Indimenticabile luna di miele negli Stati Uniti
Ma andiamo con ordine. Innanzitutto qualche precisazione. A me (Silvia) e a mio marito (Giovanni) piace viaggiare tranquilli e ciò spesso si traduce nella scelta di Hotel di buon livello (3 stelle o 4 stelle se non troppo onerosi) e nella prenotazione degli stessi prima della partenza. Nel caso specifico, trattandosi della nostra luna di miele e del nostro primo viaggio al di là dell’oceano, abbiamo deciso che tutto doveva essere ben organizzato per ridurre al minimo gli imprevisti e le perdite di tempo. Ci siamo quindi rivolti ad un’agenzia di viaggio che ci ha aiutato a costruire il nostro itinerario, a scegliere voli e alberghi e a prenotare alcune delle escursioni a cui proprio non volevamo rinunciare. Trattandosi poi della nostra lista di nozze, abbiamo anche deciso di fare un po’ meno attenzione ai costi, concedendoci alberghi un po’ più costosi, soprattutto nelle grandi città dove avremmo trascorso più di 2 o 3 notti. Il risultato è stato ottimo e non posso che ringraziare la ragazza dell’agenzia di viaggio che ci ha seguito, per la competenza e l’impegno con cui ha lavorato!!! E adesso il racconto dei nostri 25 giorni negli Stati Uniti d’America… 1° GIORNO: DOMENICA 3 AGOSTO 2008 IN VIAGGIO VERSO NEW YORK A distanza di un mese e mezzo dal nostro matrimonio, è arrivato il momento di partire per la seconda parte della nostra luna di miele: gli Stati Uniti d’America (la prima parte della luna di miele, subito dopo il matrimonio, ci ha visto trascorrere una settimana di assoluto relax ad Ischia).
Come ogni volta che devo prendere un aereo, ho passato tutto il giorno precedente a stramaledirmi per aver scelto di andare così lontano. Proprio non mi piace volare e l’idea di un volo transoceanico, che fino a quel momento non avevo mai fatto, mi spaventa ancora di più. Mio marito, che ormai mi conosce, mi lascia sfogare, senza darmi troppo ascolto… ormai sa che nonostante le lamentele e le minacce di non partire, alla fine su quell’aereo ci salirò.
Alle cinque di mattina arriva mio papà per portarci all’aeroporto di Firenze, dove alle 7:15 partirà il nostro volo Alitalia per Roma. L’aereo è nuovissimo, proprio non si direbbe che la compagnia di bandiera è ad un passo dal fallimento, il viaggio è tranquillo (almeno per quanto lo può essere per me) e poco dopo le 8:00, con appena qualche minuto di ritardo sbarchiamo a Fiumicino. Grazie alle indicazioni troviamo facilmente il nostro gate e alle 10:00 siamo già sul volo intercontinentale dell’American Airlines Roma – New York. Questa puntualità e questa efficienza non sono però destinate a durare ancora molto… osservando dal finestrino l’imbarco delle valigie, riconosco una delle nostre… ma le altre due dove sono? Il personale addetto a caricamento dei bagagli parlotta concitato, inizio a temere che per la prima volta anch’io dovrò affrontare il tanto temuto smarrimento dei bagagli. Giovanni, che è uno tranquillo e ottimista, ovviamente trova giustificazioni razionali per tutto… lui è sicuro che tutti i nostri bagagli arriveranno… mah, speriamo! Comincio ad osservarmi intorno, l’aereo non è molto spazioso o molto più grande di quelli che normalmente ho preso io. Le hostess sono tutte signore cinquantenni bionde ossigenate, le classiche Americane insomma. Ci stupiamo un po’ perchè solitamente siamo abituati a vedere personale di bordo un po’ più giovane. Oltre a noi contiamo numerose altre coppie in viaggio di nozze. Quasi tutte faranno qualche giorno a New York e poi si sposteranno in Florida o in Messico per una settimana di relax al mare. Noi siamo praticamente gli unici a fare un viaggio on the road che ci porterà a scoprire un po’ di easth coast, un po’ di west coast e Chicago. Intanto i minuti passano e l’aereo non parte. Ci informano che c’è molto traffico e che dovremo aspettare un po’ prima che arrivi il nostro turno. Dopo un’ora finalmente l’aereo si mette in moto. Giovanni già dorme. Io comincio ad agitarmi, il decollo e l’atterraggio sono i momenti in cui sto più tesa e, come mio solito, mi attacco al braccio di mio marito per ricevere il necessario supporto psicologico (lui intanto continua a dormire). Vaghiamo un po’ per l’aeroporto e poi finalmente vediamo la pista. Stranamente però, a differenza degli aerei che ci precedono, noi giriamo dall’altra parte. Chissà, forse andiamo su un’altra pista ancora. Continuo a guardare dal finestrino e comincio a vedere aerei parcheggiati e le costruzioni dell’aeroporto… alla fine parcheggiamo nuovamente nel punto da cui eravamo partiti. Sveglio Giovanni e cerco di far filtrare il racconto dell’accaduto attraverso le nebbie del suo torpore. Prima mi dice che mi sbaglio poi, un po’ più sveglio, finalmente mi crede. Gli altri passeggeri iniziano a rumoreggiare e alla fine ci informano che c’è un guasto ad un’ala e che dovremo aspettare il tempo necessario a consentire la risoluzione del problema. Argh!!!!! Non ci fanno scendere e la speranza quindi è che la cosa si risolverà velocemente. Passano 3 ore di lunghissima attesa, durante le quali riusciamo a conquistarci soltanto un bicchiere d’acqua. Ormai sono le 14:00, abbiamo fame e iniziamo a sentire la smania dovuta alla lunga attesa trascorsa standocene fermi e seduti. Come detto l’aereo non è molto grande, e lo spazio per le gambe è quello che è. Dovevamo essere già a metà del nostro viaggio invece siamo ancora a Roma! Sing… Voglio scendere!!!! Alla fine, dopo che qualcuno ha deciso di provare a spengere e riaccendere l’aereo (tipica soluzione che di solito viene adottata quando è un computer che non funziona) si riparte. Ormai non vedo l’ora, almeno potremo mangiare qualcosa!!!! Ma ancora una volta sono troppo ottimista. Arrivati all’imbocco della pista di decollo l’aereo parcheggia di fianco, e gli aerei dietro di noi iniziano a sfilarci e a decollare. Sembra di essere sulla Firenze Mare il 1° di Agosto. La fila di aerei è infinita e ogni volta che sembra esaurirsi spuntano nuovi aerei che si accodano e quindi decollano prima di noi. Passa quindi ancora un’ora. Tutti iniziamo ad essere nervosi e c’è chi protesta. Finalmente alle 15:00, con 5 ore di ritardo, partiamo!!! Il volo è abbastanza tranquillo, anche se invece di durare le previste 9 ore, per noi sarà come se fosse durato 14 ore. Finalmente mangiamo, guardiamo “Ortone e il mondo dei Chi” in italiano, mentre rinunciamo al film in inglese (qualcosa con Jim Carey)… siamo troppo stanchi per cercare di capirci qualcosa. Io riesco a dormire un’oretta e poi attacco a leggere “La solitudine dei numeri primi” che ho comprato nella libreria dell’aeroporto di Firenze. Prima di arrivare a New York lo avrò finito. Sostanzialmente però è una noia tremenda… chi dice che su questi voli il tempo passa veloce è qualcuno che ha la fortuna di riuscire a dormire quasi tutto il tempo, altrimenti non è proprio possibile. Finalmente poco prima delle 19:00, ora di New York, iniziamo a scorgere lo skyline di Manhattan. Giovanni di nuovo dorme. Cerco di svegliarlo, ma proprio non ne vuole sapere. Vorrà dire che mi godrò da sola questo momento che sembra troppo bello per essere vero! Atterriamo all’aeroporto JFK e dopo km e km di corridoi arriviamo alla tanto temuta barriera dell’immigrazione. Forse perché siamo ormai fuori orario forse perché almeno qualcosa deve pur andar bene, non troviamo praticamente nessuna coda e in poco tempo siamo lì a farci scansionare retina e impronte digitali e a dichiarare che siamo turisti e che ce ne andremo, purtroppo, entro tre mesi. Al ritiro bagagli, come temevo, arriva solo una delle nostre tre valige. Ci sono anche altre persone che come noi arrivano da Firenze e anche per loro è la stessa cosa. Praticamente è arrivato soltanto il bagaglio che a Roma ha subito il controllo aggiuntivo. Facciamo la dichiarazione al banco smarrimento bagagli e ci accordiamo affinché le valige, che pare siano già imbarcate sul volo successivo al nostro, ci vengano recapitate direttamente in Hotel. Usciamo quindi finalmente dall’aeroporto ed ad attenderci c’è lo shuttle gentilmente offerto dall’Hotel. Con noi c’è un’altra coppia, anche loro in luna di miele. L’autista ci guida attraverso i parcheggi del JFK e finalmente arriviamo al nostro shuttle: una lunghissima e bianchissima limousine… adesso che la vedo ricordo che l’Agenzia di Viaggio ci aveva parlato di qualcosa del genere, ma proprio lo avevo dimenticato. Che emozione! Non avrei mai pensato di salire su una limousine in vita mia!!! Attraversiamo il quartiere del Queens, e iniziamo a riconoscere i tipici sobborghi Americani, fatti di casette di legno e piccoli giardini sul davanti. Si vede che non è un quartiere molto ricco, ma non è nemmeno poi così brutto, anzi. Procediamo abbastanza spediti, c’è traffico, ma non a sufficienza per fermare la guida spericolata del nostro autista e d’improvviso ecco Manhattan… i grattaceli spuntano ovunque, il sole sta ormai tramontando e mille luci ci circondano… non si sa da che parte guardare; dall’auto non è neanche facile riuscire ad ammirare questi giganti. Costeggiamo Central Park e proprio lì davanti, tra Columbus Circle e la Fifth Avnue, arriviamo al nostro Hotel: l’Helmsley Park Lane. La Hall dell’Hotel è molto elegante, tutta in marmo, con facchini e portieri ovunque. I turisti italiani sono la maggioranza, quasi non sembra neanche di essere così lontano da casa.
Dopo le pratiche per l’accettazione veniamo portati nella nostra camera. La camera è abbastanza grande, con un lettone king size, un bel bagno spazioso e la cabina armadio dove è ordinatamente riposto un ferro da stiro e il relativo asse… per me è una sorpresa, che però diventerà presto abitudine nel proseguo del viaggio.
Sistemiamo le poche cose che abbiamo (è arrivata solo la valigia con i miei abiti, Giovanni quindi per adesso non si può cambiare. Manca inoltre la valigia con scarpe, beauty, e altre attrezzature varie quali caricabatterie, guide, ombrello ecc. Per fortuna la guida di New York l’avevo messa nel bagaglio a mano), ci diamo una rinfrescata e poi la fame ha la meglio su Giovanni. Io avrei preferito crollare sul letto ma lui mi convince ad andare a cercare qualcosa da mangiare. Usciamo quindi che fuori ormai è buio. Un po’ intimiditi ci dirigiamo verso la Fifth Avenue e così incrociamo il cubo di cristallo della Apple, Fao Shwarz, Tiffany, ma nemmeno l’ombra di ristoranti o tavole calde. Io sono troppo stanca per andare a caccia di una buona cena e quindi, in una via laterale troviamo un fast food semideserto dove rapidamente smangiucchiamo una caesar salade orrida, patate e anelli di cipolla fritti fritti fritti e un hamburger… usciti nella notte newyorkese un timore mi assale… ma come farò a nutrirmi per ben 25 giorni?!?!? Spero che non sarà sempre così perché ho già mal di stomaco, e si che di solito io riesco a digerire di tutto!!!! Tornati in albergo stramazziamo sul letto e, prima di cadere in coma, riesco giusto ad apprezzare la morbidezza dei 4 cuscini e del coprimaterasso, che mi fanno sentire come se fossi su una nuvola… chiudo gli occhi felice e mi addormento.
2° GIORNO: LUNEDÌ 4 AGOSTO 2008 ALLA SCOPERTA DI NEW YORK Dopo una notte di riposo e grazie al fuso orario, alle 6:00 di mattina siamo già sveglissimi. La nostra camera guarda sul retro, quindi niente vista su Central Park ma sui tanti grattaceli di questa città Il sole deve essere sorto da poco e c’è una luce rosata che si riflette sulle pareti di vetro e acciaio dei grattaceli intorno a noi. Mentre Giovanni poltrisce ancora un po’ a letto ne approfitto per fare qualche foto e qualche ripresa. Chiamiamo quindi alla Reception per sentire se sono arrivate le nostre valigie… purtroppo ancora no. Giovanni per oggi non si potrà cambiare.
Prima delle otto siamo già in strada pronti a scoprire la città Prima però è indispensabile fare una bella colazione. Se la mattina Giovanni non mangia qualcosa è infatti impossibile riuscire a farlo svegliare veramente. Visto che la sera prima verso la Fifth Avenue non abbiamo visto nessun posto dove mangiare, stamani decidiamo di girare verso la Sixth Avenue ovvero l’Avenue of the Americans.
Qui varie tavole calde si susseguono e ne scegliamo una di cui, a parte il giorno successivo, diventeremo clienti affezionati. L’esplorazione dell’America comincia da qui… ordiniamo french toast, frittelle con succo d’acero un Cappuccino medio (????) per Giovanni e un succo d’arancia per me. Ancora una volta il cibo Americano non ci convince. French toast e frittelle si riveleranno un po’ troppo dolci e pesanti per i nostri gusti, ma non potevamo non provare. Il Cappuccino ci viene servito in un bicchiere di carta tipo coca cola che però è più grande di quelli che di solito in Italia ci danno se ordiniamo la misura grande e soprattutto il cappuccino è bollente. Giovanni quindi inizia subito a comportarsi da perfetto Americano e, dopo aver mangiato tutto, esce in strada accompagnato dal suo bel bicchierone di Cappuccino. E adesso che si fa? Decidiamo di iniziare ad esplorare New York dalla Fifth Avenue. La macchina fotografica entra subito in azione, ma quant’è difficile inquadrare per intero i grattacieli!!! Davanti a Tiffany faccio una foto a Giovanni e al suo bicchierone di Cappuccino… questa foto la intitoleremo: COLAZIONE DA TIFFANY ovviamente.
Passeggiando in direzione downtown (la topografia di questo posto ormai mi è già familiare… strano! Di solito io mi perdo sempre) troviamo prima la St Paul Cathedral e poi la famosa St Patrick’s Cathedral. Purtroppo la facciata principale è in ristrutturazione, ma dentro ci colpisce in tutta la sua bellezza gotica. Uscendo scatterò la foto che resterà per me la migliore del viaggio, ovvero il lato sinistro della chiesa specchiato nei grattacieli che la affiancano. Continuiamo a camminare, la prossima tappa è il Rockfeller Center. La famosa piazza che d’inverno si trasforma in una pista di ghiaccio e dove per natale viene addobbato l’albero di natale più famoso del mondo, vista così sembra quasi piccola. Sarà perché i grattacieli che la contornano sono così alti! Decidiamo di salire subito sul Top of the Rock, la terrazza panoramica di questo famoso grattacielo. Fortunatamente non c’è praticamente nessuno, in effetti è ancora molto presto. In pochi minuti siamo sull’ascensore. Le luci si spengono, il soffitto si illumina di mille lucine e comincia la vertiginosa ascesa verso il Top of the Rock. Arrivati in alto ci troviamo su una terrazza con possibilità di salire poi su un’altra terrazza ancora. Le terrazze sono spaziose, consentono di vedere New York da ogni angolazione e soprattutto si ha una vista privilegiata sull’Empire State Building. Sfruttando lo scarso affollamento, riusciamo a scattare tantissime foto praticamente indisturbati.
Arriva quindi il momento di scendere e, tornati in basso, abbandoniamo la Fifth Avenue in direzione Times Square. Passiamo accanto al Radio City Music Hall, attraversiamo l’Avenue of the Americans, e siamo nel cuore di Broadway. Anche di giorno Times Square è un’esplosione di luci, colori, schermi, e gente strana. C’è il Cowboy con il cappello da texano, gli stivaloni da cowboy e il costume a stelle strisce (citato anche nelle guide turistiche), ci sono decine e decine di persone che urlando provano a venderti di tutto (giri sui bus turistici, biglietti per gli spettacoli, giornali e riviste), ci sono molti poliziotti e c’è anche molto traffico. Veramente sembra di essere al centro del mondo. Entriamo da Toy’R’Us e ci stupiamo davanti alla ruota panoramica interna al negozio o alla ricostruzione dei monumenti di New York fatta con il lego… c’è anche King Kong che scala l’Empire State Buildng. Usciamo senza comprare niente e ci ritroviamo ad osservare i mille teatri e i cartelloni dei vari musical in programma. Vogliamo assolutamente vederne uno. Sulla Lonely Planet consigliano di acquistare i biglietti presso il TKTS Booth, dove è possibile risparmiare acquistando i biglietti rimasti per gli spettacoli della sera stessa. Per stamani ci limiteremo a vedere dov’è, anche perché apre nel pomeriggio, ripromettendoci di tornare nei giorni successivi per acquistare i biglietti.
Nel frattempo è arrivata l’ora di mangiare, ci guardiamo sospettosi in giro… stavolta non vogliamo sbagliare… Alla fine veniamo attirati dal Bubba Gump. Il nome ci suona familiare e come ci avviciniamo non possiamo che riconoscere i mille richiami al film Forrest Gump… io adoro quel film quindi la scelta non può che ricadere su questo ristorante. Veniamo accolti con estrema cortesia e gentilezza e fatti accomodare al nostro tavolo. Sopra il tavolo ci sono due targhe in latta, una con scritto “Go Forrest Go” e una con scritto “Stop Forrest”, una cameriere sorridentissima ci spiega che quando avremo bisogno di lei basterà esporre la targa con scritto “Stop Forrest” e lei arriverà subito. Se esponiamo l’altra invece verremo lasciati in pace… ingegnoso!!! Ordiniamo due diverse cose, una per me e una per Giovanni, tutto ovviamente a base di gamberi. Il ristorante è pieno di oggetti e foto ispiranti al film e per un po’ mi diverto ad abbinare i vari oggetti alle scene in cui gli stessi compaiono. Prima che arrivino le nostre portate andiamo in bagno per lavarci le mani e qui resto sorpresa nel leggere una targhetta dove, richiamando una legge, s’invitano i dipendenti del ristorante a lavarsi le mani dopo aver fatto uso del bagno. Resto sorpresa, c’è bisogno di scriverlo e addirittura di fare una legge? Scoprirò che questa targhetta sarà presente in tutti i bagni di qualsiasi ristorante, fast food o tavola calda che visiteremo. Gli Americano sono così… le cose le disciplinano e poi, a differenza di noi, le rispettano. O almeno questo è quello che abbiamo percepito noi. Sembrerà sciocco, ma se funziona, poi così sciocco non è.
Arrivano i gamberi e ci accorgiamo subito che le porzioni sono molto più abbondanti delle nostre. I gamberi sono buonissimi e quando abbiamo finito siamo più che sazi. Paghiamo il conto lasciando una generosa mancia alla cameriera, è stata così carina che non possiamo fare diversamente. Una volta usciti continuiamo la nostra passeggiata verso downtown. Manhattan però è un po’ troppo grande e quindi un pezzo lo facciamo in metro. Facciamo l’indispensabile abbonamento che ci consentirà di prendere ogni mezzo di New York illimitatamente per tutta la nostra permanenza in città e scendiamo nel mondo che sta sotto le strade di New York. A questo punto s’impone una piccola annotazione… la metropolitana di New York è molto efficiente e sicura, il problema è che come scendi le scale un caldo soffocante ti avvolge. L’aria è afosa e veramente non si vede l’ora di uscire per tornare a respirare. Appena però monti sul metro le cose cambiano… qui l’aria condizionata viene sparata a tutta forza e lo sbalzo termico è impressionate. Stessa cosa se entri in un qualsiasi negozio, ristorante o Hotel… praticamente impossibile stare a mezze maniche senza rischiare un colpo! Gli Americano non ci fanno caso, anzi, evidentemente a loro piace così. Per noi però è abbastanza assurdo… anche Giovanni, che ha sempre caldo, ha trovato questo sbalzo termico un po’ esagerato!!! Una volta riemersi in superficie passiamo davanti al City Hall, visitiamo la Saint Paul Chapel, una piccola Chiesa vicino a Ground Zero che contiene i ricordi di quel terribile giorno. Proseguiamo fino a giungere nel luogo dove un tempo svettavano le Twin Towers. Adesso c’è solo un cantiere, una voragine neanche molto grande se si pensa a cosa c’era prima e all’enormità della tragedia che l’ha creata. Non si riesce a vedere quasi niente, è tutto schermato, ma d’altra parte ormai non c’è neanche molto da vedere, solo qualche gru al lavoro. Facciamo il giro, fiancheggiando le altre costruzioni che componevano il World Trade Center e che miracolosamente sono rimate illese. Non ci sono parole per descrivere i ricordi che subito riaffiorano. Cerchiamo i luoghi della commemorazione delle vittime, ma a parte la Saint Paul Chapel, non riusciamo a trovare quasi niente. Decidiamo quindi di proseguire la nostra passeggiata e ci dirigiamo quindi verso Wall Street, passando davanti alla Trinity Church e al Bowling Green, con la statua del toro simbolo della borsa d New York. Wall Street è una stretta viuzza dove troviamo giocolieri e saltimbanchi che allietano i turisti. Credo che il fatto che sia agosto faccia perdere un po’ dell’atmosfera tipica di questa zona. Arriviamo davanti alla borsa più famosa del mondo, il cui colonnato è ricoperto da un’enorme bandiera Americana… che effetto essere veramente là, il centro dell’economia del mondo tante volte visto nei telegiornali della sera! Continuiamo a passeggiare e raggiungiamo la parte portuale… vogliamo vedere il ponte di Brooklyn. Quando ci affacciamo sull’Hudson scopriamo che di ponti ce ne sono due, ed entrambi belli e spettacolari. Uno è il ponte di Brooklyn l’altro quello di Manhattan… oddio ma quel è l’uno e quale l’altro? Siamo così contenti di essere qui, che non capiamo più niente!!! Ma si dai è il primo dei due, no forse il secondo… vabbè, la cosa si risolve facilmente. Una bella foto ad entrambi e prima di lasciare New York avremo sicuramente modo di dirimere l’arcano!!! Iniziamo ad essere un po’ stanchini, all’ora di cena abbiamo l’escursione, prenotata dall’Italia, per vedere New York di notte. Decidiamo quindi di tornare in Hotel per rinfrescarci e riposarsi un po’. Ancora le valigie non sono arrivate. Giovanni ormai ha un barbone nero e la maglietta e i jeans rischiano di diventare armi chimiche. Se domani non arrivano, dovremo proprio decidere a fare un po’ di shopping.
