La Roma che non ti aspetti
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Arriviamo che ormai è sera a Stazione Termini e ci dirigiamo subito nel nostro albergo che non è distante, in Via Nazionale: L’Hotel Miami. Ve lo consigliamo, noi ci siamo trovati davvero bene.
1° Giorno
Ha un senso nella città più bella del mondo andare alla ricerca di quella che è stata definita la più brutta scultura del rinascimento? Beh secondo noi sì. Entriamo nella Chiesa della Trinità dei Pellegrini, nella piazza omonima, per ammirare il San Matteo: anche a un occhio non esperto come il nostro appare subito chiaro che siamo ben lontani dalle vette michelangiolesche o del Bernini. Eppure anche quest’opera, che per essere benevoli potremmo definire minore, può regalare una grande emozione conoscendone la storia. Il San Matteo è l’unica opera di un artista olandese, Jacob Cobaert, detto Copé, che si guadagnò da vivere lavorando per gli artigiani della capitale e che dedicò in parallelo, per più di un trentennio, tutte le sue energie alla realizzazione di una statua che fu rifiutata perfino dal committente stesso al momento della consegna. Seduto nel silenzio della chiesa mi torna in mente una scena vista in televisione qualche anno fa. Siamo alla Olimpiadi, in una delle tante batterie eliminatorie delle gare di nuoto si presenta un atleta del centro Africa. Allo start si butta goffamente in acqua e comincia a mulinare vorticosamente le braccia alzando un polverone d’acqua disumano. A metà del suo percorso, già abbondantemente fuori tempo massimo per la qualificazione al turno successivo, comincia ad andare in affanno, ad arrancare. A questo punto succede qualcosa di davvero inaspettato: il pubblico, inizia ad applaudirlo e a incitarlo a gran voce. Il nostro eroe non si arrende e alla fine, stremato, con un tempo improponibile, raggiunge il traguardo mentre il palazzetto, ormai tutto in piedi, gli tributa una vera e propria standing ovation. Ecco, con questo spirito allora sì che ha un senso, venire ad ammirare quest’opera; per rendere omaggio a chi, senza un briciolo di talento, ha avuto l’entusiasmo e il coraggio di dedicare tutta la vita alla sua più grande passione: chapeau, monsieur Copé!
Siamo stati stupiti dallo spettacolo di San Pietro, siamo rimasti a bocca aperta davanti al capolavoro della cappella Sistina, ma non ci basta, una volta di più vogliamo sorprenderci, così ci affidiamo ancora a Lodoli e ci dirigiamo alla Chiesa di Sant’Ignazio di Loyola. Vi consigliamo di fare come noi: entrate e dirigetevi immediatamente al centro della navata, da lì potrete ammirare tutto l’edificio: noi vi invitiamo però a soffermarvi sulla cupola. Provate a fissarla e intanto a muovervi cominciando a dirigervi verso l’altare. Allora avrete la vera sorpresa. La cupola non esiste in realtà! È solo un dipinto sul soffitto, che grazie ad un abile gioco prospettico inganna l’occhio! È davvero sorprendente, e potrete divertirvi a stupire i vostri accompagnatori con questo effetto speciale del rinascimento. Ma c’è di più, oltre il gusto di vedere chi ci accompagna braccia e mento a penzoloni? A ben vedere sì. Sembra che la scelta di concludere i lavori con un insolito soffitto piano fosse stata dettata da un improvvisa mancanza di fondi. Ma il matematico Orazio Grassi, disegnatore della chiesa, non si diede per vinto e escogitò questo gioco di prestigio, affidandone la realizzazione ad un altro gesuita padre Pozzo. Così oggi a suo modo anche la chiesa di Sant’Ignazio di Loyola ha la sua cupola. Anzi di più. Ha la cupola più originale di tutta Roma, l’unica al mondo a non essere concava ma perfettamente piana. In questo si percepisce un messaggio davvero positivo. Cosa sarebbe stato di questo bell’edificio rinascimentale senza il colpo di genio del suo progettista? Probabilmente sarebbe sprofondata nell’anonimato nel quale cadono la stragrande maggioranza delle chiese romane. Sarebbe diventata un altro simbolo tra i tanti simboli a forma di croce che tempestano le cartine delle guide o degli alberghi. Quale turista si sarebbe mai spinto in Via del Caravita per ammirarne una tra le tante? E, invece, oggi potrete notare un nutrito gruppo di visitatori, merito del colpo d’ala di chi, di fronte ad un fatto di per sé negativo, ha saputo ingegnarsi trasformandolo addirittura in un vantaggio. Una piccola grande lezione di vita. Uscendo dalla chiesa lanciamo un ultimo sguardo alla facciata: messaggio ricevuto.
