In Bici da Olbia ad Arbatax a Ferragosto

Da Olbia ad Arbatax in bicicletta a cavallo di ferragosto Direte che siamo matti. Partendo lo pensavo anch’io… ma un pizzico di follia non guasta, se non altro per fare qualcosa di completamente diverso e creare quella sensazione di stacco dalla vita quotidiana, che, almeno per quello che mi riguarda, è l’unica cosa che dà davvero il...
Scritto da: Daniela Garavini
in bici da olbia ad arbatax a ferragosto
Partenza il: 11/08/2005
Ritorno il: 21/08/2005
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 1000 €
Da Olbia ad Arbatax in bicicletta a cavallo di ferragosto Direte che siamo matti. Partendo lo pensavo anch’io… ma un pizzico di follia non guasta, se non altro per fare qualcosa di completamente diverso e creare quella sensazione di stacco dalla vita quotidiana, che, almeno per quello che mi riguarda, è l’unica cosa che dà davvero il senso della vacanza.

Il breve periodo che avevamo a disposizione, il desiderio di sentirsi liberi dalle 4 ruote ci ha fatto optare per questa soluzione, pur temendo caldo, traffico e affollamento. Il risultato ci fa dire che è stata una buona scelta e chi ha la fortuna di poter fare lo stesso itinerario in un periodo dell’anno migliore (giugno- settembre) sicuramente sarà ancora più contento. Ovviamente è necessario buon carattere e spirito di adattamento, anche perché non abbiamo prenotato nulla prima di partire (fa sempre parte dell’avventura). Ma ecco la descrizione: Partenza da casa di amici a 12 km da Olbia sabato 13 agosto e pedalata fino a San Teodoro (circa 50 km). E’ il tratto più trafficato del vaggio, ma la strada (la 125 orientale sarda che abbiamo seguito più o meno per tutto l’itinerario) sempre in vista della costa, offre un bellisssimo sguardo sull’isola di Tavolara lungo tutto il percorso, che non presenta particolari difficoltà. Noi abbiamo spezzato la tappa in due fermandoci nelle ore più calde sulla spiaggia di Porto Taverna, sabbia bianca, acqua azzurra, Tavolara sullo sfondo, purtroppo moltissima gente, ma il bagno è veramente un godimento. Volendo si sarebbe potuto deviare verso Capo Coda Cavallo ma il rischio che fosse ancora più affollato ci ha fatto desistere.

San Teodoro e la sua bella spiaggia della Cinta in questo periodo sono piene di gente, sicché ci siamo fermati il minimo indispensabile montando la nostra tendina in un campeggio (la tenda è piccola e un posto lo si trova sempre, anche se c’è scritto “completo” all’ingresso) e andando a mangiare in un ristorante non particolarmente memorabile, ma il pesce era buono. Costo 25 euro circa per il campeggio e 75 per la cena (i prezzi sono per due persone). Di fatto, per tutto il periodo abbiamo notato che mangiare costa veramente tanto, anche quando la cucina non è granchè, (si potrebbe qui aprire un dibattitto sulla ristorazione prezzi e qualità…), è più facile invece trovare da dormire a buon prezzo.