Alle 19:00 siamo già al punto di ritrovo per il nostro tour by night. Riconosciamo alcune delle coppie che erano in aereo con noi, due chiacchiere, un po’ d’attesa e poi si parte. Il tour si rivela quasi subito una mezza delusione. Praticamente ci dirigiamo subito verso Brooklyn, senza passare davanti a nessuna delle attrazioni di Manhattan, imbocchiamo il ponte di Manhattan, parallelo al ponte di Brooklyn (risolvendo prima del previsto il dubbio su quale fosse l’uno e quale l’altro) e siamo arrivati. Qui ci consentono di passeggiare per il quartiere, fino a raggiungere il molo, dal quale vedremo il sole calare sullo skyline di New York. Il quartiere è molto carino e ordinato. Le case sono tutte ben mantenute e ognuna ha le sue tipiche scale antincendio. Vediamo anche quella i cui esterni sono stati utilizzati nel telefilm “I Robinson”. Un attimo prima che la guida ce lo dicesse, io stavo proprio pensando che gli assomigliava tanto. E poi finalmente vediamo Manhattan! I grattacieli si illuminano al calar della notte mostrandoci New York così come l’abbiamo vista mille volte sui poster e sulle cartoline. Ma stavolta è reale. Lo spettacolo è bellissimo, ma non possiamo non notare l’assenza di quelle due torri che, alte praticamente il doppio delle altre, rendevano l’effetto ancora più speciale.
Sicuramente valeva la pena venire fin qua. A posteriori però sicuramente era meglio venirci da soli, senza i vincoli di un gruppo. Torniamo a Manhattan e andiamo a cena tutti insieme. Il ristorante è vicino al Rockfeller Center e una volta finita la cena ce ne torniamo a piedi all’Hotel. Delle valigie ancora nessuna traccia! Saliamo in camera e stanchi morti per il tanto camminare e per le tante emozioni vissute, ci addormentiamo come sassi.
3° GIORNO: MARTEDÌ 5 AGOSTO 2008 VISITA A MISS LIBERTY La nostra 3° giornata newyorkese inizia presto: alle 4:00 di mattina ci suona il telefono della camera: sono finalmente arrivate le valigie!!! Dormiamo ancora un po’ e poi finalmente ci ricongiungiamo con il nostro bagaglio. Giovanni finalmente si può radere e cambiare… ci voleva proprio. Per colazione decidiamo di cambiare e ci fermiamo alla tavola calda accanto a quella dove siamo stati ieri. Iniziano le colazioni a base di uova e cappuccino (stavolta small) di Giovanni. Io vado sul classico con fetta di torta e succo di arancia. Il cibo non è male ma come ambiente ci piace meno di quello del giorno prima… Seguendo il consiglio della guida che ci ha portato ieri sera a Brooklyn, usciamo presto per andare ad imbarcarci per Liberty Island: è arrivato infatti il momento di conoscere Miss Liberty. Arriviamo a Battery Park e già c’è una coda lunghissima. Ormai però siamo qui e non vogliamo cambiare programma. Acquistiamo i biglietti per visitare sia Liberty Island che Ellis Island e pazientemente ci mettiamo in fila. Ci vorranno quasi due ore, ma alla fine ci imbarchiamo. Dal battello riusciamo a fare delle bellissime foto sia a South Manhattan che alla Statua della Libertà. Arrivati sull’isola sbarchiamo e lì ci attende la prima delusione: sapevamo che non si può più salire fino alla corona di Miss Liberty ma contavamo di arrivare almeno fino al primo piedistallo. Invece niente. I biglietti sono pochissimi e vanno acquistati con una settimana di anticipo. Sono arrabbiatissima. Certo non cambia molto, ma io ormai ci contavo. Giovanni cerca di consolarmi e, anche se con qualche difficoltà, alla fine ci riesce. Fotografiamo la statua da ogni possibile angolazione, ci riposiamo un po’ nel parco che la circonda e poi ripartiamo alla volta di Ellis Island. Qui troviamo quello che era il centro di prima accoglienza per gli immigrati che dall’Europa arrivavano nel nuovo mondo. Adesso c’è un museo che spiega il funzionamento del centro e mostra foto ed oggetti dell’epoca. Ci sono anche dei computer su cui è possibile ricercare informazioni sui propri antenati, ma né io né mio marito abbiamo avi che sono emigrati in America.
Mangiamo qualcosa nel punto ristoro all’interno del museo e ci mettiamo ad uno dei tavolini all’esterno per goderci la bella giornata… si sta proprio bene.
Dopo aver scattato ancora qualche foto riprendiamo il traghetto e torniamo sulla terra ferma (si fa per dire, visto che anche Mahnattan è un’isola) . La giornata è calda e l’attesa per il traghetto della mattina è stata abbastanza stancante. Non vogliamo però tornare ancora in albergo e quindi cerchiamo di recuperare un po’ di forze girellando per Battery Park. Nel parco ci sono tantissime famiglie che si godono il soleggiato pomeriggio estivo. I bambini sono tantissimi, praticamente ogni famiglia ha ameno tre figli se non quattro. È una cosa che colpisce, soprattutto se confrontata con la crescita zero dell’Italia. Nel parco ci sono moltissime fontane che spruzzano direttamente dal pavimento, senza particolari recinzioni e i bambini si divertono a giocare con l’acqua. Anche questa si rivelerà una costante dell’America. Moltissimi sono anche gli artisti di strada. Noi ci fermiamo a osservare tre ragazzi che a ritmo di Rap, cantato direttamente a loro, fanno evoluzioni ginniche pazzesche. Il numero si conclude con uno dei ragazzi che riesce a saltare sopra una fila di 6 bambini… una cosa veramente pazzesca. Entusiasmati dallo spettacolo decidiamo di proseguire e prendiamo la metro fino a Union Square. Qui visitiamo il negozio della Virgin ed poi ci incamminiamo verso il Green Village, sede della New York University. Il quartiere è tranquillo, i grattacieli sono spariti e tante casette colorate si affacciano dalle varie vie. Arriviamo fino a Washington Square dove ci divertiamo ad osservare un anziano signore che insegna ad una giovane ragazza a giocare a scacchi. Ogni volta che mette a segno una mossa vincente esulta esclamando “TAAADAAA”. La madre della ragazza li osserva e anche lei come noi si diverte. Alla fine la partita finisce in parità e noi riprendiamo il nostro giro, stavolta in direzione uptown. Arriviamo così fino alla New York Library. La biblioteca è meravigliosa e decidiamo di entrare. L’interno è ancora più bello, girelliamo qua e là fino a quando arriviamo in una sala dove sono conservati i pupazzi che hanno ispirato le storie di Winnie The Pooh. L’emozione è alle stelle, purtroppo è vietato fare foto, ma non posso non mandare subito un messaggino ad una mia collega che adora l’orsetto e i suoi amici.
Una volta lasciata la biblioteca ci dirigiamo verso Grand Terminal, l’Empire State Buiding e il Crysler Building. Anche qui restiamo incantati dall’eleganza di questi edifici e a malincuore, dopo aver scattato numerose foto, li salutiamo per fare rotta verso l’Hotel… stasera infatti siamo troppo distrutti per affrontare anche la coda chilometrica per salire sull’Empire State Building.
Una volta in Hotel le poche energie rimaste ci abbandonano definitivamente e quindi rinunciamo alla cena e ce ne andiamo direttamente a letto. Per noi è una novità saltare il pasto, ma in questo viaggio non sarà l’ultima volta che lo faremo.
4° GIORNO: MECROLEDÌ 6 AGOSTO 2008 SU E GIÙ PER HARLEM Nel nostro programma è prevista la visita di Central Park, ma quando ci alziamo ci accorgiamo che la giornata è nuvolosa, pioviscola addirittura, e proprio non è il tempo adatto per un giro nel parco più grande di New York. Decidiamo di cambiare itinerario e dopo il rito della colazione nella tavola calda del primo giorno, prendiamo la metro in direzione Harlem. Quando riemergiamo in superficie sembra di essere in un’altra città. Le strade sono larghissime, e le case intorno non troppo alte. In giro c’è pochissima gente, così come c’è pochissimo traffico. L’impressione generale è quella di un quartiere carino, che avrebbe bisogno di una rinfrescata. Non avvertiamo sensazione di pericolo. Tutto appare tranquillo, l’unica cosa che fa un po’ effetto è che ci sia così poca gente in giro. Passeggiamo seguendo l’itinerario consigliato dalla Lonely Planet, tra case e chiese, attraversiamo un parco e ci dirigiamo quindi verso la zona portoricana di Harlem. Proviamo a trovare il murales citato nella guida ma senza successo e alla fine sbuchiamo davanti all’estremità nord di Central Park. Nel frattempo ha smesso di piovere, il sole fa capolino tra le nuvole, senza riuscire però ad uscirne. Il risultato è un’afa pazzesca che fiacca le gambe. Ci riposiamo un po’ su una panchina di Central Park. Davanti a noi c’è un bel laghetto, persone che fanno jogging ci sfilano davanti, la sensazione è di pace e tranquillità. Dopo un breve riposino è tempo però di ripartire. Abbandoniamo Central Park, la cui visita ormai è rimandata a domani, e torniamo verso nord… la nostra destinazione è la Cathedral Churh of St John the Divine. Quest’enorme chiesa, ancora da ultimare, è il più grande luogo di culto degli Stati Uniti. L’interno è sobrio ma molto bello. Impressionate è l’enorme vetrata denominata “Great Rose Window”.
Dopo aver visitato la chiesa ci dirigiamo verso la Columbia University, che è a due passi da dove ci troviamo. Entrare in un vero college Americano per me è una grande emozione. Entriamo un po’ titubanti nel campus e ci troviamo circondati dagli studenti che lo popolano. Non c’è ancora molta gente, credo che anche per gli Americani il mese di agosto sia dedicato alle vacanze. Vari palazzi ci circondano. L’imponenza e l’eleganza di tali costruzioni ci affascinano. Decido che voglio assolutamente una felpa dell’università, ma non so dove trovarla. In particolare non sappiamo se possiamo entrare negli edifici che vediamo. Chiediamo quindi ad una studentessa che gentilmente ci spiega dove andare.
A questo punto è arrivato il momento di fare un’altra digressione… gli Americani si sono rivelati molto diversi da come gli immaginavo. Pensavo fossero un popolo un po’ borioso invece ho trovato persone sorridenti e molto molto gentili, con un gran senso civico. In molti casi non abbiamo avuto neanche bisogno di chiedere informazioni, perché già qualcuno si era accorto della nostra difficoltà e si era offerto di darci le indicazioni di cui avevamo bisogno. Non è stato raro trovare persone che vedendoci fare foto a qualche attrazione si sono avvicinate proponendoci di scattarci una foto… e la foto non era mai una sola, ma sempre due e con due diverse inquadrature… per essere sicuri di accontentarci. Ovunque siamo andati mi sono sempre sentita ben accolta e mai in pericolo, neanche di notte o in metropolitana. Sicuramente anche in America ci sono problemi, ma il clima che in generale si respira è quello di un popolo molto accogliente. Ritorniamo adesso al nostro racconto… Troviamo il negozio che ci è stato indicato. Dentro c’è di tutto… dai libri ai quaderni, dai pupazzi all’abbigliamento, tutto rigorosamente con il logo dell’Università Noi scegliamo una felpa azzurra con cappuccio per me e una t-shirt grigia per Giovanni. Felici usciamo, sentendoci un po’ neo studenti anche noi. Poco più avanti troviamo un ristorantino carino con i tavolini all’aperto lungo la via. Ormai il sole è finalmente uscito e decidiamo di fermarci qui a mangiare qualcosa. Prendiamo un panino per me e un hamburger per Giovanni e tante patatine. Mangiamo soddisfatti e ci godiamo questo bell’inizio di pomeriggio.
Finito il pranzo riprendiamo la metro e andiamo a Times Square… è arrivato il momento di comprare i biglietti per Broadway. Al TKTS Booth c’è molta coda, ma sembra scorrere abbastanza velocemente e quindi ci mettiamo in fila. Abbiamo deciso di andare a vedere Mary Poppins perché, conoscendo già un po’ la storia, riusciremo a seguire meglio lo spettacolo. Ci siamo appena messi in coda che un signore del TKTS Booth passa urlando a squarciagola che non sono accettate le carte di credito. Guardiamo sconsolati nel portafoglio e ci accorgiamo che non abbiamo sufficiente contante. Decidiamo che io resterò in coda mentre Giovanni andrà a cercare un ATM. Non facciamo in tempo ad accordarci che la ragazza dietro di noi gentilmente si intromette spiegando a Giovanni dove andare per trovare l’ATM. Giovanni va e rapidamente torna e iniziamo a parlare con la ragazza. Abita nel Bronx e adora i musical. Oggi è lì per comprare i biglietti per la Sirenetta. Quando scopre che siamo in luna di miele si esalta e si fa raccontare l’itinerario del nostro viaggio. È veramente carina e parlando con lei l’attesa scorre veloce. Una volta entrati in possesso dei biglietti decidiamo di andare anche all’agenzia con la quale abbiamo fatto il tour by night per acquistare i biglietti per l’Empire State Building. Speriamo in questo modo di fare un po’ meno di coda.
Torniamo quindi in albergo per prepararci… lo spettacolo inizia presto e prima vogliamo cenare.
Dopo una bella rinfrescata e dopo esserci riposati un po’ usciamo e troviamo una pizzeria in una street vicino all’Avenue of the Americans. La pizza è un po’ più grande delle nostre e ci viene servita su un vassoio rialzato che viene posizionato al centro del tavolo. Mangiamo affamati e con gusto, non saremo in Italia ma la pizza ci sembra abbastanza buona. Arriviamo a Broadway con un po’ di anticipo e cerchiamo il nostro teatro. Quando entriamo restiamo stupefatti. Il teatro è molto grande, si sviluppa n verticale, con palchi anche molto in alto. I muri sono decorati con palchi rosa e verdi e motivi che ricordano un bosco delle fate. Ci sono tantissimi bambini e pochissimi posti vuoti. Lo spettacolo inizia e veniamo catapultati nel magico mondo di Mary Poppins con la scenografia che si alza, si sposta, scompare per ricreare di volta in volta la casa dei Banks, la camera dei bambini, il parco, i tetti di Londra ecc. La storia credo sia più fedele al libro che non al film, ma comunque riusciamo a seguirla abbastanza bene. Quando alla fine Mary Poppino vola via sulle nostre teste siamo ormai completamente coinvolti e soddisfatti. All’uscita Times Square tutta illuminata si staglia davanti ai nostri occhi. C’è tantissima gente, quasi non si riesce a camminare. Vista così fa ancora più impressione.
Decidiamo di tornare in Hotel, domani ci aspetta Central Park.
5° GIORNO: GIOVEDÌ 7 AGOSTO 2008 PASSEGGIATA PER CENTRAL PARK Mi alzo preoccupata, ma appena apro le tende una bella giornata di sole mi saluta. Finalmente visiteremo Central Park!!! Ancora una volta andiamo alla nostra tavola calda per fare colazione. Il ragazzo che sta alle griglie ormai ci riconosce e ci saluta. Ci sentiamo newyorkesi anche noi!!! Entrando in Central Park la prima cosa che ci stupisce è che i rumori della città quasi svaniscono, anche se i grattacieli sono lì, tutt’intorno a noi. C’è un sacco di gente che fa jogging, o va in bicicletta. Hanno corsie preferenziali, che stiamo attenti a non invadere. I prati sono curatissimi e si alternano a boschetti e laghetti. Ci sono tantissimi campetti da baseball, dove grandi e bambini possono divertirsi a giocare. Gli scoiattoli sono ovunque, come del resto in ogni spazio verde che c’è in città, e sembrano non avere troppa paura di noi. Proviamo a dargli qualcosa da mangiare e subito si avvicinano. Seguiamo il percorso suggerito dalla Lonely Planet e visitiamo l’Umpere Rock, lo Sheep Meadow, il parco divertimenti, la Latteria (Dairy), lo zoo e il Delacorte Clock con gli orsi danzanti, il Mall e alcune delle sue statue, il Naumburg Bandshell e la Bethesda Fountain. Davanti a questa bellissima fontana si trova un laghetto dove è possibile noleggiare delle barche a remi. La cosa sembra carina e molto romantica e decidiamo di noleggiarne una per mezz’ora. Ci divertiamo come bambini a remare in lungo e in largo. Dopo un po’ di esitazioni ci prendiamo la mano e ci alterniamo alla guida della nostra barchetta. La mezz’ora passa veloce e noi ci rimettiamo in marcia. Attraversiamo il Ramale, un fitto bosco famoso per il bird watching. Per fortuna che c’è Giovanni perché altrimenti io, che dopo pochi passi avevo già perso l’orientamento, chissà quando sarei riuscita ad uscirne. Arriviamo quindi al Belvedere Castle e poi all’obelisco di Cleopatra e al Great Lawn dove tantissima gente gioca a baseball, mangia o semplicemente si riposa. Proseguiamo fino al Jacqueline Kennedy Onassis Reservoir. Si tratta di una lago veramente grande, intorno al quale tantissima gente fa jogging. Decidiamo di rinunciare ad un giro completo del lago in favore di un bel pranzetto. Dopo aver scartato vari ristoranti e tavole calde decidiamo di prenderci un hot dog ad uno dei tanti baracchini che si trovano nel parco. Ci mettiamo su una panchina e un po’ mangiando un po’ sonnecchiando ci godiamo l’atmosfera.
Rispetto al nostro itinerario ci manca solo un tributo a Strawberry Field, luogo dedicato alla memoria di John Lennon.Quando arriviamo troviamo tante persone che gli rendono omaggio suonando e cantando alcune delle sue canzoni più famose. Ci tratteniamo anche noi qualche minuto e poi decidiamo di tornare indietro, questa volta però in metro. A Columbus Circle prendiamo un gelato e girelliamo ancora un po’ per Central Park, guardiamo alcune persone giocare a scacchi, ma nessuno è simpatico come il signore trovato a Washington Square. Ci dedichiamo allora all’osservazione di alcuni ragazzi che giocano a baseball. Stasera vogliamo vedere il tramonto dall’Empire State Building e quindi pian piano ci dirigiamo verso l’Hotel. Prima però facciamo una sosta da Fao Shwartz. Il negozio è grandissimo ed ha una serie completa di pupazzi enormi dedicati agli animali, ci sono giraffe, orsi, tigri. Vediamo la mitica tastiera da pavimento suonata da Tom Hanks nel film Big, ma non la proviamo, preferendo lasciarla ai tanti bambini che sono lì a suonarla. Usciamo senza comprare niente, forse perché c’era veramente troppo tra cui scegliere!!! Dopo esserci cambiati partiamo alla volta dell’Empire State Building. La coda è molto lunga, ma l’impressione è che con i biglietti acquistati il giorno prima la potremo saltare. In realtà è solo un’impressione. Le file infatti sono più d’una e dopo quella per l’acquisto dei biglietti ce n’è una per i necessari controlli antiterrorismo, una per prendere il primo ascensore, che ti porta più o meno all’80° piano e una per il 2° ascensore che ti porta all’86° piano. Dopo più di un’ora di attesa finalmente possiamo accedere alla famosa terrazza. C’è tantissima gente e trovare un buon posto per godere del tramonto e scattare qualche foto non è facile. Rispetto a quella del Top of the Rock è molto più piccola e, anche se sicuramente il panorama vale la pena di essere visto, la visita si rivela estenuate. Le code infatti andranno fatte anche per scendere! Sing! Quando usciamo sono affamata, stanca morta e le scarpe mi fanno male. Prendiamo un autobus e ci rechiamo sulla Second Avenue dove ci hanno detto che ci sono tanti locali carini dove magiare. Troviamo un ristorante in stile italiano, non molto affollato che ci ispira. Ordiniamo due piatti di pasta e rimaniamo molto soddisfatti. Sicuramente non è come in Italia ma non è neanche male! Quando usciamo un temporale ci sorprende… siamo senza ombrello e l’alternativa è trovare un taxi o bagnarci come pulcini. Scegliamo la prima alternativa e abbiamo la fortuna che proprio in quel momento uno si ferma a pochi metri da noi per far scendere delle persone. Ci tuffiamo letteralmente dentro al taxi e in pochi minuti, felici per la fortuna che abbiamo avuto, siamo all’Hotel. Anche stasera la stanchezza è tantissima e il nostro lettone comodo ci accoglie per una bella dormita!!! 6° GIORNO: VENERDÌ 8 AGOSTO 2008 GITA A CONEY ISLAND Oggi è il nostro ultimo giorno a New York. Come sempre andiamo a fare colazione alla nostra tavola calda. Convinco Giovanni a interrompere le sue colazioni a base di uova (e colesterolo), facendo leva sulla costosità della sanità Americana e sul fatto che non è carino trasformarmi da neo sposa a vedova nel giro di pochi mesi dal matrimonio.
