Deserto libico: pensieri riflessi

Quando è arrivato il momento della partenza per “ il grande mare di sabbia”, tempo e mente erano ingolfati da affanni e desideri. Tutto e tutti dominavano la mia giornata. Il momento degli addii mi induceva a lasciare tante cose, ritenute non essenziali; mi induceva ad inseguire affetti, perché la partenza rinsalda le proprie radici; mi...
Scritto da: Lalla D''Agata
deserto libico: pensieri riflessi
Partenza il: 22/10/2009
Ritorno il: 01/11/2009
Viaggiatori: in gruppo
Spesa: 2000 €
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Quando è arrivato il momento della partenza per “ il grande mare di sabbia”, tempo e mente erano ingolfati da affanni e desideri. Tutto e tutti dominavano la mia giornata. Il momento degli addii mi induceva a lasciare tante cose, ritenute non essenziali; mi induceva ad inseguire affetti, perché la partenza rinsalda le proprie radici; mi induceva a cercare l’altro, perché già ne sentivo la mancanza. Pregustavo il momento degli incontri che avrebbero sollevato il velo della cronaca, mostrando l’umanità miserevole di profughi e diseredati. Fantasticavo di rompere l’incanto dei predoni del deserto, i “senza Dio”, i tuaregh, i leggendari uomini blu dei romanzi sul deserto. Mi ripromettevo di costatare i progressi del “socialismo verde”, voluto da un chiacchierato dittatore sui generis. Nel frastuono cittadino, prefiguravo silenzi e spazi illimitati; dove c’era cemento, vedevo i riflessi dorati e rosati della sabbia; dove c’era abbondanza, biasimavo lo sciupio, pensando privazioni e desolazione dei meno fortunati d’oltremare. Avevo letto che del deserto non si può dare una descrizione, ma ognuno può raccontare qualcosa! Così anch’io, giunta nel deserto, abbandonando ogni infrastruttura intellettuale, mi sono messa all’ascolto di quel che il cuore sussurra nel frastuono ma che non avevo potuto sentire perché affannata a comporre armonie per gli altri.

E, mentre i muscoli si allentavano in un morbido abbandono sulla sabbia, ho provato sensazioni al di là dell’orizzonte e del tempo, emozionandomi per la mutevolezza di forme e di colori, pur in un’apparente staticità. Il deserto, come un direttore d’orchestra, suscitava accordi che giacevano inespressi e che, una volta riaffiorati dolcemente, continuano a riecheggiare in sequenza armonica, anche da lontano e nei momenti di stress. Un lieve soffio del vento, alzando la sabbia, sembrava comporre un mistico mandala che la natura eleva sino al cielo, per intercedere per l’uomo irriverente. Gustavo ogni attimo di silenzio entrando in sintonia col battito del cuore.

Lasciavo correre la fantasia, finalmente libera, tra dune e barcane, inseguendo ricordi primordiali che riaffioravano dal libro aperto della storia dell’uomo. Della primordiale “savana” che accolse, 12.000 anni fa, l’uomo cacciatore e poi pastore, ho rivissuto scene di caccia e di vita quotidiana, scolpite nella parete rocciosa. Balzavano dalle incisioni e dai disegni colorati elefanti, giraffe e gattimammoni, animali incompatibili per l’ambiente di oggi. Le montagne e i graffiti dell’Akakus sono sculture che mettono a confronto artisti di livello: la forza millenaria della natura e l’evoluzione culturale dell’uomo. Viene da ripensare le forze primordiali che in milioni di anni hanno modellato questa piattaforma “rigida”; l’hanno fratturata; incisa e lasciata invadere dalle acque; l’hanno resa fertile ed erosa; desertificata ed anche, oggi, resa ricca per l’oro nero. Mi è dolce il ricordo dei picnic, apprestati con una cucina da campo, nei luoghi visitati: sotto le acacie, all’ombra di un massiccio roccioso, in un anfiteatro di sabbia. Piatti freddi a base di pesce conservato, insalate e creme di legumi; zuppa calda, cuscus o riso con la carne; datteri o macedonia in scatola; the libico, ciài, con zucchero reso schiumoso, servito in piccoli bicchieri “riciclati”.

Sorrido ripensando le notti insonni nel campo: il “sacco-mummia” che avvolgeva come una sirena; il fruscio del vento ed il concerto notturno dei vicini di tenda; le impronte lasciate da una volpe e da topi, in cerca di rifiuti biologici abbandonati; la notte piena di quelle stelle che hanno ormai abbandonato la città e che qui ti invitano a ripetere le gesta dei “top gun”.

Mi pare di risentire il ronzio delle vecchie jeep mentre correvano a 120 Km/h su strade asfaltate e sulle barcane, saltando sulle dune col rischio di rompere una balestra o di insabbiarsi; rivivo le corse nella ramla, senza punti di riferimento se non qualche copertone o pezzi di motore abbandonati o qualche spuntone di roccia. Nella mente riaffiora il ricordo della festa tuaregh a Ghadames, che si tiene dopo la raccolta dei datteri; la gente accorsa ha animato il paese museo – dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità- ed ha reso memorabile ogni fotografia. Tutto rievocava un passato che non si vuole dimenticare: vie, frequentate soprattutto dagli uomini, delimitate da mura color sabbia, rifinite con smerlature triangolari imbiancate; portoncini delle case decorati con stucchi ben auguranti; stanze su più livelli, con pareti tappezzate di specchietti e di decori in stucco color rosso vivo; la stanza “della notte di nozze e della vedovanza”; terrazze imbiancate, intercomunicanti per favorire il passaggio delle donne da una casa all’altra; la gente locale coi vestiti della festa, come comparse di un film, nelle piazzette dove un tempo si commerciava avorio e carne umana.

Godo ancora della sensazione di benessere fisico e psicologico, favorita dal clima ottimale del mese di Ottobre: di giorno, caldo secco ma non troppo, di sera , fresco da golf. Provo ancora stupore e tristezza per la magnificenza e lo stato di abbandono dell’area archeologica di Sabratha e di Leptis Magna. Ripercorrendo con la mente le vie della medina e del souk di Tripoli, rivedo le bottegucce senza sfarzo ma dignitose. Come ha spiegato il nostro accompagnatore, la vita della gente è favorita da un basso costo politico dei beni di necessità, dei servizi per la salute e per l’istruzione pubblica, dai mutui senza interesse e dalle agevolazioni per la casa: gli sposi che celebrano la cerimonia il 1°Settembre avranno la casa dalla Stato, anche se in periferia.

Dei profughi nessuna traccia, nessun volto miserevole; solo strani, per la cultura occidentale, continui posti di blocco, dove esibire e lasciare copia delle autorizzazioni al transito, debitamente precompilate e pagate dall’organizzatore. Certamente chi decide di attraversare il deserto e di affrontare l’incognita traversata di 250 km di mare verso la costa Italiana, non sente l’armonia dei silenzi né vede l’arcobaleno di colori; fugge da una vita di stenti inseguendo il miraggio del benessere.

Per me, invece, questo viaggio, come ogni viaggio bello che permette di estranearsi dal proprio guscio, mi ha proiettato in una realtà diversa, illuminando di una solare luce le invernali giornate uggiose di pensionata, ancora bene in salute e con tanta rinnovata voglia di fare



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