Il mattino verso le nove ripartiamo, seguendo vie costiere provinciali, dove il traffico è scarso, la strada attraversa paesaggi estreamamente piacevoli, sia quando corre relativamente lontana dal mare, sia quando è sulla costa. Qualche salita per valicare basse colline che movimentano il panorama, anche se su una c’era scritto addirittura Gran Premio della montagna… Ciclisti in giro ce ne sono pochi e cicloturisti nessuno. L’affollamento comincia a diminuire rispetto alla costa nord. Ma il numero di animali travolti dalle macchine e rimasti cadavere sulla strada è sempre elevato e noi che andiamo piano li vediamo da vicino e ci danno di che meditare. Alla fine del viaggio la conta dei morti assomma a due volpi, due bisce, innumerevoli gatti e ricci, e persino qualche uccellino. Questa volta in un’unica tappa (di circa 40 km) giungiamo al Camping Calapineta, poco dopo la località La Caletta, che è la marina di Siniscola. Qui piantiamo la nostra tendina in una pineta ovviamente, a fianco di un gruppo di ragazzi di Sanluri che si era organizzato un campo in cui le ragazze non si muovevano quasi mai, stando sul posto a preparare cibo, chiacchierare, sentire musica, mentre i ragazzi andavano e venivano a loro comodo. Dopo aver passato all’ombra le ore più calde, abbiamo ripreso le bici nel tardo del pomeriggio per andare al non lontano Capo Comino, seguendo una pista nella pineta che dal campeggio arriva al villaggio, da cui inizia la lunga spiaggia bianca delimitata da un’alta duna che termina al capo. Per raggiungere questo, occorre però riprendere a strada (la 125) e percorrerla per pochi chilometri fino al bivio a sinistra con le indicazioni. Qui, dove la spiaggia si congiunge quasi al capo davanti alle isolette che lo individuano, ci siamo concessi un lungo bagno. Ovviamente la spiaggia non era deserta, ma non più affollata come quelle del giorno precedente. La sabbia bianca e fine, il colore dall’azzurro al verde dell’acqua e, dietro, le dune ricoperte della loro tipica vegetazione, compresi i bellissimi gigli, sono una gioia per gli occhi. E sono un preludio alle bellezze che ancora vedremo. Per cenare ci fermiamo al campeggio, non abbiamo voglia di affrontare una pedalata notturna da un agriturismo sul capo dove ci darebbero da mangiare ma non da dormire. Costa 25 euro il campeggio e 50 la cena.

La tappa successiva (terzo giorno) è il paese di Orosei (circa 30 km). Lungo la strada ci fermiamo però a visitare il castello della Fava, nel pese di Posada, una fortezza costruita intorno all’anno mille dai pisani, poi passato al giudicato da Arborea. Il luogo dove sorge è spettacolare, uno sperone di roccia in mezzo alla pianura costiera. Dall’alto lo sguardo si spinge sia verso l’interno sia verso il mare. Quando sgusciamo sul terrazzo della torre da una stretta botola, ad accoglierci c’è solo il vento, un maestrale che soffia abbastanza forte e che più tardi ci ostacolerà un po’ nelle brevi salite che ci dividono da Orosei. Quando infine ci giungiamo, sono circa le 11 del mattino del giorno di Ferragosto. Non abbiamo più un euro (anzi per la verità ne abbiamo 5), e scopriamo che i bancomat (due) sono entrambi vuoti. Non siamo gli unici a trovarci in questa situazione. In effetti i bancomat sono molto pochi, tutti presi d’assalto nel weekend di ferragosto, non solo qui, ma su tutta la costa. C’è chi dice che arrivando da Olbia e non ne ha trovato uno funzionante… In compenso riusciamo a trovare una stanza da un’affittacamere nel centro del paese (40 euro in due). Nulla di speciale ma un letto più morbido del materassino in tenda… Proviamo a farci cambiare un assegno ma non è aria, così ci compriamo in un supermercato con pagamento pos un po’ di frutta e ce ne andiamo nella spiaggia di Su Barone, di fianco a Marina di Orosei a passare una bellissima giornata di mare. Su Barone è un spiaggia di sassolini bianchi minutissimi con dietro una duna e dietro questa una pineta, e dietro questa, ancora, uno stagno. Il mare scende subito profondo e del resto anche la spiaggia che declina dalla duna è in forte pendenza. Nel giorno di ferragosto la pineta è piena di tavolate di sardi in festa con cucine da campo e carni che arrostiscono. Quando arriviamo noi, sono già abbastanza avanti nella carica alcolica. La spiaggia in compenso è quasi deserta e comincerà ad animarsi solo verso la fine della giornata. Il posto è bellissimo, c’è un vento che ruba i palloni di chi si avventura a giocarci in acqua, ma il mare è piatto. Siamo sempre affascinati dai colori e dalla ricchezza di vegetazione e di ambienti diversi. Ci fa venire in mente che sarebbe bello riuscire ad andare nell’oasi naturalistica che si trova un po’ più a nord vicino a Cala Liberotto (si chiama Biderrosa ed è tra l’altro un punto di sosta di fenicotteri), ma purtroppo non è possibile, il 16 l’oasi è chiusa e la lista di attesa per iscriversi (c’è il numero chiuso) è lunga e noi dobbiamo proseguire. E’ uno degli inconvenienti delle date di questo viaggio, e uno dei motivi per cui sono sicura che ritorneremo da queste parti. La mancanza di contanti ci fa optare senz’altro per il miglior ristorante di Orosei, Su Barchile, beviamo un ottimo vermentino, ci concediamo delle linguine con l’astice e un buon antipasto di pesce. Ovviamente il conto è di conseguenza (100 euro) ma è senz’altro il miglior posto dove abbiamo mangiato in tutto il viaggio. Il proprietario è gentile e simpatico, raccoglie le ordinazioni e i commenti, il servizio è efficiente e cortese e l’atmosfera è molto piacevole. E rappresenta la degna conclusione della giornata. Il giorno dopo indugiamo un po’ nella partenza, tra bancomat, informazioni alla Pro loco per scoprire che a Bidderrosa non ci si può andare, breve visita a Sant’Antonio e alla Casa Torre e al santuario della Madonna del Rimedio con le sue caratteristiche cumbessias (le stanze di accoglienza per i pellegrini addossate al muro di cinta che fanno da corona alla chiesa, una struttura che vedremo molto più rustica anche in un successivo santuario nella piana del Golgo).

