Il dolce e l’amaro di un viaggio in ecuador

IL DOLCE E L’AMARO DI UN VIAGGIO IN ECUADOR E GALÁPAGOS “Non è la più forte delle specie che sopravvive, né la più intelligente, ma quella più reattiva ai cambiamenti” (Charles Dawin) L’Ecuador è una scelta obbligata per chi, come noi, desidera visitare le isole Galàpagos, ci troviamo...
Scritto da: dabi
il dolce e l’amaro di un viaggio in ecuador
Partenza il: 11/01/2009
Ritorno il: 01/02/2009
Viaggiatori: in coppia
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IL DOLCE E L’AMARO DI UN VIAGGIO IN ECUADOR E GALÁPAGOS “Non è la più forte delle specie che sopravvive, né la più intelligente, ma quella più reattiva ai cambiamenti” (Charles Dawin) L’Ecuador è una scelta obbligata per chi, come noi, desidera visitare le isole Galàpagos, ci troviamo così a progettare un viaggio in un Paese che non occupa, nella lista dei nostri desideri, una delle primissime posizioni.

Attratti più dall’Amazzonia e dal caldo che dalle Ande, costruiamo il viaggio sulla base di due elementi certi: la crociera di una settimana alle Galàpagos ed alcuni giorni di full immersion nella foresta amazzonica optando, in alternativa ad un soggiorno in lodge, per la navigazione a bordo di un battello fluviale.

Quel che resta delle nostre tre settimane di vacanza è presto colmato dai lunghissimi voli di andata e ritorno, dalla visita di alcune località andine del nord del Paese e dal trasferimento dalla capitale a Guayaquil, tragitto che ci consentirà di percorrere la via dei vulcani.

Affidiamo l’incarico di prenotare i vari servizi ad una agenzia locale già utilizzata da altri viaggiatori non senza aver prima interpellato un’altra agenzia e Fabio Tonelli, spesso menzionato in vari siti di viaggi, con il quale però non si riesce a raggiungere un accordo.

Per il volo intercontinentale, KLM è la compagnia aerea che risponde meglio alle nostre date e che, inoltre, offre – rispetto alle altre – la tariffa migliore, anche se va detto che – con destinazione Ecuador – non si trovano voli particolarmente economici.

Diario di viaggio: 11 gennaio 09 – domenica Nei giorni passati sono caduti 30 e più centimetri di neve, ma il timore di imbatterci nella chiusura degli aeroporti è ormai scongiurato, le strade sono state pulite dai mezzi spazzaneve e dalla pioggia.

Oggi c’è il sole, il cielo è incredibilmente azzurro, i campi sono ancora imbiancati, la luce ed il paesaggio così innevato invitano all’ottimismo e al buonumore, è esattamente in questo stato d’animo che, caricati i bagagli in auto, ci avviamo verso l’aeroporto di Malpensa.

Con un primo volo della durata d’un paio d’ore raggiungiamo l’aeroporto di Amsterdam per noi ormai famigliare, siamo transitati qui diverse volte, l’ultima non più di 4 mesi fa.

Inganniamo l’attesa della partenza per Quito curiosando nei tanti shop e duty free, segue l’imbarco e finalmente alle 23,30 si decolla, ci aspettano molte ore di volo e due scali (Bonarie e Guayaquil) ma riusciamo a dormire per buona parte della notte.

12 gennaio 09 – lunedì Siamo bloccati nella sala d’aspetto dell’aeroporto di Bonarie (Antille olandesi), gli annunci non dicono altro che di pazientare fino alla risoluzione di un problema tecnico.

La sosta a terra si protrae per un ora e mezza oltre il previsto, anche una volta risaliti a bordo dell’aereo dobbiamo attendere altro tempo senza capire cosa accade.

Non siamo particolarmente preoccupati, ma siamo stanchi, indossiamo abiti invernali e siamo infastiditi dal caldo, insomma non vediamo l’ora di arrivare a destinazione, ci auguriamo, pertanto, di poter ripartire quanto prima.

L’aereo atterra a Quito con due ore abbondanti di ritardo quasi sfiorando con le ali le case ed i palazzi costruiti a ridosso della pista.

L’addetto dell’agenzia che ci attende all’uscita ci rincuora informandoci che a Bonarie succede molto spesso di restare bloccati e che giusto ieri i passeggeri di un altro volo hanno atteso 7 ore prima di poter ripartire.

OK, ci consideriamo fortunati! Attraversando la città caotica e trafficata, che si sviluppa in lunghezza per circa 45 km sul fondo di una valle incassata tra due catene montuose che corrono parallele, raggiungiamo il centro coloniale con le sue impressionanti strette strade, ora in ripida salita, ora in vertiginosa discesa, fiancheggiate da bassi edifici dai colori pastello.

La prima impressione è gradevole, viene subito voglia di perdersi tra le sue viuzze, ma giunti all’hotel Patio Andaluz ci concediamo una pausa: sono assolutamente necessari una doccia, un cambio d’abiti ed una stiracchiata senza però cedere al sonno al fine di metterci in pari con il nuovo fuso orario (- 6 ore).

L’hotel, molto elegante, è il risultato di una accurata ristrutturazione ed è composto da due patii racchiusi da edifici a due piani con belle balconate, loggiati, ringhiere, balaustre. Gli ambienti sono impreziositi da pregiato parquet, piante, fiori e begli arredi. Dopo un paio d’ore, non esattamente in forma, ma sicuramente un po’ meno devastati, grazie anche alla posizione centralissima dell’hotel, possiamo fare una prima passeggiata alla scoperta del Centro Històrico.

Orientarsi nella sua “scacchiera” costituita da quadras è abbastanza semplice, una cartina però aiuta ad individuare con maggior facilità le principali piazze ed attrazioni.

Tralasciando la visita di chiese e monumenti, diamo la precedenza alla ricerca di una banca per convertire qualche Euro nella moneta locale (dollaro USA).

Quella che doveva essere un’operazione facile e veloce si trasforma nella estenuante ricerca di una banca che fornisca questo tipo di servizio.

Scopriamo che nessun istituto di credito effettua il cambio di valuta e che l’unico che offre l’opportunità di farlo applica un cambio da strozzini, cioè 1 dollaro USA per ogni Euro.

Spiazzati da tale scoperta ripieghiamo sull’unica alternativa: la casa di cambio che, rispetto a quella ufficiale, pratica una conversione inferiore di circa 10 centesimi di USD per ogni Euro.

Possedendo ancora qualche bigliettone verde avanzato dal precedente viaggio ci limitiamo a cambiare solo un centinaio di Euro prefissandoci, ove possibile, di effettuare i pagamenti con la carta di credito.

Terminato il “tour” delle banche ci possiamo finalmente concentrare sulla città ammirando Plaza S. Francisco e Plaza Grande entrambe circondate da chiese e palazzi dalle eleganti facciate.

Quest’ultima – tra gli altri – ospita il palazzo presidenziale, ci spieghiamo così la presenza di diversi gruppi di persone che, con cartelli e striscioni, protestano. Lo stesso vale per la donna con un megafono che, spostandosi da una parte all’altra del giardino che sta al centro della piazza, tiene comizio a tutti e a nessuno.

Ci soffermiamo ad osservare i singoli gruppi di manifestanti ed a leggere i cartelli che ciascuno ha elaborato, sorridendo nel vedere le figure di politici cui è stato sostituito il volto con il muso di un animale (topo, maiale, serpente, etc.) e tornando seri nel leggere alcune massime di Simon Bolivar e di Gandhi. Ognuno protesta per cose differenti senza badare al proprio vicino, pensiamo che se ci mettessimo anche noi a declamare a gran voce slogan contro i nostri politici o contro qualsiasi altra istituzione saremmo perfettamente integrati con il clima di questa piazza e nessuno si sognerebbe di scacciarci dandoci dei provocatori o dei pazzi.

Tutte le proteste si svolgono pacificamente, si ha l’impressione di assistere a tanti siparietti più che a manifestazioni di dissenso.

Attorno alla piazza, sotto i portici, venditori ambulanti, venditori d’acqua e lustrascarpe propongono merci e servigi per pochi centavos.

Osserviamo ammirati la maestria di un giovane lustrascarpe che, a colpi di spazzola dati con una grazia tale da sembrare una danza, tira a lustro il paio di scarpe vecchie e consunte di un cliente orgogliosamente accomodato su un trespolo che pare un trono.

Le vetrine dei negozi espongono le più svariate mercanzie: dagli addobbi per dolci nuziali e per qualsiasi altra ricorrenza alle figure di carta crespa e colorata da incendiare durante il carnevale, dai manufatti in pelle ai souvenir che non vorresti mai ricevere in regalo, dalle torte dall’aspetto stucchevole alte 15 cm alle imbottiture per aumentare il volume di seni e posteriori e tanti altri oggetti curiosi mai visti prima oppure da noi già passati di moda da decenni.

Di sicuro nelle vetrine della città coloniale non trovano posto le grandi firme, i manichini hanno pettinature retrò, sbeccature o parti del corpo e del viso mancanti e ci portano indietro nel tempo.

Non vediamo nulla che inviti allo shopping, ma apprezziamo l’aspetto un po’ provinciale e genuino di questa zona della città, diversa da molte altre grandi capitali del mondo tutte simili nello sfavillio di centri commerciali, boutique, show room.

Abbiamo saltato il pranzo e, alle 16, è presto per la cena, ma da Tianguez, bel ristorantino della rete del commercio equo e solidale, ubicato sotto i portici di una chiesa in Plaza S. Francisco, non c’è orario fisso per consumare un pasto. Ordiniamo pesce e gamberi ed assaggiamo una deliziosa empanada di farina di mais ripiena di formaggio a metà tra il dolce ed il salato. Il conto è una piacevole sorpresa: con circa 10 USD a persona si è mangiato molto e, soprattutto, bene.

La stanchezza si fa sentire, anche l’altitudine (2.850 m) rende tutto faticoso, decidiamo di andare a dormire presto, ma prima di ritirarci in hotel entriamo nel negozietto che sta proprio di fronte alla Hall e che in vetrina espone begli oggetti di artigianato e manufatti molto graziosi dai prezzi onesti.

Ci limitiamo ad acquistare l’ultima coppia di statuine di legno raffiguranti un uomo ed una donna (campesinos) con il tipico copricapo e seduti in posizione raccolta. Visitiamo anche il negozio gemello, a pochi isolati di distanza, dove troviamo altri oggetti interessanti, ma rimandiamo gli acquisti promettendo ai cordiali venditori di tornare a fine viaggio.

Per la seconda volta tentiamo di rientrare in albergo, ma le lucine che si accendono sulle montagne che circondano la città catturano la nostra attenzione. Quito (la città moderna) che durante il giorno appare come un ammasso di case e palazzi, con il buio acquista un fascino particolare. Torniamo in Plaza Grande dove le luci sapientemente posizionate a valorizzare gli edifici coloniali ci regalano una visione incantevole del centro storico e delle montagne che lo racchiudono.

Gustando dolci ciliegie acquistate per 50 centavos da una venditrice ambulante camminiamo ancora un poco. La folla dirada, i negozi ed i locali chiudono, la città – nonostante l’illuminazione – si addormenta presto ed a questo punto ci ritiriamo.

La nostra camera si affaccia sul cortiletto interno che ospita il ristorante, ci addormentiamo sulle note della musica andina che un gruppo locale sta suonando per intrattenere chi sta ancora cenando. 13 gennaio 09 – martedì Rigenerati da un discreto numero di ore di sonno, in compagnia di Wilson, uomo di una sessantina d’anni, dalla pelle scura, dall’incredibile chioma ancora corvina e dal sorriso cordiale, lasciamo Quito per dirigerci, seguendo la Panamericana, verso nord.

Con la sola eccezione di un paio di punti panoramici che permettono di osservare una piccola laguna, un vulcano con la cima incappucciata dalle nuvole ed una profonda e verde vallata solcata da un fiume, il paesaggio non regala grandi emozioni.

Giunti ad Otavalo è d’obbligo una sosta al mercato artigianale che occupa l’intera piazza principale della cittadina.

Oggi non è sabato, quindi non possiamo beneficiare del mercato “autentico” ovvero quello che raduna centinaia di commercianti indigeni che, a detta delle guide, è famoso in tutto il mondo per la qualità dei prodotti tessili esposti. Dobbiamo accontentarci del mercato permanente che ormai ha luogo ogni giorno della settimana e che, da un primo sguardo, sembra offrire articoli più o meno simili.

La prendiamo larga iniziando l’ “artigianato tour” dai negozi che circondano la piazza.

Tra presepi, statuette di legno e altri manufatti tutti uguali, spiccano diversi oggetti antichi e mentre alcuni – ad un attento esame – si rivelano rifacimenti, altri, come il crocefisso che pensiamo di acquistare, sono realmente vecchi, ma ci vengono chieste cifre da capogiro. Non proviamo neppure a contrattare, come è usanza, sul prezzo, la base di partenza è davvero spropositata.

Lasciate perdere le antichità rivolgiamo la nostra attenzione alle bancarelle della piazza, ma non vediamo altro che poco più di una decina di articoli riproposti su ogni banco e da ciascun venditore, ci stanchiamo presto dei richiami più o meno insistenti di ognuno e delle montagne di berretti, guanti, calzettoni, maglioni, poncho, amache, statuine, presepi, camicette ricamate, borracce ricavate da zucche e quant’altro, tutti identici. Il nostro giro di shopping si conclude solo con l’acquisto di calzettoni e guanti colorati in lana d’alpaca… o forse in filato sintetico… mah!? Senza nulla togliere al mercato, probabilmente non l’abbiamo apprezzato perché non siamo molto interessati all’artigianato, in particolare a quello prodotto in serie per i turisti.

Lasciata Otavalo, il programma odierno prevede un’altra sosta che non ci fa esultare, è la volta dei manufatti in cuoio esposti nelle decine di negozi di Cotacachi.

Fatto il giro di rito tra capi d’abbigliamento in pelle, borse, cinture, portafogli e scarpe, ci siamo guadagnati il pranzo presso il ristorante El Leñador.

Il locale non ci conquista, evidentemente è uno degli elementi, insieme ai mercati e alle botteghe artigianali, inseriti in un circuito turistico che Wilson ripete ciclicamente.

In un primo momento siamo negativamente impressionati dalla vastità della sala da pranzo, dal numero di coperti, dalle 2 tavolate di turisti e dalle guide e autisti radunati in disparte, ma dopo aver gustato un pasto più che dignitoso il nostro giudizio si ammorbidisce e siamo indulgenti anche sulla voliera che, eretta nel piccolo giardino, costringe alla cattività decine di graziosissimi pappagallini colorati.

