I misteri del Perù

Un paese affascinante, ricco di misteri...
Scritto da: curiosona
i misteri del perù
Partenza il: 14/10/2010
Ritorno il: 24/10/2010
Viaggiatori: due
Spesa: 3000 €
Abbiamo deciso di visitare questo paese soltanto per una dozzina di giorni testando la nostra resistenza a soggiornare ad altitudini elevate. Volo via Madrid con arrivo a Lima dopo circa dodici ore, rotta Lisbona – Oceano Atlantico – Venezuela – Colombia – Lima con vista sulla verde foresta amazzonica e i suoi serpeggianti fiumi.

Atterriamo a Lima la sera col buio. Una quarantina di minuti per arrivare in hotel nel quartiere residenziale di Miraflores poiché la città è vasta e popolata con oltre nove milioni di abitanti. La visiteremo alla fine del nostro tour peruviano prima di ritornare in Italia. E’ una città insolita, sul mare ma circondata dal deserto. Divisa in 42 distretti governati da altrettanti sindaci più due capi coordinatori. Sembra un sistema efficace per governare una città così grande. Decidiamo di andare a dormire subito poiché il mattino successivo ci attende la guida per la gita alle Isole Ballestas, le Galapagos peruviane! La levataccia delle 4.00 è giustificata dal fatto che si deve arrivare per le ore 8.00 al porto di Paracas (significa pioggia di sabbia) dove ci attende un’escursione in barca. E’ ancora buio e l’alba ci coglie sulla strada costiera che sfreccia in mezzo a un deserto arido: è la Carretera Panamericana che dall’Ecuador attraversa il Perù sino in Cile iniziata nel 1940. Passiamo alcuni paesini come Chincha (felino) famosa per la musica peruviana e Pisco (uccello) il cui nome deriva dalla bevanda nazionale, una specie di grappa ma distillata dal mosto di uva.

Arriviamo puntuali alla penisola di Paracas, Parco Nazionale, e abbiamo una ventina di minuti per guardarci intorno: il porticciolo è frequentato da venditori di ogni genere, i locali sono già aperti e le barche attendono i turisti. Scorgiamo dei grossi pellicani sulla spiaggia e scattiamo le prime fotografie come anticipo per quello che ci aspetta alle isole ricche di animali marini. Le imbarcazioni sono aperte, ci infiliamo il giubbotto e anche un cappello per evitare di ricevere in testa i “regali” (guano) degli uccelli. Crediamo che sia un’esagerazione, ma ci adeguiamo. Si parte e dopo un’oretta siamo davanti al famoso Candelabra, la figura gigantesca (150m x 50m) incisa sulle colline della costa. Non si sa nulla di questo disegno e le leggende sono molte: la guida ci racconta che potrebbe essere il riferimento per gli antichi naviganti basato sulla Croce del Sud, oppure l’enigmatico disegno si riferisce a una specie di cactus dalle proprietà allucinogene o c’è chi le collega alle linee Nazca. Qualunque cosa rappresenti è misterioso e quindi magico (1° mistero peruviano). Dopo poco scorgiamo tanti leoni marini pigramente distesi sugli scogli e una miriade di cormorani, sule e pellicani appollaiati ovunque sulle rive. E’ una cosa incredibile, il cielo in questo momento è coperto e sembra di essere in un girone dantesco. Una numerosa colonia di pinguini di Humboldt ci fissa dalla scogliera e in cielo volano stormi di uccelli che disegnano forme incredibili. Ogni tanto qualche uccello spicca il volo dalla riva ed effettivamente rilasciano i loro “doni” ovunque. Il cappello è veramente necessario. Riescono anche a “benedire” il mio nuovo teleobiettivo! Tutti questi uccelli producono il guano, ricco di nitrati, che quando raggiunge circa sette metri di spessore viene raccolto da operatori andini che non hanno paura di cadere dalle rocce. E’ un ottimo fertilizzante che il Perù esporta in America e in Europa.

Vediamo anche una casa-matta e un paio di uomini che ci salutano dal pontile. La guida ci dice che il guardiano resta in questo luogo per qualche mese poi gli danno il cambio.Rientrando sulla terraferma, vicino all’ingresso del villaggio, passiamo davanti a un obelisco commemorativo dello sbarco del generale Josè de San Martin che proclamò l’indipendenza nel 1821. In questa zona vissero i paracas, una civiltà che precedette quella inca di oltre 1000 anni. Purtroppo non si hanno molte notizie sulla loro cultura (2° mistero). Sono state trovate soltanto delle tombe comuni e dei tessuti raffinati dai disegni molto attuali. Dopo il loro declino comparve la cultura nazca, che a loro volta fu sottomessa dai wari che venivano dai monti e, dopo l’improvvisa scomparsa dei wari, la zona fu dominata dagli ica che forse era parte dell’impero chincha. Alla fine furono conquistati dagli inca (un mistero dopo l’altro). Attualmente Ica (acqua sotterranea) è una cittadina collinare produttrice di vino e pisco, merito dei vigneti che prosperano in questo clima asciutto e soleggiato. Attraversiamo Palpa (colonna) oasi famosa per gli aranceti e Yauca, paese delle olive. Sulla strada i contadini vendono i loro prodotti che noi assaggiamo e facciamo acquisti.