Prendiamo la metro e ci indirizziamo verso il Palazzo di Vetro dell’ONU. Lungo la strada ci fermiamo nel giardino botanico interno alla hall del Palazzo della Ford, scattiamo alcune foto e ci stupiamo ancora una volta dell’originalità di questi Americani. Davanti al Palazzo di Vetro sventolano le bandiere di tutti i paesi del mondo e la statua di Giò Pomodoro splende sotto i raggi del sole. Visitiamo l’interno ma rinunciamo al tour guidato. Oggi infatti sono previste delle riunioni e sarebbe visitabile solo una sala. Decidiamo quindi che è arrivato il momento di affrontare il Ponte di Brooklyn. Prendiamo l’autobus e scendiamo qualche fermata prima del ponte. Vogliamo attraversare Little Italy e Chinatown. Little Italy consiste praticamente in una via, decorata come i paesini del sud in occasione della festa del patrono. L’atmosfera è allegra e anche se forse i locali italiani ormai non sono più tali, è piacevole camminare tra gli odori e i colori che ricordano l’Italia. Tutti i palazzi hanno le famose scale antincendio alle pareti e anche queste sono un tripudio di colori, ora verde, ora rosso, ora blu… Nel quartiere si trova anche la St Patrick Old Cathedral, dove si ritrovava la comunità irlandese prima della costruzione della St Patrick Cathedral sulla Fifth Avenue. Intorno a Little Italy si estende Chinatown. Qui l’atmosfera ci piace meno. C’è un sacco di gente ma anche molto sporco. I classici prodotti alimentari cinesi fanno mostra di sé nelle vetrine e sui marciapiedi, ma l’effetto non è molto invitante. Nel parco al centro del quartiere c’è un gran caos, con un sacco di uomini a giocare a mahjjong. Tutti parlano cinese e anche le scritte sono in cinese. Veniamo via rapidamente, non troppo convinti da quel microcosmo all’interno di New York. Pochi passi e siamo all’imbocco del Ponte di Brooklyn. Saliamo convinti, decisi a percorrerlo tutto. Il ponte è bellissimo e permette di godere di un bel panorama su Lower Manhattan e sul vicino ponte di Manhattan. La Statua della Libertà è poco più lontana e la passeggiata è molto piacevole tra una foto e l’altra. Arrivati a Brooklyn decidiamo di prendere la metro per andare ad una pizzeria consigliataci dal proprietario della ferramenta davanti a casa nostra. Dobbiamo cambiare due linee ma siamo invogliati dalla promessa di una buona pizza. Quando riemergiamo in superficie sembra di essere in un altro mondo. Il sole se né andato e durante il nostro viaggio deve essere piovuto, ci sono pozze ovunque. In giro non c’è nessuno e in generale la zona sembra molto più degradata di quelle visitate fino ad oggi. Ci incamminiamo un po’ dubbiosi, sperando che la pizzeria non sia molto lontana, anche perchè sono quasi le due e abbiamo molta fame!!! Dopo pochi metri la troviamo e… non crediamo ai nostri occhi. È una piccolissima pizzeria a taglio, con un paio di tavolini all’interno e con un aspetto abbastanza sciatto e di scarsa pulizia. Dietro al bancone ci sono due ragazzi di origine messicana. Ma che cosa ci ha consigliato?!?!? Meno male che non ci siamo venuti a cena come inizialmente ipotizzato. Ormai però siamo qui e decidiamo di mangiare. La pizza è abbastanza alta e sofficiona, la classica pizza a taglio da turista… veramente niente di che, ma abbiamo fame e quindi va bene così. Chiediamo ai ragazzi dietro il banco di portare i saluti del nostro amico della ferramenta al titolare della pizzeria. Non siamo sicuri che abbiano capito.. Pazienza… noi ci abbiamo provato.
Riprendiamo la metro e ci dirigiamo a Coney Island. Il parco dei divertimenti di New York sembra essersi fermato agli anni sessanta, sia per quanto riguarda le attrazioni che per le insegne e addirittura i registratori di cassa sono pezzi da antiquariato. Il parco è separato dall’oceano da una bella passerella in legno e da una larga spiaggia sabbiosa. Abbiamo il costume, ma il sole viene e va, e quando arrivano le nuvole fa anche un po’ freddo! C’è molto vento e Giovanni, che prova a mettere i piedi nell’acqua, torna velocemente indietro con la coda fra le gambe… ma come fanno questi Americani a fare il bagno qui??? Girelliamo un po’, proviamo a vincere un pupazzetto lanciando una palla contro dei barattoli di latta e poi decidiamo di visitare il vicino acquario. L’acquario non è molto grande ma alcuni pesci sono veramente impressionati. Gli animali che ci sorprendono di più sono le nutrie di mare (praticamente grandi quanto un piccolo orso) e i leoni marini, che definire enormi è dire poco!!! Il parco è pieno di famiglie, e ancora conto minimo tre/quattro bambini per coppia. Decidiamo di assistere allo spettacolo delle foche ma a metà il cielo si copre e ricomincia a piovere. Non desistiamo e infatti poco dopo splende nuovamente il sole.
Dopo aver visitato tutti i vari padiglioni, torniamo al parco divertimenti, perché Giovanni vuole provare le montagne russe, ovvero il famoso: “CICLONE”. Io preferisco aspettarlo a terra. Si piazza al centro del trenino, da solo, tutti gli altri sono in testa o in coda. Lo spettacolo è esilarante. Tutti a braccia alzate che urlano divertiti… Giovanni invece si tiene con tutte le sue forze e sembra avere anche gli occhi chiusi. Quando scende lo prendo un po’ in giro e lui mi racconta che la giostra effettivamente è rimasta quella di tanti anni fa… tutta in legno, con alcune assi mancanti, che ad ogni curva scricchiolano sinistre… Il suo terrore non era tanto per il percorso quanto per il rischio che tutto potesse crollare da un momento all’altro.
Ormai il pomeriggio volge al termine e quindi nuovamente saliamo sulla metropolitana. Per tornare al nostro albergo occorrerà infatti quasi un’ora di viaggio.
Ci laviamo e poi scendiamo per la cena. Decidiamo di non allontanarci troppo, dobbiamo infatti preparare le valigie, domani inizia il nostro viaggio on the road. Sotto l’albergo c’è questo ristorante locale, che da quel che riusciamo a capire è di un ex giocatore degli Yankees. Il locale è pieno di palle da baseball autografate e di altri cimeli vari. Ci sono vari maxischermi tutti sintonizzati sullo spettacolo inaugurale delle olimpiadi. Oggi infatti iniziano le Olimpiadi di Pechino o, come la chiamano gli Americani, di Bejing. Affascinati dallo spettacolo creato dai cinesi mangiamo piacevolmente. L’hamburger di Giovanni si rivelerà il migliore dell’intera vacanza. Vorremo attardarci ancora un po’, ma preferiamo riposare per essere pronti a partire presto la mattina successiva. Arrivati in albergo saldiamo il conto dove scopriamo che ci hanno addebitato 60 euro per telefonate che avremmo potuto fare ma che non abbiamo mai fatto. Vabbè, siamo in viaggio di nozze, non ci vogliamo far turare da niente. Una volta in camera approfitto del ferro e dell’asse da stiro per sistemare alcune magliette che in questi giorni ho lavato. Rimetto tutto in valigia e mi addormento per l’ultima volta nel mio bel lettone comodo.
7° GIORNO: SABATO 9 AGOSTO 2008 SI PARTE PER NEWPORT Ci svegliamo di buon’ora e dopo aver messo in valigia le nostre ultime cose, con un po’ di tristezza andiamo per l’ultima volta a fare colazione alla nostra tavola calda… il ragazzo della griglia ci sorride, probabilmente anche lui si sta chiedendo quando partiremo. Torniamo in albergo, ritiriamo i bagagli e prendiamo un taxi per l’aeroporto JFK dove, alla Hertz, ci attende la nostra auto a noleggio prenotata dall’Italia. Rapidamente espletiamo le formalità e ci viene consegnata la chiave della nostra Santa Fè verde e il numero del posto auto dove potremo trovarla. Ma come, nessuno ci accompagna? Nessuno ci spiega niente? Ok, andiamo. Carichiamo i bagagli, ci accomodiamo nell’abitacolo e… E adesso che si fa? È la prima volta che ci troviamo davanti ad un’auto con il cambio automatico, Giovanni sa più o meno come funziona, ma sul cambio è indicata anche qualche lettera di cui ci sfugge proprio la funzione. Un po’ timorosi mettiamo in moto e partiamo. All’uscita c’è una specie di casellante a cui chiediamo lumi sul funzionamento del cambio. Ci dice di usare solo la marcia per andare e quella per parcheggiare, oltre ovviamente alla retro marcia. Tutto il resto non ci servirà. Rassicurati partiamo. Ho preso dall’autonoleggio una cartina che ci guiderà fino a che non cambieremo stato, poi vedremo di compare una carta stradale. Pochi chilometri, qualche svincolo… e abbiamo già sbagliato. Tiriamo qualche imprecazione, cerchiamo di capire come riportarci alla situazione iniziale e poi finalmente imbocchiamo la strada giusta e iniziamo a rilassaci. Mentre Giovanni guida io cerco di capire il funzionamento della radio, che ha tre frequenze e un miliardo di canali, e del trip control, che consente di impostare la velocità di marcia (che noi fisseremo sempre qualche miglio sotto il limite) e di staccare praticamente il piede dall’acceleratore. La strada è una specie di autostrada a 3 corsie per senso di marcia, circondata da boschi o campagna. Numerosi cartelli avvertono che per chi sporca sono previste costose multe e intorno infatti non si vede neanche una cartaccia. Le uscite sono numerate, molto frequenti e ben segnalate. Alcune sono a destra, altre a sinistra!!! Per noi questa è una novità. Gli autogrill non sono lungo la strada, ma prima di ogni uscita sono segnalati e uscendo si trovano più o meno vicino. Tutti vanno poco sopra il limite, ma nessuno sfreccia a velocità folli come spesso accade in Italia. Noi non vogliamo rischiare e rispettiamo scrupolosi tutti i limiti… va bene conoscere la gente del posto, ma dei poliziotti ne facciamo volentieri a meno!!! Il traffico va via via aumentando, fino a quando ci ritroviamo in coda praticamente fermi. Perdiamo più tempo del preventivato, ma la prendiamo con filosofia. Verso l’ora di pranzo decidiamo di trovare un posto dove mangiare qualcosa e dove acquistare una cartina del New England. Dopo un paio di tentativi andati a vuoto, in quanto una volta usciti c’era da fare troppa strada per trovare l’area di sosta, troviamo un MacDonald con affianco un grosso supermercato. Sembra proprio quel che fa per noi. Da MacDonald paghiamo solo ciò che mangiamo, mentre le bevute sono gratuite e a refill illimitato. La qualità dei panini ci sembra inferiore rispetto a quella a cui la catena ci ha abituato in Italia, rimaniamo un po’ interdetti, ma ancora una volta la fame ha la meglio. Dopo aver spazzolato via i nostri hamburger ci spostiamo al supermercato dove cerchiamo una carta stradale. Guidare in America non ha presentato per noi nessun problema. Con una cartina e seguendo le indicazioni stradali non si rischia di sbagliare strada. Qualche problema in più ovviamente lo si trova entrando nelle città. 300 euro per noleggiare un navigatore però a noi sono sembrate un po’ troppe e, armati delle mappe stampate da viamichelin non abbiamo avuto quasi mai problemi.
Risaliamo sulla nostra auto e ci apprestiamo a fare le ultime miglia che ci separano da Newport. Abbandoniamo l’autostrada e prendiamo delle strade interne punteggiate da carinissime casette e chiesette di legno. S’inizia già a respirare l’atmosfera del New England. Intorno c’è molto verde e tanti boschi ombrosi. Alla fine siamo sul ponte (a pagamento) che consente di entrare nel Rhode Island. Sotto di noi scorre un canale enorme, dove alcuni motoscafi navigano indisturbati. Iniziamo a cercare il nostro Hotel ma questa vola, senza le guide di viamichelin che stamperemo solo dopo dall’albergo, abbiamo un po’ di difficoltà. Giriamo un po’ a vuoto e chiediamo due volte indicazioni. La seconda volta è quella buona e finalmente troviamo il nostri “Inn at Newport Beach”. L’albergo si affaccia sulla bellissima e grandissima spiaggia sabbiosa di Newport. La nostra camera è enorme, con due lettoni queen size, un divano, una scrivania, la cabina armadio e un bel bagnetto. C’è legno ovunque e l’arredamento è sui toni del bianco e del blu. Un’intera parete è finestrata e si guarda direttamente sull’oceano… sembra di essere in una barca di lusso… sarà l’albergo più bello dell’intera vacanza. Disfiamo velocemente le valige e siamo di nuovo in marcia per scoprire Newport. Purtroppo sono già le 16:00 passate e non abbiamo molto tempo. Sulla guida apprendiamo che questa città si caratterizza per la presenza delle grandi case coloniali costruite a cavallo tra il 1800 e il 1900 dai ricconi di New York. Ci dirigiamo verso quella che a ragione è ritenuta la più bella: “The Breakers”. Si tratta della villa coloniale di una famiglia di industriali di New York, magnati del settore ferroviario, i Vanderbilt. Siamo fortunati e riusciamo a fare il biglietto per uno degli ultimi tour guidati. L’interno della casa infatti non è visitabile autonomamente. Nell’attesa del nostro turno facciamo un giro dello splendido giardino… l’erba è perfettamente rasata, alberi secolari sono davanti alla casa, mentre sul retro aiuole fiorite decorano il giardino insieme a statue e panchine in pietra. Il prato poi degrada dolcemente verso l’oceano dove una bassa scogliera separa il mare dalla proprietà. E da qui il nome della casa, che si riferisce per l’appunto all’infrangersi delle onde sulle scogliere. Ci mettiamo quindi in coda ed entriamo. La nostra guida, come anche le altre che vediamo è una ragazza diversamente abile, è dolcissima e molto brava. La sua dizione è ottima e con calma ci spiega le caratteristiche di ogni stanza. Anch’io, che con l’inglese ho qualche difficoltà, riesco a seguire le spiegazioni e quel che perdo lo recupero confrontando quello che ho capito io con quello che ha capito Giovanni. Alla fine della visita usciamo molto soddisfatti, facciamo ancora qualche foto in giardino e poi torniamo all’auto per fare un giretto veloce di Newport prima di tornare all’Hotel. Newport è una cittadina carinissima. Tutte le case, perfettamente mantenute, sono in legno e ognuna ha un colore diverso da quelle vicine. L’atmosfera è molto piacevole e ancora una volta ringraziamo la ragazza dell’Agenzia di Viaggio per i suoi preziosi consigli… questa deviazione ce l’ha infatti consigliata e ”imposta” proprio lei. Torniamo in Hotel, ci diamo una rinfrescata, ci cambiamo e siamo pronti per la cena. Chiediamo alla ragazza alla reception se ci consiglia un buon ristorante. Le alternative che ci dà sono due: il Red Parriot e un ristorante che mi pare si chiamasse Pier 16. Riprendiamo l’auto e in pochi minuti abbiamo parcheggiato. Passiamo davanti ad una chiesa sulla cui facciata una targa ricorda che lì si sono sposati John Fitzgerald Kennedy e Jacqueline Bouvier. Che emozione… ancora una volta ho la sensazione di stupore per il fatto di trovarmi proprio lì, negli Stati Uniti, dove tutto per me è nello stesso tempo nuovo ma conosciuto. Facciamo un giro del centro alla ricerca dei ristorante che ci hanno consigliato. Ci accorgiamo che è pieno di turisti e marinai nelle loro candide uniforme. Non c’è però neanche uno straniero in giro, sono tutti Americani tranne noi. C’è atmosfera di vacanza e per la prima vola ci sembra di essere nella vera America, non quella stereotipata per i turisti. Troviamo i due ristoranti e decidiamo per il Red Parriot. Entriamo, ma il locale è pieno. Si fanno lasciare la nostra carta di credito e ci consegnano un telecomando che suonerà appena si libererà il tavolo per noi. Siamo un po’ dubbiosi, ma vediamo che tutti fanno così e ci fidiamo. Grazie a questo telecomando potremo girellare ancora un po’. Entriamo in un negozio di antiquariato, guardiamo qualche altra vetrina, vediamo una gelateria in stile italiano dove fanno le cialde a mano. Il tempo passa rapidamente e d’improvviso il telecomando s’illumina e inizia a vibrare. Ceniamo a base di ottimo pesce, ad un tavolo vicino alla vetrata che dà sulla via principale, guardando la gente che passa. Alla fine usciremo soddisfatti. Facciamo ancora due passi per vedere i lampioni di Pelham Street che la nostra guida ci segnala essere i primi lampioni a gas degli Stati Uniti. Torniamo in Hotel e decidiamo di goderci i due bei lettoni… sfruttando tutto il posto a disposizione mi lascio affondare nei 4 cuscini che mi spettano e felice mi addormento.
8° GIORNO: DOMENICA 10 AGOSTO 2008 DA NEWPORT A CAPE COD Il sole che filtra dalle finestre ci sveglia, apriamo le tende e l’oceano è di nuovo lì davanti a noi. Siamo dispiaciuti che è già arrivato il momento di lasciare questo Hotel… ci è piaciuto proprio tanto e Newport ci ha fatto innamorare. Facciamo colazione in Hotel e prima di andarcene decidiamo di fare ancora un giro. Lasciamo le valigie alla reception e torniamo alla chiesa della sera prima per vederne anche l’interno. Oggi è domenica e quando arriviamo ci sono già delle persone in attesa del rito. Ci accolgono sorridenti, ci chiedono da dove veniamo e poi ci raccontano la storia della chiesa. Vorremmo trattenerci per la funzione, ma abbiamo poco tempo e a malincuore salutiamo i nostri novi “amici” e ci incamminiamo verso il Cliff Walk. Lasciamo l’auto in una zona a disco orario, ma in macchina proprio non riusciamo a trovarlo. Alla fine scriviamo su un foglio l’ora di arrivo e speriamo in bene. In quel momento passa un signore che ci spiega che un vigile passa ad intervalli regolari e segna con un bollino le ruote delle auto in sosta. Se dopo l’orario consentito trova ancora auto con il bollino fa la multa. La spiegazione ci diverte e non riusciamo decidere se questo sistema sia efficiente oppure no. Abbandoniamo i nostri dubbi e iniziamo la passeggiata. La Cliff Walk è un sentiero pedonale che costeggia l’oceano da una parte e dall’altra i parchi delle meravigliose ville al mare dei newyorkesi. Le case sono una più bella dell’altra e facciamo foto su foto e filmati su filmati. Dopo un’oretta di passeggiata decidiamo di rientrare nell’interno per vedere qualche altra casa coloniale. La scelta cade su Rosecliff, visitabile in parte con una guida e in parte con l’audioguida, e Marble House, visitabile solo con l’audioguida. Rosecliff è famosa per il suo roseto e per il salone da ballo dove sono stati girati numerosi film tra cui il Grande Gatsby, mentre Marble House è un tripudio di marmo rosso, verde, bianco ecc. Bellissimo anche il giardino, all’interno del quale spicca la case del thè in perfetto stile giapponese. Passiamo davanti a Beachwood ma rinunciamo alla visita limitandoci a scattare qualche foto degli esterni e dell’auto anni ‘30 che capeggia davanti all’ingresso. Ci sarebbe ancora da visitare The Elms, ma è già mezzogiorno e la nostra visita di un paio d’ore si è protratta anche troppo. A malincuore andiamo a riprenderci le valigie e ci mettiamo in marcia per la nostra prossima tappa: Cape Cod.
Viaggiamo per circa un’oretta poi ci fermiamo per mangiare qualcosa. Lungo la strada troviamo un ristorante in stile Happy Days. Il locale è molto grande e ci sono i classici tavolini con le panche in pelle ai due lati. Non c’è molta gente, anche perché è un po’ tardi, e i commensali presenti sono bambini e anziani… il posto ci piace. In attesa delle ordinazioni (un’insalata un po’ particolare per me e un hamburger per Giovanni) ci portano una zuppiera di popcorn… conquistandoci definitivamente!!! Mangiamo con gusto, sfruttiamo il refill illimitato e dopo aver pagato e lasciata l’immancabile mancia ci rimettiamo in movimento. Fortunatamente oggi non c’è molto traffico e con la nostra carta stradale non fatichiamo a trovare Hyannis, la cittadina di origine dei Kennedy, dove noi alloggeremo. L’Heritage House ci appare davanti come entriamo nel paese… stavolta siamo stati fortunati. Davanti a noi è arrivato un minivan con tre coppie di italiani cinquantenni. Rimpiangiamo già un po’ la senzazione di unici stranieri che avevamo provato a Newport. Aspettiamo pazientemente alla reception il nostro turno, mentre i nostri connazionali fanno diventare matte le ragazze dell’Hotel. Alla fine entriamo in possesso della chiave della nostra camera e saliamo per disfare i bagagli. L’albergo è meno curato dell’altro, ma la camera è pulita, abbastanza spaziosa con i suoi due letti queen size, e c’è anche la piscina interna con l’idromassaggio e la piscina esterna… non ci possiamo lamentare. Mentre ci sistemiamo sintonizziamo la tv sulle Olimpiadi di Bejing… ormai saranno per noi un rassicurante compagno di viaggio. Impareremo a conoscere Phelps, sua mamma e la squadra di ginnastica artistica e i commentatori ci faranno compagnia nei momenti passati in Hotel o prima di addormentarci.
Dopo una veloce rinfrescata torniamo alla reception, perché vogliamo prenotare per il girono successivo l’escursione in barca per avvistare le balene. Lì troviamo il marito di una delle tre copie di italiani. Sta chiedendo se è possibile avere una camera con vista piscina come hanno avuto le altre due coppie, al posto della loro che invece è con vista sul parcheggio. La ragazza della reception chiede perplessa se la camera presenta dei problemi e l’uomo, sconsolato risponde che il problema non è la camera…Ma il problema è sua moglie… intuiamo che la vista piscina, peraltro niente di che, abbia fatto ingelosire la donna che ha tormentato il marito per avere una camera uguale a quella degli amici. Cerchiamo di non ridere, ma non è facile! Quando è il nostro turno chiediamo qualche suggerimento, paghiamo l’escursione per le balene e usciamo diretti a Sandwich, una delle cittadine che fanno parte della penisola di Cape Cod. Per arrivarci scegliamo la Old King’s Hwy segnalata dalla guida per le bellissime abitazioni d’epoca che la fiancheggiano. La strada è immersa nel verde ed effettivamente le classiche abitazioni in legno spuntano frequenti. Dopo un’oretta di strada arriviamo a Sandwich proviamo a dirigerci verso il giardino botanico che pare sia molto bello, purtroppo lo troviamo già chiuso, sono infatti passate le 17:30. Decidiamo allora di passeggere in quello che dovrebbe essere il centro. In giro non c’è praticamente nessuno, passano pochissime macchine e c’è moltissima tranquillità. Visitiamo così il cimitero, dove spiccano numerose bandiere Americane sulle tombe, il mulino ad acqua, Hoxie House che è la più antica casa di Cape Cod e ci scattiamo qualche foto affacciati sul laghetto che divide in due la cittadina e davanti alle case più carine. Ad un certo punto vediamo un signore che ci guarda. Immagino si chieda chi siamo, in giro infatti non c’è l’ombra di turisti. Continuiamo a farci qualche foto e lo vedo che si avvicina… si starà chiedendo che facciamo qui e cosa vogliamo… alla fine vedo che ci saluta e ci chiede se vogliamo che ci faccia una foto insieme!!! Ah, la gentilezza Americana, ancora non mi ci sono abituata e continuo a stupirmi!!! Lo ringraziamo per la cortesia, facciamo la foto e calorosamente lo salutiamo… lui se ne va tutto contento… si vede proprio che ha avuto piacere di aiutarci!!! Ritorniamo all’auto e ci dirigiamo verso l’Hotel… l’idea di una bagnetto in piscina prima di cena non ci dispiace proprio… Giovanni opta per qualche vasca nella piscina interna, io preferisco il tepore dell’idromassaggio. Rinfrancati da questo momento di relax, usciamo per la cena. Siamo vicini al centro e quindi decidiamo di andare a piedi. I semafori per i pedoni qui fanno il count down per avvertire quanto tempo resta prima che scatti il rosso. Ancora una volta resto sorpresa e annoto mentalmente questa diversità rispetto all’Italia. Dopo aver valutato un po’ di locali ne scegliamo uno che ha i tavolini lungo il marciapiede e che prepara il pesce. Mangiamo di gusto e poi torniamo all’Hotel dove guardiamo un po’ di olimpiadi prima di dormire! 9° GIORNO: LUNEDÌ 11 AGOSTO 2008 ALLA SCOPERTA DELLE BALENE Questa mattina abbiamo l’escursione per l’avvistamento delle balene. Il tempo però oggi è bruttissimo. Il cielo è completamente coperto e piove… speriamo che la gita non venga annullata.