Quando partiamo per Dorgali, sono quasi le 11 e qui comincia la salita vera – Orosei è praticamente sul mare e Dorgali a quasi 400 metri -, fortunatamente però la giornata non è così calda. Lo verificheremo anche alla fine della pedalata. Rispetto ai giorni precedenti il consumo d’acqua è stato inferiore (intorno ai 2 litri invecedi 4 ). In realtà la nostra meta non è proprio Dorgali ma un agriturismo 4-5 km verso l’interno, Muristene, dove arriviamo verso le tre del pomeriggio. Anche in questo caso siamo riusciti a spezzare la tappa in due, con sosta a Ispinigoli, una grotta che fa parte di un complesso sistema di cunicoli sotterranei che si sviluppa lungo svariati chilometri. Il luogo si caratterizza per la presenza di una colonna stalattito-stalagmitica molto alta, 40 metri, seconda al mondo solo a una ritrovata in New Mexico. La località è nota anche come abisso delle vergini perché vi sono state trovate ossa che hanno fatto pensare a sacrifici umani, ma non è assolutamente detto che sia davvero così. In ogni caso, l’antro, al quale si accede dall’alto scendendo poi con una stretta scaletta fino alla base, è molto ampio, con bellissime concrezioni e altre formazioni sia di tipo stalattitico che stalagmitico, in fondo si intravede il pozzo che lo mette in collegamento con altre parti della cavità che sono state esplorate tra gli altri anche dal gruppo speleologico piemontese.

La grotta non è più attiva, nel senso che non sono più in corso nuove formazioni concrezionali, non c’è più passaggio d’acqua né gocciolamento che è quello che in questi strati calcarei e carsici ha portato alla formazione sia degli antri sia delle concrezioni. Quella del Bue marino, non troppo distante da qui e che visiteremo il giorno dopo è invece ancora attiva.

L’accoglienza all’agriturismo è calorosa: ci offrono bevande fresche e un’ampia stanza appena ristrutturata in modo molto semplice. I dintorni sono affascinanti, catene di colline coperte di olivastri e macchia mediterranea, muretti a secco, prati ormai ingialliti e greggi di pecore e di capre, caldo secco e profumi di erbe aromatche. Un breve tragitto a piedi ci porta nella stessa proprietà dell’agriturismo al più vecchio olivastro dell’isola, tutelato dalla Regione, sotto il quale ci fotografiamo e sembriamo dei ragnetti a confronto dell’immensa mole nodosa e rugosa della pianta, il cui tronco misura sette metri di ciconferenza.

Non paghi, riprendiamo le bici e ci rechiamo un po’ più in là (un paio di chilometri) al villaggio nuragico di Serra Orrios, una visita emozionante a un pugno di capanne che, a sentire la guida che ci accompagnava, avrebbe ospitato fino a 500 persone. Non tutto è stato scavato, ma i “quartieri” di capanne, addossate l’una all’altra intorno a un cortile, il recinto sacro (culto legato all’acqua e alla fertilità) e un po’ discosta la “capanna delle riunoni”, hanno fatto pensare a una società fondamentalmente comunitaria, di eguali, che viveva di agricoltura e pastorizia, in un ambiente che non deve essere cambiato molto da allora. Una società che proprio per il suo essere di eguali non ha prodotto la scrittura, nata invece nelle culture palaziali, dove era necessario registrare i contenuti dei magazzini del palazzo. La tecnica di costruzione delle capanne è simile a quella dei nuraghi, ma qui i muri a secco giungono a circa 1,80 m da terra per poi essere terminati con una copertura conica in legno, non molto differente dalle capanne dei pastori che ancora si vedono sia qui sia altrove. L’interno veniva intonacato con argilla, sia le pareti sia il tetto; in basso tutt’intorno al muro una panca circolare, che poteva essere sia in pietra (nella sala riunioni) sia in legno (nella capanne).