La tappa seguente ci porta alla Laguna di Cuicocha che la guida Polaris descrive come segue: “Quando è soleggiato il posto è assolutamente meraviglioso, col nuvolo invece la sua bellezza assume un fascino sinistro”.

Ebbene, è esattamente così – con le nuvole basse e sinistro – che ci appare il cratere vulcanico collassato a seguito di un’eruzione sul cui fondo c’è un lago con al centro due isole originate dall’accumulo di lava eruttata.

Considerato il clima, siamo indecisi sul da farsi, ci sembra tuttavia di non onorare il luogo senza fare un giro in barca sul lago, ma, mentre ci allontaniamo dal molo, diretti verso le isole, cala un nebbione che nasconde qualsiasi punto di riferimento e fintanto che siamo in mezzo al lago, lontani dalla terra, abbiamo l’impressione di avanzare sospesi nel vuoto e tra il nulla.

Il barcaiolo però sa il fatto suo, punta deciso la prua verso i canneti che delimitano lo stretto passaggio che si insinua tra i due isolotti di lava, si ferma poi in prossimità di una piccola baia dove, nell’acqua trasparentissima, salgono bolle di gas.

Ci troviamo ad oltre 3000 m di altitudine e viene spontaneo pensare che l’acqua della laguna sia gelida, ma, grazie ai numerosi fenomeni legati all’attività vulcanica di questa zona, la sua temperatura non scende mai al di sotto dei 16°C. Quasi roba da tuffarsi visto che invece in superficie noi stiamo rabbrividendo.

La visibilità è sempre più ridotta, il nostro “Caronte” ci mostra il punto in cui siamo evidenziandolo su una cartina, ci fa inoltre vedere alcune cartoline che raffigurano la laguna e le isole. Sorridiamo al pensiero di trovarci in un luogo molto bello, ma di poterlo ammirare paradossalmente solo in fotografia.

Proseguiamo la navigazione osservando le diverse specie di uccelli che popolano le sponde del lago e che, spesso, al nostro passaggio, si alzano in volo.

In una situazione così spettrale, con la nebbia sempre più fitta, non poteva mancare anche l’arrivo della pioggia battente e, sebbene la barca abbia un tendalino, ci inzuppiamo come pulcini.

Ci diciamo, nonostante il clima avverso, di aver apprezzato l’escursione, ma proviamo sollievo quando, dopo lo sbarco, risaliamo velocemente in auto e ripartiamo con il riscaldamento acceso.

Prima di raggiungere Ibarra, dove è previsto il pernottamento, c’è il tempo per una sosta a San Antonio de Ibarra, villaggio conosciuto per gli artigiani che scolpiscono il legno.

Non siamo particolarmente entusiasti di questo nuovo tassello dell’ “artigianato tour” che ci vede indifferenti davanti alle vetrine che espongono statuette ed oggetti dozzinali simili tra loro tanto da sembrare fatti in serie.

Ci prendiamo anche una sequenza di gestacci quando inconsapevoli non accontentiamo una donnina a seguirla nel proprio negozio perché, pensando che fosse sordomuta (e anche un po’ svitata!), ai suoi strani gesti abbiamo risposto solo con sorrisi incerti.

All’interno della Galeria Luis Potosì troviamo invece sculture bellissime, ne scegliamo diverse ben disposti ad acquistarle grazie anche ai prezzi più che onesti, ma, ahimé, non accettano pagamenti con carta di credito e non abbiamo sufficiente contante.

Ci proponiamo di tornare tra due giorni, quando, prima di rientrare a Quito, lasceremo Ibarra e sempre ammesso che si trovi il modo di cambiare altri soldi.

Nel tardo pomeriggio raggiungiamo l’Hosteria Chorlavi, bella struttura coloniale che in passato ha subito diverse trasformazioni passando da abitazione privata a monastero e da hacienda ad albergo.

Il complesso di edifici comprende diversi patii, fontane, giardini rigogliosi, uno stagno e perfino un ponticello sospeso che attraversa uno stretto rio dall’acqua tumultuosa. Ovunque sono disposti oggetti e arredi appartenuti al passato. Le camere hanno camini, pavimenti in cotto e laddove l’antica pavimentazione è mancante è stata sostituita da inserti di pregiato parquet di 2 legni dai colori differenti.

Nel contesto c’è una piccola cappella ed anche un anfiteatro coperto che immaginiamo venisse utilizzato per assistere alle sanguinose lotte tra galli da combattimento.

Attraversando patii e loggiati viene spontaneo pensare a Zorro: tra queste architetture spagnoleggianti manca solo lui! Il ristorante dell’Hacienda per soli 10 USD serve un’ottima cena e in questa felice oasi, davanti al tepore del camino accesso, ci togliamo di dosso l’umidità e si conclude una lunga giornata.

14 gennaio 09 – mercoledì Il nuovo giorno ci vede attivi abbastanza presto e, dopo un’abbondante colazione, prima di orientarci verso la destinazione programmata, raggiungiamo il centro di Ibarra, più precisamente la vecchia stazione ferroviaria che, sotto la pensilina che la circonda, ospita un colorato mercato ortofrutticolo.

Dopo aver letto su diverse guide della possibilità di percorrere parte dell’itinerario (circa ¼) della vecchia linea ferroviaria che univa Ibarra a San Lorenzo a bordo dell’Autoferro (bus montato su rotaie) siamo giunti sin qui senza alcuna certezza, anzi, a seguito della risposta negativa dell’operatore locale cui ci siamo rivolti per l’organizzazione dell’intero viaggio, siamo quasi rassegnati e convinti di dover rinunciare a questa esperienza.

Le nostre pessimistiche aspettative invece vengono rovesciate da una piacevole notizia: l’Autoferro parte solo con un minimo di 16 passeggeri, è inutile sperare – in questo periodo di bassa affluenza turistica – che si possa raggiungere tale numero di adesioni, ma per piccoli gruppi (max 8 persone) c’è la possibilità di percorrere lo stesso tragitto a bordo di un vagoncino più piccolo, idem, in mancanza del gruppo, accollandosi la spesa totale corrispondente al costo di 8 biglietti.

Considerato che la cifra non sarebbe comunque eccessiva e che, per la corsa di domani, pare ci siano già in lista altri due turisti, accettiamo la proposta lasciando i nostri nominativi all’addetto alle prenotazioni anche se, a differenza dell’Autoferro, non ci si può accomodare sul tetto del “trenino”.

Soddisfatti ci allontaniamo dalla cittadina seguendo una strada che attraversa campi coltivati (canna da zucchero, mais, patate, etc.) dalla geometria squadrata che, nel loro insieme, compongono un immenso patchwork dalle tante sfumature di verde. Il nastro d’asfalto corre in salita, spesso viaggiamo più in alto dello strato nuvoloso con il risultato che vediamo profonde vallate ricolme di soffici nubi bianche.

Abbandonata la strada principale deviamo, seguendo le indicazioni per la Riserva Ecologia El Angel, sulla vecchia e dissestata caretera che, passando da Tulcan, veniva – in passato – utilizzata per attraversare il confine ed entrare in Colombia. Il paesaggio ci regala pascoli e campi coltivati che si alternano e che, con incredibili pendenze, ricoprono le pendici delle montagne.

Dopo 45 minuti di scossoni e qualche difficoltà nel superare alcuni mezzi che bloccano il passaggio, prima ancora di raggiungere l’ingresso ufficiale della Riserva, i campi coltivati cedono il posto a distese ricoperte di frailejones (Espeletia) bellissima pianta simbolo del pàramo (*) con un tronco legnoso alto fino a 2 metri sulla cui sommità si aprono a corolla grandi foglie vellutate dal colore verde tenue impreziosite da fiori gialli.

(*) Pàramo: regione botanica d’alta quota, compresa tra i 2800 e i 4000 m, caratterizzata da praterie montane e distese d’arbusti dove le temperature sono basse, il vento costante e le piogge frequenti anche se per lo più in forma leggera.

E’ meraviglioso, ovunque si guardi non c’è altro tipo di vegetazione oltre a questi splendidi “margheritoni”.

Parcheggiata l’auto presso la biglietteria della Riserva ci incamminiamo lungo un sentiero, percorso obbligato che permette di raggiungere vari punti panoramici che si affacciano su una spettacolare laguna.

Il terreno tutto intorno è punteggiato da piccoli bacini d’acqua che, visti dall’alto, sembrano tanti cocci di specchio.

Senza mai abbandonare il sentiero, tra migliaia e migliaia di frailejones, soprannome in lingua locale che si traduce in “frati grigi”, scendiamo fino alla riva del lago e siamo fortunati, perché pur in assenza del sole, la visibilità è ottima e finalmente ammiriamo un paesaggio per cui – ci diciamo – valga la pena di venire in Ecuador.

Seguendo un percorso ad anello ora dobbiamo affrontare una ripida salita segnalata da un cartello che la classifica quale via breve (l’alternativa per tornare al punto di partenza è ripercorrere lo stesso sentiero a ritroso) con l’avvertenza che è affrontabile solo da persone con “corazones sanos”.

Molto lentamente, e dopo ripetute soste, raggiungiamo il punto più alto (3800 m). A premiare il nostro sforzo fisico il sole fora la cortina di nuvole regalandoci così una luce perfetta per scattare un’ultima sequenza di fotografie.

Finalmente in discesa termina lo straordinario circuito che ci ha permesso di ammirare l’eccezionale concentrazione di piante che crescono solo in questo luogo, porzione di pàramo intatto salvato dalla deforestazione e dal pascolo e, pertanto, molto prezioso.

Sulla via del ritorno facciamo una sosta per pranzare e per visitare la cittadina di El Angel, poco più che un villaggio con case e localini affacciati sulla piazza principale, un monumento, una fontana ed una “galleria” di cipressi, vere opere d’arte, modellati dalle cesoie di creativi giardinieri che riproducono forme geometriche, volti, animali, scritte, archi e diverse altre figure più o meno astratte.

Prendiamo posto in un modesto ristorante che si trova su un angolo della piazza, è passata da un pezzo l’ora canonica per il pranzo, senza poter scegliere si mangia quel che è rimasto, solo riso, patate e pollo arrosto, il conto ci lascia increduli: poco più di 2 dollari a testa per un pasto più che decoroso! Ultima sosta della giornata presso la Heladeria Rosalia Suarez di Ibarra.

All’interno del locale assistiamo alla lavorazione, rigorosamente manuale, del gelato: si versano gli ingredienti in un recipiente di metallo che ruotando su uno strato di ghiaccio tritato li solidifica, si continua a mescolare il tutto fino al raggiungimento della giusta consistenza, si trasferisce infine il composto nel banco frigo ed a quel punto può essere già consumato.

Il risultato è più somigliante ad un semifreddo ai vari sapori di frutta e latte, non possiamo definirlo una vera e propria leccornia, in Italia si producono gelati di qualità superiore, siamo imbattibili in questo campo, ma senza dubbio il fascino di questo locale sta nel fatto che, da oltre un secolo, donna Rosalia e la sua discendenza hanno cambiato ben poche cose nel loro processo artigianale. E’ quindi una visita imperdibile.

Visitiamo poi il centro della città con le sue ampie piazze dalla pianta quadrata che ospitano giardini rigogliosi con un ricco assortimento di piante dove non mancano svettanti palme e che sono contornate da edifici di epoca coloniale e chiese traboccanti di oro, statue, altari, sculture, dipinti, dove i fedeli si prostrano inginocchiandosi a terra pregando con un fervore che non siamo più abituati a vedere.

Rientriamo, infine, nel “regno di Zorro”, l’eroe mascherato è solo una presenza immaginaria, ma nel concreto ci aspettano una buona cena ed un beato sonno.

15 gennaio 09 – giovedì In perfetto orario raggiungiamo l’officina del ferrocaril che ospita belle locomotive di un tempo passato insieme ad un’accozzaglia di rottami arrugginiti, siamo raggianti nello scoprire che una comitiva di francesi ha allungato la lista dei passeggeri, viaggeremo, pertanto, a bordo dell’Autoferro, già pronto sui binari.

La fortuna è dalla nostra parte, oggi è anche una bella giornata soleggiata, condizione ideale per compiere il viaggio accomodati sul tetto.

Il nostro entusiasmo però è presto smorzato e per un’ora e mezza resta in bilico tra alti e bassi: non c’è verso di far partire questo bizzarro mezzo di trasporto. Alcuni meccanici armeggiano attorno al motore smontando e rimontando parti di esso – ad un occhio profano – quasi a casaccio con risultati poco incoraggianti, il motore che sembra ben avviato si spegne immancabilmente subito dopo.

Ma chi la dura la vince e finalmente si parte.

Percorriamo poco più di un centinaio di metri e siamo di nuovo fermi, ma questa sosta è d’obbligo per girare il trenino, ci siamo, infatti, mossi in retromarcia.

La manovra è curiosa perché, grazie ad un particolare binario dalla forma circolare, l’Autoferro viene spinto a braccia da alcuni volontari fino al compimento di una rotazione di 180°.

Lasciamo fischiando lo scalo ferroviario e fintanto che non abbandoniamo il trafficato centro urbano dobbiamo ripetutamente abbassarci per evitare di essere “decapitati” dai grovigli di cavi elettrici.

Il locomotore attraversa poi una zona agricola, costeggia e supera una serie di canyon, ponti e buie gallerie all’interno delle quali dobbiamo nuovamente appiattirci. Lo spazio sopra di noi è davvero poco e, mentre passo indifferente sull’arcata in ferro che attraversa una profonda e vertiginosa gola, il buio dei tunnel e lo spazio angusto mi procurano un po’ d’ansia, respiro a pieni polmoni e con sollievo ogni volta che riappare la luce.

Il paesaggio che vediamo scorrere è costituito da verdi vallate, cascatelle, torrenti, campi coltivati, pascoli ed da un’incredibile miscellanea di piante montane e tropicali, vediamo pini, abeti, cipressi, eucalipti, agavi, fichi d’India, oleandri, palme, ibiscus, acacie ed altri alberi che non conosciamo e che sfuggono alla nostra “catalogazione”.

Il colore predominante è il verde che si riproduce in tante sfumature, da quello dei campi con l’erba alta che ondeggia al nostro passaggio a quello delle molte e differenti piante.

Il cielo continua a mantenersi sulle tonalità dell’azzurro, mentre i raggi del sole ci scaldano ed esaltano i colori.

