Indonesia: tra vulcani, templi e… orangutan

Viaggio di 18 giorni alla scoperta delle bellezze naturali, dell'arte e delle tradizioni delle isole di Java e del Borneo
Scritto da: Ian Andre
indonesia: tra vulcani, templi e... orangutan
Partenza il: 27/07/2013
Ritorno il: 13/08/2013
Viaggiatori: 2
Spesa: 3000 €
La terra dei vulcani, diciassette mila isole, l’ambiente tropicale, centinaia di lingue e culture, un Paese in pieno sviluppo economico, la quarta popolazione più numerosa del mondo, l’Islam e le altre religioni pacificamente insieme. I libri, le guide e le riviste che faticosamente mi son fatto spedire da Jakarta mi hanno già regalato tanti racconti, immagini, reportage; eppure nel momento in cui l’aereo a Malpensa si prepara al decollo, la solita domanda rivisita i miei pensieri: come sarà l’Indonesia?

La partenza è il momento più bello: tutta la vacanza davanti, un intero itinerario da percorrere e tante esperienze che ancora non sono immaginabili. Le prime ore di volo passano veloci e, in breve, ci troviamo già tra il mare e il deserto all’aeroporto di Doha per compiere lo scalo; sono le 22:55 e siamo puntuali, tra tre ore esatte ripartiamo. Mi accorgo che quando si viaggia ci si lascia condurre dall’istinto nella scelta dei luoghi e dell’itinerario ma nello stesso tempo serve la massima razionalità nella pianificazione. Sono molto preciso quando organizzo i miei viaggi, i giorni di vacanza sono sempre pochi e le cose da vedere tantissime, quindi voglio gestire al meglio ogni giorno; mi piace semplicemente conoscere tutto ciò che c’è di diverso in un Paese, l’arte, la cultura, la gente, le abitudini… L’Indonesia non deluderà queste aspettative.

Passiamo tra un groviglio di strade dell’aeroporto nella calda serata del Qatar e qualche ora dopo siamo già in volo per Jakarta; è la capitale dello Stato e il cuore pulsante dell’Indonesia, il centro dell’economia e della politica, la città del traffico e dello sviluppo industriale, là dove i palazzi affiancano le baracche. Per molti Indonesiani però la capitale è Yogyakarta, detta Jogja, l’esatto opposto, la città dell’arte e della tradizione, dei vicoli e dell’artigianato, là dove la vita fluisce tranquilla e serena lontana dalle ansie della modernità.

Il nostro incontro con Jakarta è rapido: un giro veloce per le strade vicine all’albergo alla ricerca di un luogo dove mangiare qualcosa e il giorno dopo siamo già diretti alle isole di Krakatoa a bordo di una barca di pescatori.

Krakatoa è un vulcano circondato da tre isole, niente altro che i resti dell’immane eruzione avvenuta nel 1883. Ci si sente piccoli e indifesi di fronte all’immenso vulcano e al pensiero della sua forza distruttrice. Ricordo accuratamente i dettagli riportati sui libri di geologia: il rumore dell’eruzione fu percepito fino a seimila chilometri di distanza, i fumi e la polvere si dispersero nell’atmosfera diffondendosi sull’intero pianeta, il sole fu lievemente oscurato, la luna assunse un colore bluastro a causa del pulviscolo e la temperatura si abbassò per alcuni mesi. Uno tsunami seguì l’eruzione e spazzò via 30000 vite umane. La forza della natura è spaventosa, brutale e insensibile di fronte all’uomo, ma nello stesso tempo ha qualcosa di affasciante. Potrei rimanere ore incantato a vedere il vulcano che pacificamente fuma e pensare a cosa avvenne in questo luogo più di un secolo fa, ma intanto giunge il tramonto; siamo all’equatore e qui alle sei del pomeriggio è già buio. Rimangono le poche luci delle barche dei pescatori e una magnifica volta celeste da ammirare. Guardando il cielo, mi sento piccolo piccolo, su un pianeta minuscolo perso in un immenso universo.