Chiediamo alla reception e veniamo rassicurati. Decidiamo di fare colazione in Hotel, anche se probabilmente la pagheremo un po’ di più. Partiamo quindi per Barnstable, da dove ci imbarcheremo su una delle Hyannis Whale Watcher Cruise. Il tempo non migliora e quando arriviamo scopriamo che i parcheggi vicino al porto sono costosissimi. Proviamo a vedere se c’è posto un po’ più lontano, ma tutti gli altri parcheggi sono per i residenti. Capiamo che tutto è predisposto per spennare i poveri turisti. Vabbè, speriamo che almeno ne valga la pena. Ci imbarchiamo e riusciamo a conquistare due poltroncine. Navighiamo per circa un’oretta e mezzo e poi la speaker della barca ci invita ad uscire sul ponte perché abbiamo già intercettato una prima balena. Il tempo è ancora nuvoloso, non piove quasi più, ma tira un vento freddo e umido. Tutto scompare però quando avvistiamo la prima balena. Si muove sinuosa vicino a noi, per niente intimorita e poi si rituffa sul fondo con un elegante movimento di coda. Navighiamo ancora un po’ e le balene aumentano, prima una coppia, poi tre balene, arriveremo vederne 5 o 6 tutte insieme. La parte che ci piace di più è quando salgono in verticale a bocca aperta. L’acqua diventa verde chiaro, milioni di uccelli si precipitano in quel punto e alla fine appare la bocca della balena spalancata verso il cielo. Gli uccelli vi si fondano per rubare il pesce che vi è rimasto impigliato. La balena si fa fare la pulizia orale e poi dà uno sbuffo e se ne va. Lo spettacolo è quando 6 bocche tutte insieme si aprono sotto i nostri occhi. L’avvistamento dura più di un’ora e, nonostante il freddo, ci divertiamo come bambini. Arriva quindi il momento di tornare indietro. Il tempo ha un nuovo peggioramento e ora diluvia proprio. Meno male che fino ad ora ci ha graziato. Io ne approfitto per riposarmi un po’. Arrivati in porto ci accorgiamo che rispetto alla partenza adesso c’è bassa marea. Un piccola imbarcazione è arenata sulla sabbia, e gli occupanti cercano di farla ripartire. Scendiamo dalla nostra motonave sotto il diluvio universale e ci rifugiamo nella nostra auto. Barnstable non presenta grande interesse, con questo tempo non vale neanche la pena di provare a visitare il giardino botanico di Sandwich e quindi decidiamo di tornare a Hyannis per il pranzo. Troviamo un chioschetto che fa pesce fritto, ci fermiamo lì. Il sole intanto sta provando a fare capolino tra le nuvole. Hyannis proprio non ci dice niente e quindi dopo pranzo decidiamo di arrivare sino all’estremità di Cape Cod dove si trova Provincetown, famosa per la comunità gay che vi risiede.
Affrontiamo con calma le lunghe miglia che ci separano dalla cittadina e ci fermiamo un paio di volte ad ammirare le dune di sabbia davanti all’oceano e un faro antico, che è stato spostato dalla sua posizione originale per preservarlo dal mare e dalle intemperie. Quando arriviamo a Provincetown sono ormai le 17:00 passate. Camminiamo nell’allegra cittadina, dove innumerevoli bandiere della pace svolazzano ovunque. C’è tantissima gente e un sacco di negozietti carini. Facciamo un po’ di shopping e io vengo colpita da un negozietto che vende solo decorazioni di natale. L’atmosfera che si respira è di allegria e di vacanza, mi piacerebbe potermi trattenere almeno per tutta la serata, ma molte miglia ci attendono e quindi decidiamo per una cena anticipata in un ristorantino con la terrazza coperta che guarda l’oceano. Ci prendiamo una pizza e poi un dolce a testa suscitando l’ilarità dei commensali vicini al nostro tavolo. I due dolci infatti sono enormi, ne sarebbe bastato probabilmente uno. In barba alle calorie li affrontiamo contenti e ridiamo insieme alle persone che ci circondano.
Dopo cena facciamo ancora due passi in giro, completando la visita del piccolo centro e poi torniamo all’auto. Giovanni vuol provare a vedere se trova un altro faro e quindi invece di prendere la strada di casa continuiamo ad andare avanti. Dopo qualche miglio il sole comincia a calare e di fari neanche l’ombra. Nuvole sinistre si riavvicinano a noi e a malincuore invertiamo senso di marcia e torniamo indietro. Viaggiamo per un po’ tranquilli quando all’improvviso nella notte si scatena il finimondo. Un acquazzone torrenziale ci sorprende, l’asfalto, stranamente visto che qua deve piovere molto, non è drenante e colonne di acqua si alzano intorno a noi. Il rischio di acquaplanning è altissimo e noi riduciamo la velocità il più possibile, creando una lunga coda dietro di noi… La strada infatti è ad una sola corsia e non ci possono superare. Pazienza, forse a qualcuno abbiamo salvato la vita impedendogli di correre con quel tempaccio. Quando arriviamo all’Hotel siamo sfiniti. La tensione si è portata via le ultime forze rimaste da questa lunga giornata. Faccio rapidamente le valigie e poi di corsa a nanna.
10° GIORNO: MARTEDÌ 12 AGOSTO 2008 BOSTON… ARRIVIAMO Ci svegliamo dopo una nottata di tuoni, acqua e vento forte. Apriamo le finestre e una grigia giornata ci accoglie nuovamente. Decidiamo di uscire per fare colazione e poi di partire subito per Boston dove staremo solo due giorni. Scegliamo un bar vicino all’Hotel in stile Happy Days e, forse ancora un po’ intontiti dal sonno e dallo stress della sera precedente, senza rendercene conto ordiniamo frittelle per me è frittelle formato banana split per Giovanni. Ci portano due porzioni immense di frittelle. Quelle di Giovanni sono ricoperte di banana, panna montata e sciroppo alla fragola, le mie sono affogate nel burro e nel succo d’acero. Ormai l’errore è fatto e poi ci dispiace far buttare via tutto quel cibo e quindi facciamo del nostro meglio per mangiare il più possibile. Questa scelta si rivelerà un grave errore, almeno per me. Appena terminata la colazione infatti mi assale un senso di nausea che faticherò a scacciare per l’intera giornata. Cerco di farmi forza e partiamo in direzione Boston. Abbiamo in programma di arrivare verso l’ora di pranzo, e di dedicare l’intero pomeriggio alla visita di Harvard, lasciando il tour della città al giorno successivo. Lungo la strada scopro che passeremo vicino a Yale, vorrei fermarmi, ma il tempo a nostra disposizione è quello che è e la guida avverte che non sono consentiti giri turistici all’interno del campus. A malincuore rinuncio e verso le 11:00 siamo già a Boston. Io, pur con la cartina davanti, perdo l’orientamento dopo appena pochi metri dall’ingresso in città. Giovanni, miracolosamente invece ha un’intuizione e in un baleno siamo davanti al Back Bay Hilton. Parcheggiamo l’auto nel parcheggio privato dell’Hotel ed entriamo per fare l’accettazione. La Hall è molto grande e c’è un gran movimento. Scopriamo purtroppo che il parcheggio ci costerà sui 70 euro. Valutiamo di riportare subito l’auto alla Hertz, tanto non ci servirà più, ma alla fine rinunciamo per non perdere tempo. Ci viene assegnata ancora una volta una stanza con due letti queen size. È buffo effettivamente passare buona parte della nostra luna di miele in letti separati, ma come comodità nulla da dire. La stanza è grande, con la cabina armadio e una poltrona allungata dove si può stendere anche le gambe. C’è addirittura la playstation anche se a pagamento. Il tempo sta migliorando e quindi decidiamo di non poltrire oltre. Ci dirigiamo verso la metro che ci consentirà d arrivare ad Harvard. Lungo la strada troviamo la stazione dei pompieri e decidiamo di fermarci per dare un’occhiata. In Italia degli amici ci hanno consigliato di comprare qualche maglietta dai pompieri o dalla polizia. Sono di buona qualità e finanziano la raccolta fondi per le famiglie dei colleghi deceduti in servizio. I pompieri ci accolgono sorridenti ma quasi subito suona un allarme e devono scappare per un intervento. L’acquisto è rimandato alla prossima volta.
A questo punto urge fare una piccola digressione. In ogni città, paese o gruppo di case che abbiamo visitato, tre sono le cose che non mancano mai: un parco pubblico (Central Park è il più famoso ma non è né l’unico né il più grande), la stazione dei pompieri (che spesso è architettonicamente molto carina e all’interno della quale potete ammirare i mezzi più grandi e brillanti mai visti prima d’ora, dei veri gioielli) e la macchina per fare il ghiaccio. Si, avete capito bene, il ghiaccio. In qualunque Hotel o stazione di servizio ne troverete una. Qualsiasi bibita vi verrà servita è al 70% composta di ghiaccio che, sbattendo gelato sulle vostre gengive, vi impedirà di dare una bella sorsata dissetante. Ho passato 25 giorni ripromettendomi di chiedere una bibita senza ghiaccio, ma non ho mai avuto il coraggio. E con il refill illimitato non c’è scampo. Appena il ghiaccio si scioglie arriva una solerte cameriera che ti riempie il bicchiere nuovamente di bei cubetti tintinnanti!!! Il ghiaccio e l’aria condizionata sono i veri idoli degli Americani!!! La metropolitana di Boston è più moderna di quella di New York. Il numero delle linee è ovviamente più limitato, ma consente comunque di spostarsi facilmente da un punto all’altro della città Quando riemergiamo in superficie siamo ad Harvard e finalmente è tornato a splendere il sole. Valutiamo se fare un tour guidato, ma poi rinunciamo e decidiamo, cartina alla mano, di fare da soli. Qui il campus è molto più grande di quello della Columbia. Visitiamo, dall’esterno, la biblioteca, la facoltà di legge, quella di economia, la mensa, c’è anche un’enorme stazione dei pompieri (che vi dicevo???). C’è abbastanza movimento, gli studenti iniziano a tornare, anche se ancora manca un po’ all’inizio del nuovo anno accademico. Visitiamo anche qualche negozietto di abbigliamento… voglio incrementare la mia collezione di felpe universitarie, che per adesso conta solo quella della Columbia. Dopo un po’ di ricerche ne trovo una che mi piace e il gioco è fatto. Pranziamo con un’insalata mista nel bar che troviamo all’interno del padiglione di matematica. Nel prezzo sono compresi sette gusti a scelta e l’inserviente non ci da pace finché non gli abbiamo scelti tutti e sette. Se ci fermavamo a sei non andava proprio bene. Quando rinunciamo ai condimenti strani ci guarda male per la seconda volta, ma ha pietà di noi e ci lascia andare. Intorno a noi ci sono vari studenti con i computer portatili che grazie alla connessione wireless, presente praticamente ovunque qui in America, vanno tranquillamente su internet. I computer sono piccoli, come ormai sempre più spesso si vedono nei negozi. Quasi quasi ne vorremmo uno anche noi. Sicuramente durante il nostro viaggio ci sarebbe stato molto utile.
Girelliamo ancora un po’, ci soffermiamo a guardare dei giocatori di scacchi, e poi riprendiamo la metropolitana… vogliamo fare una visitina anche al famoso MIT (Massachussets Institute of Technology). Il MIT non è un vero e proprio campus, le varie sedi sono sparse nell’area intorno Massachussets Avenue. Nello spostarci dall’una all’atra ci perdiamo e finiamo davanti ad una strana costruzione in stile modernista dalle forme e dai colori eccentrici. Sulla guida non se ne fa menzione ma noi ci divertiamo a fotografare questi coni rovesciati e le pareti storte in cui ci specchiamo grazie ai particolari materiali utilizzati per costruirlo. Una volta tornata a casa, dopo svariate ricerche, scoprirò che si tratta dello Stata Center di Gehry, che fa parte del MIT e che vi si trovano l’Institute’s Computer Science and Artificial Intelligence Laboratory (CSAIL) e il Department of Linguistics and Philosophy Alla fine, passando tra stabilimenti industriali e binari per il trasporto merci, ritroviamo la sede principale del MIT: il palazzo riporta in alto i nomi dei più famosi scienziati mondiali tra cui l’italiano Galileo. Entriamo. I corridoi sono ampi e pieni di bacheche su cui vengono pubblicizzati le varie attività dei gruppi studenteschi e altri annunci vari. Prendiamo il giornale dell’università, in distribuzione gratuita nei corridoio, e camminiamo tra le varie aule dove già gruppi di studenti si ritrovano per studiare. C’è anche una stanza di musica, nella quale degli studenti stanno provando. Percorriamo l’intero corridoio e sbuchiamo sul retro dell’edifico, che si affaccia su un ampio parco dove degli studenti giocano a palla. L’edifico presenta una cupola sferica, tipo Pantheon, è maestoso e ancora una volta invidio un po’ chi lo frequenta. Accanto a noi passano due studenti… parlano italiano!!!! Vorrei fermarli e scambiarci due parole, ma poi lascio perdere. Usciamo dal retro e ci troviamo lungo il Charles River, il fiume che attraversa Boston. Le barche a vela lo solcano placide, attraversiamo l’Harvard Bridge e ci incamminiamo verso il nostro Hotel che è poco distane da lì. Incontriamo così tantissimi tifosi di baseball che vanno a vedere la partita dei Red Socks, la squadra simbolo di Boston. Sulla guida ho letto la storia di questa squadra che da cenerentola del campionato dopo anni e anni è riuscita a battere gli acerrimi rivali: i New York Yenkess. La storia mi fa sentire una certa affinità con questa squadra… da tifosa della Fiorentina capisco i sentimenti che devono aver provato questi tifosi, e decido che anch’io terrò per i Boston Red Socks. Propongo a Giovanni di andare a vedere la partita… non sappiamo però come funziona, andiamo così in albergo e chiediamo alla reception. Ci dicono che internamente all’Hotel c’è una sorta di Box Office, ma che ormai è chiuso. Comunque anche domani ci sarà una partita e quindi possiamo sentire la mattina successiva se ci sono ancora posti.
Saliamo in camera, e ci rilassiamo così tanto che alla fine tentenna tentenna rinunciamo alla cena. La partita di baseball la danno in tv e apprendiamo che mediamente dura sulle 4 ore e che la stessa partita viene giocata per 5 giorni successivi, poi si cambia avversario e si giocano altre 5 partite e via dicendo. Rimaniamo un po’ stupiti e ci chiediamo se valga veramente la pena andare. In campo non succede praticamente niente per 3 ore e mezzo, poi gli avversari dei Red Socks riescono a superarli. In un finale accesissimo un grassone dei Red Socks riesce a colpire l’ultima palla disponibile facendo un fuori campo e trotterellando felice porta la sua squadra al trionfo. Ci esaltiamo! Che sport assurdo però!!!! 11° GIORNO: MERCOLEDÌ 13 AGOSTO 2008 SULLE TRACCE DEL FREEDOM TRAIL La mattina, appena svegli, ci precipitiamo al box office dove ci dicono che i biglietti sono esauriti ma se volgiamo possono sentire in giro e probabilmente riusciranno a trovarci dei posti da 20 euro a circa 80 euro l’uno. Ma come? Il box office dell’Hotel che si rivolge ai bagarini? La spesa ci sembra un po’ troppo alta e anche loro ci consigliano di aspettare il pomeriggio per vedere se le quotazioni scendono un po’. Seguiamo il loro consiglio e andiamo a fare colazione, per la prima volta, da Starbucks! Per Giovanni il rito del caffé Americano è diventato un’abitudine impedibile. Da buon amante del caffé pensavo che lo avrebbe odiato invece lo apprezza sia per l’alto tasso di caffeina, sia per i significati socioculturali che gli associa… ovvero lo fa sentire più Americano. In molte camere di Hotel c’è la macchinetta per farlo e quindi, oltre a quello che prende al mattina o mentre siamo in giro, spesso ne beve uno anche la sera. A New York ha voluto provare anche quello freddo, scoprendo però con orrore che si trattava semplicemente di caffé con immersi dentro i tanto odiati cubetti di ghiaccio, praticamente uno sciacquone memorabile! Il caffé però è anche fonte di qualche problema. In primo luogo Giovanni non prende il caffé. Bensì il cappuccino che anche in America scrivono così ma che inspiegabilmente pronunciano in modo incomprensibile. Ogni volta c’è quindi il balletto tra Giovanni e il barista per capire se quello che gli stanno servendo è effettivamente ciò che lui ha ordinato. Si perché nei bar Americani paghi la consumazione, dai il tuo nome, e qui c’è il secondo problema perché nessuno capisce mai come si scrive Giovanni, e poi l’ordinazione passa automaticamente via computer a chi prepara le bevande e te le serve… quando quindi chiamano Giovanni non riescono mai ad intendersi. Una volta abbiamo sbagliato e ci siamo portati via l’ordinazione di qualcun altro!!! Alla fine il rito del caffé si trasforma per me, che ne sono solo spettatrice, in una esilarante scenetta da commedia all’italiana… chi lo avrebbe mai detto!!!! Dopo colazione prendiamo la metropolitana in direzione del Boston Common da dove inizia il Freedom Trail ovvero il sentiero di mattoncini rossi che ci porterà a scoprire i monumenti più significativi di Boston legati alla guerra per l’Indipendenza. L’idea è molto originale e anche molto utile. Il percorso è lungo circa 2,5 miglia e ci impegna per tutta la mattina. All’ora di pranzo abbiamo appena finito il tour e decidiamo di tornare al Quincy Market che già abbiamo incontrato seguendo i mattoncini rossi. Il Quincy Market è un enorme capannone nel cui interno si susseguono bancarelle su bancarelle di cibo. C’è di tutto, dalla frutta, alla pizza, dagli hamburger alla cucina cinese, tutto ovviamente take away. La scelta è così vasta che diventa difficile decidersi. Alla fine scegliamo due banchini diversi e ognuno prende ciò che più lo attira. Fuori dal mercato la zona è molto allegra, con mercatini vari e artisti di strada. Vediamo fare anche qui il numero Rap che già abbiamo visto al Battery Park, ma stavolta l’acrobata fa solo finta di saltare sulla fila di 6 bambini… Troppo furbo così!!! Passeggiando arriviamo fino al porto, compriamo una tazza da caffé termica per il nostro amico Claudio, cerchiamo il cappellino dei Red Socks che abbiamo visto la sera precedente ad un tifoso, ma senza successo e poi la stanchezza e un inizio di dolori mestruali ci fanno decidere per un ritorno anticipato in Hotel. Prima di salire in camera ci informiamo sul costo dei biglietti per la partita di stasera… invece di diminuire adesso costano addirittura 90 euro. Complice il mio mal di pancia decidiamo di rinunciare. Ormai distrutta prendo un antidolorifico e mi addormento stremata. Al mio risveglio non sto ancora benissimo, ma è quasi ora di cena e Giovanni non ne vuol proprio sapere di rinunciarci per due sere consecutive. Mi faccio forza e dopo una doccia rigeneratrice usciamo. Decidiamo di restare in zona e finiamo in un ristorante particolarmente elegante. Il ragazzo che ci serve è giovane, probabilmente uno studente che arrotonda le sue finanze lavorando un po’. È molto disponibile e quando capisce che siamo stranieri ci aiuta a capire meglio cosa ordinare.
Si perché a prima vista gli Americano non capiscono che sei straniero. Io riesco ad individuare un italiano a miglia di distanza ma loro, così abituati alla varietà delle razze e degli accenti con cui viene parlato l’Americano, non si rendono conto che noi siamo stranieri. In più di un’occasione abbiamo dovuto precisarlo, altrimenti pensano semplicemente che non li abbiamo sentiti. La cosa più buffa è quando si sono avvicinati per chiederci informazioni stradali… una follia!!! Essendo dotati di mille piantine delle città abbiamo risolto regalandone una delle nostre. Per loro quindi siamo si turisti, ma non stranieri!!! Ordiniamo pesce, anche se decidiamo di rinunciare all’aragosta che pare da queste parti sia molto buona. La scelta si rivela corretta e quando usciamo siamo belli sazi. Proviamo a salire sulla terrazza del Prudential Center, ma ormai è già chiusa… peccato la vista dall’alto della città illuminata sarebbe stata molto bella. Rientriamo in Hotel, ancora una volta incrociando i tifosi dei Red Socks. Ci dispiace per la partita ma visto come sto non è stato un peccato non aver trovato i biglietti. Una volta in camera sistemo i bagagli, domani mattina lasceremo infatti la easth coast per trasferirci in California. Vado a letto e… il mal di pancia rincomincia. Passo una notte infernale. Verso le una di notte sgranocchio alcuni biscotti del frigo bar per poter prendere un altro antidolorifico e quando finalmente riesco ad addormentarmi è già ora di alzarsi… singh!!!! 12° GIORNO: GIOVEDÌ 14 AGOSTO 2008 IN VOLO VERSO LA CALIFORNIA L’aereo dell’American Airlines per San Francisco parte alle 7:55, quindi verso le 5 siamo già in piedi. Riprendiamo l’auto dal parcheggio interno dell’Hotel e ci dirigiamo verso l’aeroporto. La città dorme ancora e per strada non c’è praticamente nessuno. Trovare la strada giusta non è difficile. Riconsegniamo l’autovettura alla Hertz e con il bus della compagnia di noleggio auto arriviamo al nostro terminal. La coda per il check-in è abbastanza lunga, prima di partire voglio chiamare a casa e poi devo andare in bagno. Fatto sta che arriva il momento dell’imbarco e non siamo riusciti a fare colazione. Giovanni mi mette il muso e quando scopre che a bordo tutto è a pagamento si arrabbia proprio. Sulla tv dell’aereo danno “An Italian Job”, un remake di un vecchio film reinterpretato da Charlize Theron e incentrato su un furto messo a segno utilizzando le mini. Il film piace a Giovanni, che l’ha già visto, e piano piano mi ci appassiono anch’io. Dopo il film dormicchiamo un po’ e prima di atterrare a San Francisco, dopo 6 ore di volo, convinco Giovanni a comprare un paio di panini al tacchino per placare la fame che rischio ci porti sull’orlo del divorzio. Quando atterriamo sulla baia californiana ogni screzio è ormai risolto.
