Fragole infinite

L'Etiopia, se la provi, ti rimane addosso, come una seconda pelle. Ti si attaccano addosso le corse dei bambini, i corpi sudati della gente, la terra rossa. Ti si attacca addosso l'Africa, come la malaria, come una malattia. Quest'anno siamo tornati, a sud. Complice l'amicizia di Amin, un vero e proprio mediatore culturale tra noi e il suo paese,...
Scritto da: Eliviola
fragole infinite
Partenza il: 22/01/2009
Ritorno il: 09/02/2009
Viaggiatori: fino a 6
Spesa: 2000 €
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L’Etiopia, se la provi, ti rimane addosso, come una seconda pelle. Ti si attaccano addosso le corse dei bambini, i corpi sudati della gente, la terra rossa. Ti si attacca addosso l’Africa, come la malaria, come una malattia.

Quest’anno siamo tornati, a sud. Complice l’amicizia di Amin, un vero e proprio mediatore culturale tra noi e il suo paese, siamo tornati, come avevamo promesso.

18 giorni, intensi, serrati, sveglie all’alba perché le strade e i chilometri che ci separano sempre da un villaggio di fango all’altro, sono interminabili, le buche faticose, la concentrazione vigile e il caldo pesante. Dopo un comodo viaggio in aereo con Turkish Airlines, comperato via internet, restiamo un giorno a Addis Ababa caotica quanto basta, ma la giriamo come ce la ricordiamo tra la caffetteria da Enrico, Entoto e i negozietti vicino a Piazza, per cenare all’ottimo Serenade. Il giorno dopo siamo sulla nostra jeep Toyota, con Haile al volante e iniziamo a viaggiare verso sud. Distese di fragole appena fuori Addis sembra Sant’Orsola, comperiamo marmellata e farciamo panini. Un arbremagique di fragole è appeso al retrovisore della jeep: occuperà il mio campo visivo per tutto il tempo… Le strade sono ingombre di animali, capre e mucche, ai lati della strada i bambini cantano e ballano, le donne portano pesi inimmaginabili e noi snoccioliamo chilometri e giornate oltre i laghi Zuway, Abiata e Langano e giù fino a Arba Minch. Immobili coccodrilli e ippopotami sonnecchiosi affollano le acque del lago Chamo, babbuini lungo la strada e quando la sera arriviamo al Bekele Molla hotel non c’è mai la corrente elettrica, nella nostra piccola stanza, solo acqua fredda e zanzare e le sciacquone del bagno che non si ferma mai, ma poi troviamo una cassetta che se la colleghi all’i-pod amplifica la musica nella macchina. Ça c’est l’Afrique! Visitiamo i Dorze e le loro altissime case di falso banano. Le giornate afose e polverose si susseguono, la sera ci accompagna sempre la pioggia di questa stagione secca, attraversiamo Konso, beviamo birra Dashen e arriviamo a Jinka. Qui c’è anche l’aeroporto, una striscia di erba e di buche dove i ragazzini giocano a calcio e le capre pascolano indisturbate e noi non abbiamo avuto la fortuna di vedere atterrare un aereo, ma ci hanno giurato che è vero! Jinka è la porta d’ingresso del parco Mago dove visitiamo la tribù dei Mursi. Neri guerrieri, alti e austeri che si scarnificano la pelle per impreziosire il loro corpo con disegni geometrici, donne con le labbra sformate da piattelli di argilla, ci offrono sorrisi e pose per le fotografie. Riprendiamo la strada polverosa fino a Turmi e intanto ci dibattiamo tra turismo responsabile e soldi, turismo senza criteri e bio-architettura. Qui siamo lontani anni luce dalla nostra civiltà – se così possiamo continuare a chiamarla. Nella macchina ascoltiamo a tutto volume Teddy Afro Fabrizio de Andrè e Aster Aweke. Turmi è lontana, noi ci fermiamo al mercato dei Banna diritti ed eleganti adorni di perline e piume. Quest’anno è cambiato il nostro rapporto con le persone, non diamo più Highland – le bottiglie di acqua vuote – ai bambini, le buttiamo lungo la strada, chi passa le trova e meglio così. Restano i nostri girotondi e i nostri goffi balli a distrarli e incuriosire i loro sguardi. I chilometri finiscono, il tramonto arriva, magnifico, ed è l’ora di montare la tenda al campeggio dove ci fermeremo tre notti. Le notti, che finiscono sempre con una palla di fuoco dietro un’acacia e noi che giochiamo e ridiamo al gioco dei mimi.

Da Turmi si dipanano bivi che portano lungo strisce di terra rossa dai Caro dei corpi dipinti, ai Nyangatom e ai Dassanech trasportati nelle barche scavate dai tronchi d’alberi, lungo il fiume Omo giù quasi al confine col Kenia nella zona di Omorate. Dentro la macchina si cuoce, i finestrini sono chiusi per combattere la polvere che entra dappertutto e ti trasfigura e si appiccica ovunque, fuori troneggiano giganteschi termitai slanciati contro il blu del cielo. I pneumatici combattono contro rotture in agguato a ogni buca e noi stupiti col naso oltre il finestrino osserviamo silenziosi e registriamo ogni secondo in questa terra lontana da tutto.