Percorriamo la Panamericana e arriviamo a Nazca (luogo di sofferenza), una pampa desolata a 590 m. di altezza che a prima vista è soltanto una spianata arida. Noi però abbiamo prenotato un volo perché è l’unico modo per vedere bene le linee di Nazca, ennesimo mistero. Chi fece queste linee? Perché? Quanto tempo ci volle per costruirle? Qual è il loro significato? Perché non si cancellano col tempo? Difficile dare risposte. Molti scienziati si sono impegnati, ma con risultati deludenti. La matematica tedesca Maria Reiche è forse la più famosa ricercatrice che dedicò la sua vita allo studio delle linee. Per molti anni gli abitanti locali chiamavano le linee “strade incaiche” ma da successive indagini si notò che il sole tramontava proprio su una delle linee. Maria Reiche approfondì lo studio di questi geroglifici misurandoli, fotografandoli e disegnandoli e sostenne la teoria del calendario astronomico utilizzato per l’agricoltura. Analisi col carbonio stabilirono che alcune figure risalgono al periodo paracas e altre a quello inca. Alcune teorie sono molto stravaganti: si tratterebbe di un grande aeroporto per gli extraterrestri o sentieri sacri per cerimonie religiose oppure il risultato dell’uso di sostanze allucinogene da parte degli sciamani. Tuttavia nessuna teoria è stata scientificamente provata e il mistero continua. Noi prendiamo un piccolo aereo di nove posti e il volo dura mezz’ora. Il problema è che il nostro pilota è ‘allegro’ e il velivolo s’inclina bruscamente a destra e a sinistra con virate troppo veloci che danno un senso di nausea a tutti i passeggeri. Nessuno ha il coraggio di lamentarsi e sbirciamo le famose linee di Nazca che appaiono sotto di noi insieme a tante altre linee rette. Il pilota le indica e si abbassa in volo mentre noi cerchiamo di scattare foto. E’ come cercare l’ago in un pagliaio, ma l’emozione è grande quando si riesce a vedere figure come il condor, la scimmia, il colibrì, le mani, l’albero, l’astronauta, il cane e la balena. Al ritorno siamo tutti sconvolti e meno male che nessuno aveva pranzato. Abbiamo il tempo di visitare il museo Antonini prima di andare in albergo. E’ un museo archeologico creato da un italiano che conserva la ricostruzione di alcune tombe antiche, collezioni di flauti di ceramica e un acquedotto originale nel giardino sul retro. E’ un modo interessante per conoscere la cultura nazca di questi luoghi. Ci concediamo una cena in un elegante ristorante di Nazca dove, in compagnia della guida e dell’autista, assaggiamo alcuni piatti tipici della zona a base di carne e di pollo con verdure, patate e riso molto gustosi.

Il mattino successivo attraversiamo la zona desertica peruviana mentre la Cordigliera delle Ande ci accompagna lungo il percorso. Siamo diretti alla città di Arequipa, conosciuta come “la città bianca” per il colore della pietra vulcanica utilizzata per la costruzione delle case. Ci mostrano una duna alta oltre 2000 m (Cerro Blanco) e ai lati della strada notiamo degli accampamenti di casupole. La guida ci spiega che alcune popolazioni molto povere scendono dai monti per trovare una vita migliore e s’insediano su un terreno pubblico costruendo delle baracche abitate da donne e bambini. Mettono la bandiera peruviana sul tetto di una casetta e un capo organizza l’insediamento con vie e recinti. La polizia non ha il cuore di cacciare le donne con i bambini e quindi in seguito arrivano gli uomini che andranno poi in cerca di lavoro in città. Il villaggio è fondato.

A mezzogiorno spezziamo il viaggio fermandoci a Puerto Inca, sito archeologico sulla costa. Si percorre una strada sterrata per qualche km fino a una bella baia. Vicino alle rovine si trova un hotel con ristorante e campeggio. Pranziamo con verdure e pesce squisiti. La guida ci racconta che un tempo il pesce fresco pescato qui veniva portato da corrieri a piedi a Cuzco. Incredibile. Oggi i ‘chorillos’ sono i pescatori di alghe che poi vendono in città. Nelle vallate sono coltivati mais, ulivi, fagioli, riso e fichi d’india per la cocciniglia, mentre stabilimenti producono farina di pesce. Alcuni pescatori pescano gamberi nel fiume Ocona che scende dal ghiacciaio Coropuna distante 200 km.

Proseguiamo lungo la costa diretti a Camanà circondata da dune di sabbia e un tempo luogo di villeggiatura degli arequipenos (abitanti di Arequipa). Purtroppo lo tsunami del 2001 si è abbattuto sulla città devastandola. Ora il deserto assume toni marrone, rosa e grigi. Oltre le dune di sabbia il terreno diventa roccioso punteggiato di numerosi cactus. Arriviamo ad Arequipa verso sera col buio. Siamo a 2350 m e la città sembra molto grande. Andiamo a cena in centro nella Plaza de Armas in un locale che si affaccia sulla piazza molto spettacolare per le luci, la cattedrale e il colonnato sui due lati. Gli abitanti sono molto fieri con la voglia d’indipendenza da Lima e perciò hanno creato un passaporto, una propria bandiera e una moneta d’oro oggi rara. Domenica mattina assistiamo a una parata delle quattro forze armate davanti alle autorità municipali e alle associazioni di volontariato. La città sorge in un’area selvaggia del Perù, la zona è fortemente soggetta a terremoti, l’ultimo del 2001, e ricca di vulcani che superano i 5000/6ooo m: El Misti, Chachan, Pichu Pichu. Visitiamo la cattedrale, dove è esposta la bandiera del Vaticano sul lato destro dell’altare, più volte ricostruita dopo i terremoti. Su un angolo della piazza sorge la Chiesa della Compagnia, chiesa gesuita, una delle più antiche con la facciata riccamente scolpita e l’altare ricoperto di lamine d’oro.