Al ritiro bagagli la prima ad arrivare è la mia valigia, poi arriva quella con on le scarpe e infine quella di Giovanni, che arrabbiato si chiede perché la sua è sempre l’ultima. Usciamo dall’aeroporto e sotto un bel sole decidiamo di prendere un taxi per arrivare fino all’albergo. Il taxista è un bel chiacchierone e ci allieta durante il percorso con aneddoti su San Francisco. Il nostro Hotel è ancora un Hilton, l’Hilton Fisherman’s Wharf. Rispetto a quello di Boston è più piccolo, stavolta nessun grattacielo. Anche la camera, ancora con due letti queen size è più piccola, ma comunque pulita, accogliente e con gli immancabili ferro da stiro e macchinetta per il caffé. Disfiamo le valigie e decidiamo di dirigerci verso il Fisherman’s Wharf per pranzare. Intimoriti dalle minacce circa le basse temperature sulla baia ci portiamo la giacca di jeans, anche se proprio sembrerebbe non servire. Arrivati sul porto un bel vento ci accoglie. Ovunque ci sono bancherelle che servono pesce fritto da asporto e clam chowder, una zuppa tipica sia del New England che di queste zone. L’idea di prendere qualcosa ad uno di questi chioschetti però diventa d’improvviso meno attraente quando vediamo gabbiani grossi come struzzi attaccare un povero avventore per rubargli il pesce. Scegliamo allora un chiosco un po’ più lontano dotato di tettoia e tavoli al coperto. Dopo il calorico pranzetto a base di fritto, facciamo due passi per il porto. La prima cosa che ci colpisce è l’isola di Alcatraz, sede un tempo del famoso carcere di massima sicurezza. Sembra così vicina, ma immagino che il tratto di oceano che la divide dalla città sia abbastanza difficile da sfidare. Ancorato in porto c’è un sottomarino della marina militare diventato oggi un attrazione turistica. Rinunciamo alla visita ed entriamo nella mostra che c’è poco più avanti dedicata alle sale giochi d’epoca. Ci divertiamo a provare alcuni giochi, tra cui un vecchio flipper in cui qualcuno deve aver inserito i soldi senza però poi terminare la partita. Una volta usciti ci dirigiamo verso il Pier 39. Un molo riconvertito ad attrazione turistica dove stazionano i leoni marini. Proprio davanti al molo infatti ci sono degli zatteroni di legno su cui decine e decine di leoni marini se ne stanno a prendere il sole. Uno spettacolo!!! Sono tantissimi e grandissimi. Alcuni nuotano lì intorno, altri giocano, altri si limitano a sonnecchiare sotto il sole… il tutto sotto gli occhi divertiti di noi turisti… Al Pier 39 c’è poi un acquario che decidiamo di visitare. Facciamo così il City Pass che ci consentirà l’accesso a varie attrazioni della città, la salita illimitata sui cable car e la gita in barca attraverso la baia. Come prima cosa visitiamo l’acquario. Anche questo non è niente di che, soprattutto per noi che lo confrontiamo con quello di Genova. La visita però non è proprio da buttare. Riusciamo infatti ad accarezzare alcune razze ed alcuni piccolo squali e poi percorriamo un tunnel di vetro trasportati da un tapiroulant. I pesci nuotano tutt’intorno a noi, anche sopra le nostre teste e l’effetto non è niente male. Una volta usciti riusciamo a prendere al volo la barca che farà fare il giro nella baia, fino al Golden Gate e attorno all’isolotto di Alcatraz. Già il Golden Gate. Nonostante la giornata di sole, sul ponte staziona una fittissima foschia che praticamente lo avvolge completamente nascondendolo alla vista di noi poveri turisti. Come la barca parte il vento diventa sempre più forte, spruzzi d’acqua ci colpiscono da tutte le parti e la foschia colpisce anche noi. Il freddo per me diventa un po’ troppo e mi rifugio all’interno, mentre Giovanni preferisce restare fuori per scattare un po’ di foto. Anche da sotto, il Golden Gate s’intravede appena. In compenso godiamo di una bella vista sulla città di San Francisco e possiamo anche vedere l’altro lato di Alcatraz, laddove un tempo c’era l’ingresso al carcere. Una volta tornati in porto ci dedichiamo alla scoperta del Pier 39 ovvero degli innumerevoli negozietti di souvenir, carillon, poster, pupazzi e quant’altro si può immaginare. Sul Pier c’è anche uno spettacolo teatrale per bambini e una star di Guerre Stellari che firma autografi a pagamento. Ci facciamo tentare da una crepe alla nutella. Il locale sembra particolarmente apprezzato visto la lunga coda di attesa, e il cuoco, un giovane ragazzo di origini messicane, è amorevolmente osservato da quella che sembra essere la fidanzatina, la quale, da fuori la vetrina, non si perde nessun movimento del suo uomo. La crepe è effettivamente buona e ce la dividiamo contenti. Il freddo intanto aumenta e Giovanni comincia a non sentirsi bene. Torniamo così in Hotel dove, nella Hall notiamo una caminetto scoppiettate. Effettivamente, sembra impossibile, ma serve.
Ci informiamo presso la Consiergerie di come fare per visitare Alcatraz, ma con disappunto scopriamo che i primi posti disponibili sono per il 28 di agosto, quando ormai noi saremo già a casa. Questo si rivelerà l’unico vero errore dell’Agenzia di Viaggio che ci aveva suggerito di fissare la visita direttamente in loco in base ai nostri programmi per la giornata. Il consiglio giusto invece è quello di prenotare dall’Italia l’escursione, altrimenti è praticamente impossibile, salvo disporre di almeno 2 o 3 di settimane di permanenza a San Francisco.
Una volta in camera Giovanni si infila sofferente a letto. Ormai questa situazione sta diventando un sinistro rituale. Per scaldarmi mi infilo a letto con lui e iniziamo a guardare il film di Garfield sottotitolato in un inglese scorretto e mal scritto. Il film è spassoso e rubiamo alcuni tormentoni che ci accompagneranno nel resto del nostro viaggio (i più gettonati: Lassagna mi ha salvato la vita, Quando arriviamo, quando arriviamo, quando arriviamo???).
All’ora di cena Giovanni sta ancor male e quindi decidiamo di rinunciare. Prosegue quindi la nostra full immersion nelle Olimpiadi. Vediamo Phelps vincere ori su ori, battendo record su record. Nel medagliere gli Stati Uniti si piazzano primi, vantando il maggior numero di medaglie vinte, anche se forse sarebbe più corretto considerare primi i Cinesi che hanno vinto più ori. Beh, in fondo un po’ furboni e boriosi questi Americani lo sono.
13° GIORNO: VENERDÌ 15 AGOSTO 2008 SU E GIÙ PER LE STRADE DI SAN FRANCISCO Al mattino per fortuna la congestione è passata e nonostante il sole, stavolta decidiamo di vestirci bene… quindi sotto con maglietta a maniche lunghe, felpa della Columbia, jeans e giubbottino. Il primo obiettivo della nostra giornata è trovare un posto dove fare colazione. Giriamo nel quartiere senza trovare nulla che ci convinca finché non arriviamo alla Panetteria Boudin. La panetteria si divide in tre zone: la prima, dietro una grande vetrata, è dove viene preparato il pane e quindi caricato su dei cesti di alluminio che, percorrendo delle rotaie appese al soffitto, lo trasportano per tutto il locale fino all’altra parte del negozio, dove c’è la rivendita del pane e di altri prodotti alimentari. Al centro c’è il bar con tanto di tavolini, dove è possibile fare colazione a base di squisiti muffin al cioccolato… i più buoni mai mangiati!!! Al piano superiore si trova anche un piccolo museo della panetteria, che noi però non siamo riusciti a visitare a causa degli orari non concordanti.
Finita la colazione ci dirigiamo al capolinea dei cable car. Il caratteristico tram di San Francisco è già lì che ci aspetta. Saliamo per fare qualche foto e poco dopo si parte. Ci mettiamo seduti sulle panche all’esterno e riprendiamo il saliscendi con la telecamera. L’effetto è pazzesco. I dislivelli sono impressionanti e la città intorno a noi è molto bella. Ci divertiamo come bambini e apprendiamo il funzionamento del cable car dall’autista. In pratica c’è una corda sotterranea che scorre a cui il tram si attacca. Quando si stacca il tram rallenta fino a fermarsi. Le fermate sono tutte alla fine delle discese, dove un piccolo pianetto consente la sosta. Al capolinea c’è una base rotonda di legno su cui viene fatto salire il tram e poi fatto ruotare a mano per invertire la marcia.
Scendiamo in Union Square. La piazza è contornata dai grandi magazzini Macy, da un Hotel con 5 ascensori in vetro esterni che salgono e scendono lungo la parete, e da altre costruzioni. Nel centro alberi e fiori decorano la piazza insieme a una mostra di sculture moderne. Seguendo l’itinerario proposto dallo Chaperon, una guida gratuita in italiano trovata in Hotel, partiamo alla scoperta del centro della città. Saliamo fino a Chinatown, che rispetto a quella di New York ci piace molto di più. Le case, i lampioni, la porta d’ingresso al quartiere sono in perfetto stile cinese, forse sono più turistici e meno reali, ma a noi piacciono. Dopo Chinatown troviamo il quartiere italiano, con bar, ristoranti, chiese e vie nominate in italiano. Da qui prendiamo nuovamente il cable car e saliamo fino a Lombard Street… la via più tortuosa del mondo.
A questo punto s’impone un’altra digressione. La pianta delle città Americane è più o meno sempre uguale… un fitto reticolo di avenue parallele tra loro tagliate perpendicolarmente dalle street. Le prime vanno da nord a sud mentre le altre da est ad ovest. I numeri civici delle street si ripetono dal centro della via in poi, differenziati dall’indicazione del punto cardinale nella cui direzione va la strada (W o E). Spesso c’è anche una grossa arteria (tipo Broadway a New York) che taglia trasversalmente la città. Il problema sorge quando la città è su vari colli come nel caso di San Francisco. Succede così che andando dritti le strade possano essere troppo ripide. Lombard Street ha una pendenza pazzesca, impossibile da percorrere in discesa, e il problema è stato risolto creando dei tornanti con delle aiuole di ortensie. La via è la più fotografata di San Francisco e una lunga coda di auto aspetta diligentemente per poterla percorrere. Noi scendiamo a piedi, ma l’effetto è comunque molto bello. Davanti a noi si erge Telegraph Hill e la Coit Tower. Decidiamo di proseguire fino alla torre fatta costruire da una ricca signora di San Francisco in onore dei pompieri. La camminata è impegnativa, perché prima si scende, ma poi si sale!!! Le case che fiancheggiamo nella nostra camminata sono colorate e ben tenute, San Francisco ci piace sempre di più. Una volta a Telegraph Hill saliamo sulla torre, da cui riusciamo ad immortalare San Francisco dall’alto. Ancora una volta però il Golden Gate è immerso nella nebbia. Una volta ridiscesi, ammiriamo i murales che decorano l’interno della torre con scene agresti, e quindi imbocchiamo uno stretto percorso pedonale che, circondato da giardini privati che sembrano piccoli orti botanici, arriviamo alla sede storica della Levis. Dentro c’è anche il pupazzo giallo che qualche anno fa è stato protagonista indiscusso delle pubblicità della casa di jeans più famosa del mondo. Da qui ci dirigiamo verso il Financial Distrinct, non prima di esserci fermati in un negozio di mobili d’epoca e da Starbucks. Qui si ripete la scenetta del caffé. Giovanni è spazientito e una volta fuori, dopo qualche centinaia di metri ci accorgiamo che nel subbuglio creato dall’individuazione del proprio caffé ha abbandonato la nostra fidata guida Chaperon. Mi arrabbio un po’, ma di tornare indietro non se ne parla proprio… siamo troppo stanchi e ancora non abbiamo finito il nostro itinerario. Sperando di non tralasciare nessun punto di particolare interesse ci addentriamo nel distretto finanziario andando prima fino al porto, dove praticamente entriamo dentro una simpatica fontana fatta con i canali di scorrimento dell’aria condizionata, e poi alla TransAmerican Piramyd, sul quale però non è possibile entrare. Nel mezzo è un ininterrotto susseguirsi di Banche, grattacieli e altri palazzi austeri. Ormai siamo sfiniti e decidiamo di rientrare prendendo ancora una volta il cable car. I simpatici tram sono pieni e dobbiamo aspettare un po’ prima di trovarne uno che ci faccia salire. Stavolta io mi attacco fuori e me ne sto in piedi sulla piccola pedana, proprio come si vede fare nei film. Giovanni si diverte a vedere la gioia nei miei occhi… credo di sembrare una bambina in questo momento. In Hotel recuperiamo l’ultima copia in italiano della guida Chaperon e dopo una doccia e una controllatina all’andamento delle olimpiadi, un po’ a malincuore, almeno io, usciamo per la cena Ci dirigiamo verso il Fisherman’s Wharf e troviamo un ristorantino italiano che ci ispira. La cena è buona ma quando usciamo fa freddissimo e a me si ferma tutto sullo stomaco. Quando arrivo in Hotel mi butto a letto e coperta da mille coperte riesco finalmente a riscaldarmi.
14° GIORNO: SABATO 16 AGOSTO 2008 PERSI NELLA NEBBIA Quando ci alziamo una fitta nebbia ci dà il benvenuto. L’umidità è pazzesca, praticamente sembra che piova. Dopo la nostra colazione da Boudin decidiamo di non scoraggiarci e prendiamo l’autobus, questa volta quello normale, per andare verso la City Hall di San Francisco. Il Comune è sfarzoso fino al limite del pacchiano. La cupola è ispirata a quella della Basilica di San Pietro a Roma. A me ovviamente piace, a Giovanni non molto. Essendo sabato è chiuso e non possiamo neanche provare ad entrare. Intorno ci sono altri bei palazzi: l’Opera, il Museo di Arte Asiatica, progettato da un italiano, la Biblioteca e il Museo dei Veterani. Al centro della piazza al posto delle aiuole fa bella mostra di sé un orto ben curato. La cosa ci sorprende e scattiamo qualche foto per i nostri papà dilettanti contadini. Il giro prosegue e per la prima volta prendiamo la metropolitana per andare alla sesta missione della California nonché la costruzione più antica di San Francisco: Missions Dolores. A San Francisco le linee della metro sono poche e quando riemergiamo in superficie ci troviamo in un quartiere un po’ desolato, sullo stile di Harlem, e anche qui come ad Harlem, con pochissima gente in giro. Decidiamo comunque di proseguire verso il nostro obiettivo e così troviamo questa chiesa in stile spagnolo molto carina.
La visitiamo interessati, soffermandoci a parlare con il gestore del negozietto di souvenir interno alla missione e, dopo un rapido giro, ripartiamo in direzione delle sette sorelle o painted ladies. Sono 7 case, una di fianco all’altra tutte uguali se non per il diverso colore della facciata.. Dietro di loro si stende San Fransisco, per foto spettacolari… sempre che troviate il sole e non la nebbia come loro. Oltre alle sette sorelle la piazza è contornata da altre bellissime case dai colori più strani. Io vengo colpita da due bellissime villette in ristrutturazione: una è blu mentre l’altra è bordeaux e ricorda molto quella del telefilm “Streghe”. Riprendiamo l’autobus e raggiungiamo il Golden Gate Park. Quest’enorme parco, che arriva fino all’oceano, contiene molte attrattive. Noi ci limitiamo a visitarne alcune, perchè la giornata grigia non permette di goderlo appieno. Ci fermiamo così ai Giardini Giapponesi del Thé, dove l’arte orientale spicca in tutta il suo ordine e la sua precisione, al Giardino Botanico e al Mulino a Vento. Vediamo anche che nel parco si sta svolgendo una festa medievale… ma gli Americani non hanno avuto un medioevo?!?!? Tutti sono in costume e c’è una lunga fila per entrare. Profumo di cibo sale da dentro l’area della festa e siamo tentati di entrare. Ci avviamo passando tra persone che fanno vari giochi, tra cui il lancio di un tronco di un albero (?!?!?), ma davanti alla richiesta di 17 dollari a testa per entrare preferiamo lasciar perdere. Arriviamo così fino all’oceano che si infrange rabbioso sulla spiaggia. Non è proprio giornata. Troviamo un ristorante e finalmente mangio la mia prima clam choweder… è buonissima. All’inizio ero dubbiosa ma Giovanni mi ha convinto, ed ha fatto bene. A me, che piacciono brodi e passati, questa cremina calda in una giornata così fredda e umida fa proprio piacere!!!! Riprendiamo l’autobus e torniamo ad Union Square dal quel partiamo per visitare il museo dei Cable Car, carino ma nulla di che, e Sant Mary’s Cathedral, una chiesa ispirata a Notre Dame con i portali uguali a quelli del Battistero di Firenze. La chiesa è molto bella è si è appena svolto un matrimonio, la coppia, non più giovanissima, sta facendo le foto contornata da familiari e damigelle… io faccio di tutto per guadare l’abito della sposa… non c’è che dire i matrimoni mi piacciono proprio. Nella piazza ci sono poi due dei più begli Hotel di San Francisco e anche qui vediamo che ci sono festeggiamenti matrimoniali in corso.
Riprendiamo la strada verso l’Hotel… se riusciamo stasera voglio fare il bucato. Seguendo le indicazioni della signora della Consiergerie troviamo vicino all’Hotel una lavanderia a gettoni. Aiutati da un signore asiatico che sta facendo il suo bucato, facciamo una lavatrice per i panni bianchi e una per il colorato. Lavaggio e asciugatura richiedono circa un’ora e io mi diverto ad osservare gli altri avventori della lavanderia. Il ronzio di questi elettrodomestici ha sempre avuto su di me un effetto calmante e sembrerà assurdo ma l’esperienza mi piace un sacco. Giovanni è un po’ meno convinto, ma d’altro canto 25 giorni sono tanti e se non laviamo qualcosa passeremo i prossimi 11 giorni nudi!!!! Rientriamo in Hotel, ancora infreddoliti dalla giornata nebbiosa. Decidiamo di mangiare al ristorante dell’Hotel. La qualità del cibo si rivelerà pessima e il conto molto salato, ma almeno non prendiamo altro freddo. Rientrati in camera mi dedico allo stiraggio del bucato, mentre Giovanni dormicchia le Olimpiadi. Speriamo che domani il tempo migliori… e ancora non abbiamo né visto né fotografato il Golden Gate… sgrunt!!!! 15° GIORNO: DOMENICA 17 AGOSTO 2008 FINALMENTE IL GOLDEN GATE La mattina ci svegliamo ancora nella nebbia, più umida che mai. Neanche il muffin al cioccolato di Boudin mi aiuta a ritrovare il sorriso. Decidiamo di utilizzare il nostro City Pass per visitare uno dei musei di San Francisco per sfuggire al brutto tempo. La scelta ricade sull’Explorarium, una sorta di museo della scienza e della tecnica che consente esperienze interattive… ci sembra la scelta più divertante. Prendiamo l’autobus e scopriamo che l’Explorarium si trova vicino ad un incantevole laghetto circondato da un colonnato romano, nella cui parte alta ci sorprendono una serie di statue raffiguranti delle ancelle riprese di schiena. L’Explorarirum si rivela molto carino, con esperimenti e prove che interessano tutti e cinque i nostri sensi. Dopo averci passato buona parte della mattina però ci viene a noia e decidiamo di uscire. La nebbia finalmente se n’è andata e ha lasciato spazio ad un cielo nuvoloso che per la prima volta ci consente di vedere il Golden Gate. Prima che scompaia di nuovo ci affettiamo a prendere il bus che consente di effettuare il giro della zona del Presidio, dove si trova il Golden Gate. Ci fermiamo al Fort Point, un forte proprio sotto il ponte. Lo visitiamo e chiediamo ad un signore di farci una foto con il ponte sullo sfondo. Dopo averla scattata l’uomo ci sorride e ci dà il suo biglietto da visita… è un fotografo. Che fortuna!!!! Lasciamo il forte e prima di avventurarci sul ponte ci fermiamo in un’area pic-nic dove mangiamo un’insalata e un panino. Al tavolo con noi si siede una signora accompagnata dal suo cane: un bel Golden Retivier di nome Max. Il cane si diverte a giocare con la palla e noi iniziamo a parlare con la sua padrona. Passiamo una piacevole mezz’oretta e poi decidiamo di avviarci verso il Golden Gate. Il ponte è enorme, lunghissimo e altissimo e perfettamente rosso. Scopriamo che c’è una squadra di imbianchini che ogni giorno ne ridipinge un pezzo alla volta. Ne percorriamo una parte, fino al primo pilone. Appena ci saliamo sopra scopriamo che vibra tantissimo. Io non sono troppo convinta ma poi mi faccio coraggio e vado avanti. Torniamo quindi all’autobus e completiamo il tour del Presidio. La zona è molto verde e con tante belle ville. Si vede però che dopo la chiusura della base militare è un po’ abbandonata, anche se comunque ancora molto curata. Ritorniamo lungo la baia e camminiamo per un po’ ammirando le eleganti case che si affacciano sull’oceano e i pellicani che vanno a pesca di prelibati pesciolini. Riprendiamo poi l’autobus e scendiamo davanti alla fabbrica di cioccolato di Ghirardelli, dove entriamo nell’affollatissimo bar per gustarci la famosa cioccolata calda. Non ancora stanchi decidiamo di fare ancora un giro del Fisherman’s Wharf per cercare qualche souvenir e respirare la bella atmosfera di questa città che ci ha veramente entusiasmato. Dopo aver fatto una doccia e preparato le valigie per l’indomani usciamo per cena. Questa volta vogliamo andare nel quartiere italiano. Andiamo a prendere il cable car che stranamente arriva ma non riparte. L’attesa si protrae e anche la coda di chi aspetta il tram successivo. Non riusciamo a capire cosa succede finché l’autista ci spiega che in centro c’è Obama per un comizio elettorale. Siamo infatti vicini alle elezioni presidenziali. Io sono emozionatissima, essere nella stessa città di quello che sono sicura sarà il prossimo presidente Americano mi entusiasma. Giovanni invece è affamato e dichiara che se fosse Americano voterebbe Mc Cain. Lo brontolo per questa dichiarazione e lo invito a tacere per non attirare l’attenzione. Ancora un po’ d’attesa e finalmente si parte. Girelliamo un po’ tra un ristorante e una pizzeria, sono quasi tutti pieni, alla fine ne troviamo uno, molto carino dove ci dicono che c’è posto. Il cameriereci prende in simpatia, o meglio prende in simpatia Giovanni, e in un lampo abbiamo le nostre pizze davanti. Sono molto buone e mangiamo con gusto. Al ritorno prendiamo al volo un altro cable car e una volta in Hotel guardiamo un po’ della gara di ginnastica artistica, dove cinesi e statunitensi furoreggiano, prima di lasciarci andare alle dolci braccia di Morfeo.