Tra le cose che ci hanno colpito, l’uso dei rami di oleandro come copertura per i tetti, perché questa pianta velenosa tiene lontani gli insetti. Scopriamo così che l’oleandro è una pianta autoctona, preparandoci allo spettacolo dei boschetti di oleandro selvatico di cala Luna. Le capanne dei pastori, hanno invece le coperture in contorto e grigio legno di ginepro.

Ceniamo all’agriturismo di Muristene dove la cucina, fatta unicamente con materie prime prodotte da loro stessi è molto buona, non così purtroppo il vino, anch’esso di produzione propria e assolutamente deludente. Scopriamo qui per la prima volta i culurgiones, ravioli ripieni di patate e formaggio, profumati alla menta e conditi con un ragù di agnello, per il cui ripieno esistono innumerevoli versioni, legate non solo alle località ma anche alla tradizione famigliare, come ci spiega la signora di Muristene e come assaggeremo successivamente. La loro usa un misto di formaggio fresco e stagionato, ma non lo stesso formaggo fresco (frais) che ci ha offerto d’antipasto e che ci ha lasciato stupefatti per il gusto e la consistenza: una cagliata appena salata di latte di pecora. Il secondo è uno stufato di capra come non ho mai assaggiato altrove. Chiudono il pasto dei dolci di rara delicatezza, oltre alle sebadas cui questa volta abbiamo rinunciato, sospiri, aranzade, croccanti e torroncini dai nomi più diversi e dal sapore eccezionale. Anche la mattina dopo a colazione ci vengono offerti dolci confezionati in casa che mangiamo di gusto. Costo complessivo per cena, stanza e prima colazione 100 euro in due.

4° giorno. La meta iniziale è Dorgali e l’abergo S’adde (la valle) dove lasciamo le bici, il percorso non è molto lungo, ma tutto in salita e per la prima volta sento la fatica. Decidiamo quindi di scendere a Cala Gonone in pullmann ma poiché questo non arriva, chiediamo un passaggio. Giù ci intruppiamo in una minicrociera su un barcone per visitare le cale del golfo e la grotta del Bue marino. Si parte a mezzogiorno, prima tappa la grotta. C’è un sacco di gente, e c’è un momento di sbandamento e di attesa che si prolunga più del necessario, poi inizia la visita che è sostanzialmente una lunga passeggiata su una passerella sospesa che percorre un tratto lungo quasi un chilometro del braccio sud della grotta. Anche questa è lunghissima, diciotto chilometri, in due bracci uno verso sud, l’altro verso nord che si uniscono a mare. Questa grotta era il rifugio della foca monaca scacciata di qui, dalla caccia, ma soprattutto dal turismo. Molti nomi la ricordano: dal Bue marino, così chiamata dai pastori per il suo verso simile al muggito, alla Cala Mariolu (nome datole dai pescatori ponzesi fondatori di Cala Gonone perchè la foca rubava il pesce dalle reti e i pescatori la ammazzavano). Morale: oggi nella grotta gli unici buoi siamo noi umani che ci ammassiamo lungo il percorso come una mandria sospinta dal pastore. Cionostante l’ambiente è fantastico, i colori della volta e delle rocce, le concrezioni, l’acqua che accompagna per tutto il percoso fino al punto in cui l’acqua di mare incontra quella del fiume responsabile di tutto questo. In più si sente continuamente sgocciolare e si ha la sensazione di essere in un ambiente vivo. Vi restiamo più di un’ora camminando prima in un senso poi nell’altro e riempiendoci gli occhi di queto ambient strano, poi di nuovo in barca che ci scarica a Cala Mariolu, superaffollata ma molto bella, sabbia fine e bianca, rocce tra il giallo e l’oro. Dopo un paio d’ore di nuovo in barca a visitare le altre cale dal mare, sentendo spigazioni su questo territorio una volta ricoperto di lecci (ne vedremo ancora qualcuno veramente grande nell’altipiano del Golgo), oggi quasi tutti spariti ad opera dei carbonai che nell’Ottocento hanno trasformato in energia per l’industria piemontese le foreste primare dell’isola e del Gennargentu in particolare. Ora qui domina la macchia mediterranea che dal mare vediamo verde sulle alte falesie. Costeggiando arriviamo fino a Cala Goloritzè, che qualche giorno dopo raggiungeremo anche via terra. Qui sulla guglia alta 150 metri ci sono rocciatori che arrampicano e dalla barca sembrano formichine sulla gamba di un enorme animale.