Il monastero di Santa Catalina è però quello che ci colpisce maggiormente: è affascinante perché è un insieme di strutture circondate da mura imponenti, è una città nella città con i suoi 20.000 mq. I vicoli sono stretti e tortuosi, minuscole piazze con alberi e una serie di abitazioni spartane. I muri sono dipinti a colori vivacissimi rossi e blu che contrastano con i fiori. Occorre più di un’ora per visitare questo luogo e respirare l’atmosfera tranquilla che vi regna. Il monastero fu fondato nel 1580 da una ricca vedova, Maria de Guzman, che sceglieva le ragazze di famiglie spagnole benestanti per chiuderle in convento dopo aver versato una ricca dote. Generalmente erano le secondogenite destinate a vivere in castità e povertà, ma all’interno del monastero potevano portare serve e schiave al loro servizio e quindi dare feste e chiamare musicisti trascorrendo tendenzialmente una vita serena. In totale vivevano in clausura 500 suore dell’ordine benedettino ed erano autosufficienti.

Dopo tre secoli in questo modo, Pio IX inviò nel 1871 una suora domenicana, Josefa Cadena, a riportare la normalità: inviò le ricche doti in Europa, liberò le schiave (nere) e le serve, alcune delle quali pronunciarono i voti, e le restanti 450 suore rimasero sino al 1970 chiuse nel monastero. Oggi soltanto trenta suore vivono isolate in un’ala del monastero e producono biscotti, sapone e creme, mentre il resto del monastero è aperto al pubblico.

La città è ricca di edifici coloniali, alcuni dei quali trasformati in musei. Il più curioso è il museo Santury dove è conservata Juanita, la principessa di ghiaccio ritrovata nel Nevado Ampato (6310 m) nel 1995. A seguito dell’eruzione del vulcano Sabancaya il suo sepolcro fu distrutto e la mummia scivolò sul fianco del monte restando alle intemperie per una ventina di giorni. Il corpo, completo degli organi interni e avvolto in fini tessuti, si è conservato bene per circa 500 anni ed è di una bambina di circa dodici anni sacrificata agli Dei. Bisogna ricordare che i sacrifici umani sulle Ande da parte degli inca erano frequenti: per placare le divinità delle montagne contro le calamità naturali l’atto più grande era offrire un bambino innocente. Juanita, che reca ben visibile una ferita sotto il sopracciglio destro, ora riposa in un congelatore trasparente esposto nel museo. Un documentario ci spiega come si è svolto il rito. Finora sono stati ritrovati oltre venti corpi mummificati di bimbi inca uccisi in un sacrificio e probabilmente i genitori erano fieri di offrire i loro figli agli dei. Proseguiamo la nostra visita andando al Mirador di Yanahuara, da dove si gode la vista affascinante dei tre vulcani che circondano la città. El Misti è il più pericoloso perché attivo e dista soltanto 17 km da Arequipa.

La mattina seguente partiamo alla volta di Puno percorrendo un altopiano desolato a circa 4300 m e passando il punto più alto a 4800 m. Qui riusciamo a scorgere mandrie di alpaca, vigogne e lama che pascolano tranquillamente e si fanno ammirare anche da vicino. Siamo nella Riserva Salinas che è ricca anche di puma e di volpi. Il guanaco, invece, è ridotto a pochi esemplari. In lontananza vediamo dei fenicotteri rosa che sono intenti a mangiare gamberi rossi. Oggi è in programma la colazione al sacco di fronte al lago Umayo (3890 m). Il sole brilla e riusciamo a vedere un condor librarsi nell’aria. E’ una grande emozione che ci toglie l’appetito. Siamo anche molto soddisfatti perché nonostante l’altitudine stiamo benissimo e non abbiamo sintomi negativi. Dopo pranzo cominciamo a scendere verso Juliaca (3800 m) a 175 km dal confine boliviano. E’ un centro commerciale di 200.000 abitanti ma molto caotico. Prima di arrivare a Puno facciamo sosta alle tombe circolari di Sillustani sulle colline del lago Umayo abitate dai Colla, tribù che seppelliva i nobili in torri funerarie cilindriche alte fino a 12 m. Queste torri contenevano le spoglie di intere famiglie insieme a cibo e oggetti personali e venivano sigillate dopo la sepoltura. Le pareti esterne sono formate da massicci blocchi di pietra. Su uno di questi spicca il disegno scolpito di una lucertola. Il lago Umayo brilla al sole e ci vivono molti uccelli acquatici. Il panorama è suggestivo e queste antiche tombe ci abbracciano tutt’intorno.