2° Giorno
Mentre vi state spostando da un monumento a un museo, da una chiesa a una mostra, se vi trovate da quelle parti, vi consigliamo una meta davvero curiosa. Una piccola strada che unisce via Flaminia a Via del Vignola. I romani la chiamano Little London; in pratica sembra di trovarsi improvvisamente catapultati in un quartiere della City, e se poi avrete la fortuna di imbroccare in una giornata nuvolosa, l’effetto sarà dirompente. È chiusa al traffico, noi però non siamo riusciti a percorrerla neanche a piedi, per due cancelli che bloccano l’accesso. Anche vista da fuori comunque c’è da stupirsi: case in perfetto stile anglosassone dall’architettura ai dettagli si susseguono in questo angolo di Inghilterra romano. Potrete divertirvi a scattare delle foto e magari inserirle furtivamente nel album ricordo di un week end oltremanica: fatelo vedere agli amici, gli scatti capitolini passeranno totalmente inosservati. Guardi e vedi la capitale del Regno Unito mentre dietro di noi passa un gruppo di ragazzi che spara qualche frase tipica da borgata romana. A questo punto abbiamo le idee un po’ confuse: mi sembra di vedere Bobby Charlton con la maglia giallorossa, la Regina d’Inghilterra sta prendendo il tè con la sora Lella, Cameron parla di politica estera con Er Monezza mentre Sid Vicious intona Roma Capoccia. Forse è meglio andare a mangiare un boccone: noi tanto perché il caos diventi totale vi consigliamo La Frisella, un ristorantino di specialità pugliesi, proprio lì vicino, di fianco a Buckingam Palace.
Pensiamo che il bello di Roma stia nel fatto che puoi trovare un’infinità di opere, meno conosciute dei grandi approdi turistici, ma che suscitano in noi un grande interesse. Una in particolare ci aveva mosso curiosità e la volevamo assolutamente vedere: un tempietto di Jacopo Barozzi, sopranominato Il Vignola, città che gli ha dato i natali, e dalla quale veniamo anche noi, probabilmente attratti dall’idea di vedere un pezzo della nostra Emilia nella capitale. Così, con una buona dose di sano campanilismo in tasca, raggiungiamo la nostra meta dove ci aspetta però un’amara sorpresa: l’edificio in sé non tradisce le attese. È semplice e geniale, un equilibrio perfetto di angoli e linee curve. Dopo lo sfarzo del barocco romano non si può non venire a dare un’occhiata al Tempietto di Sant’Andrea, un esempio di armonia ed eleganza. La location invece è da dimenticare. È confinato in un angolo di un parco, che mostra segni di degrado, affogato all’incrocio di due vie molto trafficate, Via Flaminia e Via Del Vignola appunto. Il tram gli passa così vicino che sembra lo debba centrare in pieno. È una vera tristezza vederlo così. Oggigiorno politici e uomini di cultura fanno a gara nel andare in televisione a ripetere che l’Italia ha il più grande patrimonio artistico del mondo e non fa abbastanza per tutelarlo. A parte il populismo che spesso trasuda da queste affermazioni potremmo dire che il concetto è sicuramente vero. Oggi però ci sentiamo di dare spazio a un pensiero più complesso: anche se ci stringe il cuore nel vedere la genialità del nostro concittadino confinata in un luogo così inappropriato, dobbiamo anche riconoscere che non deve essere facile far convivere le esigenze della popolazione, con tutto quello che ne consegue, con una tale massa di beni culturalmente rilevanti da tutelare. Una contraddizione tutta romana: da un lato città che deve seguire il passo delle altre capitali europee, e dall’altro vero e proprio museo a cielo aperto. Così mentre guardiamo ammirati il piccolo gioiello del Barozzi, tra il frastuono delle auto e dei bus, sembra di sentire parlare Roma, che allargando le braccia ci dice “Aò questo non sapevo proprio dove metterlo!”
3° Giorno
Sbirciando sulla guida ci rendiamo conto che stiamo passando proprio davanti a una delle nostre mete, la chiesa di San Clemente, così ne approfittiamo per visitarla (entrata a pagamento). Scopriamo un interno luminoso, tra i più belli in assoluto che abbiamo visto. Domina il marmo tra affreschi ariosi e un’insolita abside in oro che dà sfarzo e aggiunge un non so che di bizantino. Ma ormai ci conoscete: avremmo inserito questa tappa nel nostro resoconto se non ci fosse dell’altro? Infatti è così. Si tratta di calarsi nelle viscere della terra per entrare nei meandri della vecchia basilica paleocristiana; bastano pochi metri e voilà: da turisti per caso a speleologi per caso. È davvero un altro mondo, affascinante da un lato, e a tratti anche po’ inquietante dall’altro: è divertente comunque pensare che siamo nel bel mezzo della capitale e che proprio sopra di noi il caos romano continua frenetico come sempre. Non siamo però qui a zonzo abbiamo un obbiettivo. Superiamo i vari livelli di profondità fino ad arrivare alla grotta mitrea. Si tratta di un antro, sbarrato da un cancello, nel quale vi è una statuetta che rappresenta l’uccisione di un toro lunare da parte di un ragazzo: dal sangue dell’animale nascerà tutta la vita sulla terra. Questa religione era la più diffusa a Roma e fu soppiantata dal cristianesimo; viene spontaneo pensare: “sic transeat gloria mundi”. Un tempo erano i seguaci di Pietro e Paolo a vivere nella clandestinità, ora è il dio Mitra a non avere regolare permesso di soggiorno nella capitale. In passato la popolazione si rivolgeva a quest’icona con devozione e rispetto oggi ispira simpatia: un sovrano ormai senza corona che prova a rientrare nel suo vecchio regno nascosto nel fondo della stiva di una nave. Per noi è tempo di risalire e lasciare il Dio Mitra al suo destino: è ormai a Roma da secoli, la conosce bene, se la caverà.