Dopo un paio d’ore raggiungiamo Salinas e qui termina la corsa. Il polveroso villaggio con le casette basse dai colori tenui ha un aspetto desolato, sembriamo personaggi finiti per sbaglio sul set di un film western durante l’ora della siesta, quando tutto tace e non si muove una mosca.

L’autista, Wilson, ci raggiunge con un po’ di ritardo, ha percorso il tragitto in auto e lungo la strada si è fermato a soccorrere ll conducente di un autobus in difficoltà.

Ora, sommando ritardo a ritardo, dobbiamo correre per rientrare a Quito, sfuma così la possibilità di ripassare da S. Antonio di Ibarra e di acquistare le sculture in legno dell’atelier Potosì.

Facciamo una sosta pranzo in quello che il driver definisce un “ristorante tipico”, nella realtà si tratta di un enorme fast food con tanto di esposizione di foto e relativi prezzi a caratteri cubitali di piatti poco invitanti.

Non vedendo nulla di convincente mi limito a prendere una bottiglia d’acqua, mentre Sandro si lancia su una “fritada” (piatto a base di pezzi di maiale fritto e mais bollito), ma – fatto per lui insolito – è costretto a rinunciare a ripulire il piatto.

L’Ecuador, come tutti sanno, è attraversato dall’Equatore ed una sosta alla Mitad del Mundo (a circa una ventina di chilometri da Quito) è d’obbligo.

Dove corra esattamente questa linea immaginaria non è chiarissimo poiché ci sono vari simboli posti in luoghi differenti e distanziati tra loro che ne rivendicano l’esatta posizione. Poco importa, per me è assolutamente affascinante ritrovare qui lo stesso filo invisibile già “calpestato” in Africa.

Guidati da una simpatica donna visitiamo l’interessante museo all’aperto Inti-Ňam.

La nostra preparatissima guida si prodiga in spiegazioni a carattere scientifico, astronomico ed astrologico, ci coinvolge, inoltre, in esperimenti e dimostrazioni sugli effetti della forza di gravità, della forza centrifuga ed altri fenomeni possibili solo a latitudine 0°.

Il percorso didattico si rivela, oltre che istruttivo, alquanto spassoso perché con facilità riusciamo a fissare in perfetto equilibrio un uovo su di un chiodo, a sollevare una persona robusta con due sole dita, a barcollare come ubriachi camminando ad occhi chiusi e così via in una serie di esperimenti singolari.

L’ultimo padiglione del museo ospita una ricca collezione di rettili ed insetti, mi impressiono non poco nel vedere serpenti “sotto spirito” di tutte le taglie soprattutto perché le probabilità di incontrarli non sono remote considerato che domani voleremo in Amazzonia.

Al termine della visita ci spostiamo di qualche centinaio di metri per dare un’occhiata anche al monumento de la Mitad del Mundo, il simbolo più turistico dell’Ecuador, una sorta di tozza torre in pietra sormontata da una sfera che rappresenta la Terra.

A parte ciò che simboleggia non lo troviamo particolarmente attraente.

A Quito ci accoglie la pioggia ed un black-out che interessa il 70-80% dell’intero Paese.

La ricerca di un ristorante aperto si conclude con un insuccesso, tutta la città è immersa nel buio, negozi e locali hanno già abbassato le serrande.

Ceniamo presso il ristorante dell’hotel Patio Andaluz dove siamo nuovamente alloggiati e che, evidentemente, è dotato di un gruppo elettrogeno. Il “ripiego” si traduce in un’ottima cena accompagnata dalle note suonate da un’orchestrina.

16 gennaio 09 – venerdì Sveglia prestissimo, alle 6 siamo già in procinto di lasciare la città che continua ad essere oscurata dal black-out e bagnata dalla pioggia.

Raggiunto l’aeroporto e sbrigate le solite formalità ci predisponiamo all’attesa del volo per Coca, cittadina petrolifera, attraversata da un oleodotto, le guide la definiscono poco attraente, ma costituisce il punto di partenza obbligato per le escursioni nella foresta amazzonica.

Siamo silenziosi e sonnecchianti, un annuncio però ci desta: il volo è attualmente sospeso causa maltempo nella zona di destinazione.

Ci invitano alla pazienza e ad attendere nuove comunicazioni.

Pensiamo che la foresta pluviale amazzonica si rivela già, senza ancora averla raggiunta, un luogo molto umido e sulla base di questa considerazione non possiamo non ricordare i 500 mm (mezzo metro!) d’acqua caduti in poche ore durante un nostro precedente soggiorno nella selva misionera argentina.

Un’attesa è sempre snervante soprattutto quando non si sa come finirà. Un ritardo è seccante, ma lascia intendere che prima o poi si arriverà a destinazione, ben altra cosa è un aereo che non riesce a decollare da Coca per un nubifragio, non sappiamo quindi se arriverà e se potremo, a nostra volta, ripartire, la qual cosa procura una preoccupazione maggiore.

Il tempo passa e la sala d’aspetto si svuota dei passeggeri che man mano si imbarcano sui rispettivi voli per riempirsi di nuovi viaggiatori mentre noi siamo sempre in stand-by. Dopo lunga attesa viene finalmente dato l’annuncio dell’imbarco, il sollievo cancella ogni tensione.

Raggiunta con un volo 30’ la nostra destinazione, all’uscita dall’aeroporto veniamo investiti da un’ondata di caldo, lo sbalzo tra la piovosa Quito e l’umidità amazzonica è notevole, ma nonostante le evidenti chiazze di sudore che si espandono sui nostri indumenti siamo felici di trovare il sole e di essere in procinto di penetrare nella foresta.

Con un breve trasferimento a bordo di un bus con le panche allineate e totalmente aperto sui lati raggiungiamo il luogo dell’imbarco: un terminal con ristorante, bar ed una sorta di motel con una fila di stanze che si affacciano su un loggiato.

Restiamo parcheggiati qui per un po’ di tempo osservando alcune piccole scimmie ed altri animali, diversi dei quali sono rinchiusi in gabbia, che stazionano nel piccolo giardino del complesso.

Proviamo compassione per queste povere bestie costrette alla cattività ed oggetto delle “attenzioni” dei turisti. Riteniamo che ad un animale selvatico dovrebbe essere concessa la possibilità di vivere libero nel proprio habitat.

Ci imbarchiamo su una lancia a motore sfrecciando per 2 ore e godendo della piacevole brezza sul Rio Napo che nasce in Ecuador, scorre attraversando il Perù per confluire, infine, nel grande Rio delle Amazzoni.

Il fiume è molto largo, l’acqua ha il caratteristico colore marrone dei grandi fiumi che tagliano le foreste pluviali. Le rive, nel primo tratto, offrono la sconfortante visione della predominanza dell’industria petrolifera sulla natura.

Accanto a piccoli villaggi ardono i fuochi perenni dei pozzi di estrazione, il fiume è solcato da numerose chiatte che trasbordano autocisterne cariche di greggio, la foresta reca evidenti tracce di disboscamento. Dopo aver percorso un certo numero di chilometri la situazione migliora, piccole piroghe a remi prendono il posto delle grandi chiatte, spariscono i pozzi di trivellazione, la vegetazione si infittisce ed è in un contesto più attraente che raggiungiamo il battello fluviale Manatee: imbarcazione di circa 25 m di lunghezza, a fondo piatto, con tre ponti ed una dozzina di confortevoli cabine.

Saliti a bordo, il capitano e lo staff ci danno il benvenuto e ci indirizzano alle cabine preassegnate.

La nostra, che porta il nome “mariposa” (farfalla), è collocata sul ponte superiore, la troviamo di nostro gradimento, ha due letti, una bella finestrona panoramica, un bagno con ampia doccia.

Anche la voce “pasti” ci gratifica sin da subito, il pranzo viene servito poco dopo nella saletta ristorante. Ospite al nostro tavolo Ernesto, simpatica e preparata guida, che subito ribattezziamo “Comandante” in onore al Che (Guevara). La sua risposta orgogliosa ed inequivocabile, “Affermativo. Hasta Sempre!”, ci fa intendere che ha gradito il soprannome.

Nel corso del pomeriggio siamo sottoposti ad un’esercitazione antincendio, alla distribuzione di stivali di gomma, mantelle antipioggia e giubbotti salvagente e, per finire, ad un briefing durante il quale ci vengono illustrate le varie tappe del percorso che seguiremo, le attività che svolgeremo a terra o a bordo di canoe e altre indicazioni di vario tipo.

Il battello navigherà in direzione est ininterrottamente salvo nelle ore notturne. Anche durante le nostre escursioni a terra il Manatee proseguirà la sua corsa, saremo noi a rincorrerlo ed a raggiungerlo con le canoe a motore.

Trascorriamo il resto della giornata sulla terrazza panoramica in contemplazione della foresta che ricopre entrambe le rive del fiume. Di sottecchi studiamo anche i nostri compagni di viaggio che, in un primo momento, sembrano il distaccamento di un reparto geriatrico… si tratta di una comitiva di inglesi che ha aderito ad un tour organizzato da un’agenzia viaggi specializzata e che opera esclusivamente per gruppi over 55.

L’età media di questo gruppo è molto più alta, ci spieghiamo così la presenza a bordo di una “Doctora”: giovane e bella donna medico.

La giornata si mantiene soleggiata ed il tramonto ci regala un tripudio di colori e riflessi.

La cena si traduce in un altro gustoso pasto ed a tenerci compagnia c’è la Doctora, un po’ spaesata, è la prima volta che sul battello è presente un medico ed inoltre, come noi, non conosce nessuno, ma Diego, Milton, Ernesto, il capitano ed il resto del personale sono amichevoli, non ci vorrà molto a rompere il ghiaccio.

La cena è seguita da uno sbarco per la prima escursione nella foresta.

Calzando stivali di gomma, in compagnia del giovane e abilissimo Milton e di una guida indigena ci inoltriamo nella selva, il silenzio è rotto soltanto dal rumore dei nostri passi, dai richiami di insetti ed altre creature invisibili e da fruscii misteriosi.

Con una torcia Milton mette in luce formiche giganti, ragni pelosi, millepiedi carnosi, grilli, cavallette, cicale, scarafaggi ed un ricco campionario di altri insetti. Ci invita a non calpestare un uovo deposto da un uccello, ci mostra una rana e una grossa farfalla appesa ad una fronda che, comparendo all’improvviso, a pochi centimetri dal mio naso, mi accorcia la vita di qualche minuto: ha le sembianze della testa di un serpente! Proseguendo la camminata incontriamo subito dopo un vero serpente, le due guide ci invitano alla prudenza ed a mantenerci a distanza di sicurezza, avvertimento superfluo per quel che mi riguarda, non mi passa proprio per il cervello di avvicinarmi, se mai il mio primo istinto è quello di scappare più lontano.

Nel vedere quel corpo, grosso, squamoso, con una serie di doppie X “ricamate” su tutta la sua lunghezza, avvolto attorno ad un ramo all’altezza dei nostri occhi mi si gela il sangue, vorrei scappare, ma le parole di Milton “attenzione, è molto pericoloso, è il più grosso esemplare di Ferro di lancia che mi sia mai capitato di vedere, non avvicinatevi, è molto aggressivo” mi paralizzano e fanno si che mi aggrappi a lui e che mi nasconda alle sue spalle, così protetta – seguendolo – ci spostiamo di pochi passi e, ancora fatico a credere d’esserci riuscita, stiamo a guardare il velenoso serpente per qualche minuto girandogli attorno con circospezione fino a vederne anche la testa. La visione è inquietante e affascinante allo stesso tempo. Non credo che riuscirò mai a superare la mia paura per i serpenti velenosi, ma sto migliorando, solo qualche anno fa, qualche serpente fa… non sarei riuscita a guardarne uno negli occhi da così poca distanza come ho appena fatto.

Milton e l’indigeno ritengono che andare oltre, superando il rettile, sia troppo rischioso, torniamo quindi sui nostri passi consapevoli della straordinarietà di questo avvistamento.

Prima di risalire sul battello ci fermiamo sulla riva del fiume per ammirare il cielo stellato e per ascoltare, nel buio totale, i suoni delle cicale e delle mille creature che popolano la foresta, sopra tutti spicca il richiamo dei rospi alla ricerca di femmine con cui accoppiarsi.

17 gennaio 09 – sabato La giornata è ricca di programmi e mentre sul battello le “attività” (pasti, relax sulla terrazza panoramica, chiacchiere con gli altri ospiti che si rivelano persone molto interessanti nonché grandi viaggiatori e briefing con le guide) si ripetono, a terra o su imbarcazioni più piccole le escursioni sono molto varie, piacevoli ed interessanti.

La prima escursione odierna si svolge in barca. Seguendo il Rio Tiputini esploriamo parte del Parco Nazionale di Yasuni (*).

(*) Il caso di Yasuni rappresenta una contraddizione tipica dell’Amazzonia ecuadoriana. Si tratta di una delle quindici aree forestali che vantano la più alta biodiversità al mondo, dove sono presenti tutti gli habitat della giungla, con la flora e la fauna più rare. Nel 1979 vi è stato istituito un parco nazionale, il più esteso di tutto l’Ecuador continentale. In questa zona dell’Amazzonia poi si sono “rifugiati” gli Huaorani, l’etnia india che più di qualsiasi altra ha conservato lo stile e la filosofia di vita propri della selva. D’altra parte, disgraziatamente, proprio qui, a quanto pare, si concentrano molte delle risorse petrolifere del paese e lo stato nel 1991 ha clamorosamente rilasciato ad alcune compagnie la concessione per lo sfruttamento del sottosuolo. Oltre che alla contaminazione del terreno (a causa delle infiltrazioni di petrolio e dei prodotti di scarto), l’ambiente è stato danneggiato dalla costruzione di una strada lunga 110 km, che ha implicato una devastante opera di disboscamento e che fa sorgere il rischio di una prossima colonizzazione dell’area: per evitarlo si è deciso di limitare l’accesso a questa strada agli indios, agli scienziati, ai militari e al personale delle compagnie petrolifere.

Dal fiume non si percepisce la devastazione provocata dall’industria petrolifera, anzi la vegetazione è molto fitta e varia e specchiandosi sulla superficie dell’acqua produce bellissimi riflessi dalle molte sfumature di verde.

Non si vedono animali, solo un paio di tucani, diversi volatili dal bel piumaggio nero e giallo ed i loro particolari nidi circolari che sembrano fatti di tessuto di yuta.

L’escursione successiva ci porta a visitare il villaggio di Nuevo Rocafuerte che costituisce il posto ufficiale di confine per chi desidera, proseguendo la navigazione lungo il Rio Napo, entrare in Perù.