Tonando verso Cala Gonone ultima sosta a Cala Luna, un tempo affascinante, oggi troppo affollata per esserlo, ma sempre bella. Un laghetto d’acqua dolce è subito dietro la spiaggia, e noi ci inoltriamo a monte verso la codula; pochi passi e la gente ed anche il rumore del generatore del ristorante non si sentono più. Siamo circondati da boschetti di oleandri selvatici come non abbiamo mai veduto. Incontriamo anche un vitello e sentiamo la presenza di altri animali che qui pascolano bradi e indisturbati brucando la macchia. Anche qui meriterebbe tornare in un momento più calmo per vedere da vicino le grotte che delimitano la parte settentrionale della spiaggia, per esplorare più a fondo la parte interna (il sentiero che porta alla codula e alla cala di Luna parte sulla 125 poco dopo il passo di Genna Silana, come vedremo il giorno dopo). Insomma un piccolo assaggio. Da Cala Gonone dove ci riporta il barcone, questa volta riusciamo a prendere il pullman per risalire in una Dorgali silenziosa e leggermente odorosa di stallatico dopo la corsa delle pariglie che ha avuto luogo nel pomeriggio. C’è un’aria di smobilitazione dopo la festa anche se è previsto ancora un concentro a sera tardi. Ma noi sportivi alle nove già siamo stanchi dopo la giornata e l’indomani ci aspetta la tappa più impegnativa del giro: 47 chilometri fino a Baunei, superando il passo di Genna Silana a 1060 metri, più altre genne di lì a Baunei. Così mangiamo in albergo (senza infamia né lode). Cena più albergo e prima colazione ci costano 150 euro.

A posteriori la tappa più temuta si rivela la più entusiasmante, la strada da Dorgali a Genna Silana, sale senza strappi lungo un costone e guarda all’interno sulla valle del fiume Mannu. Il panorama è profondo e distrae dalla fatica della salita, lo sguardo si perde una catena dietro l’altro fino a fermarsi alla più alta, il Gennargentu. Dalla nostra strada poco dopo Dorgali si diparte la strada che va a Tiscali. Dopo una decina di chilometri la strada gira dietro il costone e giunge su una sorta di altopiano, dove troviamo una sorgente buonissima; il versante ora è cambiato e lo sguardo spazia verso le falesie sotto le quali ieri giravamo in barca. Vediamo la codula di Luna, po la strada gira ancora quasi indietro e rigira per portarci finalmente al passo temuto. Qui non è finita la salita (ci sono altre tre genne – da ianua= porta), ma siamo quasi a metà strada e gli altri passi sono tutti con risalite abbastanza brevi. Macchine non ne abbiamo quasi incontrate, né ne incontreremo molte nemmeno in discesa. Facendola ci persuadiamo che il senso da cui abbiamo preso questa strada è certamente il migliore e che la risalita da Baunei a Dorgali sarebbe stata molto più ripida. Guardandoci intorno poche sono anche le case, i paesi e i segni di presenza umana, si vedono un po’ di animali che pascolano bradi e, a perdita d’occhio, valli e colline o in lontananza il mare a seconda del versante su cui gira la strada, che per un po’ cambia ancora, fino a giungere al costone che porta in discesa al paese di Baunei, dove arriviamo alle 3 del pomeriggio. Qui vediamo l’indicazione per il rifugio del Golgo e decidiamo di telefonare (era un nome che avevamo già sentito). Ci possono ospitare nella foresteria, stanzoni da otto letti (a 8 euro ciascuno) e ovviamente dar da cena. L’unico dubbio sono gli undici chilometri ancora da percorrere, di cui un paio in salita (e che salita!). Però ci attira immergerci in quel paesaggio che prima contemplavamo dall’alto, e prima ancora dal mare. Non abbiamo voglia di scendere subito fino a Santa Maria Navarrese. In fondo la nave da Arbatax la avremo fra tre giorni. Così, ci ristoriamo brevemente e ci rimettiamo in marcia. La salita è veramente tosta, al secondo tornante scendo dalla bici e proseguo a piedi fino a che si scollina sull’orlo di una specie di cratere, dal quale ci si affaccia su un altipiano calcareo e carsico, il Golgo, così chiamato perché contiene una voragine (su sterru) profonda quasi 250 metri e un’altra più piccola di 180 metri. Siamo a 400 metri d’altezza e il mare non si vede, la terra è rossa e coperta di macchia e la strada si snoda in discesa per una decina di chilometri fino ad arrivare al rifugio: una costruzione circolare di pietra per i cavalli e la foresteria, un’altra sempre di pietra e porticata un po’ più avanti dove c’è il ristorante, qualche camera e la sede principale della cooperativa Goloritzè che gestisce rifugio e maneggio e organizza escursioni in fuoristrada, a piedi a cavallo e in MBK.