Visto che è di strada, prima di andare a mangiare nel nostro ristorante preferito di Roma, il Bocconcino, facciamo tappa alla chiesa dei Santi Quattro Coronati. Cosa c’è da vedere in questo complesso monastico vi chiederete? Cominciamo da un piccolo oratorio affrescato appena entrati sulla destra. Si suona un campanello per chiedere la chiave e dopo qualche minuto la suora di clausura, sempre senza farsi vedere, ve la passerà attraverso la ruota, un tempo usata per lasciare i neonati, così potrete accedere in perfetta solitudine. Delizioso e raccolto, basta un quarto d’ora per ammiralo. All’uscita si lascia la chiave là dove la si è trovata. La chiesa è austera, c’è poca luce, si attaglia perfettamente a chi ha scelto la vita monastica. Regna una gran quiete, un gran silenzio che tre o quattro volte al giorno viene impreziosito dal canto delle suore. Dalla navata di sinistra si accede a un chiostro che, una volta ristrutturato dalle ingiurie del tempo, sarebbe un vero gioiello. Tornando alla domanda che ci siamo posti all’inizio potremmo rispondere: tutto qui. Ecco questo è quello che c’è da vedere in questo luogo: niente più. Non che non valga la pena intendiamoci, ma alla chiesa dei Santi Quattro Coronati più che per vedere si viene per respirare. Respirare la sensazione di pace e serenità che pervade tutto questo luogo. Immergersi nella sua atmosfera calma e distensiva, apparentemente lontana anni luce dal chiasso cittadino, in realtà a poche centinaia di metri. Potrete venire qua a cercare qualche istante di vero riposo per poi rituffarvi nel tram tram della vita quotidiana se siete romani, o nella frenesia delle visite se siete turisti come noi. Una boccata d’ossigeno, un sorso d’acqua pura. E mentre ci allontaniamo per riprendere il cammino ecco che comincia un canto.
4° Giorno
Una visita che non volevamo mancare era quella alla chiesa di Maria sopra Minerva. La potete trovare in tutte le guide: bella, d’impatto, custodisce una serie di opere tra cui un Michelangelo. Sì, avete capito bene proprio un opera del più famoso artista del rinascimento, e questo, infatti, era il nostro obbiettivo: il Redentore. Non rimaniamo delusi; è esattamente come ci era stato descritto: un po’ goffo, sproporzionato, con le gambe corte rispetto al tronco, straordinariamente umano. Molto si potrebbe dire su questa scultura a partire dal fatto che è stata solo imbastita dal maestro, per poi essere completata da degli allievi, ma la mano è stata sicuramente infelice. E’ come se il perfetto David fiorentino avesse un fratello più brutto che abita a Roma. Allora perché tanto entusiasmo? Potreste pensare che è perché in fondo tutti noi abbiamo gioito quando dopo anni di dominio il primo della classe ha preso finalmente un cinque; magari era un nostro amico e gli volevamo bene, però abbiamo dovuto trattenerci dal saltare sul banco ed esultare, inutile negarlo. In realtà si tratta di dare un volto umano al mito. Noi ormai immaginiamo Michelangelo alla stregua di uno degl’angeli che dipingeva: un personaggio che appartiene a una sfera a noi sconosciuta e inaccessibile, là troppo in alto, troppo lontano. Questa opera sembra, con simpatia, volerci ricordare che, invece, il Signor Buonarroti era un uomo, con un talento immenso certo, ma pur sempre un uomo, che è stato in grado, artisticamente, di raggiungere vette impossibili, ma è anche inciampato malamente. Così vi consigliamo di fare come noi: andate a vedere questa insolita scultura, fotografatela, e all’indomani di uno di quei piccoli insuccessi che ogni tanto capitano nella vita, aprite il vostro album, o pc, e riguardatela, per ricordarvi che a Roma, nella chiesa di Maria sopra Minerva, si trova un’opera dell’immenso Michelangelo: una vera, umanissima ciofeca.