Sull’unica strada del villaggio troviamo qualche modesta bottega, poche umili casette ed un ospedale che visitiamo subito dopo aver giocato con alcuni morbidi e bellissimi pulcini.

La struttura è linda e ordinata, dispone di arredi ed attrezzature che, paragonate a quelle dei nostri ospedali, sono ormai superate ma assicurano comunque un buono standard assistenziale.

Una energica missionaria ci scorta nei vari ambienti, ambulatori, laboratori e corsie di degenza. Non possiamo che essere favorevolmente impressionati dall’efficienza del complesso ospedaliero e del personale, in prevalenza volontario, che presta qui la propria opera.

Nel piccolo laboratorio d’analisi chimico-cliniche un tecnico ci mostra alcuni strumenti ed una “collezione” di vasi di vetro contenenti embrioni di scimmia, serpenti ed altra fauna locale. Considerata la mia fobia non sento il bisogno di alimentarla approfondendo il discorso sulla pericolosità di alcuni rettili.

Nel giardino possiamo ammirare bellissime piante, una profusione di fiori coloratissimi ed una splendida coppia di pappagalli Ara, regalo di un generoso donatore.

Il Manatee segue ora – in direzione nord – il corso di un affluente del Rio Napo, precisamente il Rio Aguarico che segna il naturale confine tra Ecuador e Perù. Sulla nostra sinistra abbiamo la riva ecuadoriana, sulla destra quella peruviana che sono pressochè uguali, ma la consapevolezza di luogo di frontiera ha, per me, un fascino sempre particolare qui accresciuto dalle postazioni militari di entrambi i Paesi che si fronteggiano dalle due sponde del fiume. Tali distaccamenti militari fanno tenerezza, si tratta di fortini delimitati da palizzate realizzate con tronchi d’albero e canne di bambù, sono inoltre dotati di torrette di avvistamento e tettoie ricoperte da foglie di palma. Queste postazioni ci ricordano i fortini in miniatura della nostra infanzia, tanto preziosi per giocare alla guerra con eserciti di soldatini.

La terza escursione della giornata ha inizio esattamente da uno di questi distaccamenti militari.

Un giovanissimo soldato, insieme a Milton, ci fa strada attraverso la giungla dove ammiriamo alberi imponenti, radici intricate, fiori, frutti sconosciuti, liane e rampicanti che avviluppano, soffocandoli, interi alberi.

La passeggiata non dura a lungo, siamo costretti ad interromperla per il vento che ha fatto la sua comparsa insieme alla pioggia.

Quest’ultima da sola non costituirebbe un problema, con una qualsiasi foglia (tutte di gigantesche dimensioni) è presto fatto un “ombrello”, abbiamo, inoltre, le mantelle.

Il vento, invece, rappresenta un pericolo perché scuote gli alberi e qualsiasi altra cosa, potrebbe caderci addosso un ramo spezzato o un pesante frutto.

Torniamo, pertanto, nello spiazzo erboso della postazione militare e, per ingannare il tempo, raccogliamo limoni grandi quanto meloni che i “soldatini” ci concedono di asportare.

Smette di piovere, cessa anche il vento, percorriamo, quindi, un diverso “sentiero”.

La foresta è fitta, quasi angosciante, la volta verde non permette alla luce di filtrare, non si hanno punti di riferimento, ma il suo fascino sta nel fatto che è viva, pulsante, animata da decine di suoni differenti, fruscii, odori, non si vedono animali ma si percepiscono i loro versi e richiami.

Quando se ne esce e ricompare la luce solare si prova sollievo, sembra perfino di respirare meglio, ma già ti manca il suo pulsare, il suo abbraccio avvolgente. Quando lasci la foresta sembra che tutto si spegne esattamente come quando si preme il pulsante di un interruttore.

L’ultima escursione della giornata viene effettuata dopo cena. Con la canoa, a motore spento, ci spostiamo lentamente completando il giro attorno ad una grande isola. Il buio totale ed i suoni provenienti dalla foresta ci regalano una sensazione di pace assoluta, mi sento così rilassata che potrei chiudere gli occhi e addormentarmi in pochi secondi.

Terminato il periplo dell’isola scorgiamo in lontananza le luci del battello che si riflettono sull’acqua nera come l’inchiostro, punto luminoso che seguiamo silenziosi come un faro nella notte.

18 gennaio 09 – domenica Sveglia alle 5,30, colazione e trasferimento sulla canoa a motore. I compagni di viaggio si rivelano sempre più vispi, altro che “geriatrici” come abbiamo ingiustamente malignato, salgono e scendono le scalette del battello disinvoltamente, infilano e sfilano giubbotti salvagente e stivali a tempo di record, anche quando si tratta di superare precarie passerelle si dimostrano impavidi. La Doctora, forse inizialmente preoccupata per un eccessivo carico di lavoro, in realtà è disoccupata e, per vincere la noia, partecipa insieme ai vari gruppi ad ogni escursione. Lasciato il Rio Aguarico si imbocca, sulla destra, il Rio Lagarto, nuovo confine naturale con il Perù che essendo meno ampio avvicina ancora di più i due Paesi.

Questo fiume ha la particolarità di avere le acque scure, ricche di tannino, risultato della decomposizione del fogliame.

E’ netta e ben visibile la linea di demarcazione tra l’acqua marrone del Rio Aguarico e quella nera del fiume che stiamo navigando.

Ci troviamo ora in un’area compresa nella Riserva faunistica del Cuyabeno (*).

(*) Un’escursione alla riserva faunistica del Cuyabeno rappresenta un’ottima occasione per conoscere l’Oriente. Permette infatti d’avventurarsi con facilità nel cuore della giungla, di vedere e imparare molto di questo mondo verde e intricato.

La riserva è vastissima (oggi, in seguito a vari ingrandimenti, più di 600 mila ettari), si estende attorno al Rio Cuyabeno e al Rio Aguarico (che s’immette nel Rio Napo, diretto affluente del Rio delle Amazzoni), all’estremo nord-est dell’Ecuador, ai confini con Colombia e Perù.

E’ stata creata nel 1979 per tutelare lo straordinario patrimonio naturale di quest’area e il territorio delle comunità indigene che vivono lungo i due fiumi. La riserva è però diventata zona protetta a tutti gli effetti solo negli anni ’90, dopo che alcune aree erano state disboscate e che abbondanti fuoriuscite di petrolio si erano riversate nel Rio Cuyabeno. Curiosamente il nome Cuyabeno viene dal paicoca, la lingua dei Siona-Secoya, e significa “porta veleno”, a causa di alcuni frutti velenosi un tempo trascinati dalla corrente.

Gran parte del territorio della riserva comunque è rimasto intatto e presenta uno dei più alti livelli di biodiversità al mondo. Vi vengono effettuati importanti studi scientifici e si continuano a scoprire nuove specie. Particolarmente numerose e varie quelle di uccelli (un quinto di tutte quelle che si trovano nell’intero Sudamerica), dai tucani alle aquile amazzoniche, vi vivono inoltre giaguari, scimmie di 18 specie, i celeberrimi delfini rosa d’acqua dolce, caimani, piraña e le mostruose anaconda. Innumerevoli le specie di rane ed insetti soprattutto formiche e ragni (tra questi ultimi la gigantesca tarantola). Per non parlare poi dell’incredibile varietà della flora amazzonica.

Anche oggi possiamo beneficiare di una bella giornata soleggiata e dello spettacolo della foresta impreziosito dall’avvistamento di tartarughe d’acqua, uccelli, tucani, scimmie e, anche se molto lontano, di un bradipo dall’esasperante lentezza.

Raggiungiamo una splendida laguna dove è possibile fare il bagno e mentre i “nonnetti” incartapecoriti si tuffano con noncuranza, noi, insieme alla giovane doctora e a pochi altri, stiamo ad osservarli divertiti.

L’acqua è molto pulita, fermissima, la sua colorazione scura accentua l’effetto specchio. Percorriamo l’intera circonferenza del lago ammirando incantati i riflessi della vegetazione lussureggiante, ma la cosa più straordinaria da osservare sono i delfini rosa che emergono mostrandoci il dorso pallido e lucente.

Lasciamo a malincuore questo luogo speciale, dove tutto è perfetto e infonde un senso di pace indescrivibile, immagazzinando colori e immagini che in futuro ci faranno certamente pensare all’Amazzonia con nostalgia.

Nel pomeriggio nuovo sbarco a terra per compiere una passeggiata nella foresta. Vi accediamo attraversando un altro fortino dopo aver ottenuto il permesso dal militare con il più alto grado.

Anche questa postazione ha di fronte, sull’altra riva del fiume, quella “nemica”, ma campi da calcio e pallavolo, nonché bananeti, frutteti e orti ci inducono a pensare a rapporti molto amichevoli, potremmo scommettere che in una zona così remota e pacifica i due “eserciti” si scambino visite di cortesia, banchettino insieme e si sfidino nelle più svariate discipline sportive e non.

Sorridiamo nel vedere le trincee scavate nel terreno e ricoperte da tettoie di paglia, ridiamo senza ritegno quando eludiamo il sistema di allarme: un filo teso e sollevato da terra circa 10 cm, ma celato dall’erba alta, con una serie di barattoli di latta arrugginiti infilati in ciascuna estremità che fanno rumore se il filo viene inavvertitamente calpestato.

Il soldato Garcia che ci scorta nella foresta è, infine, l’ennesimo richiamo alla nostra infanzia: dove c’è Zorro non poteva mancare il sergente Garcia! Che bello sarebbe se in ogni angolo del mondo le guerre si “combattessero” in questo modo e con gli stessi “armamenti” che si sono visti qui.

La passeggiata sotto la volta della foresta, con una cappa di caldo e umidità da record, ci mette a dura prova.

Guardiamo le chiazze di sudore che si espandono sugli indumenti di chi ci precede consapevoli di non essere in condizioni migliori. Anche la nonnina (84 anni) più elegante e distinta del gruppo che si è meritata il titolo di Queen Elizabeth appare un po’ “stropicciata”.

Che donna invidiabile, sana fisicamente ed anche di testa, non ha perso una sola escursione e non ha esitato ad esibirsi in costume da bagno.

Per il dopo cena ci propongono una seconda escursione nella foresta, ma decliniamo, ci godiamo dalla terrazza del battello uno spettacolo inconsueto: da molto lontano è in arrivo un forte temporale, il cielo nero è squarciato dal bagliore di lampi che per brevi attimi illuminano le nubi. La cosa si ripete per alcune ore, poi durante la notte piove a dirotto mentre il rombo dei tuoni rompe il silenzio ed i lampi si susseguono rapidi.

Mi è sempre piaciuto osservare il temporale, qui – in Amazzonia – credo di aver visto quello più sensazionale.

19 gennaio 09 – lunedì Abbiamo percorso 500 km arrivando a toccare il Perù e costeggiandolo per un lungo tratto, oggi termina il tragitto di andata e mentre la comitiva di inglesi tornerà lentamente verso Coca impiegando i prossimi tre giorni, noi siamo in procinto di rientrare al punto di partenza in un’unica tappa con un motoscafo veloce.

Salutiamo con una punta di commozione il Capitano, la doctora, tutto lo Staff, i “nonnetti” inossidabili, la deliziosa Queen Elizabeth dagli occhietti dolci e la sua dinoccolata amica e coetanea dai capelli a caschetto tinti di rosso e la frangetta corta che ci fa pensare ad un buffo personaggio dei fumetti.

Viaggiamo per 5 ore sotto una pioggia battente che riduce notevolmente la visibilità in un paesaggio totalmente privo di colore salvo tutte le varianti del grigio.

Il trasferimento si rivela difficile, si rompe il tergicristallo ed il conducente, dopo aver tentato almeno un paio di volte di ripararlo, è costretto a sporgersi lateralmente per vedere il fiume cercando di seguire una traiettoria a slalom per evitare i banchi di sabbia affioranti ed i tronchi d’albero trascinati dalla corrente.

Viaggiare con questo clima e la visibilità tanto ridotta è stata una grande fatica: un meritato grazie e complimenti al pilota! Dal finestrino dell’aereo salutiamo per l’ultima volta la fitta foresta, il fiume e le isole di sabbia.

Atterriamo a Quito all’imbrunire, la giornata si conclude con un’altra ottima cena presso il ristorante dell’hotel Patio Andaluz dove facciamo ritorno per la terza volta.

20 gennaio 09 – martedì Lasciamo nuovamente il traffico di Quito e la distesa di case e palazzi questa volta diretti verso sud.

Fino alla cittadina di Latacunga il paesaggio non offre panorami meritevoli di una sosta, la situazione cambia seguendo, per circa 60 km, la deviazione che conduce alla Laguna di Quilotoa (3850 m).

Questo ultimo tratto di strada, bordeggiato da agavi, attraversa campi coltivati e pascoli dove gialle siepi fiorite delimitano le proprietà, i cactus prendono il posto delle agavi ed i campesinos con i poncho colorati badano alle greggi di pecore e lama. Le donne, dalle lunghe trecce e dalle gote arrossate, indossano tutte la stessa “divisa”: calzettoni bianchi, mocassini sformati con il tacco, bluse colorate, gonne di panno o velluto scuro, il classico cappello di feltro nero e vari giri di collane di metallo dorato.

Stiamo attraversando una zona montana e rurale, con le case dai tetti ricoperti d’erba, molto bella e selvaggia. Profondi canyon solcano il territorio ed il mosaico dei campi riveste i fianchi delle montagne sino alla sommità sviluppandosi quasi in verticale. Pur provando una fitta di angoscia pensando alla vita dura dei campesinos che lavorano la terra manualmente senza l’ausilio di mezzi meccanici, non possiamo che apprezzarne la laboriosità.

Raggiungiamo, infine, la Laguna di Quilotoa, un cratere vulcanico con le nubi che lo circondano e che sembrano trattenute dalle rocce. Sul fondo della caldera c’è un incantevole lago dall’acqua color verde smeraldo.

In circa un’ora, godendo di splendide vedute, percorriamo il sentiero che, con un dislivello di 400 m, scende fino alle spiaggette sabbiose che delimitano la laguna.

Risalire a piedi, a questa altitudine, sarebbe molto faticoso, vogliamo, inoltre, provare un’esperienza per noi nuova, così per soli 5 dollari affittiamo un mulo ciascuno.

Salirvi in groppa e mantenersi in equilibrio è un’impresa non proprio facile. Rigidi come stoccafissi, tenendoci saldamente aggrappati ad una corda, tra risate e attimi di paura, avanziamo lungo la mulattiera che ora sembra ancora più stretta.