16° GIORNO: LUNEDÌ 18 AGOSTO 2008 NEI BOSCHI DELLO YOSEMITE NP Stamani lasceremo San Francisco, per iniziare la seconda parte del nostro viaggio on the road. Prima ci concediamo l’ultima colazione a base di muffin al cioccolato dalla panetteria Boudin, e poi facciamo l’ultima corsa in cable car, due cose che sicuramente ci mancheranno molto in futuro. L’agenzia della Hertz dove ritireremo la nostra autovettura è in centro, vicino a Union Square e questo ci consente di fare praticamente una corsa completa su questa funicolare così speciale. Arrivati all’autonoleggio troviamo molta coda e prima di riuscire a ritirare la nostra auto passa abbastanza tempo. Giovanni è scocciato per l’attesa ma alla fine ecco arrivare la nostra Mercury nera. Rispetto alla Santa Fè della easth coast, questa è un’enorme berlina Americana. Io la trovo abbastanza comoda, a Giovanni invece non piace granché. Torniamo all’Hotel per riprendere i bagagli e poi, dopo un po’ di ripidissime salite e ancor più ripide discese, attraversiamo il Bay Bridge, un ponte a due piani con sei corsie per piano, e ci lasciamo San Francisco alle spalle. Anche oggi la giornata è uggiosa ma più ci addentriamo nell’interno più il tempo migliora e la temperatura si alza. Dai 20 gradi scarsi di San Francisco arriviamo a superare i trenta gradi. Rispetto alla costa orientale troviamo molto meno traffico e questo ci consente di scorrere velocemente. Il paesaggio è meno verde e i boschi del New England sono sostituiti da grandi distese di campi di un giallo dorato che si estendono per miglia e miglia interrotti solo qua è là da qualche gruppo di case. Ad un certo punto troviamo un’esposizione di abitazioni… si, proprio così, una sorta di mobilificio delle abitazioni, dove le persone possono visitare le varie tipologie di case prefabbricate in legno e scegliere quella che più si adatta alle loro esigenze e ai loro budget… che forza!!!! Più proseguiamo nel nostro viaggio più diminuiscono gli insediamenti urbani che diventano sempre più lontani fra loro e sempre più piccoli fino a ridursi a ranch isolati da tutto e da tutti. Ma come fa questa gente a vivere? Dove va a fare la spesa? Come fanno i bambini a studiare? E se hanno bisogno di una farmacia o di un ospedale? Mah!!! L’ambiente circostante è sicuramente molto bello, ma vivere così mi sembra un po’ desolante. Arriva l’ora di pranzo e non c’è l’ombra di un posto dove fermarsi per mangiare. La strada inizia a salire, passiamo su un ponte predisposto per 4 corsie ma dove per il momento ne hanno costruite solo due. Bella idea, quando ci sarà la necessità di un ampliamento buona parte del lavoro sarà già stato fatto… la domanda però è, perché ci dovrebbe essere questa necessità??? Praticamente ci siamo solo noi e altre 2 o 3 macchine!!! Ad un certo punto raggiungiamo un’auto che tallona un camper grande come un autobus. Ma che fa??? È matto? Poi ci accorgiamo che l’auto è senza guidatore e allora ipotizziamo che abbia avuto un guasto e che il camper la stia trainando. All’improvviso mi si accende una lampadina: il camper la sta trainando, ma perché l’auto è insieme al camper. Arrivati a destinazione i conducenti parcheggeranno l’ingombrante mezzo e si sposteranno in auto! Pazzesco. Da quel momento in poi la scena si ripete varie volte finché non vediamo una camper che traina un’auto che ha sul tetto una barca!!! La follia qua non ha limiti!!!! Passiamo vicino ad un grande bacino d’acqua, dove vediamo sfrecciare motoscafi e una specie di traghetto. Immaginiamo che la diga venga utilizzata anche a fini turistici. Dopo qualche altro miglio finalmente troviamo un piccolo paesino e ci fermiamo nell’unico ristorante esistente. Il locale è diviso in due, da una parte ristorante, dall’altra sala di biliardo. Ci accomodiamo e una cameriera iperattiva che schizza da un tavolo all’altro ci porta il menù e prende le nostre ordinazioni. Come sempre le portate sono molto abbondanti, proprio non riusciamo ad abituarci e ne restiamo ogni volta sorpresi! Ripartiamo e finalmente poco dopo le due arriviamo nel parco. Decidiamo di iniziare subito l’esplorazione e rimandiamo la ricerca dell’albergo a dopo. Paghiamo i 20 euro ai Ranger, prendiamo la rivista del parco e andiamo a parcheggiare. Lo Yosemite NP è una valle boscosa chiusa da alte montagne tra cui El Capitain e l’Half Dome. Nel parco sono presenti altissime cascate che però, essendo agosto, sono praticamente in secca e che quindi noi potremo solo immaginare. Facciamo un breve trail nel bosco. Intorno a noi tanta gente, soprattutto ragazzi e bambini che immagino essere qui in una sorta di versione statunitense delle nostre colonie. Alle 18:00 ci rechiamo alla partenza del tour che ci consentirà, accompagnati da un Ranger, di visitare alcuni dei punti di maggior interesse del parco. Il nostro Ranger è una simpatica ragazza bionda con le trecce, che ci dice essere originaria di Chicago. Veniamo caricati su una sorta di lungo carrello trainato da una motrice e la guida si accomoda davanti a noi, spalle alla strada, su una specie di poltroncina rialzata e comincia a raccontarci del parco. Facciamo varie fermate e vediamo un numero infinito di cervi, ma purtroppo nessun orso. Gli animali non sono per niente spaventati dalla nostra presenza e, se non ci fosse il divieto di toccarli, si farebbero probabilmente avvicinare senza problemi. Dopo un’ora di tour ritorniamo al punto di partenza un po’ infreddoliti. Rinfrancati dalle temperature decisamente più miti rispetto a quelle di San Francisco ci siamo spogliati un po’ troppo, ma sono le 19:00 passate e siamo pur sempre in montagna. La giornata volge al termine, sicuramente lo Yosemite meriterebbe una visita più approfondita, ma noi non siamo dei gran camminatori, non abbiamo molto tempo a disposizione e comunque il parco non presenta nulla di così particolare che non può essere trovato anche sulle Dolomiti. Ci avviamo quindi verso il nostro Hotel: il Ceader Lodge. Rispetto ad altre volte le indicazioni che abbiamo sono più vaghe. Infatti l’albergo non si trova in un paese ma lungo l’Hwy 140. Non sappiamo pertanto quanto sarà lontano dal parco. Viaggiamo un po’, troviamo quasi subito un lodge ma non è il nostro. Andiamo avanti, sulla destra c’è un paesino, lo giriamo tutto (si fa per dire, è piccolissimo) ma nessuna traccia di alberghi o di persone a cui chiedere. Proseguiamo per altre 5 o 6 miglia. Ci viene il dubbio di aver sbagliato strada. Proviamo ad andare ancora avanti e poi, non sapendo che fare, decidiamo di tornare al primo lodge che abbiamo visto per chiedere informazioni. Rifacciamo tutta la strada al contrario e quando arriviamo ci dicono che il Ceadr Lodge è poche miglia più avanti di dove noi abbiamo fatto inversione ad U. In realtà scopriremo che è due curve dopo rispetto a dove abbiamo girato per tornare indietro… sing. La legge di Murphy colpisce ancora!!! Quando arriviamo è ormai buio pesto. Da fuori l’Hotel non ci sembra brutto, tutto in legno con piscina e tante simpatiche statue di orsi C’è un corpo centrale, dove si trova la reception, il ristornate, un bar e un negozio di souvenir e tante dependance a due piani dove si trovano le camere, ognuna con il suo accesso direttamente dall’esterno e il suo parcheggio. Quando entriamo però mi viene voglia di scappare. La camera ha un odore tremendo, la luce è fioca e la fa sembrare ancora più squallida di quello che è. Il letto è un immesso king size, ma bassissimo e giusto con un cuscino a testa invece dei 2 a cui ormai eravamo abituati. Per la prima volta non troviamo né il phon né il ferro da stiro. Mi viene da piangere. Soprattutto l’odore è la cosa che più mi disturba. Ci laviamo in fretta e usciamo per andare al ristorante e qui troviamo una bella coda. Il ristorante infatti è l’unico nel raggio di miglia e miglia e il lodge è molto grande e tutto pieno. Aspettiamo quasi un’ora e poi finalmente mangiamo. Ormai sono in paranoia e quello che scelgo si rivela orrido. Proprio stasera non va! Alla fine rientriamo in camera, ci consoliamo guardando un po’ di olimpiadi e poi pianifichiamo l’itinerario per il giorno successivo. La nostra tabella di marcia prevede il Sequoia NP ma, attirati dalle sequoie presenti allo Yosemite e dispiaciuti per aver visto così poco del parco, decidiamo rimandare di qualche ora la partenza per fare una scappatina anche a Mariposa Grove.
Alla fine ci addormentiamo, sperando che la notte passi presto per lasciare il prima possibile questo lodge!!!! 17° GIORNO: MARTEDÌ 19 AGOSTO 2008 L’INCONTRO CON IL GENERALE SHERMAN La mattina ci svegliamo prestissimo, il nostro programma per oggi è bello intenso e poi io non vedo l’ora di uscire di qui. Facciamo colazione al ristorante della sera prima. Stamani va un po’ meglio ma i prezzi sono veramente alti rispetto a quel che ci viene offerto. Vabbé, d’altro canto abbiamo poca scelta. Per la terza volta facciamo la strada che ci porterà all’ingresso del Parco e poi puntiamo dritti su Mariposa Grove. Quando arriviamo la prima sequoia ci attende nel parcheggio. Rimaniamo esterrefatti dalle sue dimensioni… una cosa è sentirne parlare, altra cosa è vederle dal vivo. Ci informiamo su cosa vedere, c’è un tour tipo quello della sera precedente che fa fare tutto il giro dell’area ma dura troppo e noi non abbiamo così tanto tempo. Così decidiamo di fare uno dei percorsi proposti, vedere fin dove è possibile arrivare e quindi tornarcene all’auto in tempo per partire per il Sequoia NP. La prima cosa che apprendiamo nel fare il nostro giro è che le radici delle sequoie si estendono in ampiezza piuttosto che in profondità. Rimanendo così superficiali ed essendo il peso che devono sostenere così elevato, è importante non camminare intorno alla base degli alberi per non rischiare di portare via lo strato di terra che le ancora al suolo. Nonostante le precauzioni qualche albero però cade e così possiamo vedere le radici di un tronco caduto ormai da anni: il Fallen Monarch… oltre ad essere perfettamente conservate, vediamo con stupore che sono ben più alte di Giovanni!!! Proseguiamo la nostra camminata e così incontriamo il Bachelor and Three Graces, il Grizly Giant e il California Tunnel Tree. Ognuno di questi alberi ha la sua particolarità, ma tutti sono enormi. Torniamo indietro facendo una deviazione rispetto al percorso iniziale e, anche se un po’ dispiaciuti per non aver completato il percorso, che era veramente lungo, ci mettiamo in marcia verso altre sequoie… quelle del Sequoia NP.
Nonostante il ritardo nella partenza, prevediamo di arrivare abbastanza presto, in modo tale da riuscire a visitare con calma il nostro prossimo parco. Senonché Giovanni ci mette del suo per perdere tempo. Mi spiego meglio. Arrivati all’ultimo paese prima del parco suggerisco a Giovanni di fare benzina. Giovanni preferisce rimandare, ormai mancano poche miglia e quel che abbiamo ci basterà preciso. Sono dubbiosa, insisto, ma non lo convinco. Arriviamo al parco che è quasi l’ora di pranzo. Entriamo, paghiamo il solito pedaggio e fatte poche miglia, analizzando il giornale del parco che come sempre ci è stato consegnato, ci accorgiamo che se l’ingresso lo abbiamo passato, le sequoie sono molte miglia più avanti. Ovviamente la benzina non ci basterà e dentro il parco non c’è possibilità di fare rifornimento. Siamo costretti quindi a tornare indietro e l’ultima pompa che abbiamo visto si rivela meno vicina del previsto. Tra andare e tornare perdiamo un’ora abbondate, sono arrabbiatissima e anche affamata, perché nel frattempo l’ora di pranzo è passata. Ci fermiamo quindi in un Ristorante/Hotel poco fuori dall’ingresso del parco. Veniamo fatti accomodare in una terrazza coperta che guarda su un fiumiciattolo che costeggia la proprietà e, rinfrancati dal cibo, mi addolcisco e perdono Giovanni per lo scherzetto che mi ha giocato. Ripartiamo quindi e per la terza volta passiamo davanti ai Ranger… ci prenderanno per matti. Dopo qualche curva troviamo un masso che forma una specie di tunnel sotto la quale passava la vecchia strada. Ci fermiamo per scattare qualche foto e proseguiamo. La strada inizia a salire rapidamente, le sequoie nascono solo sopra una certa altitudine. Ogni poco ci sono degli slarghi che servono alle autovetture lente di far passare il traffico più veloce. E ogni autovettura più lenta di noi immancabilmente si sposta e ci fa passare. Come dicevo il senso civico degli Americani è eccezionale!!! Anche noi ci adeguiamo ed è quasi divertente “agevolare” il traffico veloce”!!!Ci avviciniamo all’area di interesse e prima incontriamo tra sequoie tra le quali passano le due corsie della strada e poi The Sentinel, un’enorme sequoia che svetta nel parcheggio principale del parco. Sul pavimento hanno tracciato in orizzontale l’altezza di questo albero. Nel percorrere tale tracciato rimaniamo esterrefatti, l’albero è ancora più alto di quello che sembra semplicemente guardandolo. Percorriamo un paio di trail che ci consentono di vedere sequoie di tutti i tipi, alcune delle quali unite a coppia. Scopriamo quindi che il legno di sequoia resiste al fuoco e che questi alberi traggono giovamento dagli incendi perché riescono ad eliminare la concorrenza delle altre piante e quindi a trovare più spazio per loro. Prendiamo quindi il bus del parco e andiamo a fare la conoscenza del Generale Sherman, l’albero più grande del mondo, veramente impressionante. Intorno a lui sequoie su sequoie, alcune della quali cadute e scavate fino ad ottenere un tunnel. Rinunciamo ad andare più avanti perché vogliamo salire sulla vetta di Moro Rock. Moro Rock è la cima del monte sul quale ci troviamo. Ci separano da tale vetta 400 scalini che affronto un po’ dubbiosa… sia per la numerosità sia per il senso di vertigine che in alcuni casi si prova. A metà strada la tragedia (si fa per dire)… la memoria della machina fotografica è piena!!!! E io ho lasciato quella di scorta dentro la borsa, rimasta in auto per consentirmi di viaggiare leggera! Giovanni carinamente fa dietro front e torna indietro a prenderla. Direi che per oggi siamo pari. Arrivati sulla sommità lo spettacolo è meraviglioso. Io però ho un po’ di fifa e non mollo un attimo la balaustra che ci separa dal baratro. Scattiamo un sacco di foto, compresa una ad una poiana che poco più sotto piange, o almeno così pensiamo noi. La discesa la affrontiamo con più calma della salita, ormai siamo appagati e poi si sa, andando in giù il vuoto fa ancora più impressione. Salutiamo il Sequoia NP e ci dirigiamo verso Three Rivers dove troveremo il nostro Hotel: il Comfort Inn Suites. Quando arriviamo entro in camera con sospetto, temendo che sia come quello del giorno prima, invece per fortuna ci troviamo davanti una bella camera spaziosa e pulita, con 2 letti queen size, la tappezzeria gialla e una bella luce allegra. Il lavandino è fuori dal bagno, in un’insenatura della camera. Accendiamo contenti la tv, ci sintonizziamo sulle olimpiadi e ci facciamo una bella doccia. Per la cena non c’è molto da scegliere, arrivando in Hotel abbiamo visto una pizzeria poco più avanti e ce ne andiamo lì. Al bancone ci consigliano una pizza media in due, ci fidiamo e prendiamo il bicchiere per il refill illimitato. La pizza è un po’ alta, ma non tremenda, su dei maxi schermi va la gara di tuffi. Il locale è semplice e spartano, ma noi non stiamo male e alla fine ce ne torniamo in Hotel soddisfatti per una bella dormita. Domani ci aspetta lo spostamento in auto più lungo del nostro viaggio: 7/8 ore per raggiungere la Death Valley. Sarà in quest’occasione che conieremo il detto: sotto le 400 miglia è vicino!!!! 18° GIORNO: MERCOLEDÌ 20 AGOSTO 2008 MERAVIGLIOSA DEATH VALLEY Quando mi sveglio sono un po’ preoccupata per la tappa di oggi. La strada da fare è veramente molta e l’idea di finire in un deserto a oltre 45 gradi di temperatura proprio non mi convince. Comunque bisogna andare e andremo. Dopo la colazione in Hotel, compresa nella prenotazione, partiamo… Traffico non ne troviamo anzi, oltre a noi ci sono pochissime altre macchine in giro. La strada è praticamente dritta persa in un mare di niente che diventa via via più arido. Il panorama è lunare e oltre a noi solo le pale eoliche e una ferrovia su cui corre un treno merci infinito. Verso l’ora di pranzo calcoliamo che non dovrebbe mancare ancora molto. Iniziamo quindi a guardarci intorno per trovare un posto dove mangiare qualcosa ed ecco spuntare un subway. Giovanni resta fuori per fare benzina (stavolta ha capito che è meglio non rischiare), mentre io entro per andare in bagno. Quando esco so già che oggi mangeremo solo i biscotti e le patatine che ci sono rimaste dagli acquisti fatti a San Francisco. Nel locale infatti c’è una puzza tremenda e, conoscendo mio marito, so che difficilmente accetterà di mangiare cibo che ha un simile odore. Glielo dico, lo vedo dubbioso. Entra, paga il pieno ed esce subito… ho ragione io, impossibile mangiare qui. Ripartiamo subito, per oggi ci accontenteremo del nostro aperitivo improvvisato.
Dopo un’oretta praticamente ci siamo. Il sole batte forte, il termometro della macchina segna 48°, ma come la vedo cambio radicalmente idea e mi innamoro della Death Valley. Come detto il paesaggio è lunare, ma nel contempo imprevedibile. La valle è un continuo saliscendi ed ad ogni curva il colore delle rocce intorno a noi cambia, prima gialle, poi bianche, poi bordeaux, e via dicendo. Ci fermiamo sulla sommità di una collina per ammirare il paesaggio che pur nella sua aridità presenta una ricchezza indescrivibile. Proprio mentre parcheggiamo un caccia passa nel canyon ai nostri piedi. Io sento solo il rumore, e penso: oddio ci hanno tamponato… ma chi??? Ci siamo solo noi e un’altra auto parcheggiata. Giovanni con la coda dell’occhio lo vede passare. Che peccato non averlo potuto fotografare. Ma a proposito… è matto??? Che ci fa lì??? Proseguiamo lungo la strada, che segue perfettamente il terreno ed è un continuo susseguirsi di dossi. Arriviamo quindi all’entrata vera e propria. C’è un bar e all’esterno una comitiva di corvi neri e grossi come gatti. Ci fermiamo a prendere un gelato e qualcosa da bere… fa caldissimo. Poco più avanti c’è il “casello” dei Ranger dove pagare l’ingresso. E’ tutto sprangato e in giro non si vede nessuno. Lasciamo quindi diligentemente il nostro dazio nell’apposita cassetta e ripartiamo. La prima sosta la facciamo al Mosaic Canyon, ci inerpichiamo sotto il sole lungo questa stretta gola dove le pareti di marmo sono state scolpite e rese liscissime dal vento. Veramente belle, ma il caldo ci spinge anche a tornare rapidamente all’auto. Passiamo quindi vicino alle Sand Dunes, ovvero dune di sabbia che ricordano i deserti africani. Scattiamo qualche foto ma non ci avventuriamo fin là, un po’ per il caldo, un po’ perché io non avevo capito che ci si poteva andare, un po’ perché Giovanni temeva spiacevoli incontri con i serpenti. Troviamo quindi il nostro Hotel: il Fornace Creek Hotel, costruito in una delle oasi presenti nella vallata. Decidiamo però di non fermarci, preferendo proseguire per ora il giro turistico. Ci dirigiamo quindi verso il Devil’s Golf Corse, ovvero una distesa di piccole montagnole di sale cristallizzato che si estendono a perdita d’occhio. Poco più avanti proviamo l’escursione nel Golden Canyon, ma arrivati a metà decidiamo di tornare indietro, anche bevendo di continuo senti il cervello che si frigge sotto il sole. Riusciamo comunque a vedere una sorta di cattedrale di pietra rossa sormontare una base gialla come l’oro…Un effetto spettacolare!!! Proseguiamo quindi verso Badwater, il punto più basso d’America. Siamo a 86 metri sotto il livello del mare, e l’intera area è ricoperta di sale cristallizzato. Visto a lontano sembra un grande lago, ma una volta arrivati c’è solo qualche pozza qua è là. Sarà l’effetto del sole che si riflette sul sale, sarà il caldo che ormai ci ha dato alla testa e ci fa vedere i miraggi. Sul monte vicino un cartello bianco mostra dov’è il livello dl mare. Fa proprio effetto. Dopo le foto di rito torniamo all’auto. Proprio non si riesce a stare per troppo tempo all’esterno!!! Facciamo una sosta su un punto panoramico che troviamo per strada e poi percorriamo l’Artist Drive, dove all’inizio possiamo ammirare una tavolozza di colori formata da rocce di ogni tonalità: rosa, verdi, gialle, rosse ecc. La natura è proprio spettacolare!!! Ormai è il tramonto e l’Artist Dirve è ancora più suggestiva. Siamo praticamente soli e penso che tutti quelli che si fanno spaventare dai racconti su questo deserto e lo visitano velocemente ed ad orari impossibile non sanno proprio cosa si perdono. Certo fa caldo, ma con una scorta d’acqua e con un po’ di moderazione nel fare le cose non c’è proprio nessun problema, salvo ovviamente patologie particolari delle singole persone.
