dormiva sempre in macchina, mentre i suoi compari approfittavano delle stuoie (altro che materassini autogonfianti), coprendosi poi con delle coperte di lana pesantissime (altro che i sacchi a pelo di Decathlon).
Oggi viviamo un’esperienza di straniamento: ci tocca tornare alla strada asfaltata per raggiungere Germa. Nell’antica capitale dei Garamanti, misteriosa popolazione berbera raffigurata nelle pitture rupestri alla guida di famosi carri, visitiamo i resti della città vecchia con la necropoli, telefoniamo alla mamma che non aveva notizie di noi e ci credeva già divenute prostitute libiche (negli anni ’80 ascoltava “La voce del padrone” di Battiato), acquistiamo bevande tremende come la Merinda che è al gusto di mela ma frizzante. Poi mangiamo i tranci di salmone in scatola avanzati e riposiamo sulla sabbia nell’attesa che il buon Ahmed (l’aitante Ahmed dagli occhi tristi, su cui ci saremmo rotolate volentieri un po’ tutte) cerchi un benzinaio aperto in zona. Il nostro eroe torna dopo 2 ore di alacre lavoro, gli occhi fissi sul volante, un compito impegnativo svolto con la consueta perizia.
Ci attende lo spettacolo degli spettacoli: salite e discese tra le dune più zuccherose e ripide dell’erg di Ubari, a caccia degli idilliaci laghi circondati dai palmeti. Il deserto come uno se lo immagina, ammorbidito dal colore biscottato della sabbia al tramonto. Il primo lago, quello di Mahfu, appare all’improvviso dopo un testacoda mozzafiato di Ahmed. È tutto racchiuso in un colpo d’occhio, l’acqua e le palme intorno e poi a sfinire il bronzo sabbioso. Il mercatino tuareg attira la mia attenzione perchè finalmente vedo la cheche dei miei sogni – che sarebbe il pezzo di tessuto per fare il turbante – di un verde scuro molto adatto.
A seguire giungiamo al lago di di Gabraoun, il più grande, nel quale si specchia una grandissima duna. Il nome deriva dalla famiglia dei boss local, gli Oun, e la tomba (gabra) del capostipite è proprio lì, nella duna che abbraccia il lago, segnalata da una bandierina verde. Qui ai tempi vivevano i Dauada, una popolazione che si sostentava mangiando una specie di larva (alcuni dicono: una specie di gamberetto, che fa meno schifo) che si riproduceva sulle sponde del lago. Nei pressi vi è un camping con ristorante e negozio di artigianato tuareg; volendo si possono affittare gli sci, ma non serve lo skipass poiché mancano gli impianti di risalita. Alcuni italiani facinorosi si tuffano nell’acqua salatissima riportando, a quanto pare, serie conseguenze reumatiche.
Concordiamo con gli autisti di tornare indietro e montare il campo vicino al lago di Oum el Ma, così la mattina dopo siamo già sulla strada del ritorno e non dobbiamo svegliarci all’alba. È il campo più caratteristico ma più umido e freddo, circondato dalle palme che sputano i loro datteri nella sabbia sottostante. Dopo cena giungono le voci dei tuareg che cantano in lontananza, ma purtroppo non ce la sentiamo di raggiungerli poiché, nonostante stasera per la prima volta non ci sia vento, il gelo ti entra nelle ossa. In tenda ho battuto i denti pur intabarrata in sette strati di vestiti (i famosi sette veli) e inoltre il sacco a pelo era impregnato di benzina, ma è l’ultima notte e la nostalgia è già in agguato. Nonostante le temperature notturne, l’inverno resta sempre la stagione migliore per compiere questo tipo di viaggio, in quanto di giorno non fa mai troppo caldo e in più non soffia il ghibli, cosa che accade solo in primavera. E comunque tutto sommato con un buon sacco a pelo invernale abbiamo tutti dormito bene.
Al mattino visitiamo il lago di Oum el Ma, il più pittoresco, uno specchio d’acqua in cui si riflettono la grande duna, i cespugli, le palme e i canneti. E infine Mandara, ex lago prosciugato, quasi interamente coperto dal sale, che anticamente veniva raccolto e venduto dagli abitanti della zona.
L’ultima ora a cavallo delle dune è esaltante ma anche un po’ malinconica perché ci conduce fuori e lontano da tutto questo. Il Gatto e la Volpe scelgono una pista diversa dall’anziano capo autista che impreca in arabo. Nel deserto è sempre necessario tenersi tutti d’occhio e aspettare il fuoristrada che eventualmente non si vede; tutti gli autisti sono molto attenti, ma stavolta non è proprio possibile andare a riacciuffare i colleghi burloni. Ci rincontreremo poi dal “gommista”, in un camping dove bisogna rigonfiare i pneumatici per affrontare il ritorno sulla strada asfaltata. Approfitto per fumare un po’ la chicha con dei personggi inturbantati che bazzicano da quelle parti e per lavarmi le mani: finalmente le unghie non sono più nere.
E poi, come tutte le cose belle, anche questa finisce. Da ultimo il passo del non ritorno: la doccia dopo nove giorni. “Il deserto è bello perché è pulito e non mente. La sua nitidezza è straordinaria. Non ci si sporca mai nel deserto”, sentenzia il nostro dispensatore di massime sul deserto, Théodore Monod. L’aria secca e l’onnipresenza della sabbia hanno davvero proprietà fantastiche: piedi, capelli, pentole, gavette, mantengono la loro originaria brillantezza. Ma una doccia dopo nove giorni è una doccia dopo nove giorni.
Le ultime 12 ore di autobus e l’intera notte trascorsa all’aeroporto di Tripoli sotto la minaccia dell’overbooking le abbiamo affrontate con uno spirito ascetico, lieto e sereno come quello dei monaci del primo Cristianesimo. L’esperienza sahariana è stata vissuta da tutti come una felice liberazione dalla costante presenza di un ego invadente (che abbiamo prontamente cancellato all’arrivo). L’abbandono totale e fiducioso alla logica del “loro sanno” ha reso i compagni di viaggio e me quasi ebbri, alleggerendoci dalla comune responsabilità di evitare gli ostacoli che la vita quotidiana ci mette tra i piedi. E insegnandoci che quando non si può fare nulla per cambiare ciò che è dato, è inutile darsi pena.
Il volo è puntuale. A Roma è una bella giornata calda. Al primo risveglio in un letto ho avuto la fondata certezza che i cuscini e le lenzuola in cui giacevo nella penombra fossero fatti di sabbia.