I muli si fermano spesso sull’orlo del dirupo e, nonostante non soffra di vertigini, provo un po’ di inquietudine al pensiero che, con una scrollata, l’animale possa sbarazzarsi del suo fardello.

Per tutto il tragitto veniamo scortati da ragazzini e giovani donne, proprietari dei muli, che con nostro grande stupore ci seguono a piedi affrontando il ripido sentiero a passo sostenuto e, in apparenza, senza fatica. Calcolando che percorrono salita e discesa più volte nell’arco della giornata pensiamo che la richiesta di 5 USD per persona sia una cifra che non ripaga un lavoro tanto faticoso. Sulla via del ritorno facciamo una sosta per ammirare da vicino un gruppo di lama adulti ed un bellissimo e vivace piccolo dal pelo scuro che si avvicina curioso per scappare subito dopo.

A fine giornata i pastorelli che camminano al margine della strada stanno tornando alle proprie case dopo aver rinchiuso nei recinti pecore e lama.

Viaggiamo più in alto dei diversi strati di nuvole che al calar del sole assumono varie tonalità di colore. E’ straordinario l’insieme di soffici nuvole bianche, di eteree formazioni rosate e di cupe nubi scure con squarci qua e là che lasciano intravedere sprazzi di cielo azzurro/blu. Un pittore troverebbe sicuramente ispirazione da una scena così bella e ricca di colori.

Ceniamo e pernottiamo presso l’Hosteria Rumipamba de las Rosas, hacienda con una ricca collezione di antichi attrezzi agricoli, auto d’epoca, carri, strumenti musicali e molti altri oggetti collocati in ogni dove.

L’insieme degli ambienti e degli arredi è piuttosto kitsch, ma la raccolta di pezzi antichi è notevole.

La nostra camera è molto ampia, ha un bel caminetto, un soppalco con un romantico abbaino e pareti ricoperte di strumenti ed utensili del passato: per noi appassionati di “roba vecchia” è un gran bel lustrarsi gli occhi! 21 gennaio 09 – mercoledì Partenza alle 8 per un lungo trasferimento della durata di 7 ore. Attraversiamo dapprima paesaggi andini, sfiorando i 4000 m di altitudine, caratterizzati da distese di arbusti e ciuffi d’erba ondeggianti al vento dove pascolano gruppi di vigogne che – in alcune occasioni – ci tagliano la strada. Sullo sfondo il vulcano Chimborazo, innevato, completa questo bellissimo quadro.

Abbassandosi di quota lo scenario cambia, superiamo fitti boschi d’abeti ed i fazzoletti dei campi coltivati dalle svariate sfumature di verde e marrone .

Affrontiamo poi un lungo tratto di strada dissestata che alterna asfalto con profondi solchi a sterrati in condizioni anche peggiori, il tutto immersi in una fitta nebbia che riduce notevolmente la visibilità.

Scendendo ancora di quota la vegetazione muta nuovamente, attraversiamo ora foreste tropicali ed i primi bananeti.

Lasciate le montagne e la zona collinare, si susseguono piantagioni di cacao, banane e canna da zucchero e vaste risaie. Territorio, quest’ultimo, di natura paludosa popolato da centinaia di aironi bianchi dove le povere case di affollatissimi villaggi sorgono su palafitte.

Giunti al fiume Guayas un lungo e ardito ponte separa una estesa baraccopoli dalla modernità di Guayaquil, stridente contrasto purtroppo ricorrente per molte grandi metropoli del sud del mondo.

Ci lasciamo alle spalle il degrado di una periferia povera mentre di fronte possiamo ammirare le belle casette colorate della collina di Santa Ana e, più in là, i grattacieli ed i simboli del benessere.

La posizione privilegiata del nostro albergo (Grand Hotel Guayaquil) ci permette di sfruttare al meglio il poco tempo di cui disponiamo per visitare il centro cittadino che alterna edifici moderni a palazzi di epoca repubblicana dall’architettura importante, piazze con imponenti alberi, fontane e giardini ad ampi e trafficati viali.

La temperatura estiva invita ad una passeggiata sul Malecòn (lungofiume). Si tratta della recente realizzazione del progetto di recupero di una zona degradata e malfamata ora sicura grazie ad una recinzione ed ai poliziotti che ne presidiano gli ingressi, resa, inoltre, gradevole da laghetti, fontane, padiglioni espositivi, chioschi, giardini ornamentali, cinema, giochi per bambini e fast food dalle insegne sgargianti che, nonostante tutto, non riescono ad attrarci. Per cenare scegliamo, infatti, un bel ristorantino – la Tasca Vasca – che propone piatti tipici della cucina basca dove gustiamo un eccellente polipo alla brace guarnito con riso e patate e per dessert una squisita crema catalana. Visitiamo, in seguito, i giardini di Parque Bolivar e la Cattedrale gremita di fedeli nonostante l’ora tarda che, contrariamente alle chiese ridondanti di addobbi e oro visitate in precedenza, al suo interno è molto sobria, con pochi dipinti e statue.

Trascorriamo il resto della serata passeggiando sul Malecòn percorrendolo da un’estremità all’altra (2,5 km). Infine, prima di rientrare in albergo, facciamo un ampio giro seguendo nuove strade per ammirare altre piazze e palazzi del centro. Non possiamo affermare di conoscere Guayaquil, tuttavia per quel poco che abbiamo potuto vedere ci ha fatto una buona impressione, la città ci è parsa molto gradevole. La sua atmosfera rilassata ci è sembrata evidente dall’alto numero di persone che camminano per strada, sostano nei parchi, affollano i locali, dalle famigliole con bimbi e dalle coppiette di innamorati che la sera frequentano il lungofiume fino a tardi. Persino i cambiavalute abusivi ostentano grosse mazzette di banconote senza sentire la necessità di celarsi.

22 gennaio 09 – giovedì Ci svegliamo presto, il nostro entusiasmo è palpabile poiché questa nuova giornata segna la concretizzazione di un sogno dal nome evocativo: Galàpagos! Un autista e Mariella, colonna portante dell’agenzia di Guayaquil cui ci siamo rivolti per l’organizzazione di questo viaggio, ci accompagnano in aeroporto.

Mariella è una ragazza giovane, sorridente e molto pratica. Durante il tragitto chiacchieriamo e ridiamo per alcuni aneddoti di viaggio, proviamo poi un brivido quando ci riferisce che, dopo aver accettato la nostra prenotazione, la società che gestisce il battello amazzonico Manatee, qualche settimana dopo, ha cambiato idea rifiutandola. Ci complimentiamo per la sua tenacia, Mariella non solo è riuscita a far riconfermare la prenotazione bensì ad ottenere un programma speciale e più ricco di quello classico.

L’aeroporto di Guayaquil è una struttura moderna ed efficiente, l’attesa dell’imbarco è resa più vivace da un gruppo di giovani “dive” in abiti provocanti che posano con fare felino per decine di foto. Non riusciamo a stabilire se si tratta di turiste un po’ troppo lanciate nella parte di top model o se siano davvero modelle impegnate in un servizio fotografico.

La statura poco slanciata e gli abiti non proprio griffati ci fanno propendere per la prima ipotesi. Ci chiediamo, nel caso dovessimo ritrovarle sulla nostra stessa barca, se considerarle un divertente diversivo oppure una “calamità”.

Alle 11 si decolla, in meno di un paio d’ore raggiungiamo Baltra. Superate le file per pagare la tassa di ingresso al parco (100 USD) e per il ritiro dei bagagli usciamo dalla semioscurità del terminal, la luce solare ci investe quasi con violenza: siamo alle Galàpagos (*) e non si tratta di un sogno! (*) Le Galàpagos sono situate nell’Oceano Pacifico, a cavallo dell’Equatore, quasi 1000 km a ovest dalla costa ecuadoriana. L’arcipelago è formato da 13 isole principali, 6 isole minori e 42 isolotti.

Si tratta di isole di origine vulcanica e costituiscono un unico, enorme parco naturale.

La Riserva comprende i fondali marini e il 97% della superficie emersa delle isole. Nel restante 3% del territorio vivono i coloni ecuadoriani e sorgono le strutture turistiche.

Le Galàpagos sono innanzitutto il luogo d’incontri ravvicinati con animali unici, rari e dsparati: le tartarughe giganti che danno il nome all’arcipelago (galàpagos), leoni marini che ci annusano incuriositi, iguane che al nostro passaggio neppure si scompongono, pellicani appollaiati sul ponte della barca… il fatto è che questi animali, abituati all’assenza di predatori, si lasciano avvicinare senza timore dall’uomo e non sono pericolosi. E poi in mare – nelle acque incredibilmente limpide delle Galàpagos – si nuota insieme a pesci tropicali colorati, giocando con le otarie, inseguendo tartarughe marine e rabbrividendo alla vista di uno squaletto.

Ma un viaggio alle Galàpagos non è solo questo. L’arcipelago, formato dalle cime di alcuni vulcani emersi, presenta un ambiente naturale d’eccezione, dove suoli forgiati dalla lava e crateri collassati permettono di gettare uno sguardo su un passato quasi inconcepibilmente lontano e dove ogni passo è una lezione di storia naturale. Non per niente è proprio qui che Darwin ebbe l’intuizione che gli permise di elaborare la sua celebre teoria.

Un viaggio alle Galàpagos è davvero un’esperienza irripetibile, il cui ricordo resta fra i più indelebili ed emozionanti, anche se non siete degli esperti o degli appassionati.

Una persona con il cartello recante la scritta “Floreana” (il nome della nostra barca) ci indirizza verso un bus. Poco dopo ci raggiungono le starnazzanti “dive”… oh my God, vuoi vedere che… ma la nostra preoccupazione non dura a lungo, un provvidenziale “angelo custode” le recupera dirottandole su un diverso autobus.

In pochi minuti raggiungiamo il canale che separa Baltra dall’isola di Santa Cruz. Floreana è lì ancorata insieme ad altre imbarcazioni. Sul pontile ci smistano un’ultima volta, sospiriamo di sollievo nel constatare che una donnona prepotente prende una direzione diversa dalla nostra. Insieme a quelli che saranno i nostri compagni per i prossimi 8 giorni (in totale siamo 12 passeggeri), a bordo di un gommone, raggiungiamo Floreana.

Dopo un briefing con la guida, Victor, che un po’ troppo sfacciatamente parla già di mance per se stesso e per l’equipaggio, l’assegnazione delle cabine, un’esercitazione sul comportamento da tenere in caso di evacuazione ed uno spuntino, siamo finalmente pronti per compiere la prima escursione sulla vicina Isla Seymour Norte.

Due grossi squali scuri nuotano attorno allo scafo, in pochi minuti la scena cambia e si materializzano alcune tartarughe marine. Non si perde tempo a quanto pare, se questo è il ritmo degli avvistamenti faremo un bel “pieno” di emozioni.

Ci aspetta uno sbarco asciutto, vale a dire su un molo naturale o scogli. Al contrario gli sbarchi bagnati, come suggerisce la parola stessa, avvengono nei pressi di una spiaggia ovvero ci si bagna dai piedi in su in misura proporzionale al movimento delle onde.

Il tipo di sbarco viene comunicato in anticipo in modo tale da indossare ogni volta le calzature adatte.

I trasferimenti da Floreana alle varie località da visitare avvengono sempre a bordo di un gommone, diventerà un automatismo – al suono della campanella – indossare il giubbotto salvagente (chaleco), scendere la scaletta, fare un passo lungo, sedersi sul bordo del gommone, sfilare il giubbotto, sbarcare e viceversa a fine escursione.

Alcuni piccoli leoni marini che monopolizzano il molo di Seymour ci danno il benvenuto, inevitabili il primo coro di “oh!” ed una raffica di foto. Prendiamo un sentiero che conduce all’interno dell’isola costellato di rocce dal colore rossiccio, alberi palo santo e arbusti secchi che ricordano il bush africano, grosse iguane di terra ben mimetizzate compaiono all’improvviso.

Ogni passo ci riserva una sorpresa, sulle pietre spiccano lucertole della lava, iguane marine dal colore scuro, grossi granchi rossi. Sopra le nostre teste volteggiano maestose fregate dal piumaggio nero.

Alcuni esemplari maschi, appollaiati sugli arbusti, emettono richiami molto forti e, per attirare le femmine, gonfiano – fino alle dimensioni di un palloncino – una sacca rossa posta sotto il becco.

Da questo straordinario rituale è evidente che siamo capitati nel bel mezzo della stagione degli accoppiamenti, siamo sopraffatti dalle tante emozioni che questa piccola isola ci riserva a raffica senza concederci il tempo di assimilarle tutte. Se solo si potesse far scorrere il “film” al rallentatore avremmo più possibilità di cogliere ed immagazzinare anche il più piccolo particolare.

Proseguendo la camminata incontriamo le prime sule piedi azzurri, bellissime e buffe con quelle “pinne blu” ai piedi.

L’aspetto più sorprendente è che qui gli animali, compresi gli uccelli, non si scompongono al nostro passaggio, pur badando a non uscire dal sentiero tracciato ce li troviamo vicinissimi, in mezzo ai piedi come si suol dire, e non scappano, in diverse occasioni siamo obbligati a cambiare traiettoria per evitare di calpestarli. Come dice la guida: non servono obiettivi telescopici per scattare primi piani.

Terminato il percorso interno ci affacciamo su una bassa scogliera dove violente onde si infrangono. Volgendo lo sguardo verso l’oceano vediamo una serie di simpatiche scenette che hanno per protagonisti piccoli leoni marini che, affamati, strillano sollecitando le madri impegnate in mare a procurare cibo.

L’escursione termina con le tenere immagini di due cuccioletti che giocano, si intrecciano, si stropicciano, mentre sullo sfondo i pellicani si tuffano rumorosamente in acqua per uscirne poco dopo con la sacca del becco rigonfia di pesce.

Durante la navigazione le fregate ci seguono, come scuri aquiloni, quasi a voler fare gli onori di casa accompagnandoci al termine della visita.

Alle fregate si uniscono poi i pellicani, felice conclusione di questa prima giornata non solo limpida e soleggiata, ma altresì ricca di natura e di emozioni.

Il tramonto con gli uccelli che continuano a seguirci in volo è uno spettacolo indescrivibile, siamo senza parole.

Il cielo si fa sempre più scuro e si “accende” di stelle, trascorriamo la nostra prima serata in una baia riparata dell’Isla Santa Cruz. Il primo “documentario” notturno ci regala le immagini di grossi banchi di pesci che nuotano tutto attorno alla barca e che, attratti dalle luci, si spostano in massa con movimenti convulsi mentre due leoni marini sono impegnati a dar la caccia a guizzanti serpenti di mare.