Arriviamo all’Hotel che sorge nel bel mezzo di un’area verdissima, in netto contrasto con il deserto che lo circonda. L’Hotel è grandissimo, formato da innumerevoli padiglioni a un piano, ognuno con il suo parcheggio. Ci sono bar e ristoranti e anche un supermercato, una piscina e una campo da golf!!!! Incredibile. La nostra camera è spaziosa e pulita, con un terrazzino che si affaccia su un ampio giardino comune. Io decido di farmi una bella doccia, mentre Giovanni va a provare la piscina. Quando apro la valigia i vestiti sono a bollore, lo shampoo è caldissimo e rinfrescarsi non è facile.
Per cena scegliamo il ristorante dell’Hotel… dove andare altrimenti? Come al Cedar Lodge, anche qui c’è una bella coda e alcune delle persone che vediamo le abbiamo già incontrate nei parchi precedenti. Molti sono italiani come noi. Ci danno il solito telecomandino vibrante che ci avvertirà quando sarà il nostro turno. Andiamo al bar a prendere qualcosa da bere e poi usciamo a vedere le stelle che sono un milione di miliardi. Intorno a noi il buio più completo. Potrebbe esserci qualsiasi cosa ma noi non riusciremmo a vederla. La temperatura è un po’ scesa: sono solo 39°!!! Finalmente è il nostro turno per mangiare. Ceniamo e poi via nanna. Domani voglio vedere tutto quello che ancora non abbiamo visto: la Death Valley mi piace troppo!!!! Ah si, dimenticavo… per me che soffro di acne arrivare qui è stato come arrivare in paradiso. Già alla sera buona parte delle odiate bolle sono scomparse e la mia pelle è più bella che mai. Lo confermo… sulla Death Valley mi ero proprio sbagliata! Che cambiamento di idea rispetto a stamani!!!! 19° GIORNO: GIOVEDÌ 21 AGOSTO 2008 INVITO A SCOTTY’S CASTLE Dopo un’abbondate colazione siamo già pronti a rituffarci nel caldo della Death Valley. Non sono ancora le 9:00 e già il termometro supera ampiamente i 40°. Io rischio di lasciare parte della mia mano sulla maniglia della reception che sotto il sole brucia come il fuoco. La prima tappa del nostro itinerario è Zabriskie Point. Ci mettiamo in marcia e fatti pochi “piedi” un coyote ci attraversa la strada. Giovanni inchioda e si fionda fuori per fotografarlo. Io sono un po’ spaventata… il pericoloso coyote. Convinta da mio marito scendo a mia volta e mi trovo ad una decina di metri da una specie di cucciolo di cane lupo, con dei grossi orecchioni, che beve dalle pozze e ci guarda intimidito. È troppo carino… quasi quasi vorrei accarezzarlo. Sembra proprio un cuccioletto. Ci limitiamo tuttavia a scattare qualche foto e poi ripartiamo. Arrivati a Zabriskie Point rimaniamo a bocca aperta. Intono a noi la roccia è di un color giallo dorato e ha mille forme… onde, guglie, canyon, crinali. Scattiamo mille foto ma nessuna sembra rendere giustizia a questo posto. Con gli occhi pieni di splendore ripartiamo verso Dante’s View. Questo punto panoramico si trova su un’altura e consente di vedere insieme il punto più basso degli Stati Uniti e la vetta più alta. Visto da qui Badwater sembra ricoperto d’acqua. La luce accecante però anche stavolta non ci permette di scattare foto capaci di rendere la bellezza di questo posto.
Ripartiamo e adesso si pone davanti a noi una difficile scelta. Salutare la Death Valley e dirigerci in direzione Las Vegas oppure restare ancora un po’ e fare le oltre 60 miglia che ci dividono da Scotty’s Castle. Temiamo che quest’ultima attrazione sia una cavolata per turisti, ma non me la sento di lasciare già questi posti e poi la curiosità e tanta è quindi partiamo in direzione di questo “Castello”. Per strada siamo praticamente soli e la lunga striscia di asfalto si perde dritta verso l’orizzonte. Ogni tanto incrociamo qualche macchina… sembra di non arrivare mai. Dopo un’ora e mezza di strada finalmente ci siamo. Scotty’ Castle è una tenuta in stile spagnolo fatta costruire da un ricco imprenditore di Chicago per passarci le vacanze. Si trova nel mezzo di un’oasi e quando scendiamo una bella brezzolina ci sorprende. La casa è carinissima e circondata a un prato verde con cascate, salici piangenti e altre piante. Acquistiamo i biglietti per la visita che partirà dopo circa un’ora e prendiamo il libretto in italiano che contiene la traduzione di quello che ci verrà spiegato più tardi da un Ranger vestito in stile anni trenta. Compriamo due panini e ci mettiamo su una panchina all’ombra a leggere la storia della casa. Dietro di noi un coyote sonnecchia placido. Giovanni è elettrizzato e scattiamo la mitica foto: “A pranzo con il coyote”. Io invece vengo appassionata dalla storia dell’amicizia tra il Signor Johnson, proprietario della casa, e del suo amico Scotty, un simpatico furbastro. In sintesi ecco la storia: Scotty è una simpatica canaglia che ad 11 anni lascia la famiglia per unirsi alla Compagnia di Buffalo Bill. Dopo anni in giro per il mondo, ormai non più giovane, viene liquidato e, senza arte ne parte se ne torna in America dove spilla soldi a facoltosi e ingenui ricconi per la sua fantomatica quanto inesistente miniera d’oro nella Death Valley. Uno di questi ricconi è il signor Johnson di Chicago, uomo serio e religioso, che intuisce l’inganno e decide di andare a verificare con i propri occhi cosa c’è là nel deserto. Scoperto l’inganno perdona Scotty e, trovandolo simpatico, gli affida la supervisione dei lavori per la costruzione della sua casa nella Death Valley, nella quale ha scoperto di poter trarre enormi giovamenti per la sua salute, compromessa durante un incidente ferroviario in cui suo padre è rimasto ucciso. Scotty accetta l’incarico e da cantastorie nato va in giro dicendo che quello è il suo castello, lo Scotty’s Castle appunto, costruito con l’oro trovato nella sottostante miniera. La casa viene costruita con tutti gli agi, tra cui l’aria condizionata, ottenuta incanalando l’aria attraverso dei panni costantemente bagnati con acqua fresca, delle cascate interne al salone principale, un organo che suona da solo e una piscina mai ultimata. Il tutto viene fatto però in modo tale che la tenuta sembri semplicemente una casa di campagna in stile spagnoleggiate. Lo Scotty’s Castle diventa quindi meta di attori e registi di Hollywood (il signor Johnson dopo la crisi degli anni trenta ha infatti canalizzato i suoi investimenti verso la mecca del cinema) e di altri ricchi e importati personaggi statunitensi. Scotty è l’attrazione principale, sempre pronto a raccontare storie mirabolanti ed ad intrattenere i numerosi ospiti del suo anfitrione/amico. La storia però ha un finale triste. Durante un viaggio verso la Death Valley il signor Jonhson, a cui piace guidare in modo un po’ spericolato, ha un incidente e la moglie muore. Il signor Johnson, afflitto dai sensi di colpa non si recherà più nella sua tenuta, dove resterà solo il povero Scotty in compagnia del suo cane. Ancora oggi i due riposano qui, sotto una grande croce. Scotty inoltre fa bella mostra di sé sul segnavento in cima al tetto, accogliendo noi turisti curiosi. Ogni minuto che passa sono sempre più contenta della scelta di arrivare fin quassù!!! Olivia, un bionda e giovane ranger, sarà la nostra guida. Oltre a noi solo una coppia cinquantenne americana. La casa è bellissima e perfettamente conservata, ancora con tutto il mobilio originale. Olivia è bravissima e simpaticissima e ci spiega con dovizia di particolari e di aneddoti la storia della casa. Quando scopre che siamo in viaggio di nozze va nei pazzi dalla felicità e si fa raccontare tutto quello che abbiamo visto e tutto quello che ancora ci resta da visitare. Il tempo passa e Olivia impiega più del previsto a farci vedere la casa!!!!! Un suo collega, costretto a fare il tour successivo la riprende. Lei però non se ne cura e si offre di farci una foto davanti alla casa. La ringraziamo di cuore e a malincuore abbandoniamo quest’oasi di pace. Prima di fare ritorno sui nostri passi ci fermiamo anche al vicino Ubehebe Crater, un vulcano ormai spento dove soffia un fortissimo vento. Proviamo anche ad avvicinarci al Titus Canyon, che in realtà andrebbe percorso al contrario, la strada dissestata e il rischio di forature ci spaventano e così non ci affacciamo neanche. Puntiamo l’auto verso Beatty, unica città tra la Death Valley e Las Vegas. Qui rimaniamo esterrefatti dall’abbandono che troviamo. Tutti vivono nelle roulotte. C’è sporco e abbandono ovunque. Visitiamo la vicina città fantasma di Rinolythe, che non è niente di che a parte per una casa costruita con i fondi di bottiglia, e puntiamo decisi verso Las Vegas.
La strada è una lunga striscia di asfalto, in cui l’unica curva, peraltro segnalata come pericolosa (???) dura qualche km e richiede un’impercettibile rotazione dello sterzo. A fianco a noi c’è una vasta zona militare. Chissà che strani esperimenti faranno qua in mezzo al niente. Quando arriviamo a Las Vegas il sole è ancora alto e quindi non possiamo apprezzare l’esplosione di luce in mezzo al nulla. Come entriamo in città manchiamo la nostra uscita ed inizia il panico. La strada è a 4 corsie e non sappiamo proprio dove andare. Nel frattempo la ruota ha iniziato a fare un rumore sinistro, come se ci fosse qualcosa che sfrega ma non si riesce a capire cos’è. Nel panico più completo finalmente vediamo il nostro Hotel, riusciamo a fare marcia indietro, la ruota finalmente torna a funzionare regolarmente e noi arriviamo: il Bellagio è davanti a noi!!!! Parcheggiamo nel parcheggio dell’Hotel, che è gratuito, ed entriamo nell’immensa hall dove una distesa di fiori in cristallo risplende sopra le nostre teste. Ritiriamo la nostra chiave e, passando nell’elegantissimo casinò, raggiungiamo gli ascensori. Percorriamo quindi corridoi su corridoi e troviamo la nostra camera! La stanza è molto grande, anche se non esagerata. Anche stavolta abbiamo due letti queen size. Il bagno invece è decisamente fuori misura, con la vasca e una doccia dove si può stare comodamente in 2 o 3 contemporaneamente La vista è sulle numerosissime piscine sul retro dell’Hotel. Qui tutto è grandissimo. Le camere saranno qualche migliaia e c’è una quantità di gente impressionante.
Ci laviamo via la polvere e il sudore di una giornata intera nel deserto e scendiamo per esplorare il nostro Hotel. Il casinò è il centro di tutto, non ci sono tavoli vuoti e noi ci lasciamo affascinare dalle roulette senza però trovare il coraggio di partecipare al gioco. La puntata minima è di 15 dollari e non abbiamo proprio voglia di perdere qualche bigliettone da cento per una cosa che tutto sommato non ci dice granché. Oltre al casinò c’è la galleria di negozi in stile via Montenapoleone, sale congressi e da ballo, le cappelle per sposarsi. I corridoi sono immensi, ricoperti da enormi tappeti e in ogni angolo ci sono bellissime composizioni floreali. Dal soffitto pendono enormi lampadari di cristallo. I ristoranti sono già chiusi, usciamo quindi in cerca di qualche posto dove mangiare. Una volta fuori ci troviamo davanti l’immenso lago artificiale del Bellagio e dopo pochi minuti assistiamo all’incantevole spettacolo delle fontane danzanti che, al suono della voce di Pavarotti, compiono evoluzioni sempre diverse. Davanti a noi c’è il Paris, con la sua riproduzione dell’Operà di Parigi, del Louvre e ovviamente della Tour Eiffel. A fianco a noi c’è invece il Ceasar Palace, in stile romano, con tanto di fontana di Trevi. Ci dirigiamo verso questo Hotel e finalmente troviamo un posto dove mangiare. Come spesso ci capita i camerieri sono in numero maggiore di noi commensali e ogni pochi minuti vengono a chiederci se va tutto bene, se vogliamo qualcos’altro ecc. Va bene la sollecitudine e la premura, però un po’ di tranquillità non ci dispiacerebbe.
La notte a Las Vegas è giovane, ma noi iniziamo ad essere stanchi e domani mattina alle 4 abbiamo la sveglia per l’escursione prenotata dall’Italia al Grand Canyon e alla Monument Valley.
Già l’escursione in aereo di piccola dimensione!!! Se una parte di me desidera con tutto il cuore vedere queste meraviglie, l’altra parte di me è atterrita all’idea di un volo su un aereo minuscolo. Proprio non ci voglio salire e imploro Giovanni di lasciarmi in Hotel. Mio marito non sa che fare, mi vede terrorizzata e non vuole insistere, ma non andare gli dispiace. Andiamo a letto senza aver preso una decisione. Mi addormento di un sonno agitato… non so proprio cosa farò domani.
20° GIORNO: VENERDÌ 22 AGOSTO 2008 CATAPULTATI NELLE TERRE DI JOHN WAYNE Alle 4:00 la sveglia implacabile suona. Provo a fare resistenza, a perdere tempo in modo tale che il ritardo ci imponga la decisione che non so prendere. Alla fine però mi alzo, e tremante ma consapevole di non poter perdere quest’occasione, parto per questa nuova avventura. Quando arriviamo all’aeroporto di Las Vegas facciamo il check in e ci pesano: oddio ma se pesiamo troppo cade tutto? Quando vedo il pilota, un colosso di 200 chili che beve red bull so che i miei giorni finiranno qui!!! Alla fine ci imbarcano, l’aereo è più grande del previsto e quindi mi calmo un po’. Oltre a noi una famiglia italiana e decine e decine di giapponesi. Siamo stati tutti etichettati in base all’escursione che dovremo fare. Gli unici ad andare alla Monument Valley siamo noi e gli altri italiani, babbo, mamma, figlia e genero, on the road come noi, e anche loro di Firenze! Il mondo è proprio piccolo a volte. Figurarsi che hanno dei parenti che abitano vicino al mio paese d’origine. Almeno la compagnia sarà buona.
Atterrati vicino al Grand Canon veniamo prelevati da un altro colosso con una lunga barba che ci chiede subito se amiamo sciare! Ma li trovo tutti io? Giovanni già spera che troveremo la neve. Scopriamo invece che è semplicemente un grande appassionato e che ha addirittura conosciuto Alberto Tomba. Ci carica su un pulmino di quelli piccoli, attrezzato con un mega condizionatore d’aria del tipo da appartamento. A fianco a sé ha un’enorme scorta di cibo e bevande e non smetterà un solo minuto di servirsene. Parte a razzo, la Monument dista svariate miglia che lui riuscirà a percorrere in sole tre ore. Capisco che rischio di più su quel pullman che non sull’aereo. Costeggiamo il Grand Canyon dove ci promette potremo fermarci qualche minuto al nostro ritorno. Già dall’autobus restiamo a bocca aperta. A metà percorso veniamo fatti fermare in un negozio di souvenir “convenzionato” dove ci rifermeremo anche la sera e dove compreremo qualche altro souvenir. Quando arriviamo alla Monument Valley restiamo a bocca aperta. Enormi roccioni dalle forme più diverse, emergono da un’ampia pianura di terra rosa, che fa un fortissimo contrasto con il cielo più blu che abbiamo mai visto. Scattiamo qualche foto, ma poi veniamo subito dirottati verso il ristorante “convenzionato”, dove ci attendono delle buonissime, ma anche pesantissime, tortillas di fagioli e quant’altro è possibile immaginare di metterci. Il pranzo dura un’ora abbondate e a fine giornata rimpiangeremo di non averlo potuto sostituire con un più rapido pranzo al sacco, che peraltro ci hanno dato, in modo tale da impiegare quel tempo per vedere meglio il Grand Canyon. Ma d’altra parte l’economia locale va sostenuta. Dopo averci rimpinzato fino a scoppiare di cibo veniamo fatti salire su un furgoncino senza pareti per il giro della valle in compagnia della guida indiana. Il primo furgoncino è già abbastanza pieno e c’è un signore italiano schizzato che continua a strillare che tre posti sono riservati per sé e per la moglie e il figlio. Impossibilitati a sistemarci, decidiamo di partire con il secondo tour e mai scelta si rivelerà più azzeccata. Arriva infatti un furgoncino tutto per noi, dove ci sistemiamo belli comodi e partiamo. Alla faccia dell’italiano isterico! Come prima tappa andiamo a visitare una classica casa indiana. Si tratta di una semisfera ricoperta di terra rossa, con un foro al centro del soffitto e la porta aperta verso la valle. Un’anziana indiana ci spiega le attività tipiche della sua tribù e si offre di farmi la tipica pettinatura delle ragazze pellerossa. Ripartiamo quindi per il giro vero e proprio tra questi colossi di pietra. Facciamo miliardi di foto, e ci divertiamo come bambini a saltellare con il furgone sulla strada dissestata. Vediamo quindi la mano destra e quella sinistra, il drago, le tre sorelle e tanti altri “butte” in cui io mi diverto a riconoscere le sagome di una tribù indiana in movimento, una cattedrale e tante altre cose… Giovanni dice che o sono matta o sto subendo gli effetti di un colpo di sole!!! Quando scendiamo la terra rossa ha trasformato anche noi in pellerossa!!! Ringraziamo la nostra guida e ripartiamo in direzione Grand Canyon. Come promesso riusciamo a fare una veloce sosta sul bordo di questa immensa voragine creata dalla natura. Ci becchiamo anche una ramanzina da un’anziana Ranger per aver lasciato l’autobus con il motore acceso. Quando arriviamo all’aeroporto i miei incubi diventano realtà: siamo rimasti solo noi ed ad attenderci c’è un aereo minuscolo, da non più di venti posti. Il rumore è assordante e quindi ci dotano di grosse cuffie grazie alle quali potremo ascoltare il racconto della formazione del Gran Canyon che scorre sotto i nostri occhi. La sorvolata è così spettacolare che pian piano mi calmo e inizio a scattare foto e a riprendere questo spettacolo della natura. Quando arriviamo a Las Vegas finalmente possiamo apprezzare l’esplosione di luci delle città in notturna. Una volta a terra il pilota ci scatta una foto ricordo. Sono felice… l’escursione è stata fantastica e soprattutto ormai è finita!!! Coperti di terra rossa rientriamo in Hotel e oltrepassiamo l’elegante casinò del Bellagio per andare alla nostra camera. Ci laviamo e seguiamo i consigli della nostra guida, dirigendoci al buffet del Paris. Effettivamente per un prezzo contenuto possiamo mangiare secondo la formula dell’all can you eat. Girelliamo per l’albergo, dove il soffitto simula una bella giornata di sole e poi, stanchi morti, rinunciamo a salire sulla Torre Eiffel e ce ne torniamo nella nostra camera, per una bella nottata di sonno finalmente tranquillo!!! 21° GIORNO: SABATO 23 AGOSTO 2008 VIVA LAS VEGAS Dopo tante levatacce, tanto camminare, tanto pianificare stamani ci concediamo una bella dormita e poi una mattinata di relax in piscina, dove facciamo anche colazione. Le piscine sono oltre 12 e quelle che io prediligo sono ovviamente quelle idromassaggio, più piccole delle altre ma anche più calde. Ci passiamo buona parte della mattinata e mentre siamo lì facciamo amicizia con un ragazzino e con sua mamma che ci parlano con meraviglia e con lo stupore ancora dipinto sul viso dello spettacolo del Circle du Soleil “O”, che si volge 2 volte al giorno 6 giorni su 7 nel teatro interno al Bellagio. Lo spettacolo di cui avevo visto anch’io la pubblicità, ci aveva già attirato, ma avevamo deciso di non andarci per goderci con più calma Las Vegas. I racconti dei nostri due nuovi amici ci fanno cambiare idea e quando veniamo via dalle piscine ci fermiamo a comprare due degli ultimi biglietti per lo spettacolo della sera. Il costo è notevole, ma ho sempre voluto vedere uno spettacolo del Circle du Soleil, e in Italia non vengono quasi mai. Anticipiamo quindi al pomeriggio la nostra visita dei più famosi casinò della città. Iniziamo guardando un nuovo spettacolo delle fontane del Bellagio, che stavolta danzano al ritmo di “Viva Las Vegas” di Elvis, quindi ci spostiamo al Montecarlo per il pranzo e poi proseguiamo visitando in rapida successione il New York New York (dove Giovanni, ricordando la fifa provata sul Ciclone a Coney Island, con la scusa del pranzo appena fatto rinuncia ad un giro sul Rollercoaster, ovvero sulle pazzesche montagne russe interne all’Hotel), il Camelot (dove sembra di entrare alla corte di Re Artù), il Luxor (dove ammiriamo la Sfinge e la perfetta ricostruzione di una piramide egizia), il Mandalay Bay (le cui piscine si caratterizzano per le onde dove è addirittura possibile fare surf), l’MGM (dove due tristissimi leoni mezzi addormentati si aggirano all’interno di una gabbia di vetro insieme al loro guardiano sotto gli occhi di decine e decine di turisti), il Flamingo (ormai un po’ fuori moda rispetto agli altri casinò che lo circondano), il Mirage (con la foresta tropicale ricostruita al suo interno e dove purtroppo il vulcano è in ristrutturazione), il Venice (con la perfetta ricostruzione di Venezia e del Canal Grande, con tanto di gondole e Dogi a spasso per la città), il Palazzo (di un lusso pazzesco) e infine il Treasury Island. Qui ci godiamo lo spettacolo della lotta tra il galeone delle sirene e quello dei marinai e poi, sfiniti rientriamo al Bellagio per la cena. Abbiamo camminato tantissimo, il caldo di Las Vegas non ci ha sicuramente aiutato e vogliamo solo cenare, farci una doccia e vedere lo spettacolo del Circle du Soleil. Per evitare di camminare ancora scegliamo il buffet del Bellagio, ma quando ci avviciniamo notiamo che c’è una coda infinita. Non ce la faremo mai. Siamo atterriti, non sappiamo come fare, uscire di nuovo proprio non se ne parla. Decidiamo quindi di chiedere alla Consiergerie se per gli ospiti dell’albergo c’è una fila prioritaria. Ci rispondono di no, ma evidentemente si accorgono che siamo sfiniti, capiscono che siamo in luna di miele e decidono di farci il loro personale regalo, ci danno un pass che ci consentirà di saltare tutte le code. Siamo così felici che vorremmo baciare la ragazza dietro il bancone. Il buffet del Bellagio è molto caro, ma c’è veramente di tutto. Mangiamo a volontà, andiamo a farci una bella doccia ed eccoci pronti per lo spettacolo! Il teatro del Bellagio è enorme, svariate volte più grande di quello dove siamo stati a New York. Al centro del palco c’è una piscina il cui livello sale e scende a seconda dei numeri che ci verranno proposti. Quando le luci scendono e il sipario si apre il sogno ha inizio. Non ci sono parole per descrivere la poesia e la bellezza di questo spettacolo. Potrei provarci ma parlare di trapezisti, clown, numeri di nuoto sincronizzato non può rendere neanche l’idea di quello che si svolge davanti ai nostri occhi. Giovanni è stanchissimo e purtroppo si perde un po’ dello spettacolo perché si appisola. Io, nonostante la stanchezza, non riesco a staccare gli occhi da questi atleti che sono l’essenza della poesia.
Quando lo spettacolo finisce, ce ne torniamo in camera, felici di aver dato ascolto ai nostri amici conosciuti nell’idromassaggio.
22° GIORNO: DOMENICA 24 AGOSTO 2008 ULTIMA TAPPA: CHICAGO L’aereo per Chicago, ultima tappa del nostro splendido viaggio, parte alle 10:00, ci svegliamo verso le 7:00 e dopo aver riconsegnato l’auto attendiamo l’apertura del nostro gate. L’aereo, ancora una volta American Airlines è pieno, come tutti quelli che abbiamo preso fino ad ora. Finiamo seduti dopo l’uscita posteriore, praticamente davanti ad una parete. A me da un senso di oppressione, ma a Giovanni piace perché abbiamo più posto per le gambe. Il volo dura quasi tre ore e quando arriviamo a Chicago decidiamo di non prendere il taxi, ma provare subito la metro. La scelta, che non sarebbe sbagliata, si rileva più macchinosa del previsto a causa di alcuni lavori sulla linea. Ci tocca quindi scendere a metà percorso, prendere un bus navetta e poi tornare sulla metro. Con tre valigie, la cosa si rivela abbastanza faticosa. Quando arriviamo in centro, troviamo dopo pochi metri il nostro Hotel: l’Hotel 71. La Hall è tutta nuova, in stile moderno. La camera purtroppo no. È grande, con un lettone king size, però l’arredamento lascia un po’ a desiderare. C’è un solo comodino, la cabina armadio è in bagno e la luce si accende solo attraversando mezza camera e quando la sera rientreremo non sarà facile trovarla al buio. Ripensandoci ho il sospetto che fosse in ristrutturazione e l’ammodernamento non avesse ancora coinvolto la nostra stanza. Per fortuna è abbastanza pulito e la posizione è ottima. Avrei voluto finire in bellezza, ma va bene anche così. Dopo aver disfatto le valigie non sappiamo cosa fare, è troppo tardi per iniziare a scoprire la città ma troppo presto per la cena. Decido che è arrivato il momento di rifare il bucato… sai che bellezza tornare a casa e non avere quasi niente da lavare!!! Purtroppo l’impresa è meno facile del previsto. Alla Reception ci indicano una lavanderia a gettoni in periferia. Tentenniamo un po’ ma ormai mi sono fissata e convinco Giovanni a partire. Prendiamo la metro, che qui è sopraelevata, e ci dirigiamo verso la fermata che ci sembra più vicina. Quando scendiamo ci accorgiamo di essere abbastanza lontani. Camminiamo un bel po’ e alla fine ci troviamo davanti una lavanderia normale, ovvero non self-service, chiusa. Lo sconforto è tremendo!!! Proviamo a chiedere ad un bar se ce ne sono altre nelle vicinanze, ma nessuno ne sa nulla. Con la coda tra le gambe andiamo verso la fermata più vicina della metro per tornare all’Hotel quando all’improvviso la vediamo!!!! Non ci sembra vero, ci precipitiamo dentro giusto in tempo per sentirci dire che l’ora consentita per l’ultimo lavaggio è ormai passata… da ben tre minuti! No, non era proprio destino. Torniamo all’hotel, lasciamo i nostri panni sporchi e usciamo per la cena. Anche cenare però non è così facile come sembra. Di domenica un sacco di locali sono chiusi e quelli aperti stanno comunque già per chiudere. Ma come?!?!!? Non è così tardi. Alla fine troviamo un locale abbastanza carino dove prendo un antipasto misto e una zuppa, pensando che quest’ultima sia leggerina… errore. Finisco per abbuffarmi senza riuscire a finire niente. La serata è comunque piacevole, in tv danno una partita di baseball e ormai noi ci sentiamo degli esperti!!! Quando usciamo per strada non c’è quasi nessuno, salvo qualche tipo losco. Rientriamo rapidamente in Hotel… è la prima volta che non ci sentiamo perfettamente sicuri. Ci tuffiamo nel nostro lettone e dopo ormai tante sere passate in letti separati dormiamo sogni tranquilli condividendo lo stesso letto. 23° GIORNO: LUNEDÌ 25 AGOSTO 2008 CHICAGO: LA CITTÀ SULL’ACQUA Per la prima volta da quando siamo partiti, siamo tornati verso est. La cosa comporta la perdita di due fusi orari rispetto alla California e quando la mattina la sveglia suona, capiamo che in questi ultimi giorni di vacanza alzarci presto sarà un po’ meno facile. Nonostante la buona volontà prima delle nove non riusciamo proprio ad abbandonare il letto. D’altra parte 22 giorni in giro per gli Stati Uniti iniziano a farsi sentire.
Facciamo colazione in un bar di immigrati italiani, e poi imbocchiamo il Magnificent Mile, ovvero la via principale di Chicago dove si trovano i negozi più belli e costosi della città. Io mi innamoro subito di un paio di palazzi che si trovano all’inizio di questa strada, proprio dopo il ponte, ovvero la Tribune Tower, nei cui muri sono incastonati pezzi dei più famosi edifici del mondo (compreso il Colosseo di Roma… ma come avranno fatto a prendersene un pezzo????) e il Wringley Buiding. Poco più in là c’è la Trump Tower, ancora in costruzione, che si trova proprio davanti al nostro Hotel. Sarà la stella polare del nostro soggiorno a Chicago. Ovunque andremo infatti riusciremo sempre a vederla, e sembrerà sempre vicinissima. Scattiamo un po’ di foto e poi l’imprevisto: abbiamo entrambe le memorie della macchina fotografica, piene!!!! Sing. Andiamo in una Pharmacy (in America le farmacie sono anche delle specie di supermercati) e lasciamo la nostra memoria per farla trasferire su cd. La cosa richiederà circa un’ora. E adesso che si fa? Impossibilitati a continuare la nostra visita, o forse sarebbe meglio dire ad iniziare il tour, scendiamo lungo il fiume e prenotiamo un giro in battello per il tardo pomeriggio.
Chicago infatti sorge sul lago Michigan (praticamente grande come il nostro mar adriatico) ed è attraversata dal Chicago River. I grattacieli svettano fin dagli argini del fiume e del lago è il colpo d’occhio è bellissimo. Sono inoltre grattacieli abbastanza vecchi e quindi architettonicamente molto interessanti. Forse i più belli che abbiamo visto fino ad adesso. Il più particolare è un palazzo sede di una storica gioielleria, dove un ascensore consentiva ai mezzi dei portavalori di salire fino ai piani alti dove si trovavano le casseforti. Non va dimenticato infatti che negli anni ‘30 Chicago era una città di gangs e di mafia.
L’ora passa abbastanza rapidamente e finalmente siamo pronti per ripartire. Passiamo accanto alla Water Tower, al John Hancock Center (il grattacielo più alto della città prima che venisse costruita la Sears Tower) dove compriamo i biglietti per l’osservatorio (ci torneremo domani sera al tramonto), il Northwestern Hospital (cercavo il mitico ospedale di ER ma non sono proprio riuscita ad individuarlo… chissà se esiste davvero) e arriviamo fino sulle rive del lago Michigan. Qui troviamo una bella e ampia spiaggia di sabbia fine, dove le onde del lago s’infrangono tra mille spruzzi. C’è un po’ di gente che prende il sole o gioca a Beach Volley. Il sole splende alto in cielo e noi ci togliamo le scarpe e camminiamo un po’ lungolago. Proseguiamo poi con l’itinerario consigliato dalla Lonely Planet e andiamo a visitare la zona di Fullerton, dove c’è una via nella quale si trovano una serie di villette veramente molto belle e particolari. Riprendiamo la soprealevata e ci concediamo un giro sul Loop, ovvero sul percorso ad anello che la metropolitana fa nel centro di Chicago. Scendiamo vicino all’Art Institute e ci facciamo una foto con i leoni che ne decorano l’ingresso. Proseguiamo fino al vicino Millenium Park dove ci sorprende una fontana formata da due enormi parellelipipedi formati da innumerevoli monitor e sui cui l’immagine cambia in sincrono con il tipo di getto: ora c’è una cascata ora la faccia di una persona dalla cui bocca esce lo zampillo d’acqua. I due parallelepipedi sono uno davanti all’altro e nel mezzo un sacco di bambini giocano nell’acqua. Arriviamo quindi al famoso BEAN di Chicago. Un’enorme scultura in acciaio a forma di fagiolo sulle cui superfici si riflette tutta la città. Facciamo tonnellate di fotografie e poi ci rincamminiamo verso il Magnificent mile, dove tra poco partirà la nostra gita in barca. Una volta a bordo la prima cosa che ci spiegano è che il corso del Chicago River è stato invertito, c’è quindi un complesso sistemi di canali e di chiuse che consentono di passare dal lago al fiume e viceversa. Noi prima facciamo il giro sul lago e poi ci addentriamo all’interno del centro fino ad arrivare proprio sotto la Sears Tower. I grattacieli visti dall’acqua fanno proprio impressione e soprattutto Giovanni ne è molto colpito e decide definitivamente che sono i più belli visti finora.
Torniamo in Hotel, ci cambiamo e per cena ci facciamo consigliare un locale dove mangiare la famosa Deep Pizza. Si tratta di un piatto tipico della città… in sostanza una torta salata fatta con la pasta da pizza e ripiena di mozzarella e pomodoro. La particolarità è che è molto alta, almeno 6 o 7 centimetri e infatti per cuocere impiega circa 40 minuti!!!! Ne prendiamo una piccola in due e nonostante tutto faticheremo a finirla. È abbastanza pesante, però ci piace un sacco. Ma in Italia proprio non la faranno? La giornata finisce così con noi belli appesantiti che rotoliamo verso la nostra camera. Siamo quasi alla fine, c’è un po’ di malinconia. Però abbiamo ancora un giorno e mezzo… per stasera non ci voglio pensare!!! 24° GIORNO: MARTEDÌ 26 AGOSTO 2008 CHICAGO: LA CITTÀ VISTA DALL’ALTO Anche stamani fatichiamo un po’ ad alzarci, soprattutto Giovanni. Diamo la colpa al fuso orario e rubiamo ancora qualche minuto di sonno. Per colazione scegliamo il bar sotto l’Hotel dove io mi prendo un bello yogurt e Giovanni un dolcetto e l’immancabile cappuccino. Stamani decidiamo di tornare verso il Millennium Park per visitarlo un po’ meglio. Per strada facciamo una sosta al Chicago Cultural Center ed entriamo per ammirare le bellissime vetrate in stile Tiffany.
Arriviamo quindi nel parco… in giro c’è ancora poca gente e ne approfittiamo per scattare un altro po’ di foto. Visitiamo l’enorme arena per gli spettacoli estivi e poi facciamo una deviazione verso la Buckingham Fountain, una delle fontane più grandi del mondo che, ad ogni scoccar di ora, dovrebbe proporre degli spettacoli d’acqua. Dico dovrebbe perché l’ora passa e non succede niente. I proprietari dei chioschi intorno non ci sanno dire niente, sembra quasi che ne sappiano meno di noi… ma com’è possibile??? Un po’ arrabbiati decidiamo di proseguire, se ce la facciamo torneremo più tardi… Camminiamo fino al Museum Campus dove si trova l’Acquario, il Museo di Storia Naturale e il Planetario. Proviamo ad informarci per visitare ques’ultimo ma non sono previste auidioguide in italiano. Rinunciamo quindi, pensando che le stelle spiegate in inglese sono un po’ troppo dure per noi. Ne approfittiamo però per pranzare nel self service interno alla struttura. Ci prendiamo due bei panini misti con tante patatine… non male. Oltrepassiamo quindi il Museum Campus e costeggiamo la spiaggia e il porto turistico fino ad arrivare al Soldier Field, lo stadio di football della città e monumento alla memoria dei caduti in guerra. Che strano abbinamento. Vorremmo visitarlo, anche perché visto da fuori è enorme, con due colonnati romani sui lati più lunghi… non riesco neanche ad immaginare come dev’essere visto da dentro quando è pieno. Purtroppo è tutto chiuso. Ci giriamo intorno e ne apprezziamo ancora di più l’enormità… per entrare però niente da fare!!!! Peccato… mi sarebbe molto piaciuto. Riprendiamo quindi la sopraelevata per andare fin sotto la Sears Tower. Quando arriviamo non c’è praticamente nessuno (che differenza rispetto all’Empire State Building, sarà forse perché ormai siamo a fine agosto), decidiamo quindi di salire fino all’osservatorio. La Sears Tower è l’edificio più alto di Chicago e fino a qualche anno fa del mondo, prima che Malesi e altri sceicchi iniziassero a costruire grattacieli infiniti. Un video proiettato prima di prendere l’ascensore ce ne spiega la costruzione e fa notare la difficoltà di lavorare così in alto in una città dove anche al suolo c’è già molto vento. Sulla sommità del grattacielo non era inoltre infrequente trovare un tempo e un clima decisamente diversi da quelli a terra. Quando raggiungiamo la terrazza panoramica la vista è spettacolare… la giornata è limpida e serena e il panorama spazia per miglia e miglia a 360°. L’osservatorio è tutto rigorosamente al chiuso… come dicevo troppo vento e troppo freddo per starsene all’aperto. Tornati giù decidiamo di riprovare con la Buckingham Fountain. Stavolta siamo più fortunati e possiamo vedere i getti aumentare di intensità e un altissimo zampillo partire sparato verso il cielo. Alla fine nelle fotografie riusciremo anche ad immortalare l’arcobaleno formato dalle goccioline di vapore acqueo sprigionate dalla fontana. Torniamo quindi in Hotel per cambiarci e fare le valigie in modo tale da essere pronti al tramonto per salire sull’altro osservatorio della città, quello del John Hancock Center. Prima però di andare in camera saliamo all’ultimo piano del nostro Hotel, dove si trova un salone da ballo un po’ dimesso che però ha un bell’affaccio sul mio grattacielo preferito: il Wringley Buiding, al quale riesco a scattare delle bellissime foto con il sole che dà alla costruzione delle bellissime sfumature rosate.
Quando arriviamo al John Hancock Center il sole sta iniziando a calare sulla città. Riusciamo quindi a fare bellissime fotografie sia al tramonto che di notte, con tutte le luci dei grattacieli che risplendono nel buio. Guardandoci notiamo che siamo tutti rossi in viso… il sole ed il vento c’hanno donato una bella tintarella, che probabilmente svanirà con l’aria condizione dell’aereo… pazienza. Ceniamo nel ristorante sotto l’osservatorio, famoso per i cheesecake. Le pareti e i soffitti sembrano onde di crema e stare qua dentro equivale ad entrare in un dolce… mi piace proprio. Decido di stare leggera e ordino un piatto che viene catalogato sotto la categoria entrée! Penso sia l’equivalente dei nostri antipasti.. Mi ritrovo davanti a quattro polpette fritte di maccheroni e formaggio. Sono molto buone ma anche molto pesanti, quando le finisco sono piena da scoppiare… e ora come facciamo con il famoso cheesecake della casa? Giovanni mi convince a fare un ultimo sforzo e ne dividiamo uno a metà… ne valeva proprio la pena. Quando usciamo Giovanni vorrebbe tornare di nuovo alla Buckingham Foutain per vederla illuminata e con la musica in sottofondo, pare infatti che di notte lo spettacolo preveda anche l’accompagnamento musicale. Io però sono sfinita dal tanto camminare e quindi alla fine decidiamo di tornarcene a letto… anche perché domani si parte e sarà un lungo viaggio.
25° GIORNO: MERCOLEDÌ 27 AGOSTO 2008 ARRIVEDERCI AMERICA Il nostro aereo parte alle 16:30 e quindi abbiamo ancora un’intera mattinata a disposizione. Decidiamo di passarla al Pier Navy, una specie di centro commerciale / parco giochi. Dentro infatti c’è un giardino botanico, una zona per le conferenze, una mostra di vetrate artistiche e la ruota panoramica sulla quale saliamo per l’ennesimo sguardo dall’alto a questa bella città. La mattinata passa pigramente camminando tra un negozietto e l’altro. Facciamo gli ultimi acquisti, pranziamo e poi, dopo un’ultima foto dentro l’ennesima fontana che, sul canale che unisce il fiume al lago, spruzza getti d’acqua fino all’altro lato della riva, riprendiamo la metro in direzione dell’aeroporto. Stavolta i lavori sulla linea sono terminati e il viaggio procede tranquillo, anche se con un po’ di tristezza e di malinconia. Quando sono partita pensavo che 25 giorni in giro forse erano un po’ troppi. Adesso che sono finiti invece capisco che erano la giusta quantità. Nonostante questo è triste pensare che questo viaggio tanto atteso, tanto programmato e tanto desiderato sia già finito. Come successo per il giorno del matrimonio, dopo tante attese e tanti preparativi tutto passa in un soffio. Restano i ricordi, bellissimi, e la fortuna di aver potuto vivere questo sogno, un po’ di nostalgia credo però sia normale. Soprattutto perchè gli Stati Uniti mi sono piaciuti tantissimi. Ci hanno accolto benissimo e ci hanno mostrato panorami indimenticabili, città stupende e soprattutto ci hanno fato conoscere il lato umano di una nazione molto ospitale, sorridente e generosa, dove per dire prego dicono “You are Wellcome” ovvero “tu sei il benvenuto”. Secondo me non è casuale, ma è sintomatico della natura di questo popolo.
Arrivati all’aeroporto ci compriamo qualche genere di prima necessità, girelliamo un po’ e poi è già ora di imbarcarsi, ancora una volta su un volo American Airlines. Anche stavolta l’aereo non è nulla di che, i posti sono abbastanza stretti e per di più, invece dei soliti posti vicino al finestrino, siamo finiti nei posti centrali. No, questa compagnia proprio non mi entusiasma. Vicino a noi, una fila più avanti un’anziana coppia americana, diretta in Africa dà spettacolo… lui è sordo, lei probabilmente anche. Lui è bello tranquillo, lei è un vero tormento… praticamente, urlando, inizia a sgridarlo per via dell’apparecchio acustico che non funziona, gli tira le botte, lo prende per il naso per costringerlo a guardarla, gli impone di farle da cuscino mentre dorme. All’inizio la scenetta è comica ma andando avanti la voce da aquila della signora diventa un po’ fastidiosa… ora capisco perché lui è sordo… forse è stata una scelta per la sua sopravvivenza. Nonostante tutto sono simpatici, e Giovanni scherza dicendo che lui la porta in Africa per farla mangiare da un leone. Il volo intanto prosegue, un po’ troppo turbolento per i miei gusti. Dopo aver tentato di seguire la trama del film “Ventuno”, cerco di dormire un po’, ma senza potermi appoggiarmi al finestrino proprio non ci riesco e alla fine tra la paura per le turbolenze, la stanchezza e la tristezza finisco pure per piangere un po’… VOGLIO SCENDEREEE!!!! 26° GIORNO: GIOVEDÌ 28 AGOSTO 2008 RITORNO A CASA Atterriamo regolarmente alle 7:40 in una nebbiosa Bruxelles. Facciamo colazione e poi proviamo un piccolo brivido quando vediamo che il nostro volo per Firenze partirà alle 12:35 anziché alle 10:35 come previsto. Per fortuna è solo un fraintendimento: sono troppo stanca e stravolta per un’attesa così lunga. Adesso ho solo voglia di riabbracciare i miei genitori e poi andare a casa mia a riposare nel mio letto. L’aereo è mezzo vuoto, non ci era ma capitato in questo viaggio! Poche file dietro di noi c’è un ragazzo di colore che russa come un orso. Si addormenterà prima della partenza e all’atterraggio dovranno svegliarlo per farlo scendere. Anch’io riesco finalmente ad appisolarmi un po’. Quando l’aereo sorvola sopra casa mia capisco che è veramente finita… nello stesso tempo però mi faccio una promessa… in America tornerò, il mio cuore infatti è rimasto là!