In Laos, nella piana delle giare
E’ bello il treno tailandese. Puntuale e confortevole, oltre che economico. Alle nove arriva un omino a preparare i letti con lenzuola di cotone. Si dorme tranquillamente, mentre il treno attraversa tutto il paese e la mattina si è già a Nong Khai, la porta del Laos, dove le rotaie muoiono a ridosso del confine.
In Laos non si sono ancora organizzati e i trasporti sono una faccenda piuttosto artigianale. Ci si muove un po’ sbandati non sapendo in realtà da che parte andare. La puntuale organizzazione tailandese si ferma alla frontiera che bisogna attraversare a piedi. Dall’altra parte ogni indicazione cessa.
Ci sono dei piccoli autobus per attraversare il ponte sul Mekong, poi una schiera di tuc-tuc che aspetta i viaggiatori per trasportarli a Vientiane, distante venti chilometri. C’è anche una piccola corriera azzurra.
Quando c’è, la corriera la preferisco sempre, soprattutto perché non si deve trattare il prezzo del biglietto, e in merito alle tariffe i laotiani hanno una fervida fantasia.
La capitale del Laos, adagiata lungo il Mekong, sembra una città sonnacchiosa. Nella luce abbagliante della tarda mattinata, l’afa già opprimente fa avvenire tutto come una pellicola al rallentatore. Per le strade quasi deserte, ogni tanto passa una bicicletta o un tuc-tuc che cerca sempre di fermarsi all’ombra, sotto un albero o una tettoia. Infine l’ultimo volo per Phon Savanh.
L’aeroporto di Vientiane, quattro chilometri fuori città, è una nuova e ariosa costruzione, ma come vi si entra ne si esce subito, è il terminal dei soli voli internazionali. Non ce ne sono molti. Il tabellone delle partenze è una lavagna con sei righe scritte col gessetto. Voli solo per i paesi confinanti.
A fianco del nuovo terminal c’è una costruzione bassa che sembra un magazzino. E’ il terminal dei voli interni. Il check-in è immediato, in partenza c’è sempre un solo volo. Vi è anche un controllo di sicurezza, ma quella che altrove è diventata un’ossessione, qui è solo una parola. Al posto del perquisirti, ti danno un benvenuto.
Sul tagliando del volo c’è scritto “porta 1”. Domando dove essa sia perché a guardarsi attorno, non è evidente e la domanda non è poi così cretina. La sorridente hostess della Lao Air indica con la mano distesa una porta alle mie spalle, da cui filtra un odore intenso di zuppa di verdura, che la faceva sembrare l’entrata di una mensa o una cucina.
Lontano dai distributori di snack mangia e fuggi, il ristorante della porta 1 dell’aeroporto di Vientiane, pervaso dall’odore di verdure, dice ai viaggiatori “gli orari sono più che altro indicativi”. L’aereo, infatti, parte quando tutti hanno finito di mangiare, non quando lo dice l’orologio e dopotutto, ai tavoli sono seduti anche il pilota e il Comandante, due uomini solidi e quadrati nelle loro impeccabili divise d’aviazione, ma stranamente senza scarpe.
Il volo di mezzora è un salto di una catena di montagne allo stesso prezzo di un biglietto d’autobus, che sarebbe invece costato venti ore sulle strade impervie dell’inaccessibile regione Hmong. Sul piccolo aeroplano bianco, con un grazioso fiore di loto pitturato sulla coda, non c’è davvero tempo per un servizio a bordo. Eppure, nei dieci minuti tra decollo e atterraggio, le due graziose hostess fanno dono ai pochi passeggeri di tre caramelle e un mazzetto di bacche di lychees legato con un fiocchetto argenteo. Lo porgono con le mani a coppa, sorridendo e inchinandosi con timidezza.
E’ il gesto gentile di un Paese povero che con un sorriso offre quello che può. Guardo le montagne fuori del finestrino, ma la vista mi si annebbia. Ancora una volta mi commuove la gentilezza cui non sono più abituato.
L’aeroporto di Phon Savanh è una semplice casa a lato di una pista in mezzo ai prati. Ha l’aspetto di una malga di montagna, forse per un diffuso odore di vacca che aleggia dappertutto. A 1500 metri d’altitudine l’afa di Vientiane non c’è più. Sono arrivato sulla piana delle giare.
