Kathmandu e la festa del dasain
Come ve l'immaginate voi Kathmandu, la capitale del Nepal, ridente regione tra l'India e l'Himalaya, già meta di migrazioni di hippies in cerca del paradiso in terra? Noi ce la immaginavamo come una sorta di paradiso, appunto: verdi vallate, profumo di montagna, case di legno, pacifiche atmosfere buddiste, pascoli e mucche...
Come ve l’immaginate voi Kathmandu, la capitale del Nepal, ridente regione tra l’India e l’Himalaya, già meta di migrazioni di hippies in cerca del paradiso in terra? Noi ce la immaginavamo come una sorta di paradiso, appunto: verdi vallate, profumo di montagna, case di legno, pacifiche atmosfere buddiste, pascoli e mucche (sacre e non). Soprattutto ci aspettavamo un posto tranquillo. Invece…
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Ma partiamo dall’inizio: l’aereoporto di Kathmandu. Uno esce col carrello dei bagagli e subito viene assalito da un gruppetto di ragazzini. Non sono assolutamente aggressivi, anzi: vogliono portare le valigie, attaccare bottone, vendere qualcosa. Ridono, giocano. Ad un certo punto scappano, saltano in tutte le direzioni come un branco di gazzelle. Il “leone” che le ha spaventate è un poliziotto che arriva da lontano, dal fondo del piazzale. Però arriva piano, giusto per dare loro il tempo di scappare con tutta calma. Nonostante il manganello non sembra veramente minaccioso.
Poi, in taxi o col pulmino dell’agenzia turistica, ci si butta nel traffico: una rumorosa, odorosa, colorata baraonda che non ha paragoni al mondo, se non in India. C’è in giro tanta confusione e tanta pazienza: confusione di macchine apecar risciò biciclette e tanta pazienza di pedoni cani automobilisti e poliziotti. Il vigile urbano che regola il traffico su di una piattaforma al centro di una rotonda, in realtà, non si limita a fare il semaforo-vivente, ma interpreta una vera e propra danza: sembra Shiva-che-danza il ballo terribile del traffico.
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Insomma: ci si aspettava una specie di Val Gardena orientale e invece ci si ritrova come al centro di Bombay o di una qualunque delle grandi città indiane! Anche se, effettivamente, il Nepal sta all’India come la Svizzera sta all’Italia: tutto molto più ordinato e pulito…
A questo punto le scelte possibili sono due: o ci si rifugia in un periferico Hotel all’occidentale, magari caro ma confortevole (ad esempio l’Hotel Shangri-là), oppure si beve la medicina fino in fondo e ci si adatta fin da subito ad un Lodge in centro, magari col gabinetto in comune ma molto economico (per esempio lo Yak Lodge). Nel primo caso lo choc del fuso orario e della full immersion in un ambiente pittoresco ma tosto saranno metabolizzati pian piano, dopo una boccata d’aria pura e un the nel bel giardino all’inglese assieme a gruppi di turisti occidentali anche loro molto british. Nel secondo caso ci si immerge nel “colore” della città allo stesso modo in cui ci si butta a tuffo in una piscina troppo fredda (o troppo calda): passato il primo brivido non ci fai quasi più caso.
Noi, stavolta, abbiamo scelto la prima soluzione…
Comunque sia, dopo una doccia più o meno confortevole, si deve affrontare il magma umano che scorre da Tamel (la strada dei negozietti e dei ristoranti turistici) fino a Durbar Square (un nome che, in sè, non vuol dire niente: “durbar” vuol dire “palazzo”, per cui è come dire da noi Piazza Principale e c’è una Durbar Square in tutte le cittadine che popolano la valle).
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I cortili di Kathmandu! Per la legge degli opposti che – pare ormai assodato – regola le umane cose, i cortili di questa città caotica sono oasi di pace e di tranquillità. Dentro ai cortili la vita scorre coi ritmi mimimali-ancestrali di mille anni fa: i bambini giocano vicino alla fontana a cui tutti attingono acqua (visto che quasi nessuno ha l’acqua corrente in casa), l’immancabile angolo con il tempio induista dedicato a Tara o a Ganesh è sempre pieno di offerte di fiori e di incensi, le donne si affacciano alle finestre coi serramenti cesellati in legno, vecchi di secoli. E il turista viene visto con benevola curiosità, fatto oggetto di sorrisi e saluti e poi ignorato, accettato.
E magari, dopo una mezz’oretta passata a rilassarsi, dopo aver metabolizzato la situazione, si può riaffrontare il “fuori”. E fuori dai cortili si incontra magari uno stupa, il luogo di culto buddista, che può essere piccolo come un’edicola o grande come una vera propria chiesa: un parallelepipedo di calce e mattoni, sormontato da un cono formato da cerchi concentrici che rappresentano i vari livelli di consapevolezza e di saggezza. In genere contornato da un muro di preghiera, con i fedeli che, passando, fanno girare le ruote formate da cilindri e rulli in cui è scritta milioni di volte la formula che suona più o meno “sia lode al gioiello del loto”. La stessa che è scritta sulle bandiere colorate che il vento fa “pregare” incessantemente.