Passiamo ancora un giorno accanto al vulcano, camminiamo sui suoi fianchi e arriviamo quasi in cima; tra poco ci aspettano un bel po’ di ore in macchina tra i villaggi e il traffico di Jakarta e un volo verso il Kalimantan, la parte indonesiana della tozza isola del Borneo.

Apakabar?”, “Baguss!” rispondo, ora che ho imparato le prime parole di Indonesiano; come sto?Direi molto bene, ho da poco terminato un volo su una compagnia aerea della black-list e adesso sono su un klotok che dolcemente scivola sulle acque del fiume Sekioner, circondato dalla foresta pluviale: ci stiamo inoltrando nel fantastico parco nazionale di Tanjung Puting. Il klotok è una graziosa imbarcazione tradizionale interamente di legno e sarà la nostra casa galleggiante per tre giorni e tre notti. Dormiamo sul ponte della nave, attraccando la barca a qualche mangrovia e ci risvegliamo al richiamo delle grida dei gibboni e delle scimmie dal naso a proboscide. Durante la navigazione ci fermeremo un paio di volte, inoltrandoci nella foresta per avvistare gli orangutan. In Indonesia “orang” significa uomo e “hutan” foresta; chiamati uomini della foresta, gli oranghi sono un vero spettacolo. Le madri hanno tanta tenerezza verso i propri cuccioli e li abbracciano stretti, si mettono in posa per farsi ammirare di fronte ai turisti curiosi, sbucciano accuratamente le banane proprio come noi e quando hanno la pancia piena si siedono mostrando uno sguardo assorto, quasi meditativo.

Questo parco è una roccaforte della natura in questi anni in cui si stanno distruggendo la foreste per produrre legname e lasciare spazio alla coltivazione della palma da olio. Gli oranghi presenti non sono nativi del parco ma reintrodotti attraverso un accurato progetto gestito dall’OFI (Orangutan Foundation International). Purtroppo, durante i disboscamenti, molti oranghi vengono uccisi, lasciando orfani i cuccioli non ancora autosufficienti; altre volte vengono catturati e venduti come animali da compagnia. L’OFI ricerca gli orfani e sequestra gli oranghi custoditi illegalmente in cattività reintroducendoli nella foresta. Questo ritorno alle origini è un processo lento e faticoso in quanto il cucciolo di orango deve imparare tutto: arrampicarsi sugli alberi, cercare il cibo, evitare i pericoli. Tuttavia, nessun orango reintrodotto diventa completamente autosufficiente ed è necessario ogni giorno offrire loro qualche centinaio di banane per supplire alla loro alimentazione. E’ il momento più atteso dai turisti: una decina di oranghi si presenta a pochi metri da noi per banchettare serenamente di fronte al nostro sguardo incredulo. Poco dopo facciamo conoscenza con Sisswi, l’orango più pigro del parco, è sdraiato sul sentiero e con la mano si gratta il piedone; il giorno seguente lo ritroveremo nella stessa posizione. Sorridiamo, è davvero un pigrone!

Dopo aver amato la pace di questo luogo, incontrato gli oranghi, i gibboni, le lucertole giganti, le scimmie dal naso a proboscide, visitiamo velocemente il villaggio interno al parco. La guida mi accompagna a vedere una scuola: carte geografiche sui muri, banchi, cattedra, armadietti e una grande lavagna; non c’è molto di diverso rispetto all’Italia. Mi dispiace non poter conoscere gli studenti, ma oggi è un giorno di vacanza.

Ci aspetta il volo per Surabaya e un lungo giro per l’isola più importante dell’Indonesia: Java. E’ grande un terzo dell’Italia ma ha il triplo degli abitanti; è uno dei luoghi migliori al mondo per l’agricoltura: il suolo vulcanico è fertilissimo, il clima è sempre caldo, non mancano le piogge e l’umidità. Un tempo ricoperta di foreste, ora è ovunque coltivata con spettacolari terrazzamenti sui pendii; il prodotto principale è il riso che, come in molti altri Paesi dell’Oriente, sostituisce il pane sulla tavola.