La piana delle giare è uno dei grandi misteri asiatici. Un vasto altopiano ondulato da colline, circondato da montagne. E’ cosparso di migliaia di giare scolpite nella pietra. Giare anche belle grosse, la maggior parte è alta un metro e mezzo, ma alcune eccedono molto quella grandezza. Hanno migliaia di anni e della loro origine nessuno ne sa nulla.
Phon Savanh, che molti chiamano Xiengkhuang, è un paese di frontiera. Un’ampia strada lunga un paio di chilometri tra due file di costruzioni basse. Il paese vive di pastorizia, del poco turismo che viene per le giare e del recupero dei residuati bellici.
Sì perché sulla piana delle giare non si può girare liberamente, ci sono ordigni inesplosi dappertutto. Fulcro della guerra segreta, una guerra ufficialmente mai avvenuta, è stata pesantemente bombardata durante la guerra del Vietnam quando l’America, non riuscendo ad aver ragione dei suoi nemici, pensò bene di violare tutte le regole possibili, tutti i diritti umani e tutti i comandamenti divini pur di ottenere qualche risultato e quel che è peggio, lo fece anche con popoli che nulla avevano a che fare con quel conflitto, nascondendosi dietro a formalismi come il chiamare Cargo Air America un’aviazione in realtà di bombardieri. Come in Cambogia, la guerra sconfinò anche qui, portando con sé l’inganno, il tradimento e lo sterminio. Del recupero dei residuati bellici ora la popolazione ha fatto un’attività, ma è un’attività piuttosto pericolosa perché ogni tanto qualcuno esplode.
Dunque, la piana pullula di bombe. Phon Savanh ne dà un’immagine evidente. Le bombe a grappolo sono usate dappertutto: come colonnine di recinzione dei giardini, come vasi per i fiori, come sostegni per le tettoie dei pollai. C’è persino un bar che si chiama “Crateri” con due belle bombe alte un metro e mezzo ai lati dell’entrata. Stranamente, in paese non c’è alcun segno delle giare.
La compagnia che si occupa della bonifica ha una sala espositiva proprio al centro del paese, con una completa collezione di tutti gli ordigni a suo tempo utilizzati. La loro stima di bonifica alla velocità attuale è di 800 anni, tale la quantità di bombe ancora sparse dappertutto.
Scende la sera su Phon Savanh. Il sole scompare dietro la cresta di montagne a ovest, il buio cala e le fioche luci che filtrano dalle finestre delle case sono le uniche a rischiarare un po’ il paese. Al “Crateri” sembra ci sia la riunione di tutti i forestieri, una manciata di persone.
La piana delle giare è un territorio vasto. Le giare sono ovunque ma a causa delle bombe, non si può andare dappertutto. Così la visita è limitata a tre siti la cui bonifica è ragionevolmente sicura, come dicono i cartelli. Una rassicurazione che ha qualcosa di sinistro. Per andarci c’è un servizio con un vecchio pulmino azzurro, un immancabile Volkswagen giunto fin qui chissà da dove. Un’evidente prova di come il popolo tedesco non abbia mai capito per davvero le proprie qualità, insistendo nel fare guerre invece che farci viaggiare tutti in Mercedes e Volkswagen, cosa invece accaduta senza che l’avessero pianificata.
Usciti dal paese, la strada si perde lungo tratturi che serpeggiano per i prati. Si dà il passo alle mandrie di vacche, si costeggiano laghetti dove gruppi di bambini giocano felici in mezzo a papere, anatre e oche che, meno felici, tentano di evitare schiamazzi e schizzi. Ogni tanto affiora tra di loro la testa dai lunghi corni di un bufalo d’acqua. Più che un paesaggio è una scenografia. Il mondo col suo ritmo frenetico sembra così lontano.
Il sito 1 è una collina sulla cui sommità vi è il gruppo di giare più imponenti. Sono alcune centinaia, letteralmente assiepate lungo il sentiero. Molte sono ancora in piedi, appoggiate l’una all’altra, altre sono cadute e ora usate come panchine dai visitatori. Strano che un così gran numero di oggetti misteriosi non sia ancora entrato in storie e leggende, eppure un certo senso del magico ci deve essere, perché in alcune vi sono dei bastoncini d’incenso che bruciano lentamente. La guida non fa alcun accenno a qualche mito, sembra invece più ansioso d’indicare i crateri delle bombe. In lui certo prevale la memoria ben più recente dei ricordi dei bombardamenti. Lascia scorazzare un poco tra le giare poi richiama tutti, desideroso di mostrare qualcosa secondo lui più interessante: una piccola collina rocciosa nel cui interno c’è un’ampia grotta. Racconta che in tale luogo si radunava la popolazione del paese in occasione dei bombardamenti, fino al giorno in cui un razzo riuscì a entrare nell’apertura sterminando tutti in un sol botto. Il senso del magico si fonde con l’orrore della guerra.