Le tribù sono intatte: orgogliosi guerrieri, bellissimi come solo gli etiopi sanno essere, si differenziano tra loro per la fattura dei capelli, piuttosto che per il modo di tatuarsi il corpo scultoreo e si dedicano oggi alla pastorizia o all’agricoltura. Talvolta aggressivi combattono ancora tra loro e sul loro corpo comparirà una nuova scarnificazione a segnalare la ferocia del valoroso combattimento e la vittoria sul nemico. La loro diffidenza e la fierezza forse li ha preservati negli anni, e chissà per pochi ancora a venire, dalla globalizzazione e li ha aiutati a salvaguardare le loro tradizioni ancestrali Incontriamo gli Hammer al mercato di Dimeka che sembrano quasi non accorgersi di noi, sospesi nelle loro vicissitudini. Salvo quando maldestramente suscitiamo un controverso battibecco per l’acquisto di un intagliato poggiatesta che coinvolge gran parte del mercato e dal quale ci districhiamo a fatica. Le donne portano cavigliere e collane di ferro, la testa piena di trecce è impastata col fango e il burro, a formare un grazioso caschetto, gli uomini seduti sul loro sgabellino alto 15 centimetri le gambe fasciate in un gambaletto di pizzo bianco disegnato, attendono, guardano, in un afoso cortile a quaranta gradi, il sole allo zenit, di vendere spezie e tabacco per pochi birr e concludere la giornata con una camminata di chilometri e chilometri e tornare alla loro capanna di bambù col tetto di lamiera rovente.

Per lasciare Turmi, attraversiamo il greto del fiume, diventato una sabbia mobile, dove ogni giorno si impantanano camion: ci accompagnano i campi di cotone e piano piano ci alziamo di quota. Lungo la strada, adesso più spesso, incontriamo colorati e affollati Isuzu dall’equilibrio precario. Mangiamo piccole saporite banane e giallissimi manghi e la sera in una caotica Yabello combattiamo una cruenta battaglia contro le zanzare e ci rifocilliamo con un piatto di ingera e tibs il tutto condito da un feroce berbere, un intruglio incendiario di spezie piccanti. La mattina ci alziamo e non c’è la corrente elettrica così elemosiniamo un buna (caffè) ai francesi che abbiamo conosciuto nelle tappe comuni del nostro viaggio e ripartiamo per El Sod.

Il paesaggio comincia a esplodere, in un vortice di colori vicini a quelli delle nostre montagne, dopo aver lasciato l’aridità del sud. La macchina balla al ritmo di Fossati, Mikaya e gli U2.

La piccola pozza che vediamo dall’alto assomiglia a un lago di pece. Saltelliamo lungo il sentiero sorpassando asinelli carichi di sale e arriviamo in un girone dell’inferno dantesco. Uomini nudi, neri, entrano nella pozza salata e scavano con le mani e i piedi per estrarre una melma del colore del catrame, che è sale. Loro si seccano al sole, che si infila torrido come in un imbuto al centro di questo vortice dei dannati e cambiano colore della pelle e assomigliano un po’ più a noi.

Ci sfidiamo in una gara di corsa in salita per lasciare il più in fretta possibile questo silenzioso scenario di fatica. La giornata è ancora lunga e ricca di sorprese. I pozzi cantanti ci richiamano come le sirene dei naviganti. Una catena umana scende una trentina di metri in profondità, per portare all’abbeveratoio, secchio dopo secchio, l’acqua per le mandrie di vacche o dromedari. Noi siamo rapiti dai corpi, braccia, acqua, sudore che si muovono al ritmo di un solo canto, della popolazione Borana.

Quando ci risvegliamo dall’incanto è troppo tardi e uno dei nostri pneumatici è letteralmente esploso. Arriviamo tardi a Negele Borana: è la festa dei soldati etiopi che lasciano Mogadiscio e hanno venduto la stanza che avevamo prenotato. Ci accampiamo per una delle nostre migliori serate, shiro tegabino e risate, con la tenda nel giardino di un albergo(!).

Goba ci aspetta arroccata a 2700 metri e ritroviamo quel paesaggio degli altipiani fatto di nebbie mattutine, cielo terso e blu che lo scorso anno tra gli altipiani del nord ci ha fatto innamorare di questo paese. Ci aggiriamo un paio di giorni tra il Sanetti Plateau a 4200 metri, dove il rosso lupo etiope ci fa l’occhiolino e Sof Omar, un intrico di 16 chilometri di grotte sotterranee, scavate nella roccia calcarea, in cui noi brancoliamo solo per un breve tratto.

Restano pochi giorni, lasciamo la pista e ritroviamo l’asfalto. Ancora qualche animale in parchi improvvisati, niente a che vedere con il Sudafrica e ore di macchina ci separano da Harar.

Affascinante cittadina dalle influenze arabe, costellata di vicoli al confine col Gibuti, città d’adozione, in un passato non troppo lontano, del poeta Rimbaud, ospita tutte le sere uno spettacolare banchetto per le iene.

L’Italia è ancora lontana, ma io inizio a sentire forte la mancanza di questa terra, che ogni volta mi conquista e che fra poco mi saluterà dall’aeroporto di Addis. Sento le grida dei bambini che fanno iù iù, farangji farangji, le risate delle donne quando toccano la mia pelle chiara e le mollette fra i miei capelli, l’odore intenso dell’incenso, il calore che sale dalla terra rossa fino dentro le ossa. Che assomiglia a quello dell’abbraccio di Amin e di Haile e che ci terrà caldi in tutti questi lunghi mesi, nell’attesa di un altro ritorno.



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