Ci accoglie un simpatico Antonio, una bibita fresca e la chiave della stanza, che si affaccia su un cortiletto tondo al cui centro c’è un olivastro, dietro le altre porte altre stanze e i bagni comuni, con ottima doccia. Qualche centinaio di metri lontano c’è il rustico santuario di San Pietro, cui ho già accennato, che vicino a sé ha alberi veramente colossali, in particolare un bagolaro enorme contro il quale sia io sia Alberto sembriamo piccolissimi. Ci andiamo in visita, per capire meglio dove ci troviamo. La chiesa è chiusa, ma le cumbessias intorno sono aperte, anzi sono praticamente un portico chiuso all’esterno da un muro di cinta e aperto all’interno con focolari e camini dove arrostire l’immancabile agnello o porchetto. Intanto già sappiamo che a cena ci aspetta il porceddu, cotto alla maniera sarda, e non si può dire, dopo la giornata trascorsa, che non siamo affamati. E’ qui anche che incontriamo Luisa ed Elena, reduci da una gita in MBK a Cala Sisine. Passeremo con loro la serata e i due giorni successivi. Loro sono in giro in camper da 3 settimane alternando il mare e le montagne e hanno una meta precisa: la punta di Sas Salinas da cui guardare la Cala di Goloritzè dall’alto. Antonio sembra un po’ restio ad accompagnarle, ma poi quando decidiamo di unirci anche noi e quando lui si convince che siamo persone simpatiche, sia le ragazze sia noi, la cosa è fatta: appuntamento alle nove domani mattina. Peccato che sia quasi l’una e al cannonau si sia aggiunta una congrua dose di filuferru al carrubo.

Si parte in fuoristrada e la prima sosta è all’ovile del pastore Battista, alto su Sa Pedra Longa: l’ovile ha una splendida terrazza la cui balaustra è fatta con i rami di ginepro. Battista e la moglie sono molto gentili, ci fanno visitare i loro luoghi, molto semplici. La sensazione è che gli strumenti e i locali non siano poi molto diversi da quelli che usavano i pastori di millenni fa. Unica differenza i cestini di plastica. L’oggetto più strano è un piccolo morso che si usa per svezzare i capretti. Il morso blocca la lingua impedendo di succhiare, ma non di brucare e mangiare l’erba e le foglie. Anche questo deve essere un oggetto antichissimo, fatto di un piccolo fuso di legno che va in bocca e da una cordicella per legarlo intorno alle corna o alla testa dell’animale. Il grande camino nell’angolo della prima stanza ha l’aspetto di aver molto vissuto, quasi quanto i ginepri della balaustra della terrazza. Il posto è meraviglioso, ma Battista ricorda che la vita del pastore è dura, isolata, che sì oggi ci sono le macchine e si torna al paese più spesso, le disponibilità finanziarie sono un po’ meno risicate di prima, ma lui comunque non è più giovanissimo e di figli accanto a lui non ne abbiamo visti. Del resto anche Antonio, la nostra guida, che è figlio di pastore, ha deciso per sé tutt’altra strada.