23 gennaio 09 – venerdì Campanella… scarpe… chaleco… scaletta… gommone… sbarco… alle 7 in punto tocchiamo il suolo di Dragon Hill (Isla Santa Cruz), una spiaggia di nere pietre laviche con il comitato di benvenuto costituito da una colonia di leoni marini.

Seguendo un sentiero ci inoltriamo all’interno, il paesaggio è caratterizzato da alberi palo santo ancora spogli e alti cactus, spinosi anche sul tronco, che si riflettono nelle acque di piccoli stagni, incontriamo solo qualche iguana terrestre e fringuelli di Darwin.

Il caldo è già opprimente, la camminata non è impegnativa ma in questo ambiente pietroso con alberelli bassi privi di foglie che non offrono alcun riparo la affrontiamo con non poca fatica.

Dopo un paio d’ore senza vedere nulla sbuchiamo finalmente su una bella spiaggia di sabbia chiara e, così accaldati e sfatti, è un piacere immenso tuffarsi in un mare dal colore turchese e dalla totale trasparenza.

Mentre nuotiamo, una sula piedi azzurri si tuffa in picchiata, proprio davanti a noi, a caccia di prede che questi uccelli, formidabili pescatori, divorano prima ancora di uscire dall’acqua.

La spiaggia è molto bella, decidiamo di asciugarci percorrendola in tutta la sua lunghezza, ma veniamo subito assaliti da assatanati tafani, non c’è modo di liberarsi delle fastidiose bestiacce, dopo aver rimediato una serie di dolorose punture ci rivestiamo in fretta optando per una poco dignitosa ritirata.

A metà mattina lasciamo l’approdo, stiamo costeggiando la parte occidentale di Santa Cruz diretti da nord verso sud, nei pressi di Whale Bay il capitano getta l’ancora ed alle 14… campanella… scarpe… chaleco… scaletta… gommone… sbarco… siamo di nuovo a terra per una passeggiata “illustrativa” che ben presto si rivela un bidone, nessuno infatti si dimostra entusiasta di perdere tempo per vedere 4 cocci di ceramica e vetro di dubbia datazione che la guida spaccia per resti dei primi coloni dell’isola.

Tornati sulla spiaggia, mentre ci accingiamo a fare il bagno con relativo snorkelling, una pioggia battente ci investe e nei pochi minuti occorrenti per tornare su Floreana ci infradiciamo completamente, siamo così costretti ad un bucato supplementare.

Si riparte in direzione Puerto Ayora, durante la navigazione, a non più di un chilometro dalla costa, il capitano stacca una vecchia, grossa e pesante antenna collocata sul ponte superiore e, indifferente ai nostri sguardi allibiti, la getta in mare. Giustifica la sua azione con una scrollata di spalle e con la motivazione che quello era l’unico modo per liberarsi di un nido di vespe.

Siamo convinti che in una riserva marina protetta un simile gesto sia sacrilego oltre che un insulto per chi paga una tassa di ingresso di 100 dollari, certamente a Puerto Ayora si sarebbe potuto trovare un rimedio più intelligente per allontanare le vespe senza danneggiare i fondali marini.

Abbiamo tutta l’intenzione di denunciare l’accaduto.

Trascorriamo il resto del pomeriggio in navigazione all’insegna di un clima instabile che ci fa omaggio di diversi scrosci di pioggia.

Il nostro umore non è dei migliori, l’insoddisfazione è crescente in quanto riteniamo che la scelta dell’itinerario odierno sia volta al massimo risparmio allo scopo di trarne il maggior profitto cosa che ci viene confermata ancora una volta dal menu decisamente scarso che alterna pollo al maiale e che ci porta – considerate le somme da noi pagate per questa crociera – a protestare.

Dopo quella che spacciano per cena sbarchiamo e passiamo il resto della serata a Puerto Ayora, animata cittadina con negozietti di souvenir, agenzie che propongono ogni sorta di escursione, bar, ristoranti e locali notturni.

Il bilancio della giornata è negativo, siamo decisamente scontenti del percorso, delle soste prolungate in zone di nessun interesse naturalistico e del trattamento a bordo.

24 gennaio 09 – sabato Campanella… scarpe… chaleco… gommone… sbarco a Puerto Ayora per una visita alla Stazione Scientifica Charles Darwin che ospita un ufficio informazioni sul Parco Nazionale, un istruttivo museo e che gestisce le attività di ricerca scientifica, di salvaguardia ed educazione ambientale.

E’ il posto giusto per denunciare il fattaccio avvenuto ieri, ma l’ufficio è chiuso, manca il responsabile, una donna cui raccontiamo l’episodio dell’antenna scaricata in mare ci invita a rivolgerci alla Capitaneria di porto.

Presso la Stazione sono ospitate tartarughe di varie fasce d’età.

Le uova deposte dalle testuggini vengono prelevate dalle diverse isole e conservate in incubatrici sino alla loro schiusa. I piccoli nati restano sotto la tutela del Centro fino al raggiungimento di un certo peso ed età per poi essere riportati sulle isole d’origine.

Tali interventi consentono una sopravvivenza maggiore delle tartarughe e più alte probabilità di raggiungere la maturità. Nelle varie sezioni del Centro possiamo vedere numerosi piccoli, numerati e raggruppati per taglia e periodo di nascita.

Proseguendo la visita incontriamo un gruppo di vecchi maschi di dimensioni enormi e poco discosto un gruppo di femmine.

In uno spazio esclusivo è ospitato il celeberrimo Lonesome George che come una star del cinema volta le spalle a noi paparazzi e che, neppure dopo lunga e paziente attesa, si degna di mostrare il suo lato “A”.

Sembra che nemmeno le due compagne, candidate per la riproduzione in quanto di una specie molto simile, riescano ad avere maggior fortuna: George il solitario continua ad essere indifferente a tutto ed a mantenere immutata la sua posizione.

Torno più volte da George, ma nulla. Mi sarebbe tanto piaciuto vedere anche il suo musetto, considero comunque il fatto di essere qui e di poterlo osservare da vicino un importante ed emozionante obiettivo raggiunto.

Ho sentito parlare del solitario George, per la prima volta, una quindicina d’anni fa. Ricordo d’aver provato tristezza per quell’ultimo esemplare della sua specie rimasto senza una compagna con cui accoppiarsi e che alla sua morte costringerà gli scienziati e l’umanità ad apporre l’ennesima, irrevocabile e dolorosa cancellazione sulla lista della fauna in pericolo di estinzione.

L’emozione è tanta, non immaginavo di vedere dopo parecchi anni e con i miei occhi quello stesso George di cui, in questo preciso momento, sento riecheggiare la triste storia narratami da una donna, grande viaggiatrice, che ho molto stimato.

Provo una grande pena per questo animale divenuto famoso, una leggenda, suo malgrado.

Nel pomeriggio nuovo sbarco per l’escursione alla riserva El Chato che raggiungiamo in bus attraversando una zona dell’isola molto vegetata, verde e con gli alberi in fiore.

Prima di accedere alla riserva facciamo una sosta per visitare un tunnel scavato da un fiume di lava incandescente, è impressionante, osservando le ampie dimensioni della galleria, immaginare la violenza dell’attività vulcanica.

El Chato è un ambiente naturale molto vasto che ospita all’incirca 3.500 tartarughe giganti.

La guida riferisce che essendo sparse su una superficie molto estesa non è sempre facile vederle, ma siamo fortunati, ne vediamo molte, sono enormi ed è bellissimo osservarle nel loro habitat mentre si muovono lente o si cibano o stanno in ammollo in uno stagno.

Forse il solitario Gorge qui avrebbe avuto maggior fortuna, ma – per il suo bene – vogliamo credere e sperare che l’accanimento di studiosi e scienziati sia giustificato considerando che alla sua morte saranno 10 e non più 11 le specie sopravvissute.

Trascorriamo la seconda serata a Puerto Ayora, questa volta meno entusiasti di trovarci, dopo 3 giorni, ancora sull’isola che le altre imbarcazioni lasciano a distanza di poche ore dall’aver caricato i turisti recuperati in aeroporto.

Ci sentiamo presi in giro anche per le donnine in abiti fascianti che fanno la spola dal molo a Floreana e viceversa. Non sarà per caso per questo genere di intrattenimenti che giriamo qui attorno da tempo troppo prolungato? E poi perché Victor (la guida) durante il consueto briefing serale mi ha fatto una scenataccia, pubblica, fuori luogo e senza una motivazione sostenibile? E ancora perché, visto che sostiamo in porto ormai da due giorni, nella cambusa sono già terminate le scorte di alcuni viveri? Siamo addirittura in numero inferiore rispetto alla normale capienza della barca (12 passeggeri su 16), escludiamo che si tratti di una nostra smisurata voracità.

Perché, dopo cena, si scende a terra ed il primo bisogno che dobbiamo soddisfare è quello di cercare qualche cosa da mettere sotto i denti? Mi addormento con questi e diversi altri interrogativi che affollano la mia mente.

25 gennaio 09 – domenica Alle 3,30 il rumore della catena che riavvolge l’ancora mi sveglia: si parte! In realtà dovremmo già essere in viaggio da almeno 4 ore… chissà? forse le donnine hanno sconvolto la tabella di marcia e non solo… Durante la navigazione il mare agitato mi impedisce di riaddormentarmi. Non mi sono ancora abituta alla ristrettezza della cabina, ci sono momenti in cui mi assale un forte senso di claustrofobia, ma mi impongo di dominare l’ansia ed infine il sonno ha il sopravvento.

Campanella… scarpe… chaleco… gommone… sbarco bagnato in località Post Office Bay (Isla Floreana).

L’isola conta una sessantina di abitanti e si trova a sud di Santa Cruz a circa 6 ore di navigazione.

Circolano molte storie strane e lugubri sui primi coloni tedeschi che si trasferirono qui: avvelenamenti, sparizioni e altri fatti misteriosi che grazie ad una buona dose di suggestione aleggiano ancora nell’aria.

Come vuole la tradizione, che risale all’epoca delle baleniere, lasciamo la posta (un paio di cartoline) in un barile e incuriositi sfogliamo i mazzi di cartoline già imbucate constatando che quelle in giacenza da più tempo (alcune da anni) sono indirizzate negli USA.

Un tempo la posta veniva lasciata dai cacciatori di balene che in seguito veniva ritirata e distribuita ai destinatari da navi di passaggio.

Apro una parentesi per confermare che una delle cartoline da noi imbucate è arrivata in Italia due settimane più tardi spedita da un solerte Monsieur parigino.

Lasciato l’ameno “ufficio postale” ci spostiamo verso l’interno dell’isola dove si trova una grotta lavica il cui stretto passaggio di accesso mi blocca inducendomi a rinunciare, senza rimpianto, alla “calata negli inferi”. Dalla testimonianza di chi non si è lasciato vincere dalla claustrofobia ed è sceso nel tunnel pare che non mi sia persa una grande avventura.

L’insoddisfazione per come si sta svolgendo la crociera, con molte (troppe!) soste in luoghi senza animali, è in crescendo, inoltre il trattamento che ci riservano a bordo e la scortesia della guida, non fanno che aumentare il nostro disagio.

Tornati alla spiaggia, dopo aver fatto un bagno, ci avviciniamo agli ospiti di un’altra barca (Princess of Galàpagos), 4 donne sono italiane, cogliamo l’occasione per scambiare due chiacchiere e per fare un raffronto tra la loro e la nostra crociera.

La Princess è un’imbarcazione più piccola, a pieno carico (16 passeggeri) ed in apparenza più scalcinata della nostra, le donne riferiscono di non riuscire a dormire nelle cabine anguste e verniciate di recente, dopo essere state male hanno preferito improvvisare un giaciglio nella sala ristorante con il benestare dell’equipaggio che si adopera a smontare e rimontare i “letti” ogni giorno.

Nonostante ciò, sopportano il disagio con spirito abbastanza umoristico e complessivamente sono molto soddisfatte del programma di escursioni, dell’itinerario, dell’evidente rapporto cameratesco con la guida e dell’eccellente menu molto ricco e vario proposto da un abile cuoco.

Victor – al contrario – non perde l’occasione per fare un’altra pubblica piazzata, anche le donne italiane tacciono sbalordite da tanta aggressività.

Ci salutiamo, ognuno ritorna sulla propria barca, gli ospiti della Princess sono di ottimo umore e stuzzicati dall’appuntamento con i manicaretti confezionati dal cuoco di bordo. Noi ci sentiamo depressi, come se fosse appena scaduta l’ora d’aria di un detenuto.

I pasti costituiscono un dovere da assolvere, non un piacere. E’ la prima volta che ci capita – dopo tanti viaggi – di provare sconforto nel sedersi a tavola, increduli, ad ogni pasto, dinanzi alle solite 4 verdure lessate e scondite e poco altro.

Ci spostiamo poco più a nord accompagnati, durante la navigazione, da numerose tartarughe marine.

Sbarcati su una spiaggia scura, percorrendo un istmo (Punta Cormorant), raggiungiamo una bella laguna dai riflessi rosati e dai bianchi residui di sale dove, in teoria, si dovrebbero osservare i fenicotteri. Nella sostanza ne vediamo, in lontananza, solo due esemplari, ma le spiaggette dalle sfumature rosate ed i colori dell’acqua valgono, in ogni caso, la passeggiata.

Sono le 14, il sole è cocente, lo sento bruciare sulla pelle, mi rigiro spesso e mi muovo per evitare di scottarmi.

Lasciata la laguna seguiamo il sentiero fino a sbucare su una stupenda spiaggia di sabbia bianca dove risaltano nere rocce vulcaniche ed il mare è di un bellissimo color turchese.

Sulla sabbia sono evidenti le molte tracce lasciate dalle tartarughe che – durante la notte – vengono qui a deporre le uova dopo aver scavato grandi buche.

Sui sassi neri spiccano rossi granchi.

Nell’acqua trasparente nuotano diverse grandi tartarughe che ogni tanto emergono per respirare.

Purtroppo qui non ci si può bagnare, ma, considerata la consistente presenza di tartarughe, non ce ne rammarichiamo più di tanto. Rispettiamo, pertanto, questo luogo incontaminato e ce ne andiamo grondanti di sudore ed accaldati riconoscendo loro la totale ed esclusiva frequentazione di queste invitanti acque.