Dalla piazza di Basantapur si arriva a Freak Street, la strada che dagli anni ’70 rappresenta il simbolo dei giovani che da ogni parte arrivavano qui per trovare un mondo alternativo, per meditare e per fumare hascish, che allora era addirittura legale e che solo successivamente (su pressione degli USA) è stato formalmente vietato. Adesso non c’è più traccia di questa “migrazione”: Kathmandu, definitivamente, non è più il Paradiso dei freak. Di quelli che arrivarono qui quasi trent’anni fa non è rimasto quasi nessuno: l’ultimo è uno svizzero, chiamato Baba, un signore magrissimo con la barba e i capelli lunghissimi e bianchissimi. Gli abbiamo chiesto cosa sia cambiato a Kathmandu dai tempi dell’utopia hippie: -Tutto, è cambiato tutto. – -E allora perchè rimani qui?- -Perchè quella che non è mai cambiata è la gente: quella è rimasta meravigliosa.-
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Ad un certo punto, con Roby Rubiolo, un amico italiano che da anni frequenta la città e che accetta ogni tanto anche di fare la guida turistica, io – Patrizio – vado dal barbiere. Il barbiere viene dall’India, non parla nè nepalese nè inglese ma solo il suo dialetto. Per cui è impossibile comunicare. E’ scrupoloso, ostenta gesti coreografici ieratici e ampi coi quali mi spalma una crema sulla faccia, poi cambia la lametta e ne mette una nuova, facendomi teatralmente controllare che tutto sia in ordine come fa un prestigiatore prima di un numero. Finita la barba mi fa segno che devo inchinare la schiena fino ad appoggiare il mento sul lavabo che sta di fronte alla sedia: che voglia sciacquarmi la faccia senza bagnarmi? Appena mi piego mi salta addosso, comincia a darmi dei gran colpi sulle scapole, a mani aperte e poi di taglio, come si fa col karaté! Dopo un attimo di terrore capisco che mi sta “massaggiando”, dal collo ai reni, riservandomi un trattamento a metà fra un-fracco-di-botte e lo shiatsu: mi tira le braccia che quasi me le stacca e poi fa la stessa cosa con le dita, e mi fa schioccare tutte le articolazioni… Mica male per un barbiere! All’inizio mi sentivo morire, alla fine mi sento rinato!
E intanto io – Syusy – vado a Pashupatinath, in riva al fiume, dove da sempre si danno convegno i santoni: un percorso dalla vita alla morte, un posto in cui “si esibiscono” i Baba più fantasiosi a cui la pratica yoga ha regalato poteri strani, ma anche il posto in cui si portano a cremare i morti.
Un altro posto in cui uno arriva semplice-turista ma ben presto perde il facile pretesto della curiosità e finisce coinvolto dai suoi stessi sentimenti è Kopan, che sta alla periferia nord della città. Qui ci sono i monasteri buddisti più importanti. Partecipiamo ad una pujia, una preghiera collettiva di quattrocento monache, che può durare anche tre o quattro giorni di seguito. Le ragazze (ma così rapate e fasciate dai loro mantelli gialli e viola sembrano ragazzi) sono tutte in fila e ripetono ossessivamente le formule della preghiera, che però non è mai uguale e si snoda in una sorta di “rosario” scandito da musica di flauti e gong. Il tutto è ipnotico, in un certo senso ossessivo, ma estremamente gradevole e coinvolgente. E mentre queste monache pregano nel tempio tutto colorato, in cui tronegga un’immagine di Buddha, con davanti una fila di ciotole piene d’acqua e di statue di burro, dietro ad un paravento altre ragazze stanno facendo un mandala. Il mandala è una sorta di torta-bassorilievo-plastico tutto fatto di granelli di sabbia colorata. E’ una vera e propria opera d’arte certosina, densa di significati simbolici, che richiede giorni di lavoro e poi viene distrutta perchè, una volta finito il lavoro (che poi è una vera e propria tecnica di meditazione) è finita anche l’offerta, è terminata la sua funzione.
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Ma è difficile raccontare di queste cose, perchè si tratta soprattutto di incontri, di sensazioni personali. Insomma: di esperienze che ognuno, se ha voglia, può fare. Cose che possono succedere, a Kathmandu.
Ma Kathmandu, in realtà, non è mica solo Kathmandu: con questo nome si intende la valle attraversata dal fiume Bagmati in generale e in particolare uno dei centri abitati – il principale. Ma poco lontano da Kathmandu, tanto vicino che praticamente non ci si accorge che l’una finisce e l’altra comincia, ci sono almeno altre due cittadine importanti, che una volta erano altrettante città-stato. La prima è Patan, subito al di là del fiume.