Guidiamo su e giù per i tornanti del parco nazionale del Bromo-TenggerSemeru: ci aspetta uno dei paesaggi più spettacolari dell’intero arcipelago. La terribile sveglia del mattino (alle 3:00) ripaga pienamente le nostre aspettative: saliamo sul monte Penanjakan e davanti a noi si presenta un mare di nuvole, i primi raggi dell’alba tingono di rosa e arancio il cielo. Dalla coltre di nuvole che nasconde tutto il paesaggio sbucano i coni vulcanici del Batok, del Bromo e del Semeru, la cima più alta di Java. Mi pento di non aver dedicato qualche giorno in più in questo luogo e programmato il lungo trekking per raggiungere la vetta; ma ormai mi accontento di uno stupendo giro a piedi tra i sentieri del parco e il villaggio di Ranupani.

Gli Indonesiani non amano camminare e preferiscono il motorino, così tutti ci guardano con curiosità, tutti ci salutano sorridenti –Selamat Pagi!– e qualcuno ci scatta una foto, dobbiamo sembrare davvero strani: in effetti siamo proprio gli unici a metterci in cammino. Una bambina osserva sorpresa i capelli biondi della mia fidanzata, dopo un attimo allunga una mano per toccarli, forse vuole controllare se sono veri.

Il nostro viaggio procede verso il centro dell’isola e ci dobbiamo abituare alle strade indonesiane, popolate di auto, tanti motorini, qualche bici, pedoni e le becak, ossia i piccoli taxi locali a tre ruote con la trazione a pedali. Guidare richiede molta concentrazione e gli Indonesiani hanno sviluppano una particolare abilità nei sorpassi; all’inizio siamo preoccupati ma presto notiamo che nessuno va veloce e c’è sempre il tempo per frenare.

Arriviamo a Jogja, una città autonoma ancora governata dal sultano; la tradizione vuole che dal suo palazzo il governatore lanci un fiore e diventi la sua sposa la donna che lo raccoglie; sfortunatamente per lui, dei suoi sei figli nessuno è maschio e si trova senza eredi. Jogja ha stretti vicoletti e sembra che il progresso sia ancora lontano, le case sono decorate con bellissime orchidee che qui beneficiano del clima ideale. Purtroppo ci sono anche centinaia e centinaia di uccelli in gabbia, è l’usanza del posto, ma, dopo aver goduto del senso di libertà della foresta e degli spazi aperti del parco del Bromo, tutto questo non può che suscitare in noi un profondo dispiacere per quelle povere creature.

Vicino a Jogja visitiamo il complesso templare di Prambanan; vorrei smettere di scrivere perché non credo che esistano parole per esprimere il capolavoro che ho davanti ai miei occhi. Il tempio induista risale al IX secolo; in realtà sono tre grandi templi perfettamente conservati circondati dalle rovine di altri duecendo ormai ridotti solo ad un cumulo di macerie. Essi sono dedicati a Brahma, Shiva e Vishnu, rispettivamente il dio della creazione, della distruzione e del sostentamento. La pietra dei templi è stata scolpita e presenta centinaia di metri di bassorilievi; anche se non conosco le vicende del ciclo del Ramayana e non posso comprendere il contenuto di ciò che è raffigurato, la bellezza e la delicatezza dei tratti delle figure scolpite mi commuove. In una parola, meravigliosi! Quale genio può aver concepito qualcosa di simile! Passerei ore e ore qui per ammirare ogni singolo bassorilievo ma ci aspetta un bel po’ di strada in macchina e la salita al Merapi.