Tornati al punto di partenza, nel vedere in mare alcuni turisti che sguazzano beati, crediamo di poter fare altrettanto, ma Victor ha detto NO! ed inflessibile richiama il gommone… Pol Pot (così lo soprannominiamo) ha deciso di porre bruscamente fine alla nostra ora d’aria riportandoci a bordo boccheggianti, accaldati e pure depressi, ma forse è proprio attraverso la nostra prostrazione che lui alimenta il suo senso di onnipotenza.

Ci spostiamo nei pressi di Devil’s Crown, un semicerchio di roccia, quel che resta di un cratere vulcanico parzialmente sommerso.

Non ce la sentiamo di tuffarci per lo snorkelling nella forte corrente e nell’acqua fredda, ma chi ha avuto la tempra di farlo è stato compensato da un’infinità di pesci colorati, tartarughe, otarie e da un paio di squali.

Dopo cena, come di consueto, ci piazziamo sul ponte panoramico, il “documentario” serale ci allieta con le evoluzioni di una grossa otaria in compagnia di un piccolo, la visita occasionale di altre otarie e l’inconsueto spettacolo di pesci sfreccianti che corrono per parecchi metri sul filo dell’acqua.

26 gennaio 09 – lunedì A mezzanotte si parte per Isla Española, la traversata si rivela problematica, il mare è mosso, commetto l’errore di alzarmi per andare in bagno e mi gira tutto, mi assale la nausea. So che, in momenti come questo, bisogna sdraiarsi, risalgo nella mia cuccetta, l’oblò è aperto, quello spiffero d’aria frizzante mi aiuta a tenere a bada il senso di claustrofobia, nonostante il rumore delle onde che sbattono sullo scafo sia inquietante cerco di controllare la paura ed anche il respiro, riesco a superare il momento critico senza cader vittima del mal di mare e dopo diverso tempo mi riaddormento.

Alle 6, ancorata la barca, sono la prima a salire sul ponte e una boccata d’aria fresca davanti al sole che sorge e tinge le nuvole di rosa riporta il mio stomaco alla normalità.

Española, situata a sud-ovest dell’arcipelago, è la più meridionale delle isole ed anche una delle più belle, ha una superficie di 61 kmq ed è completamente disabitata, dista circa 10 ore di barca da Puerto Ayora (Santa Cruz).

Gli esperti concordano nel dire che è la più interessante per l’osservazione degli uccelli. E’ l’unico posto al mondo dove si riproducono gli albatros delle Galàpagos.

Alle 7,30 campanella… scarpe… chaleco… gommone… sbarco (asciutto) a Punta Suarez, un promontorio roccioso che cela una spiaggetta di sabbia chiara, nella antistante piccola baia dall’acqua calma e trasparente decine di leoni marini grandi e piccini nuotano, compiono salti, piroette, movimenti agili ed eleganti: uno spettacolo per gli occhi ed una pillola di ottimismo per il nostro umore più volte messo a dura prova.

Due sule piedi azzurri posate su una lapide di pietra sembrano messe lì in bella mostra per dare il benvenuto ai visitatori.

Ci incamminiamo seguendo il sentiero che si sviluppa su una falesia di roccia vulcanica, ovunque vediamo iguane marine che, distese sui massi, si crogiolano al sole, otarie, granchi rossi e una discreta quantità di uccelli tra i quali predominano bellissime sule mascherate (dalla livrea bianca e nera con una zona di pelle nuda e nerastra che circonda il becco giallo e che ricorda appunto una maschera), gabbiani codadirondine (unico uccello che caccia durante la notte), fringuelli, gabbiani e diversi altri uccelletti che se paragonati alle splendide sule dalla “maschera” nera o a quelle con le “pinne” azzurre appaiono insignificanti.

Un serpente lungo e sottile, innocuo per noi, ma pericoloso costrittore per gli animali di piccola taglia ci attraversa la strada.

Facciamo varie soste per ammirare e fotografare le diverse specie di animali e volatili e per godere di begli scorci panoramici scendendo in diverse calette o dall’alto della scogliera battuta dalle onde dell’oceano dove l’acqua si infrange, penetra in alcune fenditure uscendone sotto forma di alti spruzzi.

Il sentiero prosegue all’interno, attraversando l’isola, questa parte della camminata non riserva grandi emozioni, possiamo però constatare che gli arbusti, in prevalenza spogli, stanno germogliando e le piante più esposte alla luce cominciano a ricoprirsi, più velocemente di quelle rivolte a nord, di nuove e verdi foglioline.

Il caldo non da tregua, sarebbe bello potersi tuffare nella piccola baia dove nuotano le otarie, ma non è consentito. Concludiamo il giro ad anello esattamente nello stesso punto in cui siamo sbarcati e salutiamo i leoni di mare più in fretta di quel che vorremmo.

Lasciamo il luogo seguiti dalle fregate che, come sempre, scortano la barca.

Il capitano da ordine di gettare l’ancora di fronte ad una lunga, meravigliosa, spiaggia di sabbia candida dove bivaccano centinaia di leoni marini.

I colori del mare, con il fondale sabbioso, assumono tutte le sfumature del turchese.

Sbarchiamo sulla spiaggia di Gardner Bay che per un paio d’ore sarà esclusivamente “nostra”, la percorriamo in tutta la sua lunghezza fermandoci ad osservare i diversi gruppi di leoni marini impegnati in attività variabili dal pigro spostarsi all’asciutto man mano che la marea sale e piccole onde li investono all’allattamento dei cuccioli, dalle lotte dei maschi che scacciano i rivali ai piccoletti che giocano azzuffandosi goffamente e così via.

Stiliamo la graduatoria del cucciolo più piccolo meravigliandoci di continuo perché dopo quello che a noi pare l’ultimo nato ce n’è sempre uno ancora più piccino, ma dopo aver percorso l’intera spiaggia, soddisfatti e senza più dubbi, possiamo finalmente decretare il vincitore: si tratta di un tenerissimo esemplare con la pelliccia rugosa, pieghettata, vuota, ancora troppo grande, che presto di riempirà di carne.

Avvertenza importante: Mentre le femmine ed i piccoli sono assolutamente inoffensivi, i grossi maschi possono essere molto pericolosi; l’unico momento in cui anche le femmine sono aggressive è nel periodo che segue il parto, quando non permettono a nessuno di avvicinarsi al piccolo. Madri e figli si riconoscono attraverso il suono della voce e attraverso l’odore. Per questo I VISITATORI NON DEVONO MAI E POI MAI TOCCARE I PICCOLI DI OTARIA: l’odore delle creme solari, insetticidi, profumi impedisce alla madre di riconoscere il figlio, che viene respinto e lasciato morire di fame. E’ terribile vederne i cadaverini sulle spiagge.

Si salpa diretti verso nord-est, la nostra prossima meta è Isla San Cristobal. Puerto Baquerizo Moreno è la cittadina principale dell’isola nonché capitale politica della Provincia delle Galàpagos.

Durante la navigazione perdiamo una grossa tanica di plastica che guida ed equipaggio – tempestivamente informati dell’accaduto – non si curano di recuperare… mentre ci allontaniamo dal “corpo del reato” galleggiante il nostro scetticismo sulla serietà di questo equipaggio così poco rispettoso della natura subisce un ulteriore picco.

Il porto della cittadina è affollato di barche, trascorreremo la notte qui ormeggiati, quindi sbarco serale.

Prima di partire non avremmo mai immaginato di dover passare diverse serate in città, dai resoconti di altri viaggiatori si sarebbe detto che le barche compiono lunghi spostamenti a partire dall’ultima escursione giornaliera proseguendo la navigazione nel corso della notte; per noi la realtà è ben differente, viaggiamo molto poco, le isole incluse nel nostro itinerario sono solo 4, pensavamo che almeno su tutte si potessero vedere meraviglie come quelle delle due escursioni odierne, ma non è andata così. Al di là di queste considerazioni ci godiamo lo sbarco come momento di libertà: 2 ore senza l’obbligo di sottostare a ferrei ordini e senza gli sguardi truci e le angherie di Pol Pot – come dice una nota pubblicità – non hanno prezzo! Dopo aver fatto un giro per negozi e gustato un ottimo batido (frullato) di frutta fresca ci fermiamo a lungo sul Malecon (lungomare) ad osservare un’otaria adagiata su un muretto di cemento ed un cucciolo che succhia rumorosamente il latte attaccandosi ad ognuno dei 4 capezzoli alternandoli a seconda della posizione per lui più comoda. Nel silenzio notturno il rumore della poppata sembra amplificato, lasciamo la coppia di leoni marini a malincuore, il gommone ci aspetta per riportarci sulla barca.

27 gennaio 09 – martedì Con Floreana ferma in porto sono riuscita a dormire tutta la notte, al risveglio mi sento decisamente in forma e riposata.

Alle 8 sbarchiamo in città per visitare il Centro de Interpretacion. Essendo già stati in escursione alla Stazione Scientifica C. Darwin (Puerto Ayora, Isla Santa Cruz), questa seconda e molto simile tappa culturale ci indispone, la riteniamo una grossa perdita di tempo considerato anche che siamo costretti a stare qui e nei paraggi per la bellezza di 4 ore e mezza.

Non c’è alcuna possibilità di cambiare programma, ci sottoponiamo malvolentieri alle noiose spiegazioni di Victor che non racconta nulla di nuovo rispetto a quanto già sentito 3 giorni fa e letto, riletto, straletto – e ormai memorizzato – su guide, libri, riviste, pubblicazioni.

Il livello di insofferenza raggiunge l’apice quando Pol Pot ripete per ben due volte consecutive la stessa storia in spagnolo dimenticando invece di fare la traduzione in inglese per i due ragazzi londinesi che fanno parte del nostro gruppo.

Quando finalmente Victor decide di farla finita con questa manfrina e si congeda, scappiamo dal Centro senza più curarci di terminare il percorso didattico.

Percorrendo un sentiero immerso nella vegetazione raggiungiamo una spiaggia ed un promontorio roccioso sulla cui sommità si erge un faro. Sugli scogli dimorano leoni marini, iguane e alcune sule piedi azzurri. Prima di tornare in porto e di risalire su Floreana, contravvenendo alla nostra abitudine di non consumare mai nulla poco prima di un pasto, facciamo una sosta sotto il pergolato di un baretto concedendoci una generosa razione di patate fritte con rondelle di würstel ed un frullato alla frutta, così – per una volta – non proveremo tristezza davanti al “buffet” di bordo.

Da Puerto Baquerizo Moreno ci spostiamo seguendo la costa occidentale di San Cristobal, in breve raggiungiamo Isla Lobos.

L’ancora viene gettata in uno stretto canale che separa la costa dall’isolotto che ospita uccelli e leoni marini.

Mentre attendiamo di sbarcare, un marinaio lava i gommoni e la fiancata della barca gettando secchi d’acqua saponata incurante della chiazza schiumosa e dei residui di detersivo che si espandono in un tratto di mare dove nuotano le otarie e dove i turisti fanno snorkelling… non c’è mai limite al peggio, pensiamo sempre più sconcertati.

Campanella… scarpe… chaleco… gommone… sbarco… i leoni marini occupano il molo, dobbiamo attendere che si spostino o si tuffino in mare prima di poter passare.

Ci troviamo su un isolotto lungo e stretto, una striscia di terra brulla con qualche basso cespuglio dove si celano le otarie. Prima ancora di vederle ne percepiamo il caratteristico odore molto forte e penetrante. Le iguane marine qui sono più piccole e scure, fatichiamo a distinguerle sulle rocce laviche.

Osserviamo da vicinissimo una stupenda coppia di sule piedi azzurri con un piccolo dal piumino bianco che svolazza tanto è morbido e delicato.

Proseguendo incontriamo un cucciolo di leone marino probabilmente orfano e ferito, fa male al cuore constatare che nessuna femmina è disposta ad accoglierlo. Il piccolo leone marino si avvicina ad ognuna cercando di attaccarsi ai capezzoli, ma viene ripetutamente scacciato. Il suo richiamo è straziante, è evidente che avrà vita breve, tra qualche giorno altri turisti troveranno il suo cadaverino abbandonato vicino ad un masso o in mezzo al sentiero.

La selezione naturale è una legge senza deroghe: sopravvive solo il più forte! Questo isolotto anche se piccolo ci gratifica con scene bellissime, ma la fretta della guida nel richiamare il gommone, caricarci sopra e riportarci sulla barca rompe l’incantesimo e mi procura l’ennesima insoddisfazione. Meno di un’ora a terra, a metà del pomeriggio, in un contesto pieno di animali, è davvero poca cosa, non si ha il tempo di osservarli e di aspettare il momento giusto per un buono scatto fotografico.

Stanca di subire chiedo il motivo di tanta furia e da qui alla discussione animata il passo è breve.

E’ evidente che Victor sarebbe più adatto a prestare servizio in una caserma, in un carcere, in un lager… sarebbe stata sufficiente una concessione di pochi minuti, il tempo di immortalare i pellicani e diverse otarie che dagli scogli si tuffavano in acqua per poi risalirvi con estrema agilità in un carosello di spruzzi, richiami e scene davvero straordinarie.

La lite si fa tanto accesa al punto che – una volta risaliti su Floreana – interviene il Capitano.

Victor si dilegua, continuiamo la discussione con quest’ultimo che parte seccato ma dopo aver ascoltato le nostre motivazioni si dimostra più conciliante, i toni pian piano si smorzano. Al termine del battibecco, per porre rimedio e per sedare il nostro malcontento, il Capitano ci concede una deviazione, anziché tornare in porto (a sud dell’isola) ci spingiamo ancora più a nord sino a raggiungere il Leon Dormido, un massiccio roccioso che da lontano sembra poco più di uno scoglio.

Il mare è piatto come una tavola, è l’ora del tramonto, la prua è rivolta verso il Leon Dormido (così chiamato perché ha le sembianze di un leone marino che dorme), a poppa l’orizzonte con il sole che sta calando in mare, sopra di noi il cielo è terso, solo poche soffici nuvolette, come quelle dei fumetti, che si tingono di tutta la gamma cromatica che va dal rosa all’arancio.

La scena già così è perfetta, ma – come spesso accade – la natura ha in serbo grandi e straordinarie sorprese.

Sono rivolta a prua, sto ancora meditando sui malumori, le discussioni, il bilancio di questa porzione di vacanza, le lacrime mi rigano il viso ed il cuore è colmo di amarezza perché sono convinta che un po’ di fortuna in più e con una guida meno caratteriale tutto sarebbe potuto andare meglio. All’improvviso un profilo scuro ed un alto spruzzo d’acqua catturano la mia attenzione riportando i miei pensieri al presente.