Si riparte e la prossima meta è Punta Sas Salinas. Se dall’ovile vediamo Pedra Longa, da lì siamo a picco sopra l’aguglia di Cala Goloritzé. Ci arriviamo dopo un percorso relativamente breve in fuori strada e una camminata di un’ora circa, per sentieri che senza la guida di Antonio difficilmente avremmo individuato. Qui di segnaletica non si parla proprio e la conoscenza dei sentieri è un patrimonio che la cooperativa tende a ritenere una sua esclusività. E’ un modo per preservare questi territori e per andarci in modo organizzato e controllato. Antonio racconta di persone che si sono perse e che loro sono dovuti andare a cercare. Così, in tutto l’altopiano di senieri segnalati ce ne sono pochissimi: quello che va Cala Goloritzé partendo dal parcheggio e quello che va a Cala Sisine, che è una sterrata che si può percorrere in bici (sono 14 chilometri).

Il sentiero che percorriamo a piedi, prima raggiunge la cresta e poi la percorre fino al punto più elevato, Sas Salinas appunto. Perché questo nome? Non è chiaro, Antonio dice che forse dipende dal fatto che le pietre qui tendono a sfarinare, Alberto ricorda le “pietre da lech” che ci sono sulle Alpi, leccate appunto da camosci e stambecchi. Morale: non lo sappiamo, certo è che qui di animali ce ne sono, oltre a quelli al pascolo, molti uccelli, comprese le aquile, mufloni, che potrebbero essere interessati a leccare le pietre. Noi comunque non ne abbiamo visto nessuno. Invece la vegetazione di macchia è ricchissima e rigogliosa, anche se ora nel pieno dell’estate è di un verde un po’ polveroso. Antonio che ci accompagna è dispiaciuto di mostrarci la sua terra quando i colori non sono nel loro momento migliore e il verde invece di essere lucido e brillante è spento. Così continua a ripetere, “adesso è brutto, immaginate in primavera”. Quando però arriviamo sulla cresta, i colori del mare 600 metri sotto di noi sono fantastici, infinite sfumature dall’azzuro al turchese al blu e l’occhio è più che appagato dall’ampiezza dello sguardo che copre l’intero golfo di Orosei oltre a perdersi al largo nel blu sempre più scuro verso l’orizzonte. A scendere alla cala ci vuole un’ora e mezza e, una volta lì, entrare nell’acqua che avevamo visto dall’alto è un gran godimento. Oltetutto alla Cala Goloritzé si arriva solo a piedi, le barche non possono attraccare, le bici e le macchine non possono scendere e quindi arrivarci è per tutti una vera conquista. Il sentiero è abbastanza comodo e passa sotto alberi maestosi, lecci risparmiati dai carbonai del secolo scorso; il fondo è molto pietroso, il suo percorso quasi sempre all’ombra. Insomma una passeggiata bella. Peccato che, a differenza che in montagna, è il ritorno ad essere n salita… 500 metri per i quali ci vuole un’ora e mezza più un’altra mezz’ora circa per arrivare al rifugio. Anche perché noi facciamo una piccola deviazione verso la Voragine che non avevamo ancora visto. Protetta da una balaustra è un buco come di un pozzo di cui non si scorge il fondo ed è piuttosto impressionante. Ci aspetta una nuova cena, sempre a base di porceddu. Cominciamo a notare la mancanza di verdure (a parte quelle in carpione date per antipasto che sono molto buone) e la sovrabbondanza di carni sia arrostite sia insaccate, una tipica dieta da pastore. Cucina semplice e buona a prezzi più che dignitosi. Al rifugio vengono a mangiare un po’ da tutto il circondario e il costo per un menu fisso (molto abbondante) è sui 35 euro.