Puno sorge sulle rive del lago Titicaca a 3830 m. E’ un piccolo porto da dove partono le gite per visitare le isole del lago. Abbiamo viaggiato tutto il giorno e quindi la nostra gita è prevista per il giorno successivo. Il lago Titicaca è il più alto al mondo e il più grande del Sud America. La mattina presto ci trasferiamo al porto per imbarcarci su una motonave e raggiungere le isole galleggianti abitate dagli Uros, piccola tribù che molti anni fa decise di abitare sull’acqua per sfuggire alle aggressioni dei colla e degli inca. Oggi la comunità è formata da centinaia di persone che vivono di pesca, caccia e … turismo. Queste isole sono formate da diversi strati di canne galleggianti (totora), ancorate con corde al fondo del lago e hanno bisogno di manutenzione continua aggiungendo strati superficiali di canne nuove. Gli Uros sono per la maggior parte cattolici, la chiesa con la croce sul tetto tiene lontano i fulmini molto pericolosi (e quindi si crede al miracolo), c’è la scuola elementare, dove i bimbi arrivano in barca da soli, e il pronto soccorso medico. Su ogni isolotto c’è un capo (con telefonino) e circa sei famiglie. Le capanne sono di giunco, con pannelli solari per la corrente elettrica che alimenta luce e radio, hanno il permesso di andare a caccia di folaghe o anatre, e di pescare una specie di trota per sfamarsi. Cucinano fuori dalle capanne sul tipico forno a legno con due pentole di coccio. Le donne vestono molto colorato con tante gonne una sopra l’altra e camminano a piedi nudi sulla paglia soffice, ma hanno le gambe e il corpo gonfio per l’umidità. I denti sono bianchissimi perché non mangiano dolci, i capelli nerissimi, vendono i loro manufatti ai turisti e con i soldi comprano le cose necessarie alla sopravvivenza. Si spostano su barche di legno o di giunco remando come i nostri gondolieri. Facciamo un giro su una loro barca di giunco a due piani spinta a remi per girare intorno agli altri isolotti. Il loro tipo di vita è molto singolare, il luogo eccezionale e non credo che esista niente di simile al mondo. Il nostro gruppo decide di comprare alcuni oggetti fatti da queste donne per ricambiare così la loro ospitalità senza offenderle. Sono semplici monili o tappeti ricamati a mano molto originali. Per finire ci regalano una loro danza tipica accompagnata da un canto festoso. Speriamo che i turisti non contamino troppo la purezza del luogo e soprattutto il sano candore di questo popolo.

Riprendiamo la navigazione per circa un’ora e mezza diretti all’isola Taquile. Questa è un isolotto di 7 kmq a gradoni coltivati secondo le esigenze della comunità composta da circa duemila persone. C’è un capo e gli abitanti, che parlano quechua, rispettano le poche regole imposte. I comandamenti sono quattro: non mentire, non rubare, non oziare e non ammazzare. Chi non li rispetta viene punito. Per l’uomo una punizione severa è … scopare le strade del villaggio. I matrimoni avvengono all’interno della comunità: le donne tessono delle fasce colorate per i mariti che le indossano su pantaloni neri, camicia bianca e cappucci di lana, simili a quelli sardi, che sono fabbricati personalmente dagli uomini. Li abbiamo visti lavorare ai ferri e tessere. Questi berretti sono un simbolo di status sociale: quello rosso è portato dagli uomini sposati, quello rosso e bianco dai celibi. Le donne portano appariscenti gonne a più strati e camicie ricamate. Dal porto per raggiungere il centro dell’isola bisogna salire 500 gradini su viottoli di pietra. Il panorama è mozzafiato: da un lato il lago con le acque blu scintillanti da sembrare il mare, dall’altro la collina verdeggiante in parte coltivata con casolari sparsi qua e là e animali al pascolo.

Dopo una mezz’ora arriviamo al villaggio e ci fermiamo da contadini che hanno apparecchiato un gran tavolo in cortile per il pranzo a base di quinua (cereale che cresce ad alta quota molto nutriente) e verdure, trota del lago alla piastra con patate e riso. La moglie del padrone di casa cucina per noi turisti, mentre alcune donne organizzano un mercatino con caratteristici articoli fatti da loro: animaletti di lana, cappelli, guanti, sciarpe e tessuti. A fine pranzo ci offrono un infuso a base di un’erba digestiva simile alla menta/limone. Ci salutano con una loro danza rituale al suono di una chitarra. I soldi che i turisti lasciano per pranzi, eventuali pernottamenti e oggetti di artigianato vengono messi nelle casse della comunità e poi suddivise tra le famiglie per garantire la sopravvivenza di tutti. E’ un sistema sociale molto interessante profondamente radicato nella tradizione secolare e la modernità del continente non ha ancora condizionato la loro vita. Lasciando l’isola verso sera assistiamo a un magico tramonto sul lago Titicaca.