Non è, questa, stagione per avvistare le balene, ma quello spruzzo è inconfondibile, mentre, poco convinta, cerco di scartare l’ipotesi che si tratti davvero di una balena, il fischio della sirena ed il grido “whale” (balena) confermano che ho visto giusto.

L’eccitazione è alta, seguiamo la scia del cetaceo che riemerge altre volte.

Per non perdere una sola frazione di secondo dell’intera scena rinuncio alle fotografie mettendo in azione la memoria visiva che cattura più volte l’immagine dell’enorme dorso della balena con la pinna soprastante e, per finire, l’ultimo altissimo spruzzo d’acqua.

Seguendo le scie e le sagome scure ho l’impressione che le balene siano due, ma non ne ho la certezza perché ne vediamo emergere sempre e solo una per volta.

Più tardi il capitano ci confermerà che le balene erano realmente due e che è un fatto eccezionale trovarle ancora qui in questo periodo.

Il sole scompare all’orizzonte, alle nostre spalle, e di fronte quello che da lontano sembrava uno scoglio si rivela un roccione enorme, una montagna dalle pareti verticali alte fino a 400 metri con una fenditura all’estremità orientale che lo attraversa interamente. Uno spettacolo senza eguali, da togliere il respiro per la bellezza, per l’imponenza, il tutto impreziosito dai colori di uno splendido tramonto.

Di fronte a tanta magnificenza la mia tristezza si dissolve, assaporo questi minuti di felicità allo stato puro con la certezza che alla parola “Galàpagos” assocerò questa sequenza di immagini.

Ci portiamo sull’altro lato dell’imponente massiccio, sullo sfondo il cielo è ancora arrossato dagli ultimi bagliori del tramonto, le nuvole ora hanno un colore blu notte.

E quale ultima grande emozione, il capitano da ordine di passare nello stretto e lungo canale, la barca scivola nell’angusto passaggio tra due pareti verticali di roccia che ammiriamo naso all’insù mentre il suono della sirena riecheggia nell’aria.

Seconda serata a Puerto Baquerizo Moreno e relativo sbarco dopo cena.

Ci sediamo su un muretto che delimita la spiaggia ed osserviamo il comportamento dei leoni marini, le lotte di due grossi maschi impegnati a difendere il proprio territorio ed il proprio “harem”, un cuccioletto strillante alla ricerca della madre ed i tentativi di conquista di un posto nel mucchio da parte degli esemplari appena usciti dall’acqua.

Ci sono attimi di assoluta calma in cui tutti i leoni marini sembrano ben accomodati, silenziosi e sprofondati nel sonno, poi, in breve, alla prima scaramuccia, si scatena il pandemonio, si sentono versi acuti, si vedono movimenti convulsi e otarie che si scavalcano, si spostano, si spintonano… poi la calma e di nuovo il caos… una sequenza che si ripete all’infinito.

28 gennaio 09 – mercoledì Durante la notte ci siamo spostati a Santa Fè, piccola isola disabitata ad est di Santa Cruz, stiamo gradualmente facendo ritorno al punto di partenza.

Al nostro risveglio la barca è già ancorata in una baia dall’acqua trasparentissima, attorno allo scafo nuotano tartarughe, leoni marini, razze e pesci di diverse dimensioni e colori. Sbarco bagnato. Il sentiero che percorriamo è ripido, si inerpica su una pietraia, tra la vegetazione bassa e secca scorgiamo tre iguane, una delle quali sembra indossare una tuta mimetica, la sua pelle squamosa ha esattamente gli stessi colori e macchie irregolari.

Tra i sassi si nascondono due topi… saranno pure endemici, ma non riscuotono grande successo, non valgono certamente la sudata e la faticaccia di questa scarpinata infruttuosa.

Sommiamo così un altro bidone ai precedenti, è inevitabile domandarsi se anche sulle restanti isole dell’arcipelago ci siano luoghi altrettanto privi di attrattive e quanta responsabilità hanno i Capitani nella scelta di sbarcare in un luogo piuttosto che in un altro, di visitare un’isola al posto di altre e così via.

La navigazione nel tratto di mare che separa l’isola di Santa Fè dalla costa orientale di Santa Cruz ci offre la visione delle sempre affascinanti fregate che volteggiano sopra di noi e le piroette di enormi mante che compiono, fuori dall’acqua, salti altissimi roteando su se stesse.

Ancora una volta la natura generosa ci ripaga di tanti disagi. E’ commovente, sentiamo il suo affetto quasi a fior di pelle, come se l’oceano e il cielo si sentissero in dovere di porre rimedio alle infelici scelte delle persone che per questo viaggio hanno incassato parecchi quattrini offrendo molto poco.

Alle 14, raggiunte le isole Plaza, sbarchiamo sull’isolotto meridionale (Plaza Sur), un lembo di terra lungo e stretto dove crescono splendidi cactus giganti, ora fioriti. Il suolo ricoperto da muschio rosso, il cielo terso e azzurro unitamente al colore blu del mare profondo conferiscono all’insieme uno straordinario effetto cartolina.

Quest’ultimo, fortunatamente, è uno dei luoghi che da solo vale il viaggio e non solo paesaggisticamente.

L’isola è abitata da una nutrita colonia di leoni marini, molti dei quali occupano il molo.

Per scendere dal gommone è infatti necessario battere le mani e fare un bel po’ di rumore.

Il non timore di questi animali nei confronti dell’uomo è divertente, occorre insistere parecchio perché si facciano più in là, che spasso vederli indifferenti ai nostri ripetuti tentativi di farli spostare.

L’acqua del mare è un fermento di “proiettili” scuri (altre otarie) che guizzano agili e veloci, sembra tutto un gioco, c’è chi si tuffa, chi riguadagna un posto al sole, chi si stiracchia, chi si rincorre, chi strilla, chi si azzuffa.

Qui abbondano anche le iguane di terra, ai piedi di ogni cactus se ne trova sempre almeno una.

L’altro lato dell’isola è caratterizzato da un’alta falesia che richiama un certo numero di volatili.

L’estremità orientale è totalmente priva di vegetazione, il suolo è “piastrellato” da enormi blocchi di roccia bianca lucidati e levigati dal continuo passaggio dei leoni marini.

Sono catturata dalla bellezza di questo luogo e concentrata nello scattare una fotografia quando sento la voce rabbiosa di Victor, senza neppure girarmi posso indovinare verso chi è indirizzata l’ennesima, inopportuna, sfuriata… è patetico! La sua perseveranza, depurata da cattiveria e negatività, potrebbe essere encomiabile.

Riprendiamo la navigazione, raggiunto il canale che separa Santa Cruz da Baltra ci fermiamo per trascorrervi l’ultima notte.

Dopo il tramonto osserviamo ciò che avviene attorno alla barca.

Le zanzare, in questo approdo non molto distante da una laguna bordeggiata da mangrovie, sono fameliche, ma riusciamo a tenerle a bada con una generosa dose di repellente (provvidenziale OFF!).

Assistiamo al passaggio di alcuni grossi squali, di pesci saltanti che corrono come saette sul filo dell’acqua inseguiti dai leoni marini e ad un fenomeno che, in assenza di una spiegazione, ci pare ultraterreno.

Nell’acqua scura si materializza all’improvviso una larga scia luminosa che – silenziosa – avanza, si muove sinuosa, scende in profondità, risale e continua il suo percorso sino a circondare la barca, siamo ammaliati da tale spettacolo pur senza conoscerne l’origine.

L’indomani Xavier (simpatico conducente dei gommoni utilizzati per gli sbarchi) ci spiega che si tratta di enormi banchi di pesci che si muovono compatti la cui fluorescenza spicca nel buio. 29 gennaio 09 – giovedì E’ proprio vero che ci si abitua anche alle sistemazioni più anguste, ho dormito un sonno tranquillo nella mia cuccetta, che ormai mi sembra famigliare, accogliente, quella stessa nicchia che il primo giorno mi era parsa tanto opprimente al punto che ho seriamente pensato di dormire sul ponte coperto.

Siamo al termine della crociera, ci aspetta un’ultima escursione, poi lo sbarco definitivo a Baltra ed il trasferimento in bus verso l’aeroporto.

Con il gommone, senza scendere, quindi una variante… campanella… chaleco… gommone… visitiamo Caleta Tortuga Negra, un’ampia porzione di mare dall’acqua trasparente, color verde smeraldo, circondata da mangrovie. Stupenda baia scelta dalle tartarughe per l’accoppiamento, ne vediamo molte, giganti, che nuotano a pelo d’acqua e due in fase di corteggiamento.

Nella laguna nuotano anche piccoli squali (di lunghezza inferiore al metro), grossi pesci ed eleganti e flessuose aquile di mare.

All’imbocco di un canale naturale che penetra in una galleria di mangrovie, una tartaruga, uno squalo ed un’aquila di mare sembrano giocare a rincorrersi.

Sugli scogli affioranti, sule piedi azzurri, aironi ed altri volatili paiono intenti ad osservare la vita che si svolge tutto attorno.

Se non ci fossero formazioni di agguerrite zanzare si potrebbe pensare a questo luogo come ad un distaccamento dell’Eden, ancora una volta il repellente ci risparmia un sacco di noie.

Victor sta ritto sulla punta del gommone, sorridiamo nell’immaginare che al posto del remo abbia in mano un fucile mitragliatore, siamo sempre più convinti che, nel ruolo di guida, si sia improvvisato, spesso e volentieri, tanto è preso dalla parte di primadonna, gli sfuggono importanti avvistamenti. Torniamo per l’ultima volta su Floreana, ancora una mezz’ora di navigazione ed il soggiorno alle Galàpagos si conclude con un tris di grossi squali che girano attorno alla barca quasi volessero porgerci i saluti finali o “sbranare gli italiani” come mormora Victor.

Campanella… scarpe… chaleco… gommone… al momento dello sbarco provo sollievo e rabbia nello stesso tempo, non è così che doveva andare, avrei dovuto sentirmi malinconica nel lasciare un arcipelago famoso ed apprezzato per la sua ricchezza naturale, invece provo un immenso senso di liberazione da una situazione di costrizione e disagio e quando Victor, in aeroporto, passa oltre senza salutare e senza degnarci di uno sguardo penso con tristezza alla sorte dei prossimi passeggeri che avranno la sciagura di viaggiare con lui.

La seguente frase contenuta nella guida Polaris suona ora tanto bruciante e amara: Un elemento importante è la guida: sarebbe un peccato trovarne una poco competente. Le guide sono classificate secondo tre livelli (il terzo è il più alto) a seconda delle loro competenze scientifiche e della loro conoscenza dell’inglese.

In realtà è soprattutto questione di fortuna.

Dopo diverse ore di attesa in aeroporto, uno scalo a Guayaquil e due voli giungiamo a Quito.

L’hotel Patio Andaluz ora ci sembra ancora più bello e l’elegante suite disposta su due piani ci pare irreale, tanto spazio privato dopo la promiscuità di Floreana ci mette di buonumore anche se il clima non è dei migliori, tanto per cambiare piove.

Per recuperare la settimana di dieta forzata scegliamo di consumare la cena in uno dei migliori ristoranti della città coloniale: Hasta la Vuelta, Señor.

Assaggiamo la famosa empanada de viento: un frittellone gonfio ripieno di formaggio che al momento del taglio sprizza vapore, ottimo al gusto e singolare il nome che descrive esattamente il suo contenuto.

Passiamo poi al “plato fuerte”: carne per Sandro, per me gamberoni alla griglia accompagnati da purè di patate e per finire in bellezza mousse di maracuja e mousse di limone.

30 gennaio 09 – venerdì Trascorriamo l’ultimo nostro giorno di vacanza a Papallacta, villaggio termale a circa 70 km a est di Quito. La giornata fredda e nuvolosa non invita a spogliarsi, ma superata la ritrosia iniziale ci immergiamo velocemente nella prima vasca d’acqua calda, possiamo così concentrarci meglio sul panorama: ci troviamo al centro di una scenografica conca situata a 3.250 m di quota interamente circondata da splendide montagne dalle pendici fittamente vegetate. Dopo esserci cotti a puntino ci spostiamo da una vasca all’altra con acqua più o meno calda, osiamo poi bagnare i piedi nella vasca d’acqua gelida, ma il dolore provocato dal freddo ci fa desistere. Mi rituffo nell’acqua calda e ci resto immersa fino a provarne fastidio, sento a quel punto di desiderare un po’ di fresco, riesco allora ad immergermi completamente nell’acqua gelida, solo per qualche secondo, ma non sento più alcun dolore, anzi ne traggo beneficio.

Scopro così, per caso, la “vichinga” che è in me e trovo molto divertente passare dal caldo al freddo resistendo nell’acqua gelida sempre qualche secondo in più.

Rilassati e con la pelle ammorbidita torniamo a Quito per un pomeriggio di shopping e visita della città senza un itinerario fisso e senza una mappa, guidati solo dalla voglia di raggiungere un certo edificio scorto da lontano o di entrare in una chiesa senza neppure conoscerne il nome solo perché attratti dai decori intravisti attraverso un portone spalancato o per curiosare in un cortile.

Camminiamo per ore superando interi isolati, ciascuno dedicato ad una precisa attività o tipologia di prodotto. Troviamo pertanto raccolti in poche centinaia di metri tutti i venditori di piastrelle, sanitari e materiale per edilizia, poi è la volta delle botteghe di oreficeria, segue la zona dei venditori di calzature e articoli in pelle e cuoio, dei commercianti di addobbi per torte di ogni tipo e biglietti augurali per qualsiasi ricorrenza, il settore degli artigiani e così via per i vari gruppi di merci.

Spesso piove, ma la città coloniale è ricca di portici, non è difficile trovare un riparo.

Raggiungiamo, sulla sommità di una collina, l’imponente Basilica neogotica del Voto Nacional con alte torri ed una cornice con scolpiti piante ed animali (iguane, tartarughe, etc.) tipici dell’Ecuador. Sostiamo a lungo all’interno, non tanto per fervore religioso, ma per riprendere fiato dopo la faticosa salita.

Concludiamo la serata sotto le basse volte di mattoni del ristorante Cafè Quiteño Libre che si trova nello stesso cortiletto dell’hotel S. Francisco, un posticino molto grazioso con un’ottima cucina.

Ci incamminiamo verso il nostro albergo ammirando per l’ultima volta gli antichi palazzi illuminati e le piazze deserte. Termina qui questo viaggio dal sapore dolce e amaro che non ha lasciato, come i precedenti, un profondo “solco” nei nostri cuori.



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