Il giorno dopo, abbandoniamo il Golgo e, sotto un cielo che minaccia pioggia, ritorniamo sui nostri passi (in salita…) verso Baunei prima, poi verso la cala di Sa Pedra Longa. E’ sempre bello vedere dal basso quello che avevamo visto prima dall’alto (e viceversa). Peccato che quando arriviamo stia piovigginando. Siamo con le nostre amiche torinesi. Sono loro che ci hano convinte alla deviazione verso Sa pedra longa e che ci sia brutto tempo e mare mosso le mette di cattivo umore, quasi ne fossero loro responsabili… Così dopo breve picnic, decidiamo di andare con loro, caricando le bici sul camper, a visitare le domus de janas che sono all’interno a pochi chilometri da lì. Le case delle fate (questo il significato del nome) sono in realtà delle tombe antichissime che risalgono ad acuni millenni prima di Cristo, di età neolitica e sono scavate nelle rocce (con le pietre!). Tutta la Sardegna ne è piena, (così come lo è di nuraghi, capanne, idoli e dei pietrosi, che forse solo oggi cominciano ad essere un po’ più considerati) e in alcune hanno trovato scheletri ricomposti in posizione fetale e dipinti di rosso con la testa rivolta verso oriente. In alcune poi, all’interno è incisa una porta, quasi a voler concedere al morto un punto di passaggio verso l’aldilà. Intorno a questi riti ci sono molte congetture, ma nessuna certezza. Purtroppo gli antichi popoli sardi ci hanno lasciato mltissimi resti pietrosi, ma nessuna parola scritta. Le domus de janas che visitiamo sono piccole e commoventi, scavate nelle rocce rosse che si innalzano in mezzo alla pianura formata dal rio Girasole. Rosse come lo sono quelle del capo di Arabatax e dell’isola dell’Ogliastra. Il posto è di grande bellezza e certo gli antichi che avevano scavato queste rocce scegliendole come dimore per i loro defunti avevano un grande senso estetico che anche oggi riconosciamo.

Dalle domus de ianas, in bici facciamo strada verso Santa Maria Navarrese, dove arriviamo sotto la pioggia. Ci mettiamo in un albergo (il Santa Maria, caro ma l’unico che avesse posto, 128 euro notte più prima colazione), visitiamo brevemente il paese che si segnala soprattutto per la semplicissima chiesa che gli dà il nome. Costruita come ex voto dalla regina di Navarra scampata qui a un naufragio dopo una tempesta, risale all’anno Mille; ha struttura semplice, fuori intonacata a calce e ingentilita sulla facciata dalla presenza del sito per le campane, giusto sopra la porta. All’interno la copertura è a capriate di legno con all’interno il cannicciato; è divisa a tre navate, di cui la centrale molto più grande. All’esterno c’è un grande olivastro che, si dice, è coevo alla chiesa.

A cena abbiamo mangiato un ottimo piatto al ristorante Plummas: fregula ai frutti di mare, una piccola pasta condita con conchiglie e gamberi davvero squisita. (Il tutto per 70 euro circa in due) Abbiamo anche comperato gioiellini in un negozio di un napoletano (Pratta e oro) che ha messo su casa e laboratorio a Tortolì da quarant’anni e che ci ha raccontato la sua vita di esperto di coralli, viene infatti da Torre del Greco, altro luogo di corallari. Oggi la pesca è vietata, ma si raccoglie il corallo spezzato dalle mareggiate o dalle reti, che resta sul fondo. Vi sono alcuni autorizzati a farlo e loro da quelli lo acquistano. E’ l’ultima notte. L’indomani riprendiamo le bici e girovaghiamo verso Tortolì e Arbatax, prendendo ogni tanto vie traverse che ci portano sulle rive del rio Girasole a pochi passi dalla spiaggia e dal mare, assai poco frequentato; poi in piazza a Tortolì per un caffè, e ad Arbatax a fare il bagno a Cala Moresca, bella con le sue rocce rosse, grigiochiare e nere che in alcuni punti si abbracciano e si compenetrano. La giornata è mossa, con nubi e temporali in lontananza. Stasera riprenderemo la nave per Civitavecchia, chiudendo il cerchio iniziato 10 giorni fa. Siamo un po’ dispiaciuti della fine delle vacanze e così girovaghiamo cercando qualcosa che non sappiamo cosa sia. Compriamo dolcini in una pasticceria, andiamo ora in una direzione ora in quella opposta lungo il molo e poi nello spiazzo da cui si vede il muraglione di rocce rosse del capo di Arbatax. Alla fine ci infiliamo nel ristorante del porto (si chiama coì anche se è all’interno), un po’ deludente e caro (90 euro), dove far passare un po’ del tempo che ci separa dalla partenza. Altri giri nella notte prima di raggiungere il molo dove aspettiamo almeno un’altra ora l’arrivo della nave. La vacanza è finita. In nave dormiamo un po’ fuori e un po’ dentro (causa pioggia), ma quando attracchiamo a Civitavecchia, il tempo è più clemente e ci consente di arrivare alla macchina e caricarla senza bagnarci. Sulla strada verso nord, la prima impressione è di come scorrano in fretta le paline dei chilometri rispetto a quando il mezzo di trasporto era la bici… Siamo tornati nel regno della velocità.



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