La mattina seguente ripartiamo verso Cuzco attraverso la Cordigliera delle Ande. Il paesaggio varia da deserto, pianure verdi punteggiate di eucalipti, piccoli villaggi, greggi di lama e alpaca. Nella Valle Sur costeggiamo la ferrovia che da Puno arriva a Cuzco. Notiamo molte case sulle rive del lago distrutte quando il Titicaca straripò l’inverno scorso. Durante il viaggio facciamo sosta alla chiesa gesuita di Andahuaylillas riccamente decorata con opere pittoriche di valore e statue attualmente in restauro. Questa chiesa risale al 1600, in stile barocco, e possiede una tela dell’Immacolata Concezione di Esteban Murillo.

Dopo pochi km arriviamo a Raqchi, imponente centro archeologico inca costruito con adobe (argilla). Sono i resti del Tempio costruito in onore del Dio Wiracocha, luogo sacro ancora oggi di grande fama. Il tetto era sostenuto da 22 colonne circolari fatte di blocchi di pietra, distrutte in parte dagli spagnoli, ma si vedono chiaramente ancora le basi. Il sito è straordinario, adobe e pietra formano le mura monumentali, c’è un laghetto a forma di luna, strade lastricate inca che si diramano verso Puno e verso Cuzco. C’è una sorgente di acqua, dove si trovano i “bagni” degli inca ancora ben visibili. Siamo nel cuore dell’impero inca e l’emozione è tangibile. Per placare lo stomaco ci fermiamo in una fattoria per il pranzo e nel fiume sottostante vediamo alcuni alpaca che fanno il bagno.

Verso sera arriviamo a Cuzco, capitale dell’impero inca a 3326 m. E’ una città caotica con molto traffico e in questo periodo stanno rifacendo a mano marciapiedi e corsie stradali. Il turismo regge l’economia della città. La sera andiamo a piedi in Plaza de Armas per un primo assaggio: era il cuore inca e oggi è il centro della città. Portici di epoca coloniale incorniciano la piazza sulla quale si affaccia l’imponente Cattedrale, con una grande scalinata sulla facciata, e due chiese minori ai lati. Sull’altro lato c’è la Chiesa della Compagnia di Gesù con la stupenda facciata barocca. Il giorno seguente visitiamo la Cattedrale, iniziata nel 1559 e terminata dopo 100 anni, che si trova sul luogo dove sorgeva il palazzo dell’imperatore Viracocha Inca e per la quale furono usati i blocchi di pietra del sito inca di Sacsayhuaman. All’interno le cappelle laterali luccicano d’oro e d’argento con statue adornate di ricchi abiti, l’altare di legno è posto dietro l’attuale altare tutto d’argento. La cattedrale ospita una delle più importanti collezioni di opere d’arte della scuola di pittura di Cuzco: è un misto di arte europea con la fantasia degli artisti andini. Un curioso esempio è “L’ultima cena” di Marcos Zapata, dove si vede in primo piano sulla tavola un cuy (porcellino d’India) tipico della cucina andina sin dalle epoche preincaiche. Un altro grande dipinto raffigura la città durante il terremoto del 1650. Si vede una processione col crocefisso e con la preghiera il sisma terminò. Il crocefisso fu quindi detto El Senor de los Temblores (Il Signore dei terremoti) che vediamo annerito per le candele accese ai suoi piedi e una volta l’anno esce in processione. In caso di pericolo sismico il popolo chiede al vescovo il permesso di farlo uscire in processione per fermare il terremoto. E’ un popolo in apparenza molto credente. L’enorme sacrestia è ricca di dipinti dei vescovi di Cuzco, il primo dei quali fu Vicente de Valverde, il frate domenicano che accompagnò Pizarro durante la conquista spagnola. Il coro di legno intagliato, il cui autore ha voluto raffigurare delle donne andine, nude e incinte, si dice in memoria di quelle donne violentate dagli spagnoli. In effetti, i caratteri somatici non sono di madonne occidentali e resta comunque un inno alla maternità.

Percorrendo lo stretto vicolo Loreto si possono ammirare ancora le mura inca su entrambi i lati. Passeggiamo nel caratteristico quartiere San Blas ricco di locali tipici e laboratori artigianali. Abbiamo un po’ di tempo per visitare il Museo di Arte Precolombiana, all’interno di un palazzo coloniale col tipico cortile inca, che ospita una collezione molto varia di reperti archeologici tra il 1200 a.C. E il 150o d.C. Di civiltà anteriori a quella inca, più nota e studiata, come chavin, paracas, wari, chimu, colla. Colpisce l’abilità artistica di queste antiche civiltà che erano in grado di produrre ceramiche variopinte e splendidi gioielli in oro e argento dalle forme attuali. Il luogo più storico della città è comunque il Tempio di Qorikancha, rovine inca su cui poggiano la chiesa coloniale e il convento Santo Domingo. In lingua quechua significa “cortile d’oro” perché questo tempio in epoca inca era completamente ricoperto d’oro. I resti di queste mure sono veramente impressionanti per la perfezione degli incastri dei blocchi di pietra, le nicchie trapezoidali e le enormi porte. Nel cortile c’è una fonte ottagonale e ai lati si aprono delle camere, forse templi dedicati alla luna e alle stelle. Come d’abitudine c’era anche un osservatorio dove i sacerdoti studiavano i corpi celesti. Gli spagnoli trafugarono tutti i tesori che furono fusi e Pizarro lasciò l’edificio in eredità ai frati domenicani che sono gli attuali proprietari. Praticamente i resti del tempio inca sono nel chiostro della Chiesa di Santo Domingo che fu costruita con le pietre tolte al tempio e che fu danneggiata diverse volte dai numerosi terremoti che hanno colpito Cuzco. Fa riflettere che il muro inca ha retto meglio l’impatto con il sisma. La vita di San Domenico è raffigurata nei grandi dipinti coloniali disposti sul perimetro del cortile coperto. La sera assistiamo a uno spettacolo di musica folcloristica e danze tradizionali andine nel Centro Qosqo de Arte Nativo, molto interessante e piacevole frequentato dai peruviani oltre che dai turisti.