Merapi è il nome di uno dei vulcani più pericolosi del mondo e significa letteralmente “montagna di fuoco”; vorremmo scalare la vetta ma la sua attività imprevedibile e i rischi di improvvise emissioni di gas ci rendono perplessi e alla fine optiamo per una camminata sul suo pendio. Quando la nebbia si dissolve e appare il vulcano è un vero spettacolo, la sua bocca, anche se vista da lontano, è impressionante. Gli abitanti del luogo sono riconoscenti al vulcano, che con la sua preziosa cenere rende fertilissimi i terreni e consente sempre generosi raccolti; ma nello stesso tempo sono stati tutti testimoni della sua potenza distruttiva. Nel 2010 una nube piroclastica, ossia gas e ceneri alla temperatura di qualche centinaio di gradi, ha travolto i villaggi; lungo il sentiero è stato allestito un museo contenente i resti di questa tragedia. Bicchieri, bottiglie, televisori, bombole del gas e altri oggetti di uso quotidiano sono stati sciolti e deformati dalla nube ardente; non si può che rabbrividire di fronte a questi reperti pensando a quale sorte abbiamo avuto gli abitanti. Il Merapi fa un’eruzione circa ogni quattro anni e, anche se non tutte sono accompagnata da una nube ardente, la popolazione è comunque consapevole di vivere accanto ad una bomba ad orologeria.

La nostra passione per i vulcani ci fa procedere verso ovest, presso la piccola e semplice città di Wonosobo: ancora una volta i ragazzi ci chiedono di fare una foto insieme a loro, incuriositi dai nostri tratti europei, in effetti siamo gli unici turisti su tutta la piazza. E’ un giorno di festa, le famiglie sono uscite con i bambini che ora vanno avanti e indietro su biciclette e tricicli, qualcuno si diverte con i petardi, le ragazze chiaccherano animatamente e tanti giovani si divertono sui motorini, ovunque sono allestiti banchetti di cibo. L’indomani visitiamo il Dieng Plateau, zona di vulcanesimo; c’è un intenso odore di uova marce per via dello zolfo che fuoriesce dai piccoli crateri. Con una breve camminata arriviamo ad un piccolo laghetto dove l’acqua ribolle e fuma rumorosamente riscaldata dal magma del sottosuolo. C’è una simpatica attrazione turistica: un banchetto che vende uova sode cotte dentro l’acqua bollente della pozza. Non ci soffermiamo molto qui perché l’aria è quasi irrespirabile e ci dirigiamo verso il paese dove apprezziamo ancora l’aria di festa. La gente è sorridente e i bambini si godono alcune giostre, tra cui una colorata ruota panoramica, mentre giovani ragazzini cercano di sembrare adulti provando a fumare; osserviamo tutto questo mentre ci facciamo una scorpacciata con delle buonissime patate. Stiamo già pensando alle prossime due ultime mete: Kampung Naga, il villaggio tradizionale giavanese e il cratere del vulcano Papandayan, detto il “Golden Crater” per via del colore giallo dello zolfo che lo ricopre ovunque. Ma una triste sorpresa ci attende: il traffico indonesiano.

Il giorno successivo rimaniamo bloccati in auto 15 ore per fare appena 200 km, tutte le strade sono completamente intasate; migliaia di famiglie sono in viaggio per le loro vacanze: auto, furgoni, motorini con sopra tre o quattro persone, tutti sono in marcia; quando arriva la sera sui loro visi, come sui nostri, si legge la stanchezza e la fatica di una giornata passata nel traffico. Dopo una notte in un albergo di fortuna vorremmo fare l’ultima tappa al Papandayan ma il pensiero del traffico e il rischio di perdere l’aereo ci costringono ad un cambio di programma: sveglia prestissimo e dritti senza soste verso l’aeroporto. Vedendo il traffico del primo mattino temiamo il peggio ma alla fine arriviamo persino con largo anticipo in aeroporto, l’autostrada tra Bandung e Jakarta è la nostra salvezza.

Mentre aspetto l’ora del decollo sono triste, continuo a pensare ai luoghi che non abbiamo visitato, avevo guardato tante volte le foto del paesaggio stupendo del Papandayan ed ero certo che l’avrei ammirato un giorno; mi chiedo quando tornerò in Indonesia… Sono trascorse in fretta queste vacanze e abbiamo incontrato paesaggi e persone fantastiche; con questo pensiero mi torna il sorriso, l’aereo accende i motori e si parte. “Selamat jalal Indonesia!”, arrivederci Indonesia.

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Lo splendido panorama del parco del Bromo Tengger Semeru visto all'alba



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