Israele e territori palestinesi: una terra di contraddizioni

Se dovessi descrivere con una sola parola il viaggio appena fatto, non vi è dubbio, sceglierei contraddizione, dal latino contradictio, sostantivo che indica un rapporto di opposizione tra due affermazioni, due giudizi, due fatti e – in questo caso più che mai – due persone. E il mondo della contra-dictio è quello in cui vieni violentemente catapultato non appena metti piede in Israele: tutto esclude, esula, è in contrasto con l’altro. Chi è l’altro? È il tuo vicino di casa, il tuo collega, il tuo compagno; è chi non professa il tuo credo, è chi ti sta davanti, sei tu, sono io. È la Palestina che è uno stato a sé – ma che in realtà non lo è – e che tu vuoi controllare; è un militare con le tasche piene di proiettili che prega davanti al muro del pianto; è un ragazzino di diciotto anni che con una mano tiene un fucile e con l’altra il proprio libretto delle preghiere; sono la scortesia e la supponenza che, girato l’angolo, diventano miracolosamente gentilezza estrema e sorrisi così dolci che sanno di miele. È quell’unico Dio che dovrebbe semplicemente chiamarsi Amore, che però si chiama e si manifesta in mille modi diversi, che detta e permette leggi e che fa sì che i custodi di una Basilica si litighino pure i lampadari. È un intenso e commovente museo sull’Olocausto dal quale parte una strada che, 5 chilometri più avanti, porta ad un muro che separa le persone.
Nel posto più sacro del mondo – La Terra Santa (fa quasi paura dirlo!) – di primo acchito viene da chiedersi dove sia l’amore, dove si nasconda. Si è forse rifugiato sotto le migliaia di turistiche cianfrusaglie vendute nel suq di Gerusalemme? O è forse finito in un piatto di hummus e kebab?! Tutti con la testa coperta da kippah, veli e kefiah, tutti che pregano e s’inginocchiano ma che poi non chiedono scusa se ti urtano, non ti aiutano fingendo di non capirti, e se ti hanno appena offerto un dolce e tu ringrazi pur non essendo ebrea, bè allora cara mia, il dolce non te lo meriti più! Eppure, appena sopraggiunge lo sconforto – e a volte anche la rabbia – succede qualcosa di magico: qualcuno ti dà il benvenuto con il sorriso più sincero che tu abbia mai visto; il cassiere di un alimentari ti aiuta nel modo più caloroso e generoso che tu abbia mai percepito; nel bel mezzo del diluvio una signora dai modi delicati e gentili ti dà un passaggio; un tassista ti accompagna alla stazione anche se hai finito i soldi; un palestinese ti porta ovunque tu voglia perché “all that matters is that you’re happy!“. Allora inizi a scorgerlo quell’amore… c’è, ma non si vede. Lo devi cercare. Ed io l’ho trovato dentro un ospedale per bambini palestinesi: era così forte e prepotente che mi ha scossa. L’ho ritrovato poi in una ragazza che mi ha aiutata ad attraversare il muro e in un tassista che non vede – non può vedere – Gerusalemme da quindici anni nonostante abiti a Betlemme. E insieme all’amore ho trovato la Libertà, quella cosa che noi diamo così tanto per scontato ma che scontata non lo è. Ho riscoperto la condivisione, la compassione nel senso greco del termine, come empatia e comprensione verso l’altro, la gratitudine e la volontà di andare sempre oltre all’apparenza delle cose. Israele è una terra di contraddizioni. Alcune sopportabili, altre talmente forti da lasciarti l’amaro in bocca. Ma è da quella stessa terra che ho imparato che sta a te trasformare l’amaro in zucchero.