I cuzquenos (abitanti di Cuzco) quando si ritrovano insieme giocano a “sapo” (cioè rana). E’ una grande scatola di legno appoggiata su quattro gambe (come i flipper) con buchi e fessure. Il gioco consiste nel lanciare dei dischi di metalli nella bocca del rospo che sta in mezzo, cosa molto difficile. La leggenda vuole che gli imperatori inca inventassero questo gioco per emulare la loro abitudine di gettare monete d’oro nel lago Titicaca per attirare l’attenzione di un sapo che aveva poteri magici in grado di esaudire i desideri.

Nei dintorni di Cuzco ci sono ben quattro siti archeologici che visitiamo il giorno successivo. Sono piccoli e vicini tra di loro. La più importante è sicuramente Sacsayhuaman, fortezza a 2 km dal centro di Cuzco con imponenti mura su tre livelli per maggior difesa. Doveva essere molto vasta, ma oggi si vede solo il 20% della struttura originaria perché gli spagnoli usarono i blocchi di pietra per costruire le loro case a Cuzco lasciando i massi più grandi. Il IX imperatore inca Pachacutec fece costruire Cuzco a forma di un puma e Sacsayhuaman rappresentava la testa, mentre le mura erano i denti del puma. Nel 1536 qui fu combattuta la battaglia più dura della conquista spagnola: l’imperatore Manco Inca si ritirò nella fortezza di Ollantaytambo ma la maggior parte dei suoi soldati fu uccisa. I cadaveri sparsi attirarono stormi di condor delle Ande e per questo motivo otto condor appaiono oggi sullo stemma di Cuzco.

Q’enqo, a 4 km da Cuzco, è una grande roccia calcarea con nicchie, gradini e canali probabilmente utilizzati per i sacrifici, dove scorreva il sangue e la chicha, birra prodotta dal mais fermentato. Vediamo incisioni su una roccia raffiguranti un puma, un condor e un lama. C’è una specie di labirinto scavato nella roccia e una misteriosa grotta sotterranea con altari di pietra (altri misteri peruviani).

Pukapukara è una grande struttura che domina la valle di Cuzco. Doveva essere un casotto di caccia, una postazione di guardia o un punto di sosta per viaggiatori con diverse camere residenziali nella parte inferiore e magazzini nella parte alta. Si gode una bella vista panoramica e la roccia ha una sfumatura leggermente rosata.

L’ultima tappa di questa mattina è Tambomachay, noto come il “Bano del Inca” dedicato al culto inca dell’acqua che viene convogliata da una fonte cristallina attraverso fontane tuttora funzionanti. Da qui è visibile anche Pukapukara. Attraversiamo la Valle Sacra degli Inca percorsa dal Rio Urubamba diretti a Pisac. La Valle Sacra ha un andamento morbido e dal Mirador ammiriamo il fantastico panorama costellato di villaggi andini. Ci fermiamo presso una casa di contadini dove la signora prepara la famosa chicha, bevanda non molto alcoolica ottenuta dalla fermentazione di mais, che gli uomini bevono in grande quantità. Non ha un sapore preciso, mentre la versione con aggiunta di succo di fragole è più dolciastra. Quando si vede un bastone appeso fuori casa con un panno rosso, significa che lì qualcuno produce e vende chicha.

Arriviamo a Pisac, villaggio coloniale famoso per il mercato artigianale, dove si trova veramente di tutto. Facciamo una sosta presso un forno di argilla, dove sono pronti dei piccoli ”calzoni” di pane ripieni di formaggio, pomodori e cipolle, molto appetitosi. Accanto vediamo un recinto, dove la signora alleva dei porcellini d’India che, come già detto, i peruviani consumano arrostiti o fritti. Sulla sommità della collina è situata la cittadella inca che domina il villaggio. E’ famosa per i suoi terrazzamenti coltivati che corrono lungo la montagna con ampie linee curve. Incominciamo a salire per un ripido sentiero. L’altura è delimitata da gole profonde e scalinate diagonali collegano i vari livelli. Occorre fermarsi per gustare il panorama perché è facile mettere un piede in fallo. Salendo i gradoni si giunge sopra le terrazze al centro cerimoniale con canalizzazioni d’acqua ancora in funzione e mura di templi ben conservati. Un sentiero ci porta in cima alla collina, dove si trovano le vasche cerimoniali, e si snoda sino all’area militare molto vasta. Su un fianco della collina vediamo che la parete del dirupo è perforata da buchi: si tratta di tombe inca inaccessibili al pubblico. Dopo qualche ora scendiamo e ci fermiamo al mercato di Pisac. Gli abitanti sono vestiti con abiti tradizionali e anche se i turisti sono tanti l’atmosfera tipica resta intatta. Pranziamo in un ristorante ricco di buone cose.