Se è vero che nelle persone non è tanto il nome a raccontarne il carattere, quanto piuttosto il soprannome, pensate cosa deve essere Patan che è detta “la città della bellezza”. La sua Durbar Square è più piccola di quella di Kathmandu, ma è ancora più bella, meglio conservata, più magica.
Ma la Durbar Square di Patan a sua volta è (forse) meno bella di quella di Bhaktapur, un’altra cittadina vicina, in cui Bertolucci ha girato molte scene del suo film Il piccolo Buddha. A Bhaktapur la prima volta ci arriviamo di notte. E’ festa, è il terzo giorno del Dasain, la festa della Dea Durga, praticamente la Dea Kalì. Quella dei Thugs, gli strangolatori dei romanzi di Salgari! Solo che qui scopri che le sei (ma possono essere anche otto o dodici) braccia di Kalì non le servono a strangolare nessuno, lei è in realtà la Dea Madre, che difende i buoni contro i cattivi, rappresentati da un bufalo demoniaco.
A Bhaktapur le strade sono attraversate da bande di suonatori che battono furiosamente sui tamburi e da processioni di pellegrini che portano le offerte nei templi. Sotto ai portici della città, che è particolarmente curata e pulita, con le strade lastricate di mattoni tanto da sembrare un nostro paesino medioevale toscano, ci sono gruppi che suonano cembali e cantano preghiere. Quando ci sediamo con loro ci guardano e ci sorridono. Qualcun altro gioca a carte: in genere è serverissimamente proibito ma oggi è festa! La confusione è al massimo, l’atmosfera è suggestiva oltre ogni nostra immaginazione. Ma cosa ci fanno tutte queste mandrie di bufali, questi gruppetti di capre o di agnelli in giro per le strade?
La mattina dopo, a Kathmandu, ci lasciano entrare nel cortile della caserma che si affaccia su Basantapur. Ci sono militari Gurka schierati, col fucile in mano. La piazza d’armi è piena di gente, una banda suona una marcetta. Portano in mezzo un bufalo. Lo sottopongono ad alcuni riti preparatori. Poi, con un sol colpo di spadone, gli tagliano la testa: dopo il primo bufalo tocca ad altri tre, quattro, cinque. E la stessa sorte attende un numero imprecisato di capretti e di agnelli. Ad ogni uccisione, sempre preceduta da un rito, il drappello di militari scarica i fucili in aria. Usciamo nella piazza e ad ogni angolo c’è un sacrificio: il sangue scorre letteralmente per terra. In un angolo un tassista sgozza un agnellino e cosparge di sangue il suo taxi. Oggi è il giorno del sacrificio: Kalì-Durga, la Madre, ha sconfitto il bufalo, simbolo della collera e anche il capretto, simbolo della lussuria e l’agnello simbolo dell’ignoranza (tutti rigorosamente maschi perchè non sarebbe giusto, nel giorno della Dea Madre, sacrificare delle potenziali mamme). In ogni famiglia, anche la più povera, si sacrifica e si festeggia. Oggi è un giorno speciale: anche il traffico si è fermato e le strade sono piene di un altro genere di eccitazione. Noi turisti guardiamo e non capiamo, guardiamo e il tutto ci fa impressione. Una cosa è certa: Kathmandu non è un posto facile. E’ un posto complicato e affascinante, ha una storia millenaria, una serie di diverse tradizioni religiose antichissime, una stratificazione sociale e linguistica ricchissima. Ci puoi arrivare con in testa qualche idea, supponendo di saperne qualcosa, ma poi invariabilmente te ne vai con le idee molto confuse, convinto di aver soltanto sfiorato la punta dell’iceberg di una civiltà. Certamente torni a casa affascinato, con la voglia di ritornare in Nepal alla prima occasione.
SYUSY BLADY & PATRIZIO ROVERSI
I Consigli di Orso:
Per arrivare in Nepal si può volare con l’AUSTRIAN AIRLINES, che effettua voli diretti via-Vienna: fino a gennaio vola il mercoledì e da febbraio il mercoledì e il venerdì. Per il volo si spende circa un milione e mezzo. Ma ci sono anche la Qtar Airways, la Pakistan e la Birman Airlines.
Il Nepal non costa molto: un eccellente albergo si trova anche a poco più di centomila lire per una camera doppia. Nelle pensioni, invece, mangiare e dormire costa ancora cifre quasi irrisorie. Con 15.000 lire a testa si mangia in un buon ristorante.
Pare che il clima a Kathmandu sia sempre abbastanza buono, ma è comunque meglio da ottobre a marzo, quando non piove e il cielo è più limpido. Viceversa da giugno a settembre i monsoni possono provocare piogge, disagi e frane.
Il Nepal, ovviamente, non è solo Kathmandu: si possono fare trekking sulle montagne, si può visitare Pokara, una bella città sul lago. Oppure ci si può spingere fino a Chitwan, dove c’è un Parco Nazionale pieno di elefanti, rinoceronti e tigri.
Ci sono Tour Operators specializzati a cui affidare l’organizzazione del viaggio: per esempio Mistral Tour di Torino.
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