I prati cedono al bosco e il sito 2 è spettacolare. Più piccolo del primo, è un gruppo di un centinaio di giare sulle quali, come sui templi d’Angkor, gli alberi sono cresciuti, inglobando, stritolando, schiacciando le giare stesse. Radici e giare formano un tutt’uno, come piante cresciute in vasi troppo stretti che alla fine hanno spaccato. Un gran ficus ha aperto una giara in quattro petali rocciosi, un altro ne ha avvolto una con le sue radici. Un grande albero è cresciuto a cavallo di una massiccia giara caduta a terra, ma troppo grossa per essersi sfondata.
Il sito 3 è distante qualche chilometro in una zona coltivata a riso, il cui verde brillante rende il paesaggio luminoso. Il pulmino si ferma al bordo di un torrente da cui è necessario proseguire a piedi. Si attraversa un ponticello d’assi traballanti e si cammina lungo gli stretti terrapieni che delimitano le risaie. Tra una risaia e l’altra vi sono degli steccati da superare. Non sono molto alti e dove è previsto il passaggio, vi sono state appoggiate delle corte scale a pioli. Si procede a rilento perché ogni donna del gruppo, giunta alla scala, trova un proprio modo per incastrarsi. Chissà perché tra donne e scale a pioli non vi è mai stata affinità. Una sale la scala. Scavalcando troppo presto la sommità dello steccato, una gamba passa, l’altra rimane indietro. I suoi piedi perdono l’appoggio dei pioli e si trova seduta a cavallo dello steccato, senza alcun appoggio per togliersi da una tale imbarazzante posizione. Intervengono gli uomini del gruppo che la rimuovono con la forza delle braccia, tra risatine di imbarazzo poiché è evidente dove la forza ha dovuto essere applicata. Una seconda cerca di evitare l’errore della prima. Sale gagliarda fino alla sommità della scaletta e lì si blocca, ritta in equilibrio, non sapendo come voltarsi per scendere a ritroso dall’altra parte. L’equilibrio si perde subito ed è afferrata al volo dagli uomini ormai in allarme.
Le colture terminano in un prato, dove c’è un denso gruppo di giare. Sono molto differenti da quelle dei siti precedenti. Più che giare sembrano pezzi di grossi tubi. Il sito è invaso dalle vacche. Sono anche piuttosto petulanti e non si lasciano allontanare facilmente. Appena si gira l’occhio, tornano tra una giara e l’altra, in barba alle molestie. Molestare le vacche non è il mio sport preferito, ma la mandria è numerosa e le giare quasi non si vedono. Naturalmente è opportuno guardare dove si mettono i piedi, ma questa volta, non per le mine perlomeno.
L’aspetto molto arcaico del sito 3 ricorda molto i complessi megalitici dell’Europa continentale. Come le pietre megalitiche, anche le giare provengono da cave distanti, ma più dei dolmen e dei cromlech, le giare sono un mistero ben più fitto, poiché sono anche scolpite. Perché riempire un territorio per chilometri e chilometri di tali pesanti manufatti? Nessuno ha la risposta e le giare non la danno.
Dal sito 3 lo sguardo spazia sulla valle. Un paesaggio bucolico di prati e risaie, macchie di boschetti e rada presenza umana. A ben guardare, tutto il paesaggio è punteggiato dalle giare che da lontano sembrano solo grosse pietre.
Quando il gruppo di visitatori si allontana, resto indietro e all’improvviso sento il rumore del silenzio. Il silenzio ha un rumore, è la mancanza d’ogni suono. Allora si ascolta attentamente, non abituati a una tale assoluta assenza e si finisce per udire il proprio soffio del respiro. Allora capisco. La piana delle giare è un luogo immobile nello spazio e nel tempo e forse le giare sono la voce silenziosa di chi le ha costruite per dire, per raccontare, noi siamo stati qui e questo è il nostro segno per non essere dimenticati.