Nel pomeriggio arriviamo a Ollantaytambo, pittoresco villaggio inca con vie strette lastricate di ciottoli. Dall’alto delle ripide terrazze i soldati di Pizarro furono bersagliati da frecce, lance e massi scagliati dai soldati inca che impedirono la presa della fortezza. In cima si trova la zona del tempio ma le mura non furono mai ultimate perché in costruzione all’epoca della conquista spagnola. Dalla dimensione delle fondamenta possiamo solo immaginare che doveva essere un monumento importante, ma non si sanno i motivi di una simile costruzione (ennesimo mistero peruviano).Pernottiamo alla Casona di Yucay, casa coloniale del 1810, dove soggiornò Simon Bolivar nel 1924. Sentiamo le rane gracidare nella notte e si spiega il monumento alla rana posto al centro del giardino fiorito.

Il giorno seguente ci aspetta l’apoteosi di tutto il viaggio: la famosa Machu Picchu, la città perduta degli inca. All’alba lasciamo l’albergo per prendere il treno IncaRail a Ollantaytambo diretti a Aguas Calientes, ultima stazione, dove un minibus ci porterà a Machu Picchu per chi, come noi, non se la sente di fare un lungo percorso trekking. Il viaggio in treno è piacevole e panoramico; percorre l’antica pista inca che collega la Valle Sacra a Machu Picchu e si snoda in salita, scende e gira intorno a montagne dalle cime innevate (Nevado Veronica 5750 m), attraversa villaggi rurali andini, campi coltivati e si vedono animali al pascolo. La ferrovia segue il Rio Urubamba sulla sinistra e in alcuni punti ci sono operai al lavoro perché le piene del febbraio scorso hanno rotto l’argine e divelto le rotaie. Noi non riusciamo a staccare gli occhi dai finestrini anche se in treno ci offrono bibite e squisiti dolcetti. La cosa buffa è che questa linea ferroviaria non era nata per i turisti, ma era utilizzata per il trasporto di prodotti agricoli. Dopo circa un’ora e mezza arriviamo a Aguas Calientes, che è oggettivamente un villaggio squallido, dove comunque alcuni turisti scelgono di pernottare in modo da essere sul posto prima di quelli che la mattina arrivano col treno. L’importante, ci dicono, è arrivare presto la mattina in quota per gustare al meglio la luce del giorno. I minibus 4×4 da una ventina di posti fanno la spola da Aguas Calientes a Machu Picchu arrancando sui tornanti sterrati per una ventina di minuti. Siamo ai margini della foresta amazzonica e la vegetazione è fitta e ricca di fiori stupendi e di orchidee. Arriviamo su un piccolo piazzale: qui c’è l’ingresso al sito archeologico e un ristorante self-service, dove più tardi sosteremo per il pranzo.

Machu significa “vecchio” e Picchu “collina”. Non è esatto definirla “città perduta”, perché non è mai stata “persa” ma letteralmente inghiottita dalla fitta vegetazione dopo il misterioso abbandono dei suoi abitanti (altro grande mistero). Situata in posizione dominante e spettacolare tra le montagne a 2400 m., è la meta più visitata del Sud America. Questa imponente città non fu mai scoperta dai conquistadores spagnoli e fu casualmente ritrovata dall’americano Hiram Bingham nel 1911 seguendo le indicazioni dei contadini del posto. Ironia della sorte, su un masso nella sala delle mummificazioni, sono incisi i nomi di due ragazzi peruviani e la data precedente l’arrivo dell’esploratore americano a testimonianza della loro visita, ma alla quale non avevano dato la giusta importanza. Ancora oggi gli archeologi non sanno esattamente la vera funzione di quest’antica città: le ipotesi vanno da città sacra a residenza reale di campagna. Sono state comunque trovate delle tombe con più di cento resti umani. Oltre il cancello della biglietteria, un sentiero in salita conduce al sito e ci coglie la sorpresa: le cime delle montagne sono avvolte nelle nuvole, ma dopo breve attesa verso le 10, le rovine si mostrano in tutta la loro bellezza con occhiate di sole che sbirciano da ogni angolatura. E’ una visione mistica nonostante i turisti siano numerosi e inoltre è il periodo delle gite scolastiche dei ragazzi peruviani. Notiamo però che tutti sono silenziosi, forse il luogo richiede contemplazione e poche parole. Si ode soltanto la voce bassa delle guide nelle diverse lingue e il suono degli scatti delle macchine fotografiche o il ronzio delle cineprese. La cosa che colpisce di più è la grandezza del luogo al quale nessuna foto rende giustizia. Bisogna dire che il nome agli edifici fu dato da Mr. Bingham secondo le sue supposizioni che oggi non sono sempre condivise dagli esperti. In ogni caso l’utilizzo di ogni edificio è carico di mistero.

Una scalinata a zigzag porta nella Capanna del Custode della Roccia Funeraria: è uno dei pochi edifici restaurati e col tetto di paglia. Poco avanti si raggiunge una serie di sedici vasche cerimoniali collegate tra di loro e disposte a cascata. C’è anche una grossa pietra che dicono sacra e ricca di poteri per cui vale la pena di sfiorarla con le mani, come fanno tutti. Le rovine sono divise da una serie di piazze e molti terrazzamenti; scalinate a zigzag e ovunque grandiosi edifici. Il Tempio del Sole, una torre a cono tronco che forse serviva per le osservazioni astronomiche; la Tomba Reale, una grotta con altare e nicchie scolpite, ma nessuna mummia rinvenuta; il Tempio delle Tre Finestre (trapezoidali), ma non si sa perché le altre due finestre siano chiuse da pietre; il Tempio Principale con una specie di altare in centro, di cui non si conosce l’uso. Di fronte al Tempio Principale sorge la Casa dell’Alto Sacerdote e sul retro la Sacrestia con molte nicchie. Una scala conduce al luogo sacro Intihuatana, termine quechua che significa “palo che cattura il sole” e si riferisce al pilastro di roccia posto in cima alla collina usato dagli astronomi inca per prevedere i solstizi. Non è chiaro però come venisse usato. Un’altra scalinata scende alla Piazza Centrale che separa la zona cerimoniale da quella residenziale. Qui si trova il Gruppo delle prigioni, un labirinto di celle e passaggi sotterranei, dove si suppone che i prigionieri fossero bloccati nei fori scavati nelle pietre. Al centro si trova il Tempio de Condor, una pietra scolpita raffigurante la testa di un condor e tante pietre intorno che sembrano le ali dell’uccello. Indubbiamente la città era suddivisa in settore cerimoniale con grandi edifici, settore agricolo per le coltivazioni e settore residenziale per gli abitanti. Poiché questi settori sono separati tra loro con ingressi su diversi livelli, si può supporre che alcune persone non avevano il permesso di entrare ovunque. Le numerose terrazze coltivate sino all’arrivo di Mr. Bingham non spiegano la complessità delle rovine. Il settore residenziale è parzialmente ultimato e ciò ne accresce il mistero. Per questi motivi la cosa migliore è di passeggiare intorno lentamente senza preconcetti, sentire le spiegazioni, ma pensare a diverse possibilità, insomma fare la propria esplorazione assaporando così il vero spirito di Machu Picchu.

Il rientro a Cuzco è mesto perché il nostro viaggio è quasi al termine. Per scacciare la tristezza andiamo tutti in compagnia a cena in un rinomato ristorante con sottofondo di musica andina. Sono un gruppo di cinque musicisti che suonano semplici strumenti: un flauto di bambù, una cornamusa con due file di canne, l’ocarina d’argilla ovale, una chitarra piccola e una specie di tamburo fatto con pelle di capra. La melodia è dolce e i testi sono espressivi riportandoci in cima alle montagne.

Il mattino seguente abbiamo il volo Cuzco-Lima e la visita alla città. La visita al centro storico della città, dichiarato Patrimonio Culturale dell’Umanità, ha inizio con una passeggiata nella Plaza de Armas, piazza enorme dove spiccano sontuosi palazzi in stile coloniale, dipinti di un giallo vivace e con balconi di legno. Su questa piazza spicca la grande Cattedrale distrutta nel terremoto del 1746 e totalmente ricostruita. L’interno è imponente, ma sobrio. Bello il coro scolpito e il museo religioso nella parte posteriore. E’ possibile vedere la tomba di Pizarro situata nella cappella ricca di mosaici, entrando sulla destra. Il nostro itinerario ci porta al Monasterio de San Francisco, monastero e chiesa francescani, famoso per le catacombe e la bellissima biblioteca con migliaia di testi antichi risalenti al tempo dei conquistadores. Purtroppo i frati non hanno molto fondi e i volumi sono in disordine. Attraversiamo la zona di San Isidro con locali eleganti e Miraflores, da dove si gode una splendida vista sull’Oceano Pacifico con numerose spiagge. Ci dicono che l’acqua però è sempre piuttosto fredda, percorsa da forti correnti e quindi pericolosa. Questa zona gode di buona fama da parte di surfisti e si tengono anche gare internazionali. A Sin Idro visitiamo il Museo Larco Herrera che conserva la più grande raccolta di ceramiche (oltre 50.000 vasi). E’ situato nella residenza vicereale settecentesca costruita su una piramide precolombiana. Vediamo una vasta collezione di oggetti d’oro e d’argento, tessuti realizzati con piume di uccello, una splendida stoffa paracas a trama fitta. Le ceramiche sono straordinarie dalle forme moderne e coloratissime. Alcuni reperti d’oro che ornavamo gli imperatori inca sono giunti in Italia esposti all’ultima mostra di Brescia. Per finire la guida ci porta a casa di un eccentrico architetto peruviano, sposato con una signora italiana, collezionista di presepi da tutto il mondo. Lui apre la sua villa ai visitatori e ha intere stanze colme di presepi di ogni materiale possibile, di tutte le dimensioni e di fogge originali. Ne possiede alcuni provenienti dall’Italia, ma manca tra l’altro un presepe napoletano o uno di legno del Trentino.

Nel tardo pomeriggio abbiamo il volo di ritorno a Milano, ma il ricordo di questo viaggio sarà